memorie

Diario pubblico agrodolce

Dal 23 novembre 1980 in poi


Sembrava una domenica qualunque, a casa di mia zia, nel mezzo di una di quelle cenette che organizzavamo spesso; una casa, la sua, già vecchia all’epoca, al primo piano. Un primo piano, di quelli alti di una volta, un primo piano che sembran due. Il televisore trasmette qualcos e poi tutto si mette ballare tutto, coi mobili che si spostano dalle pareti. Non ne avevamo mai affrontato e immaginato uno così imponente, ma l’urlo generale, nel silenzio della provincia all'ora di cena, non ammetteva dubbi: IL TERREMOTO.

Un guizzo di lucidità nello spegnere i fornelli, poi tutti a scappare in strada, il nostro primo piano che non finiva più. I genitori afferravano i figli piccoli come meglio potevano, mio zio con mia cugina in braccio, tenendola a testa in giù. Negli anni, poi, è diventato qualcosa di cui ridere, come le risate esorcizzano i brutti ricordi. Finimmo in strada a un momento all'altro, senza che nessuno avesse idea di cosa fare.

Mio padre, appena passato lo shock, forse già il giorno dopo, ci caricò sul primo treno possibile per la Toscana, dove abita mia zia. Lui sarebbe rimasto a guardare la casa e lavorare. Fu quello il mio primo contatto con le ferrovie: solo con mia mamma, mia sorella non era nata ancora, a scappare da una forza invisibile, invincibile, con una valigia riempita alla meglio. Arrivammo col buio e proseguimmo in taxi, non eravamo ancora abbastanza lucidi da affidarci ai mezzi pubblici. Mia mamma, almeno: io guardavo la cosa come può guardarla un bimbo ancora troppo piccolo per la scuola. Un'avventura che faceva paura, ma sempre un'avventura.

Qualche mese dopo, il bis. Stavamo a casa nostra, stavolta, la storia sembrava finita.

Abitavamo al piano terra, anzi: leggermente rialzato, vi si accedeva dopo pochi gradini e fuori avevamo una veranda, in cui mio padre teneva i ferri del mestiere del suo lavoro precedente, cianfrusaglie e altro, ci faceva anche da sgabuzzino. Mia mamma esce a prendere un tubetto di dentifricio da questa veranda e io la osservo, dalla porta di casa socchiusa: mentre torna, le scivola il dentifricio. Si china per raccoglierlo, dal pavimento a febbraio si leva un calore impossibile, prima della scossa aveva già capito, urla a mio padre di prendermi e scappare, qualche secondo e ancora quel grido collettivo.

Sono passati più di 40 anni mentre scrivo, quella scena ce l’ho ancora stampata nella memoria, posso chiudere gli occhi, rivederla in qualsiasi momento, piangere. Tutti in strada, ancora, protagonisti di una scena irreale; per qualche motivo non c’era neanche una macchina in giro, a guardare in alto il nero del cielo sostituito da un rosso cupo e sbagliato, i palazzi che ballavano: nonostante si trattasse di due o tre piani al massimo, si vedevano chiaramente le linee rette curvarsi.

Dove si vive, quando c’è un terremoto? A poca distanza, da noi, c’era un’ampia zona, che il popolino chiamava “la terra”, intesa come terreno non edificato; all’epoca, un ampio spazio di vuoto e polvere, ospitava periodicamente le giostre o il circo. Ci si accampava nelle macchine e all’epoca avevamo una 128 gialla, praticamente un taxi. Ci accampavamo in quella sorta di taxi, poi a lavoro i turni di notte e mio padre non poteva e non voleva lasciarci soli e ci lasciava parcheggiati all’uscita dell’autoparco, faceva l’autista al Comune. Faceva molto freddo, io mi avvolgevo in una coperta di lana, fatta all’uncinetto da mia nonna. Era tremenda, all'uncinetto: calze, calzettoni e tutine le riuscivano in maniera decisamente approssimativa, come se dovessero vestire delle seppie. Coperte e sciarpe, però, almeno avevano una parvenza rettangolare.

Ogni notte, qualche amico collega di mio padre veniva a bussare al finestrino e mi portava un pacchetto di Togo. All'epoca ricordo andassero molto più forte che oggi, anche nei bar degli ospedali.

La nostra casa era relativamente recente, quindi sopportò entrambe le scosse e non fummo costretti a spostarci. Diversi parenti furono meno fortunati e finirono nei container, per anni. A me piaceva quando andavamo a fargli visita, prendevo la cosa come se fossero dei camper, delle roulotte. Un enorme campeggio, avrei voluto starci anche io.

Poi i container si trasformarono in quartieri degradati di case popolari, popolati da brava gente e da gente difficile, tutti democraticamente lasciati alla deriva, in un micromondo che ammazza il presente e cancella il concetto di futuro.

E, infine, se ne sono andati pure i parenti: tutto finisce allo stesso modo.


Non so dare un peso e un'età agli esseri viventi, ma di una cosa sono certo: quel cagnolino, 5 o 6 chili al massimo, era già vecchio quando l'abbiamo conosciuto.

Ci siamo trasferiti in un altra regione e, probabilmente, già il nostro primo nuovo giorno in un posto nuovo l'abbiamo incontrato. Tutto marroncino, poco ingombrante, col faccino più chiaro, come sbiancato dall'età. L'abbiamo incontrato quasi al centro della nostra strada, una traversa a senso unico. Il posto dove è quasi sempre stato, quando non si ritirava a casa.

