Riciclo uno scritto molto vecchio.
Tornando verso casa da C., percorro a ritroso via N. S. e non è altro che un viaggio nel tempo, quasi ordinato in maniera discendente. Quasi, perchè certe stazioni sono messe alla rinfusa. La strada è sempre scassata: una sequela di buche, alcune rammendate a suon di toppe di colori sbagliati. Asfalto cicatrizzato male. Chiara metafora della vita, solo che nessuno ha il buon senso o la pietà di ricoprirti d'asfalto: qualche legge ingiusta lo proibisce e la gente le rispetta sempre, quelle ingiuste.
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Siamo nel Meridione, in un'importante città, che ho amato come Woody Allen ama New York. Ho smesso di farlo, prima che potesse trasformarsi in necrofilia, perché quella città è morta. Le case, i palazzi, i monumenti sono ancora in piedi, le ossa reggono ancora: è il suo cuore che non batte più, il tanto celebrato, sopravvalutato cuore dei suoi abitanti. Loro sono finiti da un pezzo; nulla più li distingue da una qualsiasi comunità arida, tenuta in piedi dall'odio e dalla necessità di addossare la propria inciviltà e i propri fallimenti a chi sta peggio: in qualche modo, qualcuno che sta peggio lo si trova sempre.
Lasciamo stare questi morti viventi e passiamo ai morti veri, allo zio Peppino, “la buonanima”, come aggiungono i vecchi ogniqualvolta si parli di chi non c'è più.
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Non ho mai avuto una vera relazione, un vero partner, un vero qualcosa del genere. Ci sono andato vicino per qualche tempo, tanti anni fa, erano gli ultimi delle superiori.
Intanto, non sto scrivendo per lamentarmene, o per rivendicare diritti, maledire l'altra metà del cielo (si usa ancora dire così?) o chissà cosa: fidatevi, non sono proprio la persona che chiunque altro vorrebbe avere al proprio fianco, per un periodo più o meno lungo della mia vita. Neanche io mi vorrei, o mi voglio.
Premesso ciò, erano gli anni delle feste dei 18 anni.
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Testo scritto anni fa.
Raf, 1993.
Erano gli anni delle superiori; si potevano ancora trascorrere i pomeriggi bighellonando e fingendo di studiare, senza rimediare troppe occhiatacce dagli altri. Molti di quei pomeriggi li passavo a casa di un mio amico. Per studiare, certo.
Lui poteva permettersi i vestiti di marca, io la roba da plebaglia; poteva comprare i CD, io dovevo arrangiarmi con le cassette registrate dalla radio. Con un budget di 1.000 lire al giorno, schizzato addirittura a 10.000 lire settimanali dai 17 anni in su, non si andava molto lontano. Dovevano bastarmi per una settimana in sala giochi, per qualche sfizio andando o tornando da scuola, per qualche gelato nella stagione calda. Ghiaccioli, in linea di massima: costano meno. E, con quello che avanzava...
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Nulla a che fare con le piogge che stanno martoriando il Nord, in questo periodo (inizio estate 2024). È un articolo vecchio, lo ripropongo ora.
Il brano che vorrei ascoltare per il resto della mia vita, se mi imponessero di sceglierne uno e uno solo.
Ho una confessione da fare, però: ho scoperto solo November rain solo 10 anni dopo. Tiratemi anche dei pomodori virtuali, perché tirare quelli veri ormai è roba da ricchi.
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È stata tormentata dagli schiamazzi per la “ritirata” del santo patrono; a parte questo, non ho vissuto il periodo degli esami come chissà quale momento mitologico di transizione. Era solo la fine di un ciclo scolastico.
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Tutti conosciamo Jojo: storie impossibili, combattimenti come partite a scacchi (le mazzate al posto delle pedine), con sfidanti che portano avanti strategie basate sulle possibili venti mosse successive degli avversari. Il tutto farcito dalle caratteristiche pose, dai vestiti più scemi dell'animazione giapponese e da una serie invereconda di stupidaggini.
È per questo che Jojo ci piace, è un fenomeno di costume e riscuote un successo enorme da decenni.
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Ovviamente, non ne ho; non avrei fallito, altrimenti. E ora, mi ritrovo così, avanti negli anni, senza la voglia e la forza di ricominciare con nuove amicizie. Col timore di rifare gli stessi sbagli, perché gli errori sono fatti per essere ripetuti, mentre saggezza e esperienza sono concetti volatili.
Ho un rapporto complicato col concetto in sè dell'amicizia. Non ho mai dato troppo peso, non so se sbagliando o meno, alle amicizie scolastiche: solitamente, è gente a caso, finita in una classe a caso, senza nulla che faccia da collante, tranne l'indirizzo scelto dalle superiori in su. Si diventa, più o meno amici, più per forza che per desiderio. Finito il ciclo scolastico, finita l'amicizia.
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Prossimamente, scriverò dello zio Peppino, il primo evangelista del Catch in Italia. Non ora: è il momento di un fantasma.
Non ricordo neanche, in verità, se la storiella che segue si sia compiuta sullo scalone dello zio Peppino o qualche altro prozio. Siamo ancora nei primi anni Cinquanta.
Mia nonna tiene per mano mia mamma, la più piccola delle figlie, poco dietro una mia zia. L'oscurità quasi totale di una scala senza finestre interrotta solo da un neon indeciso appollaiato sulla porta in cima, la loro meta.
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L'ANPI organizza una manifestazione in città, in giro per le strade della Liberazione. Diverse tappe nelle strade dedicate a momenti e eroi (perché questo sono) della lotta al fascinazismo, con una breve lettura sui fatti e la posa di una coccarda rossa.
L'amministrazione locale, che patrocina, sul materiale promozionale ha vietato la frase, di purezza cristallina, “W l'Italia antifascista”.
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