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Cose che durano // attimi che fuggono =====================================

nota, questo è un vecchio articolo (2021), ma non è invecchiato malissimo

Settimana scorsa stavo scambiando due chiacchiere con la figlia adolescente di un amico:

“Nahh, posto solo le storie.”
“Perché?”
“Perché durano 24 ore e non devo più preoccuparmene.”

Non è certo una novità, tutt’altro. Il contenuto che svanisce è un’invenzione di Snapchat, che fra il 2011 e il 2013 rivoluziona il mondo dei social introducendo i messaggi che si distruggono una volta letti e le Stories che ora tutti associano a Instagram (dite grazie all’asso pigliatutto Zuckerberg): attenzione, sono sono invenzioni geniali, ma, come accade spesso, la felice intuizione di chi riesce a cogliere una esigenza precisa ancora non soddisfatta e forse ancora non del tutto espressa.

L’esigenza era quella di essere sfuggenti, di non lasciare (troppe) tracce, di sentirsi liberi di fare una scemata e non trovarsela in serp su Google, di essere sopra le righe come solo può esserlo un adolescente, di vivere, in ultima istanza, alla giornata.

È una esigenza che comprendo pienamente, e che una volta veniva in gran parte soddisfatta dal sostanziale anonimato che la rete all’epoca garantiva.

Ci si aggirava sui newsgroup o stanze IRC protetti da nick più o meno fantasiosi, litigando, trollando, inventandosi un genere a caso, flirtando, diventando zimbello o mito nel giro di qualche thread.

Ad oggi l’anonimato in rete è cosa per pochi, l’avvento prima delle foto, poi dei video ha reso de facto l’idea di nascondersi dietro un nick piuttosto inutile, anche prima che Facebook cominciasse a fare delle pare assurde perché i propri utenti utilizzassero il loro vero nome.

Ovviamente stiamo parlando di un anonimato “di facciata”, non quello serio, quello delle reti Tor o delle vpn per mascherare il proprio ip e far perdere le tracce, quello è tutt’altro e magari ne parliamo un’altra volta.

Dunque la strada per non lasciare tracce è quella di creare contenuto a tempo: le 24 ore delle Stories sono l’esempio perfetto del contenuto effimero, che verrà disperso nel nulla della rete, bit da riciclare.

Archeologia Web: alla ricerca di quel che rimane


Alla fine degli anni 90 anche in Italia Internet è sulla bocca di tutti. Non è ancora l’epoca dei blog, ci si arrabatta a capire a cosa serve (all’inizio degli anni duemila qualcuno arriverà alla risposta definitiva, vedi sotto) e intanto chi può si dota di una connessione dial-up.

The Internet is for P*rn – AvenueQ

All’epoca non ci si domanda in effetti nulla sulla persistenza di quel che si scrive sui newsgroup, primo vero social della rete: semplicemente si sente l’urgenza e si scrive. La gerarchia dei gruppi italiani cresce a dismisura, e ovviamente crescono le polemiche: gruppi moderati, non moderati, la gerarchia alt, il porno, i gruppi warez, i troll, it.arti.cinema e tutto il resto.

Son passati quasi venticinque anni, eppure eccallà Google mi ripropone un antico post su it.arti.fumetti:

Una recensione moderata di Samuel Sand

Per i curiosi, nel mio solito stile morbido e accogliente, facevo una recensione di Samuel Sand (serie in stile “bonelliano” pubblicata dalla Star Comics nel periodo in cui Ade Capone aveva provato a lanciare la prima alternativa allo strapotere della Bonelli nel mercato italiano). La serie non ebbe successo, ma questo non è particolarmente interessante.

La cosa interessante è che quelle parole, scritte per condividere una passione, in un gruppo appunto di appassionati, in qualche maniera hanno resistito 25 anni e sono ancora disponibili per chiunque abbia voglia di leggerle (su Google Groups, che non è Usenet, ma che ne è figlio, e immagino anche su altri server Usenet ad alta “ritenzione”, ormai tutti a pagamento).

Questa “ritenzione” ha un costo, sia ben chiaro, un costo elevato: macchine, archivi, energia elettrica, costi di gestione e connessione – mantenere un contenuto accessibile in rete è prima di tutto un fatto economico.

Aldilà dei caotici scambi di opinioni sui newsgroup che riaffiorano fra le maglie della rete, esiste ben altro materiale resistente duro a morire.

Il punto di partenza, per capire cosa davvero fosse l’internet a quei tempi e quali fossero le prospettive immaginabili, è Gandalf.it, il sito del compianto Giancarlo Livraghi.

Per chi non abbia la fortuna di averlo conosciuto, Giancarlo è stato uno dei grandi della pubblicità in Italia, creativo, copywriter, pensatore davvero sopraffino. Quando l’ho conosciuto, sul finire degli anni 90 era già “anziano”: un settantenne che scriveva e pensava al futuro dell’umanità in rete.

Le comunità online non sono “virtuali”. Non sono “finzione” né “rappresentazione”. Sono altrettanto reali di qualsiasi altra cosa che consideriamo realtà. Sono fatte di persone, in carne e ossa. Con tutte le qualità e i difetti, i valori e le debolezze, l’utilità e la difficoltà di ogni comunità umana. Questo è evidente a chi ha pratica della rete. Ma se smettessimo di chiamarle “virtuali” forse anche il resto del mondo capirebbe un po’ meglio di che cosa si tratta.

Diceva nel 2000 (ma anche prima) Giancarlo in questo articolo.

