A proposito di linguaggio, immaginario e prassi concreta

Questo articolo è una prosecuzione ideale di A proposito di guru laici, autenticità e utopia; raccomando caldamente di recuperarsi la “scorsa puntata”.

Le ferie con Unicorn Overlord

Sono le vacanze di Natale, e sei attaccato ai videogiochi. C'è un impero dispotico che ha sottomesso tutto il mondo conosciuto, grazie a una magia nera che fa il lavaggio del cervello agli oppositori e li riduce a docili servi del regime. C'è un legittimo principe dai capelli blu a capo di una piccola banda di guerrieri lealisti, con in pugno un'arma segreta: un anello sacro, una reliquia del culto del Padre Celeste, la cui carica mistica può sciogliere l'ipnosi dell'imperatore malvagio. Ci sono piccoli gruppi di insorti irriducibili sparsi per tutto il mondo, dalla foresta lussureggiante degli Elfi alle tundre gelate dei Feridi, tutti messi all'angolo dalla repressione imperiale... tutti perfettamente capaci di riprendersi e vincere, se al momento giusto il nobile principe arriverà a colpire il nemico dove fa più male e a ribaltare le sorti della battaglia.

Sono le vacanze di Natale e stai liberando dalla tirannide un mondo di codice dove sono solo i soldati imperiali a morire, i ribelli si riprendono sempre, e dove l'interfaccia ti preavvisa prima chi prevarrà in uno scontro fra due battaglioni. E dove ci sono abbastanza risorse naturali, pronte alla raccolta, da rimettere in sesto l'economia di tutti i borghi che l'impero ha devastato e ultratassato, assicurando un benessere pan-continentale attraverso un'economia pre-industriale.

Fin qui va tutto bene...

In casa tua.

Fuori di casa tua, nel mondo di atomi, i più ricchi e potenti Stati del mondo sono tutti già in mano a despoti guerrafondai, in ciascun Paese la repressione arresta sfratta e ammazza, e non c'è nessun Padre Celeste a donarci il miracolo salvifico. A ben guardare, non abbiamo nemmeno il principe carismatico benedetto dal Signore Iddio che possa guidare la guerra di liberazione: abbiamo i vari tiranni pronti a sganciarsi le bombe atomiche l'uno contro l'altro. E la nostra economia potrebbe robotizzarsi e assicurare benessere diffuso, invece ci sta trascinando verso l'inabitabilità del pianeta.

Però fin qui tutto bene...

Fra il manganello e la cattedra

Qui nel mondo di atomi, sono cinque mesi che qui in Italia i nostri simpatici despoti mussoliniani demoliscono quelle che, a loro giudizio, sono le cittadelle dei ribelli facinorosi: a luglio, qui a Milano, il centro sociale Leoncavallo è stato espugnato a sorpresa mentre la piazzaforte era bella che vuota (e molti sarcastici complimenti ai suoi difensori assenteisti); pochi giorni fa, a Torino, l'Askatasuna è caduto sotto un assalto di proporzioni bibliche, e in effetti quello spiegamento di armati è servito a ricacciare indietro una tentata controffensiva. Da bravo sinistronzo abitante delle metropoli, sono colpevolmente ignorante di cosa accade in provincia, ma il passaparola delle staffette parla di nubi addensate su tutto il Triveneto, di tempesta lungo il medio Adriatico dalle Marche all'Abruzzo, di una morsa che si stringe nel cuore di Roma attorno al Forte Prenestino; ma se tutte le strade portano ancora a Roma, e se il Forte è il centro sociale più grande d'Europa, il sacco del Forte segnerebbe la disfatta di tutto quel mondo che crede a un'alternativa rispetto alle gerarchie finalizzate al lucro, un'alternativa fatta di autogestione e condivisione.

Ma esiste davvero, quel mondo alternativo?

No raga, perché ora vi invito a dare un occhio alle valutazioni della cosa (per altro, proficuamente discordanti sul alcuni punti) che propongono Valerio Mattioli su «Rivista Studio» e Christian Raimo su «Jacobin Italia» (e grazie all'Archivio Grafton9 per la segnalazione degli articoli!).

