Una riflessione nata dal sangue

Ho acquistato l'ultimo fumetto Bloodborne edito da Cosmo, “la signora delle lanterne”. Come ogni volta che mi avvicino al lavoro gotico di Miyazaki, un flusso di pensieri e riflessioni mi sommerge.


WARNING Potrebbero esserci degli spoiler sparsi sulla trama, niente di specifico sui finali o comunque niente che in generale non si dovrebbe già sapere anche per sentito dire. Alla fine è un opera del 2015 e tutti abbiamo avuto l'amico che lo ha giocato e si è lamentato di determinate cose. FINE WARNING

Perché la narrazione di Bloodborne è considerata uno degli esempi più riusciti della narrazione weird nel mondo videoludico? Si ok, ci sono i grandi antichi, si, ci stanno i mostri da essi generati. Anzi, ricordando che nel weird horror il malessere è quello celato agli occhi, qui è pieno di mostri da falciare. Però sai che c'è, questi grandi antichi stanno là e non fanno niente. Non vogliono distruggere Yharnam o gettare il mondo nella follia dopo un sonnellino di eoni di anni.

Sono gli esseri umani che nella loro cupidigia sono andati a titillare violentemente qualcosa che non avrebbero dovuto.

Trama (anzi LORE) e genere fondante a parte, il mio perché ha una radice un po' più concettuale. Qualcosa che va dietro il velo del malessere che coglie i sensi del primo weird horror. Questo perché in Bloodborne l'impatto non è diretto ai sensi, all'orrido nascosto e incomprensibile.

Il suo pubblico è quello del videogiocatore fantasy veterano, non ci sarà niente che vedrà che lo spaventerà al punto da condurlo alla disperazione tipica del weird horror. La risposta di Miyazaki a questa issue è costruire una narrazione che non ci prova nemmeno a spaventare e costruisce le sue fondamenta su di un altro bersaglio, vivo e pulsante: il cuore del giocatore.

Bloodborne è una spirale, una di quelle che si vedono nei film di avventura marittimi quando le cose stanno andando male e allora vanno peggio perché c'è un mulinello pronto a risucchiarti negli abissi. Ecco, è quel mulinello.

In Bloodborne non ci sono cose che vanno bene, tutto non farà altro che peggiorare. Qualsiasi cosa farai per quanto possa sembrare positiva è in realtà il lupo travestito da nonna pronto a sbranarti a meno che tu non abbia abbastanza intuizione da vedere oltre il velo della realtà. Man mano che la notte diventa più scura il peso delle scelte o del semplice andare avanti nella storia porta il giocatore ad incarnare non solo il cacciatore ma un vero e proprio cavaliere dell'apocalisse.

Non c'è solo morte per mano diretta del giocatore, c'è devastazione per il semplice prosieguo della storia o per scelte specifiche fatte nei dialoghi. C'è anche un po' di morte ad minchiam per via dei boss secondari che non è utile uccidere e che non vorresti uccidere* ma che fai, te ne privi?

Ora, per quanto possa sembrare un rant verso la direzione artistica di From che in Bloodborne si è dedicata a bersagliare i lati dello spettro emotivo come paura, frustrazione e rabbia (tipiche di tutti i Soulslike) e, in questa opera, anche senso di colpa, sofferenza, distacco, depressione e tristezza; in realtà è solo un'attenta analisi dei suoi messaggi e di come i singoli segmenti e narrazioni risuonino su onde diverse dai titoli “lovecraftiani” in giro per il globo.

Tutte emozioni che come in un loop perpetuo (da qui la spirale decadente) si presentano in uno schema ben preciso che trovo diabolicamente funzionante.

  1. Incontro di una speranza
  2. Alimentazione della speranza
  3. Morte della speranza

Questa flagellazione avviene direttamente sul giocatore: il cacciatore, avatar che cammina per le strade interne ed esterne di Yharnam, vive l'ambientazione scevro di ogni caratterizzazione. Non esiste quindi un filtro, un point of view intermedio che permette al giocatore di scaricare parte delle responsabilità sull'avatar pensando qualcosa come: “vabbè ma le scelte che avevo erano dettate dalla conoscenza o abilità dell'avatar” come ad esempio accade invece in Lies of P o Fallout. Non viene creato il distacco narrativo che vede il giocatore dentro e fuori la storia.

