L'ALBERO DI MELE
“Fabio, vieni a far vedere i tuoi disegni alla mamma, che non trova mai il tempo di venirti a trovare!”
È uno dei primi ricordi della mia vita, uno di quei fotogrammi che ti rimangono impressi a fuoco nella memoria, fin nei minimi dettagli. Ero sul pavimento giallo dell'aula dell'asilo, avevo i pantaloni della tuta rossi e stavo costruendo un castello con un set di Duplo. Era il giorno delle visite dei genitori. Ai tempi non avevo gli strumenti per riconoscere la violenza che c'era in quelle parole. Mi alzai e corsi felice a mostrarle i miei capolavori. Mia mamma aveva un grave difetto, agli occhi delle due maestre: con il suo lavoro a tempo pieno non poteva venirmi a prendere tutti i giorni. Il fatto che a farlo fosse il nonno, per il quale stravedevo, e che a casa mi aspettasse un mondo di affetto, non aveva importanza. Per Giovannina e Pinuccia la mia era una madre di serie B e io, per qualche meschina vendetta, ero a mia volta un bambino di serie B. Se ve lo state chiedendo, sì, si chiamavano davvero così, e no, non ho scelto due nomi da sorellastre di Cenerentola per rappresentare il loro grottesco bullismo. Non ricordo che faccia avessero, ma ho ancora nelle orecchie il suono di quei nomi, acido e corrosivo come i toni che mi riservavano. Ero un bambino obbediente e rispettoso dell'autorità, caratteristica che fortunatamente ho perso con gli anni, e loro erano due adulte. Andare all'asilo non mi piaceva perché mi facevano paura, ma non dicevo niente perché credevo che fosse normale così. Ho rimosso quasi tutto, di quegli anni, salvo pochi episodi emblematici. Un giorno, per esempio, ci diedero degli scoiattoli da colorare, per poi ritagliarli e incollarli sul cartoncino. L'idea mi piacque tantissimo, perché mi divertivo a giocare con le action figure e trovavo molto affascinante la possibilità di farle in casa. Presi la matita blu e iniziai a colorare con convinzione il mio roditore cartaceo, con qualche anno di anticipo sulla nascita di Sonic, il porcospino cromaticamente bizzarro. Giovannina mi sgridò, mi disse che ero stupido e che avrei dovuto colorarlo di marrone. Ricordo perfettamente anche quell'istante: quel giorno c'era il sole e io stavo dando le spalle alla finestra, la stessa che fissavo per buona parte della giornata, nella speranza che arrivasse il nonno a prendermi. Un giorno Pinuccia portò in classe un melograno per mostrarcelo e farcelo assaggiare. Il frutto mi faceva impressione, non mi piaceva la consistenza dei grani e il sapore era troppo acidulo per il mio palato dell'epoca. Se chiudo gli occhi, ancora oggi, sento il tono di disprezzo con cui mi fu detto di non rompere e di mangiarne tutta la mia parte. Ero un bambino obbediente e non feci storie, ma nella mia testa il cibo iniziava a sovrapporsi al trauma e all'imposizione. Se qualcosa non mi piaceva, in mensa, avevo paura di essere sgridato, cosa succedeva più o meno quotidianamente, perché il mio appetito aveva già iniziato a scemare. Tutti i giorni temevo il momento di sedersi a tavola. Penso spesso al cortile dell'asilo di via Giusti, non tanto per quando ci facevano giocare a mago libero e a strega comanda colore, ma perché tutti i giorni davo un singolo morso alla mela che ci davano a fine pasto, la nascondevo nel grembiulino e poi la gettavo di nascosto in un cespuglio, facendo finta di averla mangiata. Mi sembra di vederlo ancora, come una Polaroid dell'infanzia, pochi metri fuori dalla porta del refettorio. Era il mio complice, il mio segreto, il segnale che il momento peggiore della giornata era finito e potevo tornare a giocare. Mi piace pensare che oggi, lì, ci sia un albero di mele, nato dai miei primi atti di ribellione. Non ricordo quale fu l'episodio scatenante: forse una lavata di capo davanti a un pezzo di merluzzo, il dolore di sentirmi trattato come uno scemo o l'improvviso traboccare di tutte quelle parole velenose che suggerivano che la mamma non mi voleva bene. Non me lo ricordo, giuro. Fatto è che un giorno, di punto in bianco, smisi completamente di mangiare. Anoressia infantile, un rifiuto totale della dimensione del cibo e del nutrimento. La mia famiglia corse ai ripari e mi levò dall'asilo, ma il danno era fatto. Se non fosse per Giovannina e Pinuccia, forse non avrei avuto quell'arresto di crescita e sarei diventato alto come mio padre, chissà. I miei lavoravano, quindi di giorno stavo con il nonno Tino e la nonna Enza, con i quali iniziò il lento processo della guarigione. Con buona pace delle illazioni di quelle due, avevo e ho una famiglia meravigliosa, pronta a gettarsi nel fuoco per darmi una vita felice. Scrivo queste parole con le lacrime agli occhi, ma è una vita che sento il bisogno di raccontare quello che mi è successo. Ho paura dell'intensità di questi ricordi, perché alcuni sono così dolci da fare male, però voglio farlo, un po' per me, per salvare su un supporto fisico il miracolo dell'affetto dei miei cari, un po' per il resto del mondo, nella remota ipotesi che il mio percorso possa offrire sollievo o ispirazione a chi, per qualunque motivo, ha litigato con il cibo. Questa è la storia di due maestre che mi hanno voluto male e di una miriade di persone che mi hanno amato. Vi prometto che ha un lieto fine.
“I sette sentimenti” è la mia storia con il cibo. Ho deciso di raccontarla qui, capitolo dopo capitolo, in formato blog. Forse un giorno diventerà un libro.