LAERTE

In questi giorni mi sento su una zattera nella burrasca. È uno di quei momenti in cui i pensieri e i sentimenti sono così tanti che diventano rumore bianco. Assordante, sfiancante. Solo una cosa mi è stata chiara da subito: questo dolore così intimo Instagram non se lo merita. Mi fa vomitare l'idea di regalare il ricordo del mio amico a una piattaforma che lo userebbe come contenuto usa e getta. E visto che è prezioso, non vorrei mai che venisse deformato dai suoi meccanismi.

Però di parlarne ho bisogno, perché è il mio modo di elaborare le cose. Più che di un social network, in questo momento ho bisogno della mia rete sociale, e so che c'è. Non sarò diventato ricco e famoso ma, facendo le cose a modo mio, negli anni ho trovato tante persone che mi vogliono bene e mi fanno sentire meno solo. Le piattaforme sono disumane, noi no. So che ci siete.

C'è una voce che mi dice che devo attraversare questo momento di lutto in maniera consapevole, senza anestetizzarmi. Sento di dover salvare i pensieri di questo momento così difficile, perché forse un giorno troverò un senso che ora mi sfugge. Non ho mai tenuto un diario, ma ho sempre invidiato chi sapeva farlo. Sento che scrivere mi farà bene.

Se vi va, leggetemi. Sappiate solo che tratterò argomenti un po' intensi. Ho paura, ma cominciamo.

Sabato notte una tragedia improvvisa si è portata via il nostro amico Laerte.

È una di quelle notizie surreali, arrivata una domenica mattina, in una giornata di sole perfetta, senza una nuvola. Pensi di aver capito male, ti rifiuti, poi ti disperi, poi ti interroghi, poi ripensi, ricordi, chiami gli amici, piangi, ti chiedi cosa fare. E la cosa più infame è che sotto sotto sai che non cambia un cazzo. Laerte non c'è più.

Nel viaggio in auto verso Siena, con i bagagli fatti di corsa, non ho pensato ad altro. Cerchiamo di fare un sorriso per rassicurare chi ci sta vicino, ma chi vogliamo prendere in giro? La mente gira ossessivamente su quello.

Ripenso alla volta che Laerte mi portò al museo della Tartuca, che mi raccontò con la passione di un contradaiolo e la competenza di uno storico. Mi aprì le porte di un luogo speciale, importantissimo per lui. Chi conosce Siena sa che non è una cosa da poco. Mi invitò persino a una cena della vittoria, perché quell'anno ci sarebbe stato uno spettacolo di projector mapping e noi ci emozionavamo insieme per la tecnologia.

Penso alla nostra usanza di Natale, la tradizionale maratona di Civilization 6: tutti allo stesso tavolo, a bere infinite birre, raccolti in una bolla di sacra improduttività per due giorni. La aspettavo tutto l'anno. Amava i giochi strategici, pure quelli complicatissimi di Paradox. Una volta ci siamo chiusi in casa con Victoria 3, mentre lui si riprendeva dall'operazione al piede, determinati a far scoppiare la rivoluzione anarchica in Italia. Ce l'abbiamo fatta, e poi ci siamo lamentati di come il gameplay non la rappresentasse in maniera adeguata.

Parlavamo di massimi sistemi, a volte. Laerte aveva una cultura sconfinata e una sensibilità quadridimensionale. Era facile raccontargli le cose che mi stanno a cuore, perché le capiva senza bisogno di premesse. Che beffa che un giornale l'abbia ricordato come “un ragazzo solare”! Se da qualche parte c'è ancora, si sta facendo una grassa risata, con quel suo vocione baritonale.

Per me Laerte era un meraviglioso crepuscolo, pieno di colori e sfumature. Tra le pieghe delle sue tristezze si nascondeva una profondità rara, che a volte dev'essere stata un peso da portare, ma era unica e speciale. Sarà quella, credo, a mancarmi di più. Eravamo diversi ma simili. Ho sempre pensato che, dietro la sua facciata di pessimismo cosmico, mi considerasse un idealista squinternato, ma poi verso l'utopia remava anche lui, con tutte le sue forze. Non è un caso che ci sia un'intera città a piangerlo.

La sua salma è stata esposta al museo della Tartuca. Credo che si sarebbe evitato il disturbo, ma gli sarebbe piaciuto. Siena è baciata dal sole, le bandiere gialle e blu sono a mezz'asta, il paggio monturato che gli fa la guardia ha gli occhi rossi e il magone. Una tristezza perfetta.

Entriamo. È il momento in cui tutto diventa vero.

In quella stanza, davanti ai Palii di cui mi aveva raccontato la storia, c'è lui. Immobile.

