Zio Peppino, ambasciatore del catch nel Meridione


Siamo nel Meridione, in un'importante città, che ho amato come Woody Allen ama New York. Ho smesso di farlo, prima che potesse trasformarsi in necrofilia, perché quella città è morta. Le case, i palazzi, i monumenti sono ancora in piedi, le ossa reggono ancora: è il suo cuore che non batte più, il tanto celebrato, sopravvalutato cuore dei suoi abitanti. Loro sono finiti da un pezzo; nulla più li distingue da una qualsiasi comunità arida, tenuta in piedi dall'odio e dalla necessità di addossare la propria inciviltà e i propri fallimenti a chi sta peggio: in qualche modo, qualcuno che sta peggio lo si trova sempre. Lasciamo stare questi morti viventi e passiamo ai morti veri, allo zio Peppino, “la buonanima”, come aggiungono i vecchi ogniqualvolta si parli di chi non c'è più.

Zio Peppino viveva, con la moglie, in una casa poggiata, letteralmente, sulle pareti di una chiesa abbandonata, in uno dei quartieri storicamente più esecrati di quella città; di quella casa parleremo tra poco, dobbiamo prima occuparci di come accedervi. C'era una specie di tunnel in salita, lastricato di mattoni il cui colore non penso sia stato mai identificato da essere vivente: era tutto buio, una sequenza di decine di gradini perché la casa iniziava praticamente dove iniziava la cupola della chiesa. In cima a questo tunnel, un neon singhiozzante illuminava a tratti la porta. Varcata quella, eccoci in casa: la casa era letteralmente in bianco e nero, la ricordo esattamente così; unico accenno di colore, il rosso dell'etichetta di una cola “sfiatata” (messa sistematicamente a sgasare, perché quelle bollicine in casa non erano gradite) in cucina. L'altra, unica bevanda disponibile, era lo zucchero con qualche goccio di caffè dentro. Quando eravamo ospiti, l'unica salvezza era nel rifiutare qualsiasi liquido ci venisse offerto.

Ora, prima di parlare dei singoli ambienti, sappiate che quell'abitazione non obbediva a geometrie euclidee, era un concetto escheriano: locali uno dentro l'altro, coi soffitti di diverse altezze. La cucina, che ha già fatto capolino in questa storia, era una grotta dalle pareti nude, non rifinite, rese verticali grossolanamente, probabilmente a picconate. Un mobiletto pensile, una specie di tavolino, un fornelletto a gas di quelli che chiamavamo “bibigas”, questo era l'arredamento; agli antipodi della coca sfiatata, poggiata sul tavolino, solo una tendina a nascondere lavabo e gabinetto. Di fronte alla cucina, salendo tre scalini, si trovava una specie di spazio trapezoidale, con una finestra fissa su una vista di cui, probabilmente, nessuno ha mai goduto. Poi tante piante, anch'esse in bianco e nero come tutto il resto della casa, e una Singer, perché la moglie dello zio Peppino faceva la sarta. Cucina/bagno e trapezio erano divisi da un quadrato di pavimento di due metri per due, oltrepassato il quale iniziava il dominio di zio Peppino.

Era un locale che faceva paura. L'unica luce arrivava dall'ingresso, la fine dello stanzone finiva nel nero, nell'abisso, non si vedevano le pareti. Il soffitto era altissimo, almeno dieci metri: non sto scherzando, ricordate la storia della casa appoggiata alla chiesa? Bene, il soffitto di quella stanza era probabilmente allineato alla cima della cupola. Un lampadario, impiccato a una catena di una lunghezza mai vista in un'abitazione comune, finiva quasi col toccare il tavolo, un grosso tavolo, da dieci posti almeno. Alla sinistra del tavolo, il letto matrimoniale e, a destra di questo, un mobiletto sovrastato da una folla di santi in cupole di vetro, da quelli piccini da una decina di centimetri a certi colossi, praticamente in scala 1:3. Tutto in bianco e nero, compreso lo zio.

Quando entravamo, generalmente i lottatori non erano ancora sul ring: zio Peppino stava agli antipodi del televisore, a capotavola: ci accoglieva, saluti di rito, solite chiacchiere di circostanza, poi si faceva l'ora del catch. Sì, era ancora catch, sarebbe diventato wrestling e conosciuto come tale solo anni dopo. Lo zio deve essere stato, indubbiamente, il primo spettatore di quegli incontri, trasmessi da oscure reti private. Divorava ogni incontro, conosceva i lottatori, ci spiegava le mosse e le tecniche, la distanza dal televisore si riduceva all'aumentare dell'intensità dello scontro: zio Peppino scalava di posto, una sedia alla volta, fino a finire con la faccia nel vetro, la sua cronaca sovrastava quella dei cronisti, non stava guardando un incontro, era lì, su quel ring, stava combattendo.

Divenne famoso nel parentado, contagiò tutti. Il sabato andavamo a vedere il catch da zio Peppino, nonostante il tunnel scavato tra i mattoni, la coca sfiatata e il caffè nello zucchero.

Il catch iniziò a diffondersi, passò su reti maggiori, si trasformò in wrestling e lo zio ancora lì, con la faccia appiccicata al televisore solo perché non poteva andare oltre, teletrasportandosi fisicamente. Poi morì lui, morì sua moglie; quella casa impossibile tornò nelle mani della curia.

Sono sicuro che non abbia messo una statua di Antonio Inoki tra le cupole di vetro, con san Gennaro e la Madonna, solo perché non sia mai riuscito a procurarsene una.