Letto? Bene

La percepite anche voi, questa patina di distanza e astrazione nell'analisi, questo mantenere il discorso su un piano teoretico e cerebrale, tutto a parlare di “laboratori culturali”, “glitch nella matrice urbana”, “desiderio”, “dispositivo immaginifico”... e autoproduzione editoriale?
Insomma, a sentire Mattioli e Raimo, i centri sociali sarebbero stati un'esperienza cruciale nel panorama italiano perché hanno fatto da volano alle avanguardie sia musicali sia letterarie di fine millennio: le posse rap, i gruppi punk, la nicchia di sperimentazione narrativa da cui è uscito il New Italian Epic...

E poi quasi basta.

Con tutto il rispetto per Raimo e Mattioli, tanti paroloni sofisticati e filosofeggianti per blaterare tanto senza dire nulla.

Perché l'elaborazione di un'alternativa non deriva solo dalla sala concerti e dallo spazio stamperia, Sacripante!

Il desiderio che muove le masse

Da troppi anni, c'è uno spettro che avvelena quella manciata di persone convinte di poter tenere in piedi una parvenza di attività politica progressista, in questo paese che precipita nel neofascismo. È lo spettro dell'intellettualismo vuoto e borioso, figlio di quella pedagogia borghese della lingua italiana per cui non si “fanno i compiti” bensì si “eseguono i compiti”, il fenomeno tal dei tali non è “cultura giovanile” bensì “tipico dei ragazzi”, non esistono i “ruoli di genere nella cultura” bensì “la figura della donna nella cultura” (evviva l'oggettificazione per cui la donna non agisce mai, bensì è analizzata dall'uomo)... e soprattutto, non esiste la “rilevanza immediata e personale” di un tema, esiste l'“attualità” di quel tema: asettica, emotivamente piatta, ovviamente orientata in partenza a mantenere eternamente “attuale” ciò che la cultura del padronato ha elevato a canone (La poesia lirica cinquecentesca sarebbe ancora attuale? Sì e io allora ho una vagina...).

«Ma cretinodicrescenzago, tu ti stai lamentando della retorica con cui la cultura di regime anestetizza preventivamente tutti i temi caldi! Noi siamo l'opposizione democratica, noi diciamo le cose come sono!»

Oh per favore, caru compagnu, non diciamoci bugie. Davvero non parlate mai in finto compagnese settantasettino, infilando in ogni dove la “soddisfazione dei bisogni materiali” o “l'innalzameno del livello di scontro” oppure il “salto di qualità della repressione” solo perché suonano bene? E davvero non parlate mai in finto compagnese femminista-finocchio, spargendo qua e là come prezzemolo il “potenziale trasformativo” o lo “sguardo dettato dal posizionamento” oppure le “alleanze fra i margini”? E davvero non fate mai anche voi come Raimo e Mattioli, pappagallando la santa trinità dei “comunisti critici” Michel Foucault-Gilles Deleuze-Felix Guattari, più una spruzzatina della buonanima di Primo Moroni?

Ammettetelo, ammettiamolo. Lo facciamo tuttu: parliamo in un accademicese che non capiamo davvero ma che ci dà un tono, ci fa sembrare informati e profonde e capaci di analisi elaborata, capaci di decostruire (ah, altra bella parolona) il sistema del padronato fin nei suoi atomi costitutivi. Ma è tutta una farsa, come i processi finti di Forum: l'accademicese è un comodo strumento per girare attorno al segreto di Pulcinella, all'elefante in mezzo alla stanza.

Intermezzo: in lingua inglese elephant in the room (“elefante nella stanza”) è la metafora equivalente al nostro “segreto di Pulcinella”. Da quando l'ho scoperto, voglio sceneggiare uno sketch comico in cui Pulcinella tenta invano di nascondere un elefante in una stanza. Ahahaha che genio che sono...

