La casa sulla ferrovia – Capitolo 3

La lunga salita

Amore incondizionato

Dopo alcuni giorni che abitavo dalle zie mi chiesero di accompagnare Francesca “nella parte alta del paese”. Violet Hill aveva due facce, una parte di città si estendeva tutta intorno al lago, mentre la parte più antica era situata su un piccolo promontorio. Per arrivarci, se non avevi la macchina, dovevi prendere una piccola cabina su binari che lentamente ti conduceva alla meta. Ovviamente nessuno di noi possedeva una macchina, tantomeno le zie. Mi dissero che servivano degli attrezzi da giardinaggio, feci notare con più educazione possibile che c’erano altri negozi a Violet Hill, molto più comodi. Non ci fu nulla da fare, come li avevano lì non c’erano da nessuna altra parte. Mi arresi, chiamai Francesca e ci dirigemmo verso la piccola cabina su binari. Lei allegra come sempre mi faceva cento domande, io rispondevo, ma mai le avevo chiesto nulla, che forse tutte le sue domande aspettassero altre domande piuttosto che risposte? -Cosa ci fai alla casa sulla ferrovia? Chiesi di botto mentre la piccola stazione compariva davanti a noi. Lei mi guardò con il solito sorriso di sempre. -A casa mia non stavo bene, così mi sono trovata un lavoro part time in un supermercato. Cerco di vivere senza l’aiuto di nessuno. -I tuoi genitori ti facevano pesare il fatto di mantenerti? Lei sospirò come se avessi aperto un vaso di Pandora, a volte mi odiavo per le mie domande dirette, ma ero fatto così, quando cercavo di capire una persona andavo sino in fondo. -Ogni ora, ogni giorno da quando ho memoria, non sono mai stata abbastanza, un peso, ma le ferite le ho sempre trasformate in sorriso. Quando mi sono decisa a non farmi più male ho preso un treno con pochi soldi e pochi vestiti, sono scesa a Violet Hill. -Una vera fortuna. Dissi io sarcastico. Lei rise -Lo è stato perché ho trovato la casa delle zie, mi hanno aiutata, accudita. In un anno mi hanno dato più amore che in diciannove i miei genitori. Annuì in silenzio. Sempre in silenzio arrivammo alla cabina, un signore sulla sessantina con una cappello da ferroviere ci salutò e ci fece segno di salire. – Tra poco partiremo. Disse tra i baffi ingialliti dalla sigaretta che stava fumando. Era mattina, i turisti sarebbero arrivati tra almeno un mese. Eravamo gli unici seduti sulla legnose panche. -Probabilmente deve finire la sigaretta. Disse a bassa voce Francesca. Risi. Salimmo e aspettammo che l’uomo finisse le sue boccate. Buttò nel posacenere di bronzo il mozzicone e si diresse verso la cabina di comando. Tirò la leva e il cigolio cominciò. -Sei mai salito ultimamente? Chiese la ragazza sporgendosi dal finestrino ammirando il panorama del lago che cominciava a spuntare tra le piante. -Solo quando ero piccolo. Ogni tanto i miei genitori mi portavano. -Non li vedi spesso vero? -Se gli dicessi che sono in difficoltà mi darebbero tutto quello di cui ho bisogno, ma gli ho preso già troppo nella mia vita e senza risultati che mi abbiano soddisfatto. Ho deciso di non chiedere più nulla loro. -Onesto. Disse senza guardami. -Avrei voluto avere io la tua fortuna. Continuò. -A volte non ci si accorge della fortuna che si ha. Pensai che non avrei potuto trovare una frase più scontata, ma sentivo che era la verità. -L’importante è accorgersene in tempo. Si girò verso di me facendomi l’occhiolino.
Ripetei la sua frase nella mente mentre la luce del sole rifletteva sull’acqua del lago formando tante piccole stelle diurne. Dopo venti muniti ci trovammo nella piazza principale di Violet Hill alta. L’uomo dai gialli baffi ci disse che l’ultima corsa era alle diciassette. Sperai con tutto il cuore di non rimanere lì così tanto, sarei dovuto andare in biblioteca a continuare la tesi. Lo ringraziammo dell’informazione e Francesca mi fece strada verso il negozio in cui le zie ci avevano mandato. -Che poi mi chiedo che cosa abbia questo negozio in più di quelli al piano di sotto. Dissi ad alta voce, non ebbi risposta.
Entrammo, l’aria era calda e viziata. Maceti di ferro appesi alle pareti mi ricordavano un mattatoio degli anni ’20. Rabbrividì. Francesca davanti a me si destreggiava leggera come volpe che evita tutte le morse messe dai cacciatori. Io per poco non urtai un rastrello appoggiato tra latte di vernice, scatole di chiodi e cassette degli attrezzi in sconto. Imprecai nella mente. Raggiunsi la ragazza che al balcone suonò un campanello da Hotel, le tremava la mano. Dal retro del negozio comparve un ragazzo che avrà avuto la sua età. Sorrise e ci diede il buongiorno. Mi avvicinai al bancone ma prima che potessi dire che cosa ci serviva Francesca aveva già sciorinato tutta la lista in meno di 0,5 secondi netti. Il ragazzo le sorrise e le chiese come stava mentre prendeva vicino a lui i primi oggetti della lista. -Cosa vuoi che ti dica. Disse appoggiandosi ad una latta lì vicino. -Si tira avanti, supermercato, commissioni per le zie, portare a spasso gli anziani. Disse indicandomi. Il ragazzo rise di