Essere un uomo femminista

Cosa fa un uomo femminista: Rende femministi gli spazi che attraversa.

Cosa non fa un uomo femminista: Invade gli spazi femministi e le discussioni sul femminismo, spiega alle femministe come essere femministe.

Gli alleati femministi di cui abbiamo bisogno sono uomini che ingaggiano altri uomini, li responsabilizzano, ci parlano, supportano lə compagnə togliendo loro parte del peso del lavoro emotivo. Per te che non la subisci è emotivamente gratis parlare di misoginia, per i soggetti femminilizzati no, perché l'ultimo attacco misogino l'hanno subito 5 minuti fa, ed era il tredicesimo solo questa settimana. Non abbiamo bisogno dell'ennesima persona che fa le pulci al movimento femminista, o a come portiamo avanti le nostre lotte, costringendoci ad aggiungere altro lavoro emotivo al carico già insostenibile.

Essere femministi non è una bandierina o una spilletta, è un impegno reale, scomodo, pesante, imbarazzante, drenante, da sfigati. Ti farà mettere alla berlina, ti farà sembrare meno cool, ti beccherai un assaggino dell'oppressione che altrə sperimentano nel quotidiano, perché la questione femminile (e in generale tutto ciò che è femminile) non è per niente cool in un mondo patriarcale. Sono cose da femmine. Forse otterrai consensi da (alcune) donne, ma di certo molto meno dai tuoi pari. Non c'è un immaginario di lotta romantico e figo a cui appellarti, nessuno ha scritto canzoni per te in stile “comandante che guevara”, ad aspettarti c'è solo la ridicolizzazione e la medaglietta da white knight sfigato che “fa la parte del femminista nella speranza di ottenere un briciolo di figa”. E molti fanno proprio questo, eh. Ma non è questo essere femministi.

Lo fai per un principio morale, per le persone che ami, perché credi che una mascolinità diversa sia necessaria per costruire un mondo migliore per tuttə, anche per te.

Sostituisci a “femminista” qualunque altra lotta per qualunque altra istanza, dalla classe alla razza alla disabilità alle queerness etc., e avrai scoperto il segreto scomodo dell'intersezionalità: quando una lotta non ti riguarda personalmente, sei privilegiato. Essere bianchi in un mondo razzista è un privilegio. Essere benestanti in un mondo capitalista è un privilegio. Essere uomini cis e etero in un mondo ciseteropatriarcale è un privilegio. Non essere disabile in un mondo abilista è un privilegio. Lottare contro un'oppressione che non ti riguarda ti fa perdere parte di quel tuo privilegio. Diventi “woke”, “politicamente corretto”, “buonista”, perché stai remando controcorrente e l'empatia non è un valore mainstream. D'altra parte, ignorare il tuo privilegio significa schierarsi dalla parte dell'oppressore. Non ci sono vie di mezzo. Chi sceglie di non schierarsi si è già schierato dalla parte sbagliata.

L'unico modo per fare qualcosa di buono da una posizione di privilegio è usarlo per cambiare le cose nel proprio circostante, ossia laddove la voce di chi quel privilegio non ce l'ha resta inascoltata. Al tuo amico bianco e razzista non frega nulla di cosa dicono le persone razzializzate, ma ascolterà TE che sei un suo pari. Il tuo amico che assume i dipendenti in nero non ne prova alcuna vergogna finché TU non lo fai vergognare. Non sempre le identità oppresse sono nella posizione di far valere le proprie istanze, ma tu col tuo privilegio sì.

Non è facile e non sempre andrà a buon fine, sarai il cacacazzi che va contro lo status quo, contro la normalità e il “così fan tutti”, ma è un modo decisamente più efficace e sensato di spendere le tue energie. La prossima volta che una persona queer, o una donna, o una persona di colore, o una persona migrante, o [inserisci identità oppressa a caso], parla delle proprie istanze, resisti a quel pruritino di intervenire a dire la tua dall'alto del tuo privilegio. Piuttosto ascolta e esercita l'empatia. Quel prurito fattelo venire quando un tuo pari fa o dice qualcosa di oppressivo. Questa reazione di prurito si allena e si coltiva, mettere in discussione l'oppressore e non l'oppressə è un automatismo che si acquisisce con l'esercizio. Impari a vedere in trasparenza da che parte pende il potere, e non ti schieri per istinto, ma per scelta consapevole. E più lo fai, più ti accorgi che non ci sono fanfare né medaglie per te: la lotta non è un orpello alla tua persona, tutt'altro. Problematizzare lo status quo sarà visto come un demerito dai tuoi pari, dagli amici, dai familiari, dai colleghi. Questo è il prezzo di essere un alleato. Se non lo paghi, non lo stai facendo bene. Se non ti senti scomodo, a disagio, se non metti continuamente in discussione il tuo privilegio e quello dei tuoi pari, non lo stai facendo bene. Stai lì a lavorare su te stesso e a spostare finestre di overton e non ti aspetti la gloria in cambio, perché non è la gloria il tuo obiettivo.

E se pensi “perché devo essere solo io lo sfigato?”, ti dico subito che non lo sei. Da persona cis, sono stata esclusa da spazi di discussione trans. Da migrante europea, “di serie A”, ho tenuto la bocca chiusa e le orecchie aperte quando a parlare erano i migranti sudamericani, africani, “di serie B”. Da persona bianca, sono stata allontanata e messa in secondo piano in contesti di lotta contro il razzismo. Non sempre gentilmente, e non mi aspettavo la gentilezza da persone giustamente incazzate. Non sono importanti i miei sentimenti in quel contesto, c'è un mondo intero che li accoglie al di fuori di quel contesto. Occupare con i miei sentimenti quel poco spazio in cui si riesce a parlare da un punto di vista minoritario significa sabotare quegli spazi.

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Non sono solo gli uomini a dover fare i conti con la gestione del proprio privilegio, ognuno ha la sua quota, ognuno deve farci i conti e imparare a gestirlo. Esercizio di empatia. Tenere sempre presente da che parte pende la bilancia. Proteggere gli spazi safe anche quando non sono i miei e non sono per me. Capire che il privilegio è potere di essere ascoltati, e usare questo potere laddove davvero può servire a qualcosa.