Maison Ikkoku, l'anime: voto 100 su 10
Sì, ci ho messo del tempo a recuperare la serie. 30 e più anni fa l’avevo mancata clamorosamente. Mi sentivo ancora troppo duro, per badare a questi due che si sposeranno, perché è chiaro sin dalla prima puntata, forse dalla sigla. La prima sigla è bellissima, a differenza di tutte quelle di apertura di Lamù: non penso ce ne sia una che mi piaccia davvero. Non me ne vogliano i puristi (o me ne vogliano, non cambia), ma la sigla italiana è perfetta
Maison Ikkoku è un seinen, intanto: potrà sfuggire a qualcuno, era sfuggito a me di sicuro, fin quando non ho iniziato a vederlo. Ha la struttura superficiale di un’ottima commedia leggera, di una comicità difficilmente sopra le righe, con momenti di tristezza e emozioni che preferiremmo non provare. Scavando giusto un pochettino, si rivela una serie assolutamente ancorata agli anni della sua pubblicazione in Giappone, negli anni intermedi tra la fine del boom economico e l’inizio della crisi dei ‘90.
Sono tutti molto poveri, intanto, per gli standard attuali. Non per i più vecchietti, tra i quali ormai mi ci inserisco senza problemi: parte di quella povertà l’ho vissuta anch’io, nei primi temi della mia esistenza neanche avevamo un frigorifero. I chiassosi inquilini/protagonisti vivono in stanze spoglie, possedendo solo il necessario alla sopravvivenza. I servizi igienici sono in comune, uno per piano, per lavarsi ci sono i bagni pubblici. Godai, studente scarsamente finanziato dalla famiglia, mangia quel che può e quando può. Gli altri inquilini non se la passano tanto meglio, arrivando anzi a depredarlo, spesso, dei suoi quasi inesistenti averi. Solo il sakè sembra non mancare mai: dubito sia solo una trovata narrativa, penso sia una pura e semplice cronaca dell’alcolismo. Sakè, pachinko.
Il cast è eccezionale; alcuni personaggi possono sembrare abbastanza monolitici, ossessivi, snervanti. Come la gente che incontriamo davvero, come possiamo esserlo noi.
Matrimoni combinati, raccomandazioni per entrare nei posti di lavoro che contano, pregiudizi e difficoltà delle donne nella società, le difficoltà del precariato, il terrore di un futuro buio, l’impossibilità di una famiglia. Tutto vero.
In Maison Ikkoku, poi, nulla è subito, tutto deve affrontare un processo di maturazione, affinamento. Si deve lottare. Il lieto fine, però, è per tutti. Bene così, poco realistico se vogliamo, ma se lo sono meritati. Tutti. Impariamo a gioire per la felicità altrui.
Non so davvero cos’altro aggiungere. Davvero è valsa la pena aspettare tanto. Mi sento un po’ più ricco dentro. Sento che c’è ancora qualcosa di bello da scoprire.