(Venuta la superbia viene anche l'infamia / ma la saggezza è con gli umili)
Avrei tanto voluto guardare il mondo
dalla vostra altezza, senza dover chinar lo sguardo,
reclinare il collo, e accontentarmi
dell'orizzonte che disegna i confini della terra,
segna il limite delle colline verdi e quotidiane,
il biancogrigio delle pietre e l'azzurro
quasi timido del cielo.
Meglio sarebbe stato strisciare
sulle foglie e in mezzo ai sassi
come i vermi, accontentarmi dell'odore del terriccio,
del rinvigorente muschio, e non aspirare ad altro,
se non all'eterno ritorno di tutto ciò che è eterno.
Tuttavia non scorre brezza nel mio sangue,
ma tempesta. Nessuna mia parola
può giungere a voi che m'ascoltate,
ché essa si leva in alto, superba sopra le montagne,
custodi immoti del giorno e della notte,
e rigonfia il cielo di nembi di burrasca,
rovescia su di voi le ardenti piogge
di quest'ira sconfinata che mi distrugge e mi consuma.
Se vi guardo mi apparite come comiche formiche
e solo basterebbe un passo per schiacciarvi,
ridendo in cuore di questa tremenda mia albagìa
che mi condanna a esser ripa, roccia, scogliera,
tormentata dalle onde, ma sempre fiera
con lo sguardo fisso a sfidare l'orizzonte.
Eppure m'atterrisce la notte che m'aspetta,
quest'oscurità che mi abbraccia come un manto,
questo infinito, terribile silenzio.
Nessuno potrà mai trovarsi insieme a me
quando questa pur odiata terra
sotto di me spalancherà le crepe delle rocce.
Mi vedrete forse accasciarmi,
come un elefante vinto dalle lance
e cosa sarà di me se non la carcassa di un gigante,
una maestosa solitudine senza vita?
(A. Arrivabene, Hybris, 2021, olio su lino 150 x 120 cm)
Ho accumulato i miei giorni
come fossero documenti impilati.
Mi fermo a rileggerli spesso:
pieni di quisquilie, farneticazioni, cavilli.
Su ogni foglio imprimo col timbro:
“SPRECATO”
Ne arrivano spesso di nuovi
ma nel contenuto son sempre gli stessi.
A cosa serve rileggerli ancora?
Eppure avrei tanto voluto esser poeta,
oppure un artista, col cuore tremante e ispirato.
Tuttavia il cielo non volle. Pazienza.
Starò qui a sbrogliare scartoffie
con la sterile passione dell'impiegato.
Presenze, foto digitale. Licensed under CC BY-NC-ND
vedi su Pixelfed
Aspetterò un altro inverno per amarti
quando meno ferma la mia mano
scorrerà sulla parete
e la memoria delle cose a me più care,
già sbiadite, offuscherà ogni mio risveglio.
Con gli occhi cercherò il tuo sguardo
e il tuo respiro, come un fresco alito sul volto,
il tuo nome chiamerò tra le consunte cose
ma la mia voce, come di fantasma
risuonerà dalla terra, un bisbiglio tra la polvere.
Attenderò ogni giorno quell'inverno,
dovessi pure consumare la mia vita
e il tempo, quest'inganno, che ci separa.
(A. Arrivabene, ecce-homo, olio su tavola. 41 x 37 cm, 2019)
Nella compassione ho intuito
il seme dell'infelicità -
soffrire è volervi amare
al di sopra delle mie possibilità.
A. Rublev, Trinità
Per tutti i miei giorni
ho vagato cercando il tuo amore.
Ovunque ho guardato:
sui fili d'erba e dietro le stelle,
nel muto contegno dei sassi,
e mai l'ho trovato.
Solo starò sulla terra
fino all'ultimo giorno,
solo sarò trafitto dai raggi
dell'ultimo bagliore del sole.
Tante volte ho cercato il tuo amore.
Forse è nella solitudine eterna
di ogni uomo che muore.
J. Semmel, Study for Night Light, 1978, pastello a olio su carta grigia.
Tu non sei
una statua d'alabastro
né di marmo levigato
ma i minuscoli solchi dei tuoi anni
porti come lastra d'acquaforte,
essi sul tuo corpo
disegnano ogni forma:
ecco una driade, una ninfa,
un'odalisca, la Maddalena
ai piedi della croce.
Potessi baciare invece i tuoi,
le caviglie, le ginocchia,
sfiorare con le dita
quasi fossero pennelli
l'interno molle delle cosce,
e discoprire il fiore
che tante volte dischiudesti,
l'acre odore che m'inebria,
assaporare il tuo mistero,
prosciugarti goccia a goccia.
Se ti confessassi ciò
adesso fuggiresti,
terrò dunque solo mio
questo segreto.
Animo mio inquieto,
va da lei stanotte,
non svegliarla,
adagiati tra i seni,
sia per lei questa passione
che non si consuma.
