Nella cantina a Lettopalena c'era uno skateboard


Per un anno siamo stati in villeggiatura a Lettopalena, un ridente (si dice sempre così) paesino abruzzese in provincia di Chieti, oggi circa 300 abitanti e qualcuno in più, ma non tanti, nei primissimi anni Novanta. Del paesino, però, avrò modo di parlarne qualche altra volta.

Venivamo da tre anni consecutivi di villeggiatura al Matese (San Gregorio – Castello – San Gregorio) e avevamo deciso di cambiare un poco aria, all'epoca si spulciavano le inserzioni su pubblicazioni come Fieracittà e Bric à Brac; non so che fine abbiano fatto, il primo avrà chiuso i battenti di sicuro. Troviamo questa inserzione, c'eravamo con i tempi e le date e anche il prezzo sembrava interessate. Quanto pagavamo per quelle casette? Solitamente, tra 350.000 e 450.000 lire, per un mese o una ventina di giorni. La ventina di giorni sarebbero, in realtà, nominalmente due settimane, ma i proprietari ci dicevano puntualmente che non ci sarebbero stati problemi a restare qualche giorno in più del dovuto.

E andiamo in Abruzzo, troviamo il paesino, raggiungiamo la casa a suon di indicazioni dei passanti. Due livelli e un'ampia cantina, un lato della casa affacciava direttamente su uno dei monti della Maiella, 2.500 metri di altezza circa, una cosa che non smetterà mai di stupire gente che, come noi, veniva dal livello del mare. Ogni mattina era una meraviglia.

Ora, la cosa che mi meraviglia abbastanza di queste situazioni è la fiducia che certe persone ripongono negli estranei, gente che viene da un'altra regione, impossibile da rintracciare: li avevamo contattati sul telefono fisso, all'epoca telefono e basta, non è che ci fossero alternative, e tanto bastava. Si erano fatti trovare in casa il giorno dell'appuntamento e quello fu il nostro unico contatto visivo, fisico.

Le case da villeggiatura, solitamente, sono semivuote, arredate il minimo possibile, con sedie, tavoli, qualche mobile e basta: questa no, era una vera e propria seconda casa, un posto dove poter abitare tranquillamente. Mobili pieni di cose, elettrodomestici, scaffali e mensole coi libri (ne approfittai per leggere, un paio di volte, Harold e Moude), tutto quello che si troverebbe in una casa di dimensioni generosi. E sotto c'era la cantina, l'ho già detto. Piena di cose anch'essa, con conserve, damigiane di vino e olio, una videocamera Super 8. Tutta roba, come quella in casa, che avremmo potuto prendere in prestito a tempo indefinito, cosa che, ovviamente, non facemmo.

Praticamente, questa brava gente, onesta e ingenua (nel senso più benevolo del termine, se ci fate caso le persone così e quelle buone in generale pensano che anche gli altri si comportino come loro, a differenza delle carogne che... pensano che anche gli altri siano come loro), si era fatta vedere per lasciarci le chiavi e farsi pagare quanto pattuito telefonicamente, per poi scomparire per sempre dalla nostra vita. Le chiavi le avremmo lasciate al vicino quando avremmo deciso di lasciare la casa, loro non sarebbero tornati a breve.

Io, invece, torno alla cantina e a qualcosa in essa contenuto, il titolo lo annunciava: uno skateboard. Era di quelli col corpo in plastica, piccolo e abbastanza stretto da non poterci poggiare del tutto i piedi sopra senza lasciarli sporgere ed era la cosa che mi pareva più interessante tra quelle presenti. Assieme alla Super 8 che, però, non aveva la pellicola su cui registrare e poi, comunque, non avrei avuto modo di sviluppare e vedere. La casa si trovava ai margini di un piazzale di forma approssimativamente ovale, usato come parcheggio, da cui partivano alcune stradine che portavano a una strada più esterna, diciamo concentrica. Queste stradine erano lunghe una decina di metri al massimo, ma in discesa. Una discesa particolarmente ripida.

All'epoca, sullo skateboard ci sapevo andare: non sapevo fare nessun trick, ma ci stavo in equilibrio, potevo andarci in giro. Me la cavavo meglio coi pattini, non mi spiacerebbe reimparare ad andarci. Qual è la prima da fare, per uno che su uno skateboard sa giusto starci in equilibrio, spingersi e girare un po' qua e un po' là? Ovvio: prendere la rincorsa sul piazzale e lanciarsi lungo la più ripida di quelle discese, perché queste sono le cose che fanno i cuccioli di animali, da che mondo è mondo: le cose sceme e pericolose, non è mica un'invenzione di questi tempi moderni. Lo skateboard sguscia via come impazzito, tra il realizzare la cosa e battere pesantissimamente il coccige sull'asfalto è questione di centesimi di secondo per un cronometro, un tutt'uno per la concezione umana del tempo, sicuramente meno scientifica. Se gli alberi della Maiella fossero stati imbiancati, avremmo potuto vedere la neve venir giù dai loro rami, in risposta a quell'urto che si premurò di accompagnarmi, sotto forma di dolore sordo e persistente, per qualche giorno. Era un corpo ancora giovane, il mio, quindi pronto a reagire. Oggi avrebbero dovuto raccogliermi da terra, quindi non lo rifarei. E neanche quella volta lo rifeci, ma passato il dolore, eccomi di nuovo sullo skateboard azzurro. Solo per scorrazzare nel piazzale, però: quell'esperienza mi aveva insegnato qualcosa.