La vigilia di Natale di quando ero bambino


Siamo quasi alla fine dell'anno, sono fuori tempo massimo o troppo in anticipo per la sua prossima iterazione, ma ora posso scriverne. Per le festività natalizie andavamo da mia zia, pranzo o cena che fosse, e il mio giorno preferito era quello della vigilia, seguito dall'ultimo dell'anno. Intanto, sono del Sud: non mi pare proprio sia una consuetudine nazionale, ma sotto una certa latitudine c'è il cenone della vigilia. E la preparazione iniziava il pomeriggio, con la preparazione delle anguille, le sfuggevoli anguille.

La casa di mia zia stava nel centro storico, che in molti paesoni brutti del Sud è un modo falso e gentile per riferirsi alla zona più degradata e abbandonata, un agglomerato di case mangiate dall'umidità e dallo sfacelo, inghiottite dal buio, l'unico tipo di casa alla portata dei più poveri. Due piani, giù una stanzetta di pochi metri quadri collegata a un cucinino ancora più stretto e al salone, l'unico locale di una metratura approssimativamente umana. Al piano di sopra si accedeva da una scala ricavata da putrelle di ferro, queste sì solide (probabilmente, se il terremoto del 1980 fosse capitato più vicino, quelle putresse sarebbero state l'unica cosa a salvarsi di quell'isolato marcio). Sotto il triangolo disegnato dalla scala, lavorava mio nonno quando faceva il ciabattino. Sì, in uno spazio ridicolo che oggi forse associamo di più alle immagini di Kowloon, uno spazio risicato anche in altezza ed era un attimo alzarsi e picchiare la testa su una putrella di ferro. Al piano di sopra, la stanza da letto e il bagno.

Mia mamma e mia zia se ne stavano quasi tutto il tempo nel cucinino, iniziando col litigare con le anguille, che erano sempre e comunque vive e istintivamente, naturalmente portate alla sopravvivenza. Era il regno della frittura, c'era anche il baccalà, e tutti quanti dovevano starne fuori e accontentarsi del puzzo del fritto e dello sfrigolio dell'olio.

Era tutto buio, sostanzialmente: la casa era al piano terra di un palazzo tra palazzi, il sole vi faceva capolino soltanto per poco, quel che rifletteva dalle pareti una volta bianche delle mura circostanti. Ogni locale doveva accontentarsi di una lampadina o di un neon, tranne il salone che si meritava addirittura un lampadario. La sensazione complessiva, però, era di quel buio che non si riesce a sconfiggere.

Il riscaldamento... parola grossa, comunque dalla cucina arrivava un certo calore e nello stanzino d'ingresso c'era una stufetta elettrica che faceva il possibile; solitamente, a quelle stufette prima o poi si rompe uno degli elementi riscaldanti e quelle nostre erano sempre così. Probabilmente, in qualche misura ci aiutavano anche le lampadine, le lampadinacce di una volta, quelle che consumavano quanto un forno elettrico e illuminavano quanto un cero votivo. Più avanti, la stufetta venne sostituita dalla stufa a gas col bombolone, che solitamente finiva proprio in quei giorni.

Su quelle stufe, comunque, ci accendevo i fitti-fitti. Si chiamano stelline nel resto d'Italia, nel napoletano stelletelle o, più comunemente, fitti-fitti. Avrete capito di cosa stia parlando, ma so essere ridondante e specifico: quei bastoncini composti da un'anima di filo di ferro immersa in una qualche miscela chimica che, innescato il fuoco, si concretizza nella distribuzione copiosa e gioiosa di scintille nel raggio di una ventina di centimetri, esaurendosi in un rumore caratteristico. Bottigliette di champagne a parte (quelle cosine di plastica col filo che sbuca), era l'unico fuoco d'artificio a cui avessi accesso. Mio cugino, più grande, poteva dilettarsi con una scatolina di miniciccioli da far durare tutto il periodo delle feste, facendoli esplodere nel cortile del palazzo, ma in famiglia non siamo mai stati amanti di questa barbarie. Champagne, fitti-fitti e miniciccioli, basta: inoltre, non è che avessimo soldi in eccesso da bruciare.

