Il Politicamente Corretto non è politicamente corretto. Con l’improprio termine “politicamente corretto”, oggi tanto in voga, percepisco una certa ipocrisia e falsità da parte di chi, invece di rispettare in modo personale e autentico, porta avanti un’inutile e ambigua battaglia contro problemi che iniziano a esistere proprio nel momento in cui vengono percepiti come tali.
Qualche decennio fa, non ci si sentiva automaticamente offensivi ogni volta che si alludeva a un gusto, una tendenza, una cultura o al colore della pelle. In molti casi, purtroppo non in tutti, queste caratteristiche erano socialmente accettate tanto quanto lo erano le differenze stesse: diversità che non hanno né ragione né torto, ma che dovrebbero semplicemente coesistere. IMG-2647 Il significato offensivo di una parola, come in ogni situazione e discorso, dipendeva dal tono, dal contesto o dalla cattiveria con cui veniva pronunciata, non dalla parola in sé. Questa formale e forzata necessità di rispettare ogni sfaccettatura di ogni individuo finisce per generare, col tempo, l’effetto contrario: una nuova forma di discriminazione, che invece di unire le persone, le allontana e le confonde. Renato Zero si vestiva da donna, Loredana Bertè si travestiva da donna incinta in minigonna, nessuno ha mai discusso dei gusti sessuali di Lucio Dalla, e nessuno ha mai discusso dell “negro” in Colpa d’Alfredo di Vasco Rossi. Eppure, tutto ciò accadeva in un periodo storicamente segnato da grande chiusura mentale e forte bigottismo. Alcune di queste palesi ed improprie mancanze di rispetto, utilizzate da artisti e personaggi famosi, hanno paradossalmente aperto una strada all’accettazione e all’apertura mentale. Nessuno ha motivo di sentirsi offeso a prescindere; è uno strumento di ammissione verso aspetti e condizioni che restano “mal visti” finché restano sconosciuti. Gli artisti utilizzano questi strumenti nella loro arte, per creare situazioni plausibili ed attendibili, senza l’intento di mancare di rispetto.
Molti dei film di Quentin Tarantino hanno fatto sognare generazioni di appassionati, e una delle loro caratteristiche principali è proprio la volgarità, rivolta a bianchi, neri, uomini o donne. Si tratta di raccontare una storia, senza censure, senza freni inibitori, d’altronde così com’è, spesso, la vita stessa. L’estrema necessità di riguardo, quindi, verso una caratteristica più o meno visibile, finisce per diventare uno stigma ancora più grave, un’etichetta che definisce la persona e alimenta i pregiudizi nei suoi confronti.
Se si ha paura di rivolgersi a un individuo con il suo nome e si sente il bisogno di inventare formule fittizie, apparenti e “ornamentali”, è perché quel soggetto non è stato davvero accettato. Né lui, né ciò che fa, né ciò che è o dice di essere. Un bidello è un bidello, uno spazzino è uno spazzino, un handicappato rimane un handicappato. Non si fanno favori a queste persone cambiando loro etichetta in “collaboratore scolastico”, “operatore ecologico”, “diversamente abile”... ma diversamente da cosa? L’offesa nasce nel momento in cui si crede che quella parola lo sia, offendendo così la dignità dell’individuo in base all’apparenza, senza sapere nulla di quel che effettivamente è.
La lingua italiana sarà la prossima vittima di questo falso perbenismo e di tutte queste inutili formalità. Si vogliono cambiare le radici di una lingua antica, tra le più belle del mondo, solo perché qualche ignorante si sente offeso. L’asterisco alla fine delle parole, la schwa, l’invenzione di offese inesistenti percepite da chi ha un’intelligenza solo approssimativa: questi sono strumenti con cui si sta sfasciando la nostra meravigliosa cultura. Stiamo regredendo nel pensiero e nel linguaggio, scambiandoli con superficialità e ignoranza. In italiano, ogni parola ha un maschile e un femminile. Le parole, ovviamente, non sono “trans” e “non binarie”. Per quale motivo un uomo dovrebbe avere difficoltà a usare la parola “entusiasta”, data la sua origine femminile? Faccio un esempio: se in un gruppo ci sono cinque ragazze e un solo ragazzo, la grammatica italiana impone l’uso del maschile plurale. Mai, nella storia della nostra lingua, una ragazza si è sentita, o avrebbe mai dovuto sentirsi offesa. Oggi, a quanto pare, sì.
Il termine “negro”, se usato in modo offensivo, è incivile ed irrispettoso. Ma nelle lingue neolatine come lo spagnolo o il rumeno, il colore nero è identificato dalle parole negro e negru. E’ semplicemente la lingua. Il problema non è nella nostra civiltà o nella nostra lingua, ma nell’uso che se ne fa. Passare da “nero” a “negro” non cambia molto, a livello linguistico. Deduco che “negro” non può avere significati solamente negativi, ciò implica che non è sempre una offesa, e se usata senza cattiveria, non è una parola oltraggiosa. Dire che una persona è “di colore” non significa nulla. E’ una offesa verso chi non è razzista. Di che colore stiamo parlando, esattamente? Del colore che non si può dire! Non si può dire il colore della persona “di colore”, ma si può dire che è “di colore”. Se hai problemi con la parola che indica quel colore, allora hai un problema con le persone “di colore”, e per confonderti tra i falsi perbenisti, hai il coraggio di offenderti “per solidarietà” quando senti pronunciare la parola con la “N”.
In questo mondo non si possono rispettare tutti, e non si può incasellare ogni individuo in un’etichetta da consultare per sapere come rispettarlo. Forse dovremmo iniziare a rispettare noi stessi, le persone vicine, e quelle che incontriamo per strada. Sarebbe già un risultato importante, e per nulla scontato.