Ormai è troppo tardi, quindi agite le nostre storie!

Suppergiù 6 anni fa, nella primavera del 2019, venne pubblicata su Nintendo Switch la conversione rimasterizzata di Final Fantasy X, originariamente uscito per PlayStation 2 nel lontano 2001. Il mio partner di allora era ed è un grande estimatore di tutto ciò che è videogioco di ruolo giapponese, mi invitò caldamente a procurarmi il gioco e farne il mio primo Final Fantasy, e io seguii il consiglio. Avviai il software a mente sgombra e senza aspettative, e fui accolto da questo filmato introduttivo.

Fra lo struggimento del sottofondo di pianoforte, la malinconia dei personaggi a bivacco in mezzo alle macerie, e l'unica linea di dialogo fuori campo al termine della clip, questo prologo incapsula egregiamente il nucleo tematico centrale che avrei esperito nelle successive ore di gioco: una storia di miseria e lutto, di flebili speranze, di rivolta contro la tradizione e l'aspettativa, di conoscenze perdute e recuperate dagli interstizi, di sguardi estranei e stranieri che proprio in quanto tali riescono a proclamare che il re è nudo, di un'epoca che finisce per lasciare spazio a un futuro gravido di incertezza. E tutto ciò sta già in quella battuta solitaria al termine della cinematica:

Listen to my story. This...may be our last chance.

Di sicuro, FF X è un'opera meno apertamente eversiva di quanto sarebbe stato Persona 5 nel 2016, ma era decisamente schierata in senso iconoclasta e libertario (e nel suo piccolo anche antirazzista), e non fu un caso se un annetto dopo, nei miei primissimi giorni da insegnante durante la DAD, feci analizzare da una classe proprio questa stessa cinematica, come caso studio di ritmo narrativo.

Saltiamo avanti di 4 anni, al momento in cui nel mondo primario il re si è denudato senza che alcuno osasse stupirsi: il momento in cui il regime sionista ha avviato in via definitiva il genocidio del popolo palestinese gazawo, protetto e foraggiato da questa schifo che chiamiamo Occidente democratico. In quei giorni dell'autunno 2023 io stavo aspettando con gioia che una compagnia di attoru gazawu giungesse in Italia grazie al supporto dell'APS Scighera (realtà davvero virtuosa a Milano Est), e già nei primi giorni di massacro nella Striscia è giunta la notizia che uno degli attori, Abraham Saidam, era stato ucciso dalle bombe israeliane; pochi giorni dopo, il mio coinquilino libanese ci ha informati che la sua amica giornalista Christina Assi era stata gravemente mutilata dal fuoco israeliano deliberato contro la sua troupe, che esibiva i suoi pass stampa ben al di là del confine nazionale. Già allora, per la prima volta nella mia vita di bianco benestante nel Nord globale, ho avuto la decenza di capire che queste stragi erano anche le mie stragi, che è doveroso sputare sulla “bandiera bianca e azzurra con la stella, perché là sotto c'è sepolta mia sorella” (parafrasando i Malasuerte Fi Sud, che lo dicevano già nel '21), e ho composto una lunga poesia in solidarietà alla Palestina resistente e a chi le è solidale. Non l'ho mai pubblicata, né credo oserò mai farlo, perché la fiammella di ottimismo nella strofa finale mi sembra trionfia e buonista, dopo due anni di strage e di rapina nell'impunità generale. E soprattutto, credo che nessun verso di supporto proveniente da una bocca bianca possa valere una lettera dell'ultima poesia del professor Rifaʿat al-ʿAriʿīr, ucciso dai macellai sionisti non molti giorni dopo Abraham Saidam:

If I must die, you must live to tell my story, to sell my things to buy a piece of cloth and some strings, (make it white with a long tail) so that a child, somewhere in Gaza while looking heaven in the eye awaiting his dad who left in a blaze— and bid no one farewell not even to his flesh not even to himself— sees the kite, my kite you made, flying up above and thinks for a moment an angel is there bringing back love If I must die let it bring hope let it be a tale.