gusto. -E’ un nuovo ospite della casa e in effetti non è così vecchio dai. Disse dandomi una gomitata sul fianco. -Sono Ben, piacere. -Io sono Mattia, molto piacere. Disse in modo educato, ma subito mi ignorò per tornare a chiedere a Francesca delle sue gaffe al supermercato. Lei arrossì e ne raccontò un paio. Mi girai osservando un vaso pacchiano da giardino per non crearle ancora più imbarazzo. Mentre il ragazzo esaudiva tutte le richieste di Francesca li guardai parlare e capì che cosa aveva quel negozio in più degli altri. Solo dopo qualche tempo mi resi conto del perché le zie mi mandarono con lei. Era arrivato il tempo di pagare, Francesca avrebbe voluto tergiversare ancora, come anche il ragazzo, ma entrarono altri due clienti e la magia si interruppe. Mentre le dava lo scontrino le chiese se sarebbe andata quella sera alla festa delle viole. Dj set, balli occitani, cibo e vino. Arrossendo gli disse che ci avrebbe pensato. Lo sguardo di lui era un misto tra il confuso e il deluso. Francesca prese tutto l’arsenale, me lo diede talmente in fretta che per poco mi cadde e uscì velocemente dal negozio. Nel mentre nella mia mente imprecai perché quella sera avevo promesso alla pro loco di fare delle foto. Me ne ero completamente dimenticato. -Neppure mezzogiorno è già è due volte che mi maledico, andiamo bene. Pensai Raggiunsi Francesca fuori dal negozio che guardava lungo la via colpendosi la testa con la mano. -Non mi sembrava così male la proposta del ragazzo. Provai a dire. Lei si girò di scatto verso di me. -Voglio una granita. Perplesso l’accompagnai al primo gelataio che trovammo. Faceva più caldo rispetto a quando eravamo partiti da case delle zie. Prese le due granite ci sedemmo su una panchina sul belvedere. Francesca bevve rumorosamente dalla cannuccia il liquido gelato al gusto di fragola, io giravo la cannuccia con fare nervoso. -Che cosa sai dell’amore Ben? Chiese con la cannuccia in bocca guardando la ghiaia sotto di lei. -Che è un casino. -Non è la prima volta che quel ragazzo mi invita ad uscire o ad una festa, ma io non gli ho mai risposto chiaramente. -Forse oggi è la volta buona. -Tu hai mai amato qualcuno? -Una volta. Tanto tempo fa. -Ho sempre pensato che l’amore fosse un dono. Donare all’altra persona una parte di te senza aspettarsi nulla in cambio. Disse sempre senza staccare gli occhi dal terreno. -Ma se tu dai tutto e l’altro non ti da niente in cambio come puoi chiamarlo amore? Dissi con fermezza egoistica. -Me lo sono chiesta anche io tante volte. Che cosa mi spingesse ad amare incondizionatamente persone che nulla mi davano. Eppure ancora adesso quando penso ai miei genitori non posso che provare un misto tra amore e odio. Aspirò del liquido con ancora più rumore. -Vedo me in quel ragazzo, continua a chiedermi di vederci senza che abbia nulla in cambio. -Tu non sei i tuoi genitori Francesca, ognuno di noi sceglie chi essere non lo diventa per genetica o per l’educazione che riceve. Lei mi guardò come se avessi capito tutti i suoi dubbi. -Ho paura di godere dell’amore di una persona senza mai dargli quello davvero merita. Restammo qualche minuto in silenzio guardando il panorama. -Forse l’amore è proprio quello che dici tu, entrambi donano una parte di sé. E’ un gioco di anime che si legano tra di loro fondendosi senza pensare a chi ha dato cosa. Vivono dell’altro. Questo è l’amore incondizionato. Dissi mentre guardavo il ghiaccio sciogliersi nel bicchiere di plastica. -Hai ragione, l’amore è un gran casino. Dovrei andare stasera? -La risposta la sai già. Dissi facendo l’occhiolino. Lei sorrise come era suoi solito fare, un sorriso sincero che non nasconde malizia. -Ho paura. -Tutti ne abbiamo, superarla significa avvicinarsi sempre di più a quello che vogliamo davvero. Stasera ci sarò anche io, se ti mette la mani addosso ci penso io. Ridemmo insieme mentre il vento faceva danzare le ombre delle foglie colpite dal sole. -Grazie per avermi ascoltata. Disse con un filo di voce. Francesca mi disse di aspettarla che sarebbe andata a dire al ragazzo che accettava il suo invito. Mentre l’aspettavo pensai a quello che le avevo detto. Mi sentivo un’ipocrita. Erano cose che pensavo ma che mai avevo trasformato in azioni. Quante volte avrei dovuto abbandonare la paura, proprio come ha fatto lei adesso. Ricacciai indietro quei pensieri, ma qualcosa in me era cominciato a cambiare e mi piaceva quello che sentivo. Dopo che Francesca mi raggiunse aveva un umore diverso, come se il peso del passato e la paura di diventare come chi l’aveva cresciuta fosse sparita come nebbia a contatto con il sole. Tornammo alla stazione allegri e spensierati, il sorriso di quella ragazza dal naso all’insù incorniciano di lentiggini era contagioso. Ridemmo ancora mentre la cabina si inclinava per il pendio imitando il nostro austero autista. Quando arrivammo a casa e consegnai la nostra spesa. Le zie felici cominciarono ad armeggiare con essi e i rovi che spuntavano tra la staccionata e i binari del treno.

