GIOCARE PER STARE MEGLIO [2]

Tesi magistrale di ricerca in game-based learning approvata. Si prospettano quattro mesi croccanti, ma sono contenta. Tutte le volte che posso fare quello che mi pare sono contenta! Soprattutto in ambito di ricerca, contesto che amo perchè ha la capacità di farmi ridimensionare ed espandere allo stesso tempo. Nella mia vita la ricerca è quasi una terapia psichedelica: meno ego, più universi a cui connettersi. Ma di questo parliamo un'altra volta :) Oggi vorrei di più raccontare quello di cui mi occuperò.

In generale il game-based learning è ricerca e applicazione del ludico come metodologia e modello per l'educazione e l'apprendimento. Il legame tra gioco e educazione è intenso, saldo e profondo, da sempre. Così come quello tra gioco e società. Le ricerche in questo settore portano in luce e riconoscono al gioco la capacità di sviluppare forme di apprendimento e di autoapprendimento, di alti livelli di motivazione e coinvolgimento, di permettere il raggiungimento di elevati stati di concentrazione e, tutto, divertendosi. Che bello. È un mondo molto ampio, che racchiude gioco tradizionale e digitale (soggetto a ferocissimi dibattiti favorevoli o contrari, il chè ha permesso lo sviluppo di un particolare filone di ricerca dedicato, quindi: bene), i loro modelli generali di progettazione e la consapevolezza che il gioco non solo appartiene a tutti gli esseri umani, ma anche a tutte le scienze.

Gioco è fenomeno complesso, inafferrabile, polimorfo, disturbante e perturbante, spesso sottovalutato, controllato, una costante umana eventualmente analizzabile in “tipologie” (specie se si intende ampliarne le potenzialità in ottica formativa). In sostanza, definirlo e quasi impossibile; sono però molto interessanti le visioni e i termini che abbiamo raccolto fino ad ora (partendo da J. Huizinga e R. Caillois, passando per B. Suits, R. Fagen, E.M. Avedon e B. Sutton-Smith, fino alle luci dei game studies alimentate da F. Mäyrä, G. Frasca, E. Aarseth – con tutta la polemica generativa tra narratologia e ludologia – e molte altre persone studiose e curiose).

I game studies hanno l'obiettivo di affermare il gioco come momento separato e fittizio nel quale si entra volontariamente, diverso dalla realtà quotidiana ma a lei legato, nel quale chi gioca costruisce e vive un mondo dove regole e libertà si ricompongono come raramente capita nella quotidianità: che la percezione sia quella di un cerchio non impermeabile, di linea tratteggiata, ma che protegge e all'interno del quale si può sperimentare liberamente, mentre contaminiamo e ci lasciamo contaminare dall'alterità, da altri mondi.

Ho scelto di tuffarmi nel game-based learning proprio per questo, perchè si concentra sul potenziale trasformativo del gioco in ambito educativo e formativo quale mezzo preferenziale per sviluppare abilità e competenze sociali. La società usa il gioco per veicolare messaggi e valori, per sviluppare le proprie rappresentazioni: la storia ci racconta molto bene il ruolo di conformazione del gioco in alcune culture (la società romana, per esempio, o anche quella tra fine ottocento e novecento, quando i giochi sportivi erano atti allo sviluppo della nazionalizzazione della masse; ma ci sono molti altri esempi) e questo rapporto stretto – grazie McLuhan che ce lo racconti – può essere considerato un vero e proprio medium.

Ne avevamo parlato anche nella parte [1] di questa piccola rubrica, con l'esempio del Monopoly: giochi e giocattoli sono le strategie che da sempre le persone adulte usano per mostrare a bambini e bambine il mondo in cui dovranno crescere, nel bene e nel male. Questo emerge nelle bambole, nei videogiochi, nell'uso di dinamiche ludiche per pubblicizzare e vendere un prodotto. In tutto. Il quadro di una società ludicizzata è complesso e rischia di compromettere – qualora non sia già accaduto – il diritto al gioco.