Dall'azione al pensiero e di ritorno all'azione

Nell'ultimo lustro, lo sappiamo, è esploso il dibattito pubblico sul linguaggio inclusivo, e ci sono state costruite sopra delle piccole fragili carriere; personalmente, trovo che tale dibattito incapsuli perfettamente il peccato originale accademista della sinistra italiana, tanto più che, mi sembra, nessunu si sta degnando di sbloccare l'empasse grazie al percorso tracciato dalla compagna Brigitte Vasallo (la mia filosofa vivente preferita; ecco, l'ho detto) nel suo splendido Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe. Ci spertichiamo a mappare tutte le forme di linguaggio irrispettoso nella speranza che stigmatizzarle spinga le persone a “parlare pulito” e, a catena, ad “agire pulito”, ma non ci poniamo mai il problema che la lingua è uno strumento, e come tutti gli strumenti può essere monopolizzata o quasi dai padroni, ma se i ceti subalterni creano una propria versione di uno strumento, essa viene svilita e confiscata proprio perché non faccia concorrenza alla versione padronale. Ora, chi ha accesso agli strumenti del padrone e si professa progressista ha gioco estremamente facile a confondere i confini fra povertà materiale e culturale ed eguagliare l'ignoranza col fascismo, marchiando di un peccato originale inespiabile chi certi strumenti concettuali non ce li ha, perché è già tanto se arriva a fine mese con un lavoro di fatica: in un certo senso l'ho esperito io stesso, con amara ironia, alla presentazione milanese di Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe, allorché il pubblico che capiva il Castigliano dell'autrice si metteva sistematicamente a ridere e applaudire sopra la traduzione in Italiano a beneficio degli ignoranti come me.

Dove voglio arrivare, con questa filippica? Alla mia convinzione che l'analisi di Vasallo sia il controincantesimo necessario per spezzare quel sortilegio velenoso che rincoglionisce il progressismo italiano: se il linguaggio è uno strumento, e un linguaggio democratico deve essere inclusivo, la comunicazione deve demolire tutti i livelli intermedi di astrazione e mistificazione che confondono le acque e allontanano il pensiero dal mondo degli atomi. La comunicazione politicamente schierata deve smetterla di procedere per goffe citazioni scolastiche da un canone di teoria filosofica che tuttu fingono di conoscere ma quasi nessunu ha letto davvero: deve farsi strumento di emancipazione con cui la singola persona subalterna possa pensare e descrivere sé stessa e la sua condizione, verbalizzare i propri bisogni concreti (materiali o spirituali che siano, differenza non ve n'è), e progettare una prassi trasformativa con cui migliorare il proprio vivere.
E questa che sto formulando io non è la fusione atomica, eh: è solo la sintesi di ciò che ho imparato leggendomi da cima a fondo Pedagogia degli oppressi del compagno Paulo Freire (un classico sessantottino terzomondista), e facendo amicizia con vecchi militanti di Avanguardia Operaia che in gioventù si sono sporcati le mani e spaccati le ossa a fare scontri di piazza, contrastare lo spaccio di eroina, e occupare spazi abbandonati per restituirli alla comunità.

E qui torniamo al mio punto di partenza.

Le vere geografie del desiderio

Non chiedermi chi è stato il primo, non chiedermi come si fa, non chiedermi chi erano i Beatles: chiedi chi era Davide Dax! Chiedilo a chi gli è restato vicino a chi ora è qua nel nome di Dax. Gridalo forte a chi non ha capito cosa vuol dire davvero antifa!

Sono le barre del rapper Aban in memoria di Davide “Dax” Cesare, militante del centro sociale milanese ORSO, assassinato da neofascisti il 16 marzo 2003. Qui in Lombardia, i graffiti “Dax odia ancora” sono una presenza fissa e rassicurante, e un punto di ingresso alla militanza politica per tantu fra noi: lo sono stati per me, che mi trasferii a Milano giusto in tempo per il ventennale della morte di Dax, e la sera del 16 marzo 2023 mi recai lì, sotto la lapide in memoria di Davide, all'angolo fra via Brioschi e via Zamenhof, tutto tremante e intimorito davanti a quel mondo nuovo e sconosciuto, quella sottocultura dell'antagonismo che conoscevo solo dai fumetti di Zerocalcare... finché non abbiamo guardato il documentario sulla vita e il ricordo di Davide, e poi è partito il corteo, e il sound system del furgone ha sparato a tutto volume le barre di Aban. E allora ho capito di essere a casa.

