pop e memorie

Scritti di una persona pop, del popolino, una persona che non ce la può fare. Memorie agrodolci. Memorie pop, pop memorie.


Non era proprio la Saltafoss originale, ma uno dei suoi cloni più diffusi: Super Cross, forse? Quella con la leva del cambio che sembrava una manopola del Daitarn, insomma; il modello più diffuso, dalle mie parti, era quello nero coi finimenti gialli. E nera, coi finimenti gialli, era quella di un mio amico alle medie, il secondo di quattro fratelli.

Da bambino, ho avuto un paio di biciclette per un periodo brevissimo, ho davvero imparato ad andarci sul balcone di casa, tre metri in tutto e stretto abbastanza da non poter neanche fare inversione di marcia, a patto di non sollevare la bici sulla ruota posteriore e farla ruotare. Ci facevo i tre metri del balcone e poi tornavo indietro spingendomi coi piedi, una, dieci, cento volte, fino a imparare. Non mi portarono mai in un parco, niente.

Diversi anni dopo, bontà loro, ricevetti una Graziella di quelle pieghevoli, col freno a contropedale: nessuno dei miei amici ne aveva una del genere, quindi fui sempre ostile a quella soluzione. L'ostilità, però, durò poco: un giorno tornai da scuola e seppi che la bici era stata venduta. Stavolta, però, per qualche sabato mi avevano accompagnato al Centro Direzionale di Napoli, allora ancora in costruzione, per qualche giretto nei viali già completati, mentre intorno sorgevano quei palazzi che sembravano del futuro.

Nei film statunitensi, quelli che ci hanno indottrinati e plasmati, le BMX accompagnavano i ragazzi in avventure fantastiche, o anche solo da casa a scuola. Quelle case brutte tutte uguali, col giardinetto e il garage. E la cameretta al piano di sopra, con la finestra da cui scappare di soppiatto per le avventure notturne. Tipo sfuggire ai poliziotti, prima coi fucili e poi coi walkie-talkie, per salvare l'alieno nel cestello della bici, diventando una silhouette contro la Luna. Tante altre avventure, forse più terrestri ma non meno esaltanti.

Noi, invece, abitavamo in case brutte tutte scassate, la cameretta solo per i più ricchi, in un palazzo o in una palazzina. Le avventure altrui (mi escludo, essendo sempre stato appiedato) consistevano, al massimo, nell'andare con la bici nei posti ancora risparmiati dalla cementificazione, a sfrecciare, saltare e cadere sulle cuneette di terreno. In periferia, quando la periferia era più vasta. La mia unica avventura in bici, quindi, fu su quella lunga sella strana delle Saltafoss e delle loro imitazioni, questi chopper a pedali che invogliavano a girare con un passeggero.

E passeggero ero quella volta che, in un pomeriggio di strade ancora poco trafficate, stavamo andando a casa di un altro amico, sfrecciando davanti a un venditore di sigarette di contrabbando. Nell'ebbrezza della velocità, posseduti dalla libertà e dall'anarchia, gli urlammo qualcosa contro, non ricordo precisamente ma nulla di sconvolgente. Quello, per tutta risposta, abbandona il banchetto delle sigarette, salta in sella a un Ciao scassato parcheggiato alle sue spalle e fa per avviarlo e, presumibilmente, per insegurci. Iniziamo a ridere, incoscienti, l'amico spinge sui pedali, per quanto possibile, ma impossibile lasciarcelo alle spalle: era una di quelle cose che si fanno stupidamente, come se si potesse evitare l'ineluttabile. Un centinaio di metri, considerato il nostro vantaggio iniziale, ci raggiunge e ci becchiamo uno schiaffo sul coppino a testa. Senza neanche una parola a commento.

Proseguiamo fintamente mesti, intanto il contrabbandiere si allontana e, appena riteniamo di essere ormai a distanza di sicurezza, scoppiamo a ridere. Questa è stata la mia più grande unica avventura in bici, nei tanto celebrati Anni Ottanta.


Stavo ascoltando della musica, poi mi son scocciato e ho tolto le cuffie: nulla, sentivo ancora quelle due canzoni in rotazione. “Sly” degli Scorpions e “In the hands of time” degli Hardline. Allora spengo il computer, pensando che magari provenga dalle casse. Nulla. Stacco la corrente in casa e i due pezzi continuano a tormentarmi, allora vado da uno specialista (specialista in cosa, in auricolari invisibili) che non riesce a identificare il problema.