Cerchiamo di farcene una ragione, ma con scarsi risultati. Abbracciarsi non lo riporterà indietro, ma aiuta. In quella stanza c'è tanto dolore, ma anche tantissimo amore.

Usciamo.

Piangiamo. È surreale. Non ha senso. Sono arrabbiato. Non voglio più stare lì. Ogni volta che l'occhio mi cade su una bandiera a mezz'asta inizio a singhiozzare. Penso che Laerte ci avrebbe preferito con in mano un Campari.

Rapisco D, messo più o meno come me, e andiamo nel baretto dove ci portava lui. Sulla via incontriamo una donna che potrebbe avere l'età di mia madre. Ci sorride, allunga la mano e chi chiede se abbiamo una moneta. Certo che ce l'abbiamo. Ha una dolcezza in viso che mi tocca nel profondo.

Pochi minuti dopo, con il suo deambulatore, arriva anche lei al bar. Chiede due panini piccoli. Io e D ci intromettiamo: “I panini, se possiamo, glieli offriamo noi.”

“Grazie, ma uno almeno lo pago io.”

“No, no, signora, offriamo noi, ché oggi festeggiamo.”

Ci ringrazia, felice.

Ci presentiamo. Lei ha un nome bellissimo, da libro. Si chiama C. L'umanità di questa interazione mi distrugge. Nella mia testa, C diventa il simbolo di un mondo che non vuole bene, pieno di miseria e solitudine. Andrei a rapinare una banca per garantirle panini infiniti. Il suo sorriso mi cura e mi fa male al tempo stesso. Vedo tutto nero. Il mondo mi sembra solo cattivo, un oceano spietato di ingiustizia. Mi arrabbio con chi fa finta che sia tutto a posto. Ripenso a Laerte, che invece davanti a quella sofferenza non era cieco, e infatti ogni tanto soffriva a sua volta.

Di solito sono ottimista e battagliero, ma per un momento mi sembra tutto inutile. Tutto troppo doloroso. Ho solo voglia di piangere. Mi viene da vomitare.

Continuo a pensare a C, e mi fa schifo l'idea di un mondo che non si prende cura di lei. Non ci voglio stare, in questo mondo. Vorrei un mondo in cui chiedere non fa pena perché condividere è la norma. So che è lontano. Normalmente lo vedo all'orizzonte e mi affretto per raggiungerlo, ma in questo momento mi sembra soltanto un miraggio. Un'allucinazione, forse un capriccio, persino. Una voce mi dice che non lo è, che domani sarò di nuovo pronto a lottare, ma in questo momento ho le pile scariche e mi sento come se mi avessero picchiato.

“Che mondo di merda”, diceva sempre Lae.

Ceniamo tuttǝ insieme, perché chi ha voglia di andare a casa a guardare il soffitto? Siamo una strana banda: c'è chi si conosce da una vita, chi da poco, chi solo di vista. Laerte aveva tantǝ amicǝ in compartimenti stagni. Brindiamo, raccontiamo le gesta di Laerte, ridiamo. Ogni tanto qualcuno piange. La vicinanza che si crea è istantanea, perché anche se fino a ieri non ci conoscevamo, in questo momento condividiamo lo stesso terrificante vuoto. Ci abbracciamo.

Che gesto primitivo e affascinante, l'abbraccio. Sono felice di una cosa: abbraccio sempre i miei amici e l'ultima volta che l'ho visto ho abbracciato anche Laerte. Non tenetevi gli abbracci nelle braccia. Sono gesti magici e potenti.

Laerte non ha avuto un funerale, ma un ricordo laico, che è come un funerale, ma con l'ad blocker su Gesù e sui preti. Scelta stilosa, amico mio.

C'erano centinaia di persone, chi con i fazzoletti della Tartuca, chi con le maglie della Robur. E io, vestito da maestro da sci, perché quando ho saputo non mi sono nemmeno fermato per prendere un cappotto. Ci aggrappiamo a qualsiasi scampolo di humour per non piangere troppo e farci forza a vicenda. E a farlo ci aiuta proprio Laerte, il cui spirito è così presente e concreto che riesce a strapparci un sorriso: quando un'elegia di circostanza lo definisce “rispettoso delle istituzioni”, noi che lo conosciamo davvero non possiamo fare a meno di ridere, pur tra i singhiozzi.

Poi il rullante della contrada, la bara, la processione, il carro funebre. Che strazio. Un climax di dolore, il gran finale, prima che la ritualità ci dica che è il momento di ricominciare con la vita di tutti i giorni. Che poi è quel che più ci fa paura.