Questo è un caso, forse unico in Italia, di un sito, di un contenuto web strutturato, che sta resistendo alla morte del suo creatore. È cristallizzato, fermo, ma in qualche modo vivo proprio per questo: ci siamo abituati, grazie anche ai social e al loro sviluppo trainato dalle necessità commerciali, al nuovo continuo, alla non riflessione, al non guardarsi indietro.

Tra i tantissimi spunti che potete (e dovete, credetemi, anche se avete 20 anni) trovare su Gandalf.it, vi consiglio la lettura di L’umanità dell’internet: ovviamente ci sono molte cose che vi appariranno datate, altre incredibilmente attuali, altre ancora necessarie, come l’invito a coltivare la propria personale rete.

Giancarlo parlava anche molto di libertà della rete, nel momento in cui, attorno agli anni 2000, cresceva in rete la consapevolezza di poter fare informazione in maniera indipendente, e nel contempo cresceva nei governi una voglia di controllo di questa macchina sovranazionale difficilmente imbrigliabile.

Sono passati vent’anni dal G8 di Genova, arrivato dopo gli eventi di Seattle e Napoli, e in questi giorni, ovviamente, se ne parla molto. Si parla meno però del ruolo che la rete e il giornalismo diffuso ebbe in quei momenti: Indymedia nacque proprio nel 1999 a Seattle per sostenere e seguire il movimento NoGlobal, diffondendo in rete i racconti di centinaia di reporter sul campo, molto spesso semplici cittadini e attivisti.

Il newswire era un blog libero, dove pubblicare articoli, foto, video in maniera anche anonima.

Indymedia Italia raccontò in diretta il terrore di quei giorni a Genova, raccogliendo prima speranze e istanze, poi rabbie, testimonianze, proclami e paure.

Ad oggi, dopo un lungo periodo di oblio, è di nuovo possibile leggere per intero quella documentazione, utile e importantissima.

A questa pagina, si legge

Un giorno non troppo lontano qualcun* ha ritrovato tra scatoloni e polveroni un vecchio hard disk dimenticato.
Era il disco di Indymedia Italia, il network di media gestiti collettivamente per “una narrazione radicale ed appassionata della realtà”.

Attenzione, questa cosa non è assolutamente banale: un hard disk dimenticato, con almeno 15 anni di vita sulle spalle (Indymedia Italia chiude i battenti nel 2006), ancora funzionante, con tutto il materiale dentro.

Nella rete l’oblio è dietro l’angolo e assume le forme tipiche di un backup saltato, di un hardware che collassa, di una formattazione eseguita con leggerezza.

Per ovviare, in maniera alquanto parziale, a questo, esiste un progetto chiamato WayBackMachine/WebArchive, una iniziativa noprofit che tenta di fare da archivio storico di quello che passa per il web.

Qui dentro per esempio ho ritrovato una “foto” del sito che avevamo creato insieme a Roberto Kowalski Vignoli e Roberto Kzk Laghi (sì sempre lui), sempre sull’onda dei fatti di Genova e ispirati da Indymedia.

La primissima pagina di InformationGuerrilla.org

InformationGuerrilla.org ebbe vita lunga (grazie a Kowalski che portò avanti sito e newsletter con una dedizione formidabile fino al 2008).

Ad oggi tutto quel materiale è sparito dal web, e l’unica speranza (proposito: chiamare Kowalski e chiederglielo) è che esista un hard disk ancora integro da cui estrarre il poderoso archivio.

Queste considerazioni sulla persistenza dei contenuti in rete paiono forse un pelo anacronistiche: la galassia di blog, iniziative, collettivi in rete è un ricordo del passato (anche se ci sono segnali in controtendenza) e l’invito stesso di Livraghi a costruirsi la propria rete pare essere stato ingoiato dall’algoritmo che sceglie per noi (vedi puntata precedente), ma il fatto stesso di poter ritrovare in Rete alcuni di questi “vetusti” contenuti liberamente accessibili è un atto di resistenza che vale la pena di essere agito.

E se trovate un sito abbandonato, precario, che potrebbe sparire e vi interessa, fateci un pensiero, scaricate HTTRACK e mirrorate. Prima o poi il vostro hard disk potrebbe diventare fondamentale per ricostruire un pezzo di storia dell’internet.

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Dj Morloi consiglia


Atari Teenage Riot – Speed (ma non solo)

Alec Empire e gli Atari Teenage Riot sono la colonna sonora ideale per gli argomenti di questa newsletter. Anarchici, potenti, berlinesi ma globali, indigeribili eppure a rotazione su Mtv. Questo pezzo finirà pure per essere inserito nella colonna sonora di The Fast and the Furious – Tokio drift.

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Master Morloi consiglia


Uno Sguardo nel Buio – V edizione

Ecco, questo invece non c’entra nulla, ma ci sono affezionatissimo: USNB è il decano dei giochi di ruolo tedeschi, il “D&D” teutonico, arrivato negli anni 80 in Italia per le Edizioni EL (che avevano scoperto in quegli anni i LibroGame, pubblicando anche l’indimenticabile Lupo Solitario). Con USNB ho iniziato a giocare a 15 anni e ora ci sto rigiocando grazie alla V edizione tradotta e importata dai ragazzi della Compagnia delle 12 Gemme. Badate, il sistema è complesso, non moderno e alle volte ostico, ma l’ambientazione ha un sapore mitteleuropeo unico, che vi stupirà.

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Saluti, Morloi.