Una riflessione riottosa
L'altro giorno c'è stata una nuova migrazione di account da Twitter per l'ennesimo crollo. Il flusso è stato abbondante, come sempre, qualcuno ha tastato il terreno e ha capito che non faceva per lui, altri sono rimasti.
Tra i nuovi cittadini (almeno su livellosegreto.it) alcuni si sono presentati utilizzando #introSegrete, altri hanno utilizzato quello che solitamente si utilizza nelle istanze. In questi flussi migratori (solitamente) ci si guarda intorno cercando un'appezzamento di terreno in cui costruire una casa.
Ho provato, personalmente, a rispondere a molti di questi avventurieri dando il benvenuto ai nuovi e salutato le vecchie guardie che tornavano da lunghe assenze. Ma c'è un “ma”. Impossibile che non ci fosse, senza il “ma” non avrebbe nemmeno senso iniziare una narrazione. Chi se la legge una riflessione se non ha mai il cambio di marcia, un improvviso accadimento che sconvolge l'andatura, un bivio che costringe alla scelta e a guardarsi allo specchio.
Il mio specchio è stato notare che molti hanno iniziato con la formula “NomeX” + (e sono un) + “LavoroY”. Questa cosa ha raccolto in me pensieri contrastanti. Ha generato moti ondosi nel mio riflusso cognitivo, qualcosa che posso giustificare (come tutto) con il mio Io Narrativo ma che la parte di me riottosa, quella che l'ha spinta ad entrare nel fediverso, non riesce a digerire.
Mi ritornano in mente le parole di uno scioccato Edward Norton che vede il suo appartamento bruciare “Una volta leggevamo pornografia, ora siamo passati ad arredomania”. In questa capacità di arredare i nostri pensieri per riuscire a vivere attraverso comodini di scuse per la vita che stiamo percorrendo, la parte di me che urla, l'archetipo del ribelle: il Tyler Durden, L'Elliot Alderson o, come me lo figuro personalmente, Evil Kermit (decisamente più adatto), smanaccia, urla, spinge e lancia molotov al mio giustificare quel tipo di formula. Lo immagino come nelle opere di Banksy.
Ho dovuto stendere anche io nuovamente quell'intro. Ho sentito quella voce dentro di me dire “Ciao sono Daniel, a volte Ink e sono un pubblicitario” ma quanto di questa frase è veritiera? Quanto posso dire di esserlo sempre stato? L'anno scorso avevo fatto una presentazione che non ho mai pubblicato. Penso avrebbe esordito, ipoteticamente, seguendo questo schema: “Ciao sono Daniel, a volte Ink e sono uno scrittore /streamer /videomaker /copywriter” uno a caso sarebbe andato bene.
In un mondo che corre, non sento di giustificare il mio spessore psicologico ed emotivo con una classe di D&D, la classe aiuta solo ad esprimermi al meglio. É qualcosa che mi darà da campare e farà sopravvivere quando dovrò capire se in una porta c'è una palla di fuoco pronta ad innescarsi, non è ciò che sono o almeno non sempre e non per sempre. Quella voce riottosa, che vuole spacchettare la cultura rediviva post capitalistica, prova a smantellare la connessione IO=Lavoro che ci hanno imposto attraverso l'interpretazione ad hoc della prima legge costituzionale italiana: “L'italia è una repubblica fondata sul Lavoro”. Lo fa attraverso questi scritti, perché è parte di me.
Non sono il capitale che racimolo facendo da schiavo, non sono lo strumento consumistico di un'azienda o stato che mi esaurirà e butterà via. Sono una persona (a volte nemmeno il nome che porto) e riassumere tutto con “pubblicitario /impiegato /commessa /sviluppatore /disegnatore” non è avvilente solo perché mi detrae valore ma anche perché non permette all'altro di riconoscermi per ciò e chi sono.
Ci sono formule per iniziare bene una frase (oltre la grammatica) e non c'è una sintassi “giusta” per ognuno di noi. Se, personalmente, dovessi presentarmi ad una comunità non inizierei con quello che faccio o sui miei personali talenti. Inizierei forse da ciò che mi piace fare e che amo e come potrei unire queste cose per recare giovamento alla comunità.
La mia intro ha avuto effetto? Non ne ho idea ma alla fine, seriamente... Who cares?
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Mi raccomando, be gentle, siamo pianeti in una galassia lontana lontana.