Poi c'erano i cartoni animati: più o meno sempre gli stessi titoli: come oggi abbiamo Una poltrona per due, all'epoca c'erano i film di Asterix, dei Puffi e dei robottoni di Go Nagai. Mi faceva impazzire di meraviglia vedere Devilman e Mazinga Z insieme, oppure, Goldrake coi Mazinga, le spalle comiche e gli altri personaggi mischiati e immischiati. Sulle reti private, invece, era consuetudine trasmettere un cartone animato russo, con la principessa delle nevi. Non il giorno della vigilia, probabilmente, ma in quel periodo e mi piaceva guardare anche quello. Insomma: tra le sortite in cucina a spiare cosa bollisse in pentola o friggesse in padella, i robottoni, Asterix che prendeva a sberle i Romani, i Puffi e i fitti-fitti, quel pomeriggio non sembrava finire mai, ma poi finiva, tornava mio zio da lavoro, faceva il macellaio, e ci si metteva a tavola dopo poco.

Il cenone della vigilia è a base di pesce e il primo piatto erano spaghetti con vongole o lupini (vongole se ci sentivamo particolarmente ricchi), poi fritto di anguille e baccalà, frutta secca e dolci. Le varie pietanze erano intervallate/accompagnate dalla classica insalata di rinforzo e dai finocchi, questi “per sgrassare”. L'insalata di rinforzo era, appunto, un'insalata di cavolo bollito, alici salate, olive verdi e nere, cipolline in agrodolce, papaccelle (strisce di peperoni tondeggianti, grossi al massimo quanto un pugno, marinati in aceto, spesso anche piccanti), altri vegetali... si chiama di rinforzo perché, successivamente, ci finivano dentro gli avanzi, come per esempio i pezzetti di baccalà avanzati. Il contenitore dell'insalata di rinforzo andava avanti e indietro dalla vigilia al primo dell'anno. Poi la frutta secca: noci, arachidi, mandorle, nocciole, ceci e semi di zucca tostati. Datteri, fichi bianchi e neri, oggi si trovano solo quelli bianchi. Prugne secche. I dolci, con roccocò, mustaccioli e anginetti. Solitamente li compravamo già fatti, ma mia zia si provava, ogni anno, coi roccocò, sempre con lo stesso risultato: erano duri come la pietra. Li portava in tavolta e lo scambio di battute seguente era sempre lo stesso:

- Ho fatto i roccocò, ma quest'anno, chissà come mai... - ... sono venuti un poco duri.

Era mio padre quello che si occupava di far notare la cosa e, effettivamente, erano buoni per piantare i chiodi. Così mangiavamo quelli comprati altrove, mentre quei pezzi di marmo finivano inzuppati nel latte, nei giorni a seguire, o mangiucchiati dalle dentature più audaci.

Poi c'era la tombolata, e si rideva quando a dare i numeri (letteralmente) era mio zio, che si diceva un gran bevitore, capace di resistere a chissà quanti litri di vino, in realtà era già ubriaco dopo mezzo bicchiere e partivano racconti militareschi di imprese epiche e avventure in posti esotici che neanche Sandokan, quando tutto quello che aveva fatto, e che avrebbe fatto per la vita che gli restava, era andare dalla casa alla macelleria e ritornare. Un bicchiere intero e partivano le canzoni e i balli, ma si faceva il possibile per non arrivare a questi estremi. Il panariello poi passava a mia zia, che ha sempre avuto una vista pessima, solo parzialmente mitigata dagli occhiali spessissimi, ogni numero era un'incognita o una runa da decifrare. Lo stesso numero sembrava uscire più volte e bisognava ricontrollare, quei giri di tombola duravano troppo più del dovuto.

Infine, pandoro o panettone, più frequentemente il primo (c'era sempre qualcuno non mi piacciono i passeri (l'uva passa), i canditi, la glassa è troppo dolce...); li facevamo scaldare davanti alla stufa/stufetta, qualche volta dimenticandoceli pure. Difficilmente si aspettava la mezzanotte, lo spumante lo stappavamo con un certo anticipo. Anche il cenone dell'ultimo si concludeva con un certo anticipo: era meglio non trovarsi in strada nel momento cruciale, perché il resto della popolazione non si limitava a champagne, fitti-fitti e miniciccioli.