Per questa unica notte sola.
L'unico amore possibile
è quello che non esiste ancora.
Non chiedete più della fanciulla
che abitava queste terre
forse altrove è andata a cercare
i fiori d'asfodelo.
Non interrogate i pini,
il vento, non importunate la poiana.
La folaga ha lasciato queste rive,
l'airone ha rivolto le sue ali
al di là della città.
Perché cercate tra i vivi
ciò che è morto?
Mai nessuno vi risponderà.
(E. Degas, Studio di nudo femminile, fotografia)
Sul marmo liscio
quasi ghiaccio che si incrina
i tuoi piedi scivolavano,
ti libravi
come una falena notturna
e con gli occhi chiusi
ti lasciavi trasportare.
Le tue labbra rosse
appena socchiuse
lasciavano intravedere
i denti bianchi
e il volto era rapito
dall'orgasmo musicale.
Le gambe si rincorrevano
tra sacadas, ganchos e paradas
quasi giocavano a un gioco
scandaloso
nella luce soffusa della notte.
Bianche, le tue cosce,
si stringevano
a quelle del tuo hombre
mentre il bandoneon
sospirava
nel suo gergo sessuale.
Non ho mai osato
incrociare i tuoi occhi
e forse nessuno quella sera
ha inteso il tuo mistero.
Gli uomini che ti stringevano
e sentivano la tua pelle
che tremava calda
quasi come un animale
addormentato che sussulta,
sapevano forse
di tenere tra le braccia
Ecate che quella sera
ritornava tra i mortali?
In cuor mio lo sentivo
e quando di sfuggita mi guardasti
capii che era vana ogni speranza
che nei tuoi occhi
scuri e fondi
era scritta, incancellabile,
ogni mia condanna.
Dalla finestra aperta
sei entrata stamattina
piccola mosca,
e mi ronzavi intorno.
Ogni tanto ti sentivo
sulle gambe o sulla testa camminare
con le tue leggerissime zampette
e quasi picchiettavi
sui miei pensieri gravi.
Oh, piccola mosca,
perché hai deciso di farmi compagnia?
Sarebbe stato meglio per te
ronzare sui tetti e sui balconi,
visitare i davanzali delle finestre
che già odoravano di cibo buono.
Eppure sei venuta da me
e la mia malinconia
non ti ha potuto perdonare.
Con un vecchio giornale arrotolato
ti ho colpito,
ma non era abbastanza ferma
la mia mano,
ancora ti agitavi
e sentivo disperato il tuo “bzzzz”
mentre tentavi invano di volare.
Come un lampo è sceso
il secondo colpo,
e non ti sei più mossa.
Ho raccolto il tuo corpicino
e con un peso sul cuore
al di là del balcone
l'ho gettato sulla strada.
“Ho fatto
ciò che andava fatto”
Ma non mi davo pace.
Quando qualche ora più tardi
ho visto un corpo senza vita
che giaceva nella bara
ho pensato a te, piccola mosca.
“Come siamo simili io e te”
avrei voluto dirti,
e avrei voluto chiamarti sorella,
assieme a tutte le creature
che passano su questa terra.
Eppure, forse, la tua fine fu più bella.
Non verrai sigillata in una scatola
per essere inghiottita dalla terra,
ma ti ha accolto il giorno che risplende
portata via dal vento,
e senza nome, né fotografia
sei adesso indistinguibile
tra tutte le cose che sono
e che saranno.
Potessi raggiungerti così,
piccola mosca,
amica, sorella mia,
potessi anche io smarrire il nome
e le sembianze, quando sarà l'ora.
Tramonto sul mare (solitudine), foto digitale. Licensed under CC BY-NC-ND
vedi su Pixelfed
Se stasera fossi insieme a me,
amore mio,
mi sembrerebbe forse meno triste
l'incedere scarlatto della sera d'estate.
Ma non è solo per me che t'invoco,
ignoto amore,
né è gran cosa la mia malinconia,
ma è per ogni pietra, per ogni ramo,
che chiamo il tuo nome,
e la dura terra, senza di te,
non potrebbe germogliare.
Ché insieme potremmo risanare
le piaghe degli alberi,
tornare a far rinverdire i deserti,
discoprire le ombre scure della notte,
potremmo consolare i sogni inquieti
degli uomini affannati,
cogliere il manto grandioso delle stelle
per portarlo in ogni casa,
in ogni stanza afflitta dal dolore
Così sarebbe il nostro amore
il riscatto di ogni tristezza,
e tutto abbraccerebbe,
si stenderebbe oltre i confini della terra
per sanare ogni disperazione,
ogni ingiustizia che si consuma
sotto il sole.
Eppure non ci sei,
e sembra frantumarsi il cielo
adesso che sento incombere la notte,
mentre in me riposano
le solitudini di tutti gli uomini.