Il giocatore subisce per intero il peso degli eventi che accadono che siano essi di reazione ad una scelta portata in precedenza, degli NPC che, a seconda degli eventi, muovono passi sulla loro personale storia o nella direzione della storia stessa.**

L'unica anima pia è un'automa e anche qui ci sarebbe da parlare per ore

Il giocatore diviene così dipendente dal barlume, quella fioca speranza che da sempre ci perseguita e dice “non può piovere per sempre”. La cerca, la trova, l'alimenta e poi la vede morire tra le dita all'interno della propria esperienza videoludica.

Ora, mi sono posto la domanda: c'è un modo per fermare quest'agonia? Un modo per svegliarsi da questo incubo e non far più soffrire tutti i personaggi di questa narrazione (oltre che me)? L'unica risposta che mi sono dato è questa: smettere di giocare a Bloodborne.

Sia chiaro: a questa risposta ci sono arrivato dopo ormai anni da che ho concluso la storia nei suoi multipli finali e passato tempo nei labirinti a raccogliere ogni segmento di LORE per comprendere e capire come sia possibile che una storia così fortemente carica di disperazione mi abbia catturato.

Smettere di giocarci significa non entrare nella tana del bian coniglio (del lupo), lasciare tutto com'è, impassibile e pieno di speranza. In un mondo dove il gatto è ancora vivo e chi sa cosa sta facendo, senza il “buon cacciatore” che di fatto con la sua venuta segna il lento spegnimento di ogni singola certezza sottoscrivendo il contratto di Gehrman e divenendo così un vampiro.

Perché quindi non si smette? Perché perpetrare la storia, ripartire a volte da capo (follia pura per quanto mi riguarda ma ao non giudico) per rivivere di nuovo quell'esperienza così decadente e nichilista? Forse perché, masochismo a parte, rivedere quei personaggi di nuovo vivi, rivedere che nonostante le nostre scelte essi possano rivivere ricominciando da capo (provando a fare anche scelte diverse nell'illusione che qualcosa possa cambiare) ci fa sentire meno in colpa per ciò che abbiamo fatto durante la narrazione.

Blooddy, chiamato così da me e alcuni amici, riesce nel terribile compito di portare il fondamento di disperazione alla base nel weird senza che questo venga dal contesto visivo. La disperazione, di fatto, è generata dal giocatore stesso nei panni del “buon cacciatore” che torna nel sogno per trovare conforto nelle parole amorevoli dell'automa e non sentirsi solo una macchina di morte. Nei dialoghi con lei, unico essere senza sangue, l'io narrativo si fortifica e giustifica concependo che la disperazione a cui si assiste/crea sia per il bene della città.

Come avevo già annunciato, si è rivelata una riflessione da 10 tonnellate sull'animo umano, perpetratore di distruzione consapevole o inconsapevole se guidato in un quadro assiologico preciso. Niente ci riporterà la figlia di Gascoigne o l'innocenza di Iosefka ma nel giocare questo titolo si comprende anche quanto gli ingranaggi narrativi girino sempre in modo da romperti il ca...

Indubbiamente Bloodborne è il requiem dell'umanità.


*Possibile spoiler: sto parlando di Ebrietas, figlia del Cosmo. Ok che non si fa amare per il suo aspetto ma è la creatura più buona di tutto il gioco, davvero, l'unica che vuole bene all'umanità, non ti attacca nemmeno se non vai a romperle specificatamente le uova nel paniere! Tu la uccidi, la uccidi per la stessa cupidigia su cui si basa la storia, la uccidi per avere un oggetto la cui mancanza non sblocca il finale “positivo”. Solo per questo.

**Il giocatore in questo caso, molto spesso, si deresponsabilizza spostando il peso emotivo incolpando la storia stessa di ciò che succede, la software house o le divinità ancestrali. Resta che è il giocatore che firma il contratto iniziale, sia con il personaggio Destinante (Gehrman) che con la From Software (Miyazaki) accettando di usare il proprio tempo per trovare intrattenimento nella sofferenza.


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Mi raccomando, be gentle, siamo pianeti in una galassia lontana lontana.