Nel game-based learning quindi non si parla prettamente di giochi educativi o didattici, cioè esplicitamente creati per l'apprendimento (che ad oggi non hanno ancora dato risultati particolarmente significativi, poichè possiedono generalmente una carica energetica meno intensa, che non incoraggia né coinvolge – Squire lo dice meglio di me, ma tant'è); piuttosto si parla di impiegare i giochi non pensati per educare – per capirci, i classici entertainment games – in ambito educativo, perchè grazie alla loro struttura e alle loro caratteristiche promuovono opportunità di apprendimento, maggiore interazione e coinvolgimento.

Mille milioni di approcci e visioni, ma tuttǝ concordano sulla necessità non solo di continuare a raccogliere dati e sperimentare, ma anche di sviluppare modelli di instructional design for learning (molto in breve, la disciplina che si occupa di elaborare e progettare materiali multimediali per l'apprendimento) e di progettazione di ambienti di apprendimento dove il ludico è oggetto e soggetto (perchè è importante non dare mezzi e strategie per scontati: la progettazione deve restare fluida e disponibile a trasformarsi) e di sviluppare ricerche sperimentali micro orientate a obiettivi specifici (per esempio, osservare e capire come un tale gioco può aiutare una determinata competenza sociale).

Bhe, io trovo questo stupendamente interessante. Ecco perchè ci dedicherò tempo e affetto.

Ho frequentato solo facoltà sedicenti umanistiche e sempre dato tesi sperimentali nell’ambito dell’informatica pedagogica, escludendo qualche elaborato intermedio (e una prima tesi in linguistica sulla retorica di Forza Italia, che però non era stata approvata. Professore berlusconiano 1 – Ele 0).

Lavorare su opere collettive (perchè in questa tesi ci saranno idee di tantǝ), portare all’interno del rigido mondo accademico realtà sommerse che non sarebbero mai potute entrare, mescolare i testi anarchici contemporanei alla critica sterile e compilativa del panorama GoogleScholar (un motore di ricerca sedicente libero, ma di fatto proprietario... quindi che ve lo dico affà?), adattare e rendere transmediale qualsiasi cosa io trovassi più interessante della muffa solenne, è stato il mio modo per dare dignità ad un sistema universitario che chiede soldi e dà fogli. Smontarlo un pezzo alla volta dall’interno. Anche questo, per me, è giocare.

Avere l’opportunità di fare ricerca e progettazione su argomenti che ci stanno a cuore, così come il giocare stesso, è un diritto. Un diritto che sfora a piè pari nel campo del privilegio. Io sono sicuramente una persona privilegiata e voglio continuare ad usare con rabbiosa allegria il mio vantaggio, per demolire e costruire, partendo da me e allargandomi al mondo. Questo è anche quello che cerco di raccontare a studentesse e studenti che incontro.

Ogni singolo mattone rimosso rende il muro meno solido.

Gioia e rivoluzione 🍷

Riferimenti [qui tutto quello che ho trovato di libero e condivisibile in pubblico dominio: https://www.icloud.com/iclouddrive/008JnwmtPjiR0NMowaAF8ncRg#Testi_Condivisi – il resto ce l'ho in cartaceo]: • R. Nesti, Game-based learning, Gioco e progettazione ludica in educazione, Milano, Edizioni ETS, 2017 • F. Cambi, G. Staccioli (a cura di), Il gioco in Occidente, Roma, Armando, 2007 [alcuni estratti liberi qui: http://www.tecalibri.info/C/CAMBI-F_gioco.htm#p004] • J. Huizinga, Homo Ludens, Torino, Einaudi, 2002 • R. Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Milano, Bompiani, 2004 • B. Suits, The Grasshopper: games, life and utopia, Peterborough, Broadview, 1978 • R. Fagen, Come e perchè il comportamento ludico: un modello esplicativo, Roma, Armando, 1981 • E.M. Avedon, B. Sutton-Smith, The study of game, New York, John Wiley & Sons, 1971 • F. Mäyrä, An introduction to Game Studies, London, SAGE, 2008 • G. Frasca, Ludology meets narratology: similitude and differences between (video)game and narrative, Ludology.org, 1999 [www.ludology.org/articles/ludology.htm] • T.M Connolly, E.A. Boyle, E. MacArthur, T. Hainey, J.M. Boyle, A systematic literature review of empirical evidence on computer games and serious games, in “Computers & Education, 59, 2012 • K.D. Squire, Video games in education, in “International Journal of Intelligent Games and Simulation”, 2, 2003