Venne sera. Tornai dalla biblioteca in fretta e furia. La Pro-Loco mi aveva lasciato una vecchia panda per raggiungere la festa, speravo con tutto il cuore che non mi abbandonasse a metà della salita. Con l’ansia da una parte e la macchina fotografica dall’altra bussai alla camera di Francesca, lei si presentò con una gonna lunga bianca e un top rosso che faceva intravedere l’ombelico. Le labbra avevano lo stesso colore. Le sorrisi come un fratello che vede la sorella crescere più in fretta di quanto si aspettasse. -Farai colpo stasera. Dissi quasi imbarazzato. Lei rispose toccandosi nervosamente i capelli. Salutammo le zie e gli ospiti a tavola che riempirono di complimenti Francesca. Salimmo sul potente mezzo e percorremmo la strada verso la festa. Entrambi eravamo in ansia, lei per amore, io per i rumori che faceva la macchina. Quando arrivai al parcheggio tirai un sospiro di sollievo. Ci dirigemmo alla festa, ci salutammo e ci focalizzammo sui nostri obiettivi. Scattai le fotografie per l’ufficio del turismo. Bancarelle, persone, luoghi. Sembrava di essere fuori dal tempo e da quella cittadina così soffocante, la festa aveva preso tutto ciò che di buono c’era in Violet Hill. Le danze erano cominciate. Tornai alla piazza e scattai alcune fotografie. Poi li vidi: Francesca e quel ragazzo. Ballavano felici guardandosi negli occhi, lui prese la mano di lei, la fece girare su se stessa. La gonna si alzò leggermente ruotando, presi la Leica e scattai. Due anime che volteggiavano sulla cima del mondo.

Ben

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