Quasi una nostalgia
In questa mattina chiara che leggera risplende sui tetti di tegole ordinate spesso mi torni in mente montagna mia coi tuoi boschi verdi sui ripidi fianchi solo da un rigagnolo attraversati quasi fosse una lacrima a rigarti il viso antico che vide greci, arabi, normanni e saraceni, le variopinte facce delle genti, e i dolori e le speranze delle generazioni.
Rivedo il lago tra i canneti, fenicotteri e aironi volare, e più tristi uccelli neri a pelo d'acqua andare insieme a schiera una lenta sacra processione nella luce della sera azzurrorosa, crepuscolare. E sotto questi pini mi piaceva passeggiare, perdermi sul declivio dolce dove amavo riposarmi alla frondeggiante ombra dei rami verdi sempre come il mio cuore, quando alle spalle lasciavo le case di cemento, gli altezzosi muri e i loro spigoli sbrecciati.
Ti sentivo, montagna mia, e mi parlavi, inutilmente cercavi di placare il mio dolore che di notte strepitava, e nemmeno il bianco volo del barbagianni cacciatore mi poteva consolare. Così disperavo di ogni cosa, del pallore dei miei giorni, e di me stesso, che appartengo già alla morte, come tutti, in fin dei conti. Fossi terra almeno e mi rinvigorissi con la pioggia, potesse magari ritrovarsi il mio sempiterno stare quotidiano nella vita nuova dell'aspargo, del finocchio selvatico, del cardo, e potessi riposarmi dall'incessante andare delle orme delle scarpe dalla vuota bramosia che illude chi s'inganna di potere andar lontano.
Eppure oggi cammino su queste bianche e lisce pietre levigate, non più sulla mia cara terra, e sento la mia anima disfarsi ad ogni passo. In questa città che pur mi è tanto cara, mia Ragusa, città in discesa, sospesa sulla valle verdeggiante, tenuta ferma dai tuoi ponti, città appesa, non riesco ancora a consolarmi e piango la mia rocca alta antica e sacra, la volpe grigia che di notte si vede ancora per le strade, la campagna silenziosa e le sue stelle e il mio ricordo si disperde quasi a scomparire fino ad abitare la durezza della pietra, il rugoso tronco tortile dell'olivastro, il contegno malinconico del pino quando si staglia solitario sopra il campo, un soldato, una vedetta che scruta l'imbrunire.