Proverbi 11, 2
(Venuta la superbia viene anche l'infamia / ma la saggezza è con gli umili)
Avrei tanto voluto guardare il mondo dalla vostra altezza, senza dover chinar lo sguardo, reclinare il collo, e accontentarmi dell'orizzonte che disegna i confini della terra, segna il limite delle colline verdi e quotidiane, il biancogrigio delle pietre e l'azzurro quasi timido del cielo. Meglio sarebbe stato strisciare sulle foglie e in mezzo ai sassi come i vermi, accontentarmi dell'odore del terriccio, del rinvigorente muschio, e non aspirare ad altro, se non all'eterno ritorno di tutto ciò che è eterno. Tuttavia non scorre brezza nel mio sangue, ma tempesta. Nessuna mia parola può giungere a voi che m'ascoltate, ché essa si leva in alto, superba sopra le montagne, custodi immoti del giorno e della notte, e rigonfia il cielo di nembi di burrasca, rovescia su di voi le ardenti piogge di quest'ira sconfinata che mi distrugge e mi consuma. Se vi guardo mi apparite come comiche formiche e solo basterebbe un passo per schiacciarvi, ridendo in cuore di questa tremenda mia albagìa che mi condanna a esser ripa, roccia, scogliera, tormentata dalle onde, ma sempre fiera con lo sguardo fisso a sfidare l'orizzonte. Eppure m'atterrisce la notte che m'aspetta, quest'oscurità che mi abbraccia come un manto, questo infinito, terribile silenzio. Nessuno potrà mai trovarsi insieme a me quando questa pur odiata terra sotto di me spalancherà le crepe delle rocce. Mi vedrete forse accasciarmi, come un elefante vinto dalle lance e cosa sarà di me se non la carcassa di un gigante, una maestosa solitudine senza vita?
(A. Arrivabene, Hybris, 2021, olio su lino 150 x 120 cm)