Ad accogliermi nella sinistra di movimento non sono state le elucubrazioni professorali e decontestualizzate sul desiderio, il prisma intersezionale, e la declinazione femminile dei sostantivi: è stato il peana funebre per un camionista delle case popolari di Rozzano che si faceva il culo quadro per mantenere la figliola (quasi mia coetanea) e tenere in piedi uno spazio sociale, e ci è stato ammazzato a coltellate a ventisei anni. Ma, come rappa Aban, la comunità di Davide ha “trasformato il dolore in azione”, a partire dai suoi genitori Arcangelo e Rosa, e anche se l'ORSO è stato sgomberato, tuttavia in via Gola sopravvive il quadrilatero delle case occupate, con la sua vertenza perpetua per ottenere la sanatoria, e il volto fiero di Dax che campeggia sul muro all'angolo con via Pichi; poco lontano, sopravvive anche il Cox18, con l'archivio storico di tutta la stampa autoprodotta che il movimento milanese (e non solo) ha accumulato nei decenni e che la biblioteca nazionale di Firenze di sicuro non ha mai catalogato. Un bel po' più a nordovest, c'è lo Spazio Micene, il luogo di ritrovo e coordinamento per chi abita le case popolari del quartiere di San Siro, quella comunità che ieri pianse l'omicidio di Giuseppe Pinelli e ora protegge dalla repressione i suoi figli che parlano un po' Italiano e un po' Egiziano, che hanno il cuore un po' ai piedi dello stadio Giuseppe Meazza e un po' nelle campagne fra il Nilo e il Mediterraneo. Si va tutta a Est, e si raggiunge il SOCS, un seminterrato del plesso di scienze naturali dell'Università Statale, un'aula studio con mensa autogestita che ospita seminari e hacklab, unico piccolo grande risultato del movimento delle Tende in Piazza del 2023 (essendo che la questura li sgomberò dal cinema abbandonato di viale Abruzzi, ma dettagli).

E questi sono solo alcuni, degli spazi sociali variegati e litigiosi sparsi per questa grande metropoli che è Milano. Ciascuno con i suoi limiti, le sue storie, i suoi progetti, il suo sogno di rendere la vita più bella a chi abita il suo territorio. E come Milano ha i suoi, sono certo che ogni piccolo spazio ancora attivo in ogni centro di provincia abbia le sue storie, i suoi progetti, i suoi sogni.

Questi sono i centri sociali, questa è la sinstra di movimento: non paroloni sui libri di filosofia, ma progetti collettivi per migliorare la vita, per dare una risposta a bisogni reali e accrescere un po' il benessere di tutti. È con il progetto collettivo che le famiglie senza tetto rioccupano case abbandonate lasciate a marcire, che chi non spiccica una parola di Italiano impara quantomeno le basi grazie ai corsi gratuiti, che le donne bisognose di supporto hanno accesso a consultorie autogestite e gruppi di sport popolare che fra le righe insegnano anche l'autodifesa.

Non è coi paroloni, che bisogna raccontare questi sogni: è con il linguaggio della leggenda urbana, della poesia rappata, della mitologia moderna.

I sogni si raccontano col cuore.

Olio di gomito, e immaginario di lotta

C'è un motivo, se da cinquant'anni a questa parte vanno forte le storie high fantasy che scopiazzano male quel pezzo da novanta che è Il signore degli anelli: perché è rassicurante sognare mondi in cui la Divinità designa chiaramente un Cristo che possa dissipare il Male incarnato, e gli fornisce pure gli strumenti infallibili per riuscirci. A quel punto, ovvio che ci accodiamo tuttu al carro del vincitore, per guadagnarci l'accesso al nuovo Eden in terra.

