La botteguccia col telefono pubblico
I nostri anni di villeggiatura, tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, non erano funestati dai telefonini e dalla necessità di essere perennemente in contatto con tutti, come se si avesse sempre qualcosa da dire o da far sapere.
Qualche volta, però, del telefono avevamo bisogno, specialmente per mettersi d'accordo coi parenti per eventuali visite: qua tutto bene, si sta freschi (eh sì, all'epoca a 800 metri di altitudine in agosto c'era il fresco), venite a trovarci, allora vi aspettiamo tal giorno.
Poco lontano dalla nostra casetta a due livelli, c'era questo localino buio, praticamente una sorta di spaccio con coloniali, barattoli, merceria, candele, di tutto un po' su scaffalature di ferro, quelle della ferramenta. Si chiamava proprio “la botteguccia”, se non ricordo male; ricordo di sicuro l'oscurità che impregnava il piccolo locale, stretto tra due palazzi sufficientemente alti a evitare che il sole lo lambisse, se non con un fievole riflesso, in ogni ora del giorno. L'illuminazione era affidata a un neon abbastanza indeciso, sembrava un rifugio ipogeo; nell'angolo più buio, protetto da una tendina, un telefono da parete, quelli grigi della SIP che si trovavano anche in parecchie case, anche se quelli da tavolo erano enormemente più diffusi. In quanto casalingo, non accettava gettoni, ma si faceva sentire al passaggio di ogni scatto, con un qualche marchingegno che produceva un suono ben udibile.
Finita la telefonata, passavamo al bancone, e pagavamo per gli scatti consumati. Così, due o tre volte lungo la nostra permanenza, queste telefonate quasi telegrafiche. Ci capitava anche di dover fare la fila, mica eravamo gli unici villeggianti.