Malattia e interiorità
Alcune riflessioni
Edvard Munch, La fanciulla malata I, litografia, 1896
In questi giorni di intenso malessere mi sono soffermato a pensare e a riflettere sul rapporto tra malattia e interiorità. Probabilmente si tratta di un tema banale, tuttavia credo non sia così trascurabile se è stato spesso oggetto di analisi letteraria, psicologica e psicanalitica.
Come spesso faccio quando ho voglia di scrivere delle riflessioni partirò da un dato autobiografico. Che rapporto ho io con la malattia?
Se torno indietro con i ricordi mi pare di esser stato sempre malato (mai malattie gravi, certo, tuttavia non ricordo un periodo in cui sia stato completamente “sano”). A partire da una misteriosissima dermatite atopica che mi creava piaghe sul volto da bambino, passando per una brutta complicazione dell'otite che avrebbe potuto causarmi la sordità (eventualità scampata appena in tempo grazie all'azione provvidenziale di un bravo otorino), attraversando i mille problemi ortopedici (traslazione del bacino, deformazione tibiale, cifosi e scoliosi), fino ai problemi gastrointestinali (gastriti e reflusso da quando ho 16 anni), emicrania, problemi di equilibrio e uno stranissimo male neuromuscolare che mi ha tenuto in scacco per qualche anno, per non parlare di possibili disordini autoimmuni dato che mi viene spesso la febbre a causa di incontrollate risposte immunitarie a non si sa bene cosa, insomma, si può dire che sono un individuo che si può definire “di salute cagionevole”.
Le persone “come me” sono sempre esistite, c'è chi non gode di particolare buona salute a prescindere dal suo stile di vita (e devo dire che, anche a causa dei miei mali, il mio è decisamente migliore di quello dei miei coetanei, dato che se agissi come loro probabilmente sarei morto entro qualche anno), e oltre a essere sempre esistite hanno anche un posto decisamente privilegiato in letteratura. I primi esempi che mi vengono in mente, Leopardi a parte che certo era un caso eclatante, ma pur sempre funzionale alla tesi che sto analizzando, ci sono il protagonista di La donna del mare di Ibsen, il personaggio-poeta Guido Gozzano, Friedrich Nietzsche, per non parlare del fatto che la malattia è probabilmente il topos letterario per eccellenza dell'opera di Thomas Mann, che ci regala alcuni dei più bei personaggi malati (il piccolo Hanno nei Buddenbrook, forse il personaggio più bello e delicato di tutto il romanzo, Hans Castorp de La montagna magica, Adrian Leverkühn nel Doktor Faustus, per non parlare dei suoi racconti lunghi, alcuni di essi ambientati proprio in cliniche e sanatori – come nel Tristano); guardando a regioni geografiche più vicine c'è il protagonista de La diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino, che vive in un sanatorio, e molti altri.
Ciò che colpisce, tuttavia, in questa carrellata di nomi è una caratteristica che accomuna sempre questi personaggi: sono tutti quanti personaggi la cui interiorità, il cui sentimento, la vocazione artistica, la delicatezza d'animo etc. sono spropositatamente grandi, come se l'interiorità volesse fagocitare il corpo che non è capace di reggere tutta quest'anima, motivo per cui esso pian piano inizia a deperire, e così come a essi è stato fatto il dono del sentimento e dell'arte al contempo sono stati maledetti dalla malattia, quasi fosse un contrappasso, uno scotto da pagare. E, dalla mia piccolissima e inutile esperienza personale, posso dire che tutti quelli che sono “come me”, eternamente malati (ma mai per finta), spesso ipocondriaci (il che è anche normale se si è abituati a convivere perennemente con qualcosa che toglie la salute), un po' nevrotici, sono persone con un'interiorità enorme, gigantesca, spesso sono artisti a modo loro, o sono quantomeno fiori gentili, evitanti del conflitto e della brutalità. Nel mio piccolo anche io mi ritengo interamente proiettato nell'interiorità, ho sempre coltivato lo studio e la pratica artistica (letteraria, pittorica, fotografica) molto più dell'esteriorità del corpo, motivo per cui negli anni dell'adolescenza quando invece il corpo si fa portatore delle istanze di affermazione dell'io e quando è (anche) con i corpi che si scopre l'altro, io ho sempre vissuto all'ombra di qualche albero a leggere, a immaginare ciò che gli altri vivevano, accarezzandolo col pensiero senza tuttavia agire mai, senza mai prender parte alla vita. E allora mi chiedo, a nome di tutti i malati e i nevrotici del mondo, forse che gli scrittori e gli artisti abbiano visto più lungo dei medici? Forse che davvero avere l'animo smisurato, l'essere interamente proiettati all'interno di se stessi, porta al deperimento del corpo e al contrappasso della malattia? E qualora fosse così, posso (o possiamo) dire che sarebbe preferibile la salute alle meravigliose e misteriose profondità dell'anima?