Ma questa teologia è una semplificazione consumista, non è la vera visione cattolica del prof. Tolkien, e non è certo l'unica teologia possibile. Ci sono altre storie mitiche, con cui dare forma alla nostra visione del mondo atomico e orientare di conseguenza il nostro agire. La compagna Ursula Kroeber Le Guin ha raccontato ne I reietti dell'altro pianeta una società anarchica in dialettica con un blocco capitalista e uno sovietista, e il suo romanzo, per me, è stato più educativo di mille ore di ciance con anarchici viventi che venerano in modo masturbatorio il pensiero di Errico Maltatesta. Zerocalcare sono quindici anni che si batte con carta e inchiostro per rappresentare l'antagonismo di sinistra come una scelta nobile e gratificante, ed è anche grazie a lui che abbiamo idea, qui in Europa, di ciò che sta facendo il movimento libertario curdo (e ormai non più solo curdo) per costruire un'utopia fra i monti Zagros e il fiume Eufrate. Il defunto Nanni Balestrini si sarà anche adagiato su sé stesso, ma intanto Vogliamo tutto ci racconta in presa diretta le lotte sindacali auto-organizzate della Fiat di Torino nel '69... e a leggerlo, ti dici che avresti voluto essere lì con gli operai insorti, nella battaglia di corso Traiano. E ben prima di Mattioli e Raimo, una difesa dei centri sociali c'è in Al sole come i gatti di Marta Baroni, alla quale sarò per sempre debitore, perché parlando della sua Roma mi ha insegnato cosa vuol dire amare un isolato, un quartiere, una città... È grazie a lei se ora amo la mia via, la mia Affori, la mia Milano.

I compagni di Dax hanno scritto sulla sua lapide che:

[...] Contro la rassegnazione pensare l'impensabile! Contro la paura imparare il coraggio! Cospirare vuol dire respirare insieme. [...]

Pensare l'impensabile, a casa mia, si chiama pensare il fantastico: si chiama scrivere fantascienza, fantasy, horror, realismo magico. Si chiama non cedere all'obbligo eurocentrico scientista di pensare il mondo solo in termini materialisti, e liberare un pensiero spirituale, se non (eresia!) religioso. Pensare l'impensabile è prendere il mondo atomico per come lo esperiamo, e immaginarsi un di più, un'eccedenza, un'anomalia. Un fuori fase che ci permette di intuire un'altra prospettiva. E la buona letteratura fantastica parte dalle eccedenze che la comunità avverte ma non verbalizza, le porta alla luce, e innesca il ragionamento collettivo su cosa fare, di quelle eccedenze. È la chiave di volta dell'afrofuturimo di Octavia Butler, Samuel “Chip” Delany e Charles Saunders. È una possibile sfaccettatura della resistenza palestinese al colonialismo sionista. È un pilastro della sopravvivenza delle persone finocchie come me; chiedetelo alla compagna Filomena Sottile.

Poul Anderson fu uno dei maggiori autori statunitensi di fantascienza in quella generazione che vinse la Seconda Guerra Mondiale e reputava la NATO una forza del bene, destinata a sconfiggere la barbarie sovietica e portare l'umanità verso un futuro di benessere tecnocratico. Nel suo racconto “Gypsy” (mi risulta inedito, in Italiano), del Cinquanta-qualcosa, il giovane Anderson si scatena in un immaginario utopico, a pensare l'impensabile: un futuro neanche troppo distante in cui gli esseri umani potranno scegliere se colonizzare pianeti ecologicamente simili alla Terra, ma privi di vita intelligente, o viaggiare da nomadi fra i sistemi stellari, per il gusto di esplorare lo spazio aperto e conoscere altre specie senzienti. Questa è la costruzione di una prospettiva mitico, di un sogno cui tendere, e questo immaginario, al tempo, dava forma alla classe intellettuale statunitense, quella grazie alla quale siamo arrivatu al computer in ogni casa. Poi il vento dell'immaginario è mutato, e ora viviamo nella peggiore delle distopie che aveva immaginato la generazione del cyberpunk.

Compagnu e compagne e compagni, c'è poco da fare. Se vogliamo invertire il vento, dobbiamo scendere dal piedistallo fatto di libroni di filosofia che nemmeno capiamo, e farci umili e laboriosu: dobbiamo parlare come mangiamo per capire i nostri bisogni reali, sporcarci le mani assieme per soddisfare assieme quei bisogni, e sognare assieme un'utopia in cui stiamo meglio... e raccontare quell'utopia sì da renderla accattivante, attraente, bella.

Se sapremo raccontare con onestà quell'utopia, e se costruiremo con sincerità i nostri sogni strada per strada e casa per casa, forse ci sarà ancora una possibilità.

Forza amicu, cospiriamo assieme.