L'arte mi (ci) aveva preparato alla vita, e davanti a vite indigene spezzate dallo stragismo fascista, in quel momento, sapevamo solo ascoltare le loro storie postume, quando ormai era troppo tardi.

Saltiamo avanti ancora di 2 anni: la soluzione finale in Palestina procede implacabile come lo fu quella contro i popoli indigeni del Nord America, fra le mattanze nella Striscia di Gaza e lo stato di polizia in Cisgiordania, il tempo è sempre più scarso, e sempre meno voci sopravvivono per difendere sé stesse. Ma forse qualcosa si è finalmente mosso, nell'Occidente putrescente, e il 22 settembre scorso abbiamo saputo far soffiare un minimo alito di autunno caldo contro le guglie di vetro e cemento dei grandi oligarchi: per qualche ora abbiamo osato bloccare tutto e dissanguare i protafogli dei nostri padroni, e per qualche minuto abbiamo osato, timidamente, spaccare tutto e rifilare qualche livido a chi di “mestiere” spacca la testa ai dannati della Terra per conto dei nostri padroni. E l'abbiamo fatto non meramente per il nostro interesse di inferiori entro la casta dominante degli Occidentali, ma perché non un solo chiodo vada a vantaggio del regime di Tel Aviv: se “ogni colpo sparato sul nemico sionista in Italia colpisce chi comanda”, allora ogni colpo sottratto al nemico sionista prolunga una vita palestinese.

Ma non ci possiamo fermare qui.

Lu compagnu della Global Sumud Flotilla stanno letteralmente portando avanti una mossa kamimaze non violenta: o il regime sionista lascia che la Flotilla attracchi a Gaza, e allora l'embargo si spezza per tutti e tutte, o dovrà ammazzare in un colpo solo molte più vite bianche (quelle che contano...) di quante i suoi propagandisti potranno giustificare, gli stessi propagandisti che a suo tempo ebbero un bel daffare per screditare i sacrifici individuali di Rachel Corrie e di Vittorio “Vik” Arrigoni. Ma questa scommessa funziona solo se, qui in Occidente, chi ha capito che il re è nudo ha il coraggio di insorgere ancora e ancora, e bloccare tutto finché chi comanda non avrà la tremarella a continuare a foraggiare il regime sionista. E in questa battaglia, Final Fantasy X, per come io l'ho esperito, è il racconto paradigmatico che ci fornisce una necessaria lettura mitica dello scontro storico: ogni persona fra noi può essere un Tidus, pronto a puntare il dito contro il marciume del mondo (che come l'immaginaria Spira del gioco, del resto, sprofonda in una spirale di necrocrazia); ogni persona può essere una Yuna e farsi pastore della protesta, sia brandendo in prima linea una bandiera di libertà, sia dispensando cure premurose a chi soffre per lacrimogeni e manganellate; ogni persona può emanciparsi dalla schiavitù mentale del pregiudizio introiettato, come Wakka, od offrire alla lotta la propria prospettiva unica determinata dal proprio margine, come Rikku. La cosa importante è non cedere alla falsa pacificazione che il nostro padronato ci propone, in tutto identica alla falsa pacificazione del ciclo di Sin propugnata dal culto di Yevon: il tempo è scaduto, Gaza è rasa al suolo, e noi non vogliamo una tregua di facciata. Vogliamo il disarmo dei sionisti, e poi di tutti i despoti. Noi vogliamo tutto.

Per cui, consapevoli che le storie di chi resiste ci servono disperatamente per fortificarci, per organizzare la nostra resistenza solidale e complice e per proteggere chi di noi cadesse in lotta (penso alla macchina repressiva che qui a Milano si è accanita contro i nostri “cuccioli del Settembre”), non ci limiteremo a leggerle e apprezzarle: dobbiamo farle nostre e riprodurle, e spezzare la spirale. È questa la dignità del sumud palestinese, è questo “restare umani”.

Che gli aquiloni volino e alti e accompagnino il trapasso dei nostri morti. Intanto, noi che viviamo, bloccheremo tutto.