memorie

Diario pubblico agrodolce


Non so dare un peso e un'età agli esseri viventi, ma di una cosa sono certo: quel cagnolino, 5 o 6 chili al massimo, era già vecchio quando l'abbiamo conosciuto.

Ci siamo trasferiti in un altra regione e, probabilmente, già il nostro primo nuovo giorno in un posto nuovo l'abbiamo incontrato. Tutto marroncino, poco ingombrante, col faccino più chiaro, come sbiancato dall'età. L'abbiamo incontrato quasi al centro della nostra strada, una traversa a senso unico. Il posto dove è quasi sempre stato, quando non si ritirava a casa.

E sì, si piazzava come una sfinge non al centro della strada, ma quasi: questa mancanza di simmetria serviva a far passare , alla sua destra o sinistra, gli automobilisti. Fosse stato impalato al centro, avrebbe dovuto spostarsi, invece no: restava immobile, quasi parte dell'arredo urbano, una rotonda, uno spartitraffico. Abbaiava con estrema parsimonia, mia mamma non deve averlo mai sentito emettere un suono per tutti questi quasi tre anni.

Tutti in zona lo conoscevano, ovviamente: non sarebbe arrivato illeso a quell'età, diversamente. Negli ultimi tempi stava addirittura formando un discepolo: un cagnolino un po' più esile, quasi identico; chissà, un fratellino di un'altra cucciolata, un figlio. Lo portava in giro, gli mostrava le strade, dove piazzarsi. L'allievo imparava bene, li si vedeva piazzati sui due lati della strada, sfalsati. Le macchine facevano la gincana.

Un pomeriggio, un sabato, sono uscito per una consegna, non potevo fermarmi, il tempo mi spingeva. In una traversa laterale, larga giusto per una macchina, vedo questa macchina bianca ferma, il padrone della macchina a parlare, rabbuiato, col padrone dei due cagnolini.

L'automobilista era rimasto chissà quante decine di secondi ad aspettare che si spostasse. Quella sfinge in miniatura non si sarebbe mai più mossa.

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Era il profumo dell'estate che finiva, con mio padre, quando ero piccolo.

La villeggiatura chiudeva l'estate, quando ancora a fine agosto il tempo cominciava a rinfrescare e nelle serate dei paesini di montagna spuntavano giubbini e maglioncini. Quando ad agosto si poteva dormire la notte, piuttosto che macerare in un bagno di sudore.

Andavamo in villeggiatura per due settimane o un mese. Due settimane in Abruzzo, perché due erano le sue settimane di ferie. Un mese, invece, quando andavamo più vicino e poteva lasciarci lì e raggiungerci nei fine settimana. Oppure, ci ospitavano degli zii in Toscana, per diversi giorni. E c'era sempre il profumo dell'origano, perché lo incontravamo selvatico, incustodito, libero ai margini della campagna.

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Scrivo nell'ultimo giorno di ottobre, ieri al sole pareva il 1° maggio, fuori la bougainvillea esplode di un rosso che sfuma nel violetto, direi che non va proprio bene.

Quando ero bambino, questi quattro giorni erano una piccola vacanza dopo poche settimane di scuola, erano ancora festivi 2 e 4 novembre. Non si festeggiava ancora Halloween: non sono contro alle festività percepite come importate, non vedo perché sia accettabile e consigliato riempire l'italiano scritto e parlato di itanglese e poi scagliarsi contro queste festività che ci sostituiscono etnicamente, in spregio totale ai patrioti e alle radici cristiane. All'epoca, il 1° novembre “erano i morti”: proprio così si diceva dalle mie parti, sono i morti.

Mio padre lavorava al Comune e, in quel periodo, si occupava di servizi cimiteriali accessori, quindi lavorava e a casa c'eravamo io con la mia piccola dose di ferie e mia mamma, ero ancora figlio unico. Mi agghindava coi vestiti buoni, i nostri vestiti buoni erano quelli non usati presi al mercato, ma roba di qualche stock di abbigliamento, ultrascontata. Le polacchine ai piedi. Scendevamo, con la carrozzina al seguito, casomai dovessi stancarmi, in genere ce la portavamo dietro inutilmente. Erano un paio di chilometri, ma da bambino mi sembrava chissà quale viaggio, da bambini tutto sembra troppo grande. Quante volte iniziavo a lagnarmi per la sete, mia mamma bussava con le nocche a una qualche finestra al piano terra, quella si apriva e una signora ci allungava un bicchiere d'acqua.

Quel percorso infinito mi sembrava una specie di festa sparpagliata, nonostante sapessi il motivo per il quale si va al cimitero. Man mano che ci si avvicinava, aumentavano le bancarelle coi giocattoli (scuole chiuse, tanti bambini) e i dolciumi, ovviamente dominava il torrone, storicamente il dolce dei morti in quella zona. Ne compravamo un pochino, assieme ai melograni, sicuramente l'elemento più caratteristico di quelle giornate. Non che ci piacessero particolarmente, pure fastidiosi da preparare, ma era la