Quando è mancato mio nonno ho sofferto molto, ma lui aveva fatto tutto quello che doveva fare. Era vecchio ed era il suo momento. Fu un dolore grande, ma con una parvenza di senso. Laerte invece se n'è andato troppo presto. L'enorme perdita non è quel che è già stato, perché non ce lo toglierà mai nessuno, ma tutto ciò che non sarà. Mi sento derubato di risate, spunti, idee. Il vuoto che lascia non è retorico.

Ed è qui che inizio a parlarti in seconda persona, Lae. È un cliché, lo so, ma me ne fotto. È terapeutico.

Sono arrabbiato, non con te, ma con il mondo. Mi sento le fiamme dentro, perché non è giusto. E se un giorno ci sei e quello dopo no, così, senza preavviso e senza appello, allora che senso ha aspettare? Che senso ha moderarsi? Tanto vale alimentare quelle fiamme e bruciare più forte che possiamo. Che cosa abbiamo da perdere? Alla peggio illumineremo un po' tutto questo buio.

Al tuo funerale c'erano tantissimǝ ragazzinǝ in lacrime. Non so se fossero della pallavolo, della scuola o della contrada, ma anche loro avevano la faccia di chi ha perso un punto di riferimento. Hai seminato tanto, per essere uno che si definiva pessimista. Sono fierissimo di te.

È inevitabile, in questi momenti, pensare alla vita dopo la morte. Per me esiste in un modo molto concreto, senza bisogno di scomodare la religione. Ti racconto come, perché il fatto che tu sia morto non vuol dire che ti sia messo al riparo dai miei pipponi da fricchettone idealista.

Penso al nonno tutti i giorni. Ogni tanto, quando mi succede qualcosa di bello o quando sono indeciso su cosa fare, il mio primo pensiero è “telefono al nonno”. Le sinapsi scattano più velocemente del ricordo.

Quell'assenza è una potentissima forma di presenza. Il nonno Tino non c'è più fisicamente, ma nel percepire il vuoto che ha lasciato ritrovo la sua forma. E ti giuro che c'è, perché quando non so cosa fare, le sue parole le sento. Pensa, sono così vere che a volte gli chiedo consiglio, ma so che lui era troppo prudente (“Sono il signor Prudenzio,” mi diceva) e allora decido di fare di testa mia.

Tenetevi ChatGPT, io non ho bisogno dell'IA per parlare con lui. In un modo strano ma concreto, è con me.

Sarà così anche con te, Laerte. Semplicemente, invece che essere la presenza saggia e rassicurante del nonno, sarai un compagno di viaggio che, come me, sta ancora cercando di capirci qualcosa. Il tuo input sarà prezioso. E come lo sarà per me, lo sarà per tuttǝ quellǝ ragazzinǝ e per le tante vite che hai toccato.

Per questo, anche se sono in lacrime e non ne posso più, voglio tenermi stretto questo dolore così straziante.

Questo dolore è un dono, perché è la cosa più viva e concreta che ci lasci. In questo momento sei il vuoto che si dimena nei nostri pensieri, ma col tempo la ferita guarirà e potremo accarezzare la cicatrice. A volte ci farai piangere, a volte ci farai ridere, ma nel farlo ci sarai. Ci porteremo dietro i pezzi di te che ci sono rimasti addosso. E sappilo, ho tutta l'intenzione di fare onore a quello che hai lasciato a me.

Penso al tuo lavoro sociale e antropologico sulle contrade, a quando ti dicevo che negli angoli di Siena che mi mostravi trovavo il mutuo aiuto che vorrei vedere nel mondo. Sarà una bussola, sempre.

Per questo, mi sembrerebbe molto triste ricordarti con un cero. Non ti sarebbe piaciuto.

Ti celebreremo accendendo fiammiferi, tutte le volte che vorremo illuminare questo mondo, o dargli fuoco per distruggerlo e ricostruirlo, ogni volta che ci sembrerà di merda come dicevi tu.

Abbiamo già delle idee, perché la tua scomparsa è il primo fiammifero e ha acceso un impellente bisogno di creare, insieme, per provare a colmare il vuoto che lasci. Le cose che abbiamo in mente ti piaceranno, vedrai.

Forse mi diresti che sono un sognatore che vede simboli ovunque. E sì, magari ci sto anche leggendo troppo, ma ho un disperato bisogno di significato e mi aggrappo a tutte le briciole che trovo. Ripenso alla signora C, all'oceano di sofferenza, a quanto ci mancherai, e lottare mi sembra l'unica cosa sensata.

Cercherò di fare qualcosa di buono. Ti porterò con me.

Ciao Laerte.