E sì, si piazzava come una sfinge non al centro della strada, ma quasi: questa mancanza di simmetria serviva a far passare , alla sua destra o sinistra, gli automobilisti. Fosse stato impalato al centro, avrebbe dovuto spostarsi, invece no: restava immobile, quasi parte dell'arredo urbano, una rotonda, uno spartitraffico. Abbaiava con estrema parsimonia, mia mamma non deve averlo mai sentito emettere un suono per tutti questi quasi tre anni.

Tutti in zona lo conoscevano, ovviamente: non sarebbe arrivato illeso a quell'età, diversamente. Negli ultimi tempi stava addirittura formando un discepolo: un cagnolino un po' più esile, quasi identico; chissà, un fratellino di un'altra cucciolata, un figlio. Lo portava in giro, gli mostrava le strade, dove piazzarsi. L'allievo imparava bene, li si vedeva piazzati sui due lati della strada, sfalsati. Le macchine facevano la gincana.

Un pomeriggio, un sabato, sono uscito per una consegna, non potevo fermarmi, il tempo mi spingeva. In una traversa laterale, larga giusto per una macchina, vedo questa macchina bianca ferma, il padrone della macchina a parlare, rabbuiato, col padrone dei due cagnolini.

L'automobilista era rimasto chissà quante decine di secondi ad aspettare che si spostasse. Quella sfinge in miniatura non si sarebbe mai più mossa.

Il cane vecchietto se n'è andato così: dopo una lunga vita, conosciuto e rispettato da tutti, in silenzio, al centro di un nastro d'asfalto così come era vissuto. Mi aspetto ancora di doverlo scansare, quando accompagno mia mamma a fare la spesa o in qualche struttura sanitaria.


Era il profumo dell'estate che finiva, con mio padre, quando ero piccolo.

La villeggiatura chiudeva l'estate, quando ancora a fine agosto il tempo cominciava a rinfrescare e nelle serate dei paesini di montagna spuntavano giubbini e maglioncini. Quando ad agosto si poteva dormire la notte, piuttosto che macerare in un bagno di sudore.

Andavamo in villeggiatura per due settimane o un mese. Due settimane in Abruzzo, perché due erano le sue settimane di ferie. Un mese, invece, quando andavamo più vicino e poteva lasciarci lì e raggiungerci nei fine settimana. Oppure, ci ospitavano degli zii in Toscana, per diversi giorni. E c'era sempre il profumo dell'origano, perché lo incontravamo selvatico, incustodito, libero ai margini della campagna.

Nei nostri giretti mattutini, ci fermavamo e ne raccoglievamo: a mio padre piaceva, più il semplice rituale dell'essiccazione che la spezia stessa. Lo facevamo seccare sulle stuoie e poi lo mettevamo nei barattoli di vetro, dove restava per tanto tempo. Quell'odore impregnava la casa.

Ora lui non c'è più, quel bambino che ero è morto da un pezzo, ma prendo l'origano del supermercato, riaffiorano quei momenti ed è una bella cosa.


Scrivo nell'ultimo giorno di ottobre, ieri al sole pareva il 1° maggio, fuori la bougainvillea esplode di un rosso che sfuma nel violetto, direi che non va proprio bene.

Quando ero bambino, questi quattro giorni erano una piccola vacanza dopo poche settimane di scuola, erano ancora festivi 2 e 4 novembre. Non si festeggiava ancora Halloween: non sono contro alle festività percepite come importate, non vedo perché sia accettabile e consigliato riempire l'italiano scritto e parlato di itanglese e poi scagliarsi contro queste festività che ci sostituiscono etnicamente, in spregio totale ai patrioti e alle radici cristiane. All'epoca, il 1° novembre “erano i morti”: proprio così si diceva dalle mie parti, sono i morti.

Mio padre lavorava al Comune e, in quel periodo, si occupava di servizi cimiteriali accessori, quindi lavorava e a casa c'eravamo io con la mia piccola dose di ferie e mia mamma, ero ancora figlio unico. Mi agghindava coi vestiti buoni, i nostri vestiti buoni erano quelli non usati presi al mercato, ma roba di qualche stock di abbigliamento, ultrascontata. Le polacchine ai piedi. Scendevamo, con la carrozzina al seguito, casomai dovessi stancarmi, in genere ce la portavamo dietro inutilmente. Erano un paio di chilometri, ma da bambino mi sembrava chissà quale viaggio, da bambini tutto sembra troppo grande. Quante volte iniziavo a lagnarmi per la sete, mia mamma bussava con le nocche a una qualche finestra al piano terra, quella si apriva e una signora ci allungava un bicchiere d'acqua.

Quel percorso infinito mi sembrava una specie di festa sparpagliata, nonostante sapessi il motivo per il quale si va al cimitero. Man mano che ci si avvicinava, aumentavano le bancarelle coi giocattoli (scuole chiuse, tanti bambini) e i dolciumi, ovviamente dominava il torrone, storicamente il dolce dei morti in quella zona. Ne compravamo un pochino, assieme ai melograni, sicuramente l'elemento più caratteristico di quelle giornate. Non che ci piacessero particolarmente, pure fastidiosi da preparare, ma era la tradizione.

Sempre per una sorta di tradizione, quel giorno il cielo era di un bellissimo azzurro. Pulito, striato di poche nuvole candide. C'era un freddo pungente, da maglioncino, sostenuto da un vento più che frizzante, vere e proprie fitte di gelo, brevi e intense.

Era sempre così, non ci si poteva sbagliare: il 1° novembre era un limpidissimo giorno di freddo, anticipo d'inverno. Sono anni che non è più così, stavolta con le maniche corte è caduto l'ultimo tabù. Per troppa gente ancora va bene così, non c'è da preoccuparsi. E invece non va bene per nulla.