Mi sembra di impazzire sia per la ripetizione continua delle stesse canzoni che per l'inspiegabilità della cosa. Dopo varie peripezie, vado a una festa con un tizio e risolviamo il mistero: c'è una nana orrenda, una specie di folletto somigliante a Linda Blair dopo la faccenda del crocifisso. E' stata lei a iniziare il tutto, mordendomi... ora potrebbe mordere anche la gente intervenuta alla festa, quindi bisogna fermarla. La rincorriamo, riuscendo alla fine a imprigionarla in una scatola delle scarpe: ora si tratta di neutralizzarla.

In the hands of time continua a spaccarmi le meningi, l'amico mio mi passa un martello e dice “adesso alziamo un poco la scatola, tenterà di scappare e la spaccheremo a martellate”. Solleviamo la scatola e ne fuoriesce un 33 giri col volto della nana orrenda stampato sopra. Lo prendo a martellate, va in frantumi e mi sveglio. Mi ero addormentato con le cuffie, al momento del risveglio c'era Sly in esecuzione.


Sogno di una rivolta carceraria in una specie di prigione dell'India, in bianco e nero: un tizio uccide un secondino e usa la sua pistola per ucciderne un altro, prende le chiavi e inizia a liberare la gente.

La prigione è lunga è stretta, un piccolo corridoio costeggiato da celle in cui la gente dorme a terra, non ci sono suppellettili. La gente inizia ad uscire dalle gabbie: un gigante magro con una pelle terrosa, calvo; due nani russi con una lunga barba, gemelli; umanità varia e alla fine una specie di Humpty Dumpty con arti lunghi e secchi. Tutti ci dirigiamo verso un punto ben definito e dobbiamo passare in uno stretto cunicolo (troppo piccolo per noi, ma ci passiamo; io penso a Humpty Dumpty, come passerà?).

Mentre passo io, una specie di ombra-salmone risale il breve cunicolo. Si spunta su una piscina, è una specie di Morte stessa a indicare la piscina in cui buttarci: non è prudente contraddire la morte. Mi butto, pur non sapendo nuotare. Compare una barra di progressione al contrario, “Blizzard sta rigenerando l'anima”.

Scomparsa la barra mi ritrovo all'aperto, tornano i colori: c'è un quest giver con un punto esclamativo blu, lo consulto e ignoro, poi mi allontano lungo questa specie di bacino idrico che termina in un palazzone.

Scendo dal palazzone scalando le pareti e mi ritrovo in una specie di studio cinematografico a più piani: al piano terra c'è l'esibizione di un certo regista danese, si vedono dei demoni danzare e ballare, prima neri e poi bianchi. Demoni alati, demoni con troppi arti e dispari, gambe montate su gambe eccetera.

Ancosa sognando, racconto al personaggio X di aver sognato della rivolta indiana, poi non ricordo come sia finito. Il sogno, in bianco e nero, aveva una fotografia strepitosa, un'atmosfera mai vista in un film.


Non lo so, non lo so più. Generalmente, potrebbe essere una persona che non abbiamo mai incontrato, che non abbiamo mai potuto toccare fisicamente: non mi piace toccare la gente ed essere toccato, è il concetto. Qualcuno con cui non abbiamo mai scambiato una parola, un estraneo.

Potremmo allargare la definizione anche a persone conosciute astrattamente: gente in qualche modo famosa, idealmente avvicinata da uno scambio di battute a distanza, incorporee. Loro da una parte, noi dall'altra e in mezzo qualche chiacchiera. Da estranei.

Per contro, chi sarebbe un amico, un conoscente, un parente? Qualcuno a cui dovremmo esser legati da un vincolo di amicizia, sangue, da un rapporto professionale, chissà. Ebbene, quanto sappiamo davvero di queste persone? Poco, preferibilmente, perché a conoscer troppo a fondo la gente si finisce con l'accumulare delusioni su delusioni. O troppo, e in quel caso è già tardi.

Mi è capitato con gli amici di una vita. Meglio sarebbe stato limitarsi alla superficialità, a uno stato di conoscenza controllata, leggera. Amici sì, ma fino a un certo punto. I parenti, poi, neanche li scegli.

Qualche giorno, prima di scrivere questo testo, ho avuto un breve scambio di battute, in chat, con una persona che dovrebbe essere sconosciuta, estranea, secondo quanto scritto all'inizio. Invece, non che ne avessi dubbi, questa persona si è confermata (non che ce ne fosse il bisogno) limpida, coerente, integra, in una chat privata esattamente come nella sua persona, intesa come immagine, pubblica.

Ho risuonato con questa persona “sconosciuta” più che con gente che conosco da 500 anni. Ho pensato che da grande vorrei essere così, anche se è già tardi per essere grande. Ho pensato ai rapporti che instauriamo, o dovremmo, con gli sconosciuti, con gli estranei. È stato un momento luminoso e ho scritto questa cosa.


Oggi si chiamano action figure: è un oggi relativo, come lo ieri che poi, calcolatrice e calendario alla mano, son passati alcuni decenni. Poco dopo quella visione, potenzialmente pirata, del film, ci fu l’esplosione del merchandising anche dalle nostre parti.

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Erano questi giorni, i primi di settembre, ma di decine di anni fa. È un rito che ancora si perpetua, probabilmente, ma non ho più l'età per viverlo, nè una discendenza con cui condividerlo. Gli acquisti scolastici per il nuovo anno (scolastico)

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Riciclo uno scritto molto vecchio.

Tornando verso casa da C., percorro a ritroso via N. S. e non è altro che un viaggio nel tempo, quasi ordinato in maniera discendente. Quasi, perchè certe stazioni sono messe alla rinfusa. La strada è sempre scassata: una sequela di buche, alcune rammendate a suon di toppe di colori sbagliati. Asfalto cicatrizzato male. Chiara metafora della vita, solo che nessuno ha il buon senso o la pietà di ricoprirti d'asfalto: qualche legge ingiusta lo proibisce e la gente le rispetta sempre, quelle ingiuste.

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Siamo nel Meridione, in un'importante città, che ho amato come Woody Allen ama New York. Ho smesso di farlo, prima che potesse trasformarsi in necrofilia, perché quella città è morta. Le case, i palazzi, i monumenti sono ancora in piedi, le ossa reggono ancora: è il suo cuore che non batte più, il tanto celebrato, sopravvalutato cuore dei suoi abitanti. Loro sono finiti da un pezzo; nulla più li distingue da una qualsiasi comunità arida, tenuta in piedi dall'odio e dalla necessità di addossare la propria inciviltà e i propri fallimenti a chi sta peggio: in qualche modo, qualcuno che sta peggio lo si trova sempre. Lasciamo stare questi morti viventi e passiamo ai morti veri, allo zio Peppino, “la buonanima”, come aggiungono i vecchi ogniqualvolta si parli di chi non c'è più.

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Non ho mai avuto una vera relazione, un vero partner, un vero qualcosa del genere. Ci sono andato vicino per qualche tempo, tanti anni fa, erano gli ultimi delle superiori. Intanto, non sto scrivendo per lamentarmene, o per rivendicare diritti, maledire l'altra metà del cielo (si usa ancora dire così?) o chissà cosa: fidatevi, non sono proprio la persona che chiunque altro vorrebbe avere al proprio fianco, per un periodo più o meno lungo della mia vita. Neanche io mi vorrei, o mi voglio. Premesso ciò, erano gli anni delle feste dei 18 anni.

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Testo scritto anni fa.

Raf, 1993. Erano gli anni delle superiori; si potevano ancora trascorrere i pomeriggi bighellonando e fingendo di studiare, senza rimediare troppe occhiatacce dagli altri. Molti di quei pomeriggi li passavo a casa di un mio amico. Per studiare, certo. Lui poteva permettersi i vestiti di marca, io la roba da plebaglia; poteva comprare i CD, io dovevo arrangiarmi con le cassette registrate dalla radio. Con un budget di 1.000 lire al giorno, schizzato addirittura a 10.000 lire settimanali dai 17 anni in su, non si andava molto lontano. Dovevano bastarmi per una settimana in sala giochi, per qualche sfizio andando o tornando da scuola, per qualche gelato nella stagione calda. Ghiaccioli, in linea di massima: costano meno. E, con quello che avanzava...

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