oddio

scrivo questo testo in differita (ho scritto questo testo in differita?) perché ho fatto scadere l’invito a Log, e, insomma, non so se questo già basti a raccontare o introdurre o a presentare – la testa di rapa che un po’ sono. ma non è tanto importante il come (in ritardo, cioè) ma il perché, si dice, e quindi intanto racconto questo, che ho avuto un grande desiderio di scrivere e raccontare quel che succede a scuola, e l’ho avuto proprio da quando sono a scuola. negli ultimi mesi faccio mentoring, parola che vuole dire proprio poco, mi fa pensare a quei termini vaghi come Animale, come diceva Derrida, che sono dei singolari-generali che raccolgono al loro interno tante cose e quindi forse troppe, cioè forse nessuna cosa, e però pure con l’aggravante del tecnicismo inglese che non son nemmeno sicura sia tanto tecnico, ma comunque, ecco, il mentoring è una via di mezzo fra l’aiuto compiti e l’orientamento e il sostegno a volte un po’ emotivo. io non so consolare le persone, mi ha detto a proposito (ragazza) proprio oggi, mentre leggevamo l’epopea di gilgameš. allora ci ho pensato un attimo (neanche io so consolare le persone, penso sempre, mi sento rigida senza garbo improvvisamente estranea e a volte quando arriva il loro dolore a me sembra di sentire quello, che è il loro dolore, e poi però un mio privilegio, o una distanza che si chiama fortuna, anche se anche io lo sento quel dolore, o lo so sentire, immaginare, e mi fa sentire un po’ in colpa, e mi lascia lì a orbitare). allora le ho chiesto, e tu (ragazza), che cosa ti fa sentire consolata – trovi che le altre persone ti sappiano consolare? e lei è rimasta in silenzio e ha detto: questo non lo so, non me lo sono mai chiesta, è una domanda con una risposta difficile. ma, quanto a me, diceva, io le persone però le abbraccio solo, e mi sembra poco, e questo lo so. io ho pensato che invece era tantissimo e gliel'ho detto, e anche detto, guarda, spesso basta quello spazio lì, che va da un braccio all’altro, lo spazio di due braccia?, in cui dirsi: ecco qui, ma certo, per questo dolore c’è spazio, vedi?, di questo dolore siamo capaci (capace è capax dal latino, quella parola che parla anche della bottiglia, e che ci dice che ha questa o quella capacità di contenere, capacità che spesso varia, direi proprio)). dicevo però, e ancora arrivo in ritardo, vi chiedo un po’ scusa, che questa cosa di scrivere mi è venuta soltanto a scuola – forse perché a scuola amavo scrivere e scrivevo tanti racconti, ed era facile e poi ho smesso, e scrivere è diventato solo un compito e un far vedere che so fare, o che dovrei saper fare, che so produrre una cosa sensata, forza, guarda, oh no, mi stanno guardando, mi stanno leggendo, e forse per questo il fatto che scrivo finisce ormai per significare che produrrò anche qualcosa di un po’ oscuro (metà colpa del fatto che sono involuta di mio, metà grazie al fatto che mi piace che le frasi prima che leggerle si possano suonare o insomma si muovano da sé e che somiglino quasi al verso, forse come quello che fanno gli animali – alcuni animali, specifichiamo quali, che sennò non vale: a me piacciono gli insetti, per esempio, e loro cantano parecchio, sarà questo?). e succede questo pianto e stridore di denti, dico un po' scherzando e un po' sul serio, perché nello scrivere per me c'è dentro anche tanto della vergogna, dell'esporsi quando non sempre si vuole, e così via. però l’altro giorno, uscita da scuola, volevo – avevo in testa che volevo scrivere qualcosa di più lungo, magari non proprio questo, sicuramente non proprio questo, e anche ieri dopo le nuove due ore in classe avevo in testa ancora una cosa del genere, o questa cosa che è un po' degenere, lo ammetto. e quindi, intanto, le ho messe per iscritto, e ora le metto qui. come si dice. piacere? dopo, comunque, vi racconto meglio.