Una storiella di professionisti dell'ospitalità


Mia zia nacque in uno dei paesini più o meno rasi al suolo dal sisma del 1980, di quei paesini poi in qualche modo ricostruiti e lasciati a morire di vecchiaia, un abitante alla volta. Nel 2003, circa, ci infiliamo in cinque macchina e torniamo a visitare questo paesino, dopo chissà quanti anni; siamo rimasti in tre, ora.

Classico paesino collinare del Sud: silenzioso, prevedibilmente lindo, vuoto, con un edificio importante posto in cima, in questo caso la chiesa; ci dirigiamo verso quella e, disappunto, è chiusa nonostante sia, probabilmente, la domenica mattina. Incontriamo un essere umano nei paraggi e chiediamo degli orari, la signora «Venite, ve la apro io.» Aveva la chiave.

Visitiamo la chiesa, con noi c'è la signora che annulla ogni impegno per la giornata, per seguirci. Ci fermiamo a parlare nel piazzale, mia zia le rivela di esser nata lì, negli anni Quaranta, e quella sconosciuta azzera ogni distanza spazio-temporale, in un istante: «E allora venite a mangiare da noi.»

Chiude la chiesa, ci solleva in blocco, di peso, e ci porta nella sua casetta poco distante. Solite pareti bianche di intonaco, alle pareti i mobili di una volta, delle sedie impagliate e un tavolaccio da trattoria, già vestito con la tovaglia della domenica. Tutta la casa, perché ce la mostra tutta, odora di cucina. Ci rivela il menu, nel caso non fosse di nostro gradimento o, addirittura, volessimo azzardare qualche pretesa. Noi rifiutiamo, tentando di bilanciare al meglio gentilezza e fermezza, perché capiamo che c'è da lottare per vincere; intanto, arrivano dei parenti e anche loro trovano naturale condividere il pranzo domenicale con degli sconosciuti, unico punto di contatto una persona nata in quel paese, 60 anni prima. Riusciamo a vincere la battaglia, rifiutando senza offendere nessuno. «Però, dopo andate a mangiare a tale trattoria e dite che vi ho mandato io, intanto fatevi un giro per il paese». Così ci dice uno dei parenti, l'ultimo arrivato, che doveva avere pure l'ultima parola.

Giriamo per il paese, faccio delle foto, vediamo il monumento ai caduti, dei panorami, ci fermiamo al piccolo cimitero che è così lieve che è bello starci anche da vivi. Mia zia riconosce, tra le lapidi, cognomi a lei noti e inizia a ricostruire i primi anni della sua vita. Intanto, si fa ora di pranzo.

Troviamo la trattoria indicataci dal signore di prima, siamo soli, probabilmente hanno acceso le cucine per noi. Trattorie semplici e solide di una volta, quelle “da camionisti”, dove va a mangiare la gente che deve mangiare, dove il lavoratore passa la sua pausa pranzo, in un mondo che non contempla chef stellati e gente che va a cucinare in tv. Le trattorie che piacciono a me, col cibo “rozzo”, quello che preferisco, concettualmente sono molto rustico.

Facciamo per chiedere il conto, la risposta non ammette repliche: «Quale conto? Hanno già pagato per voi.» Erano dei professionisti, noi dei pivelli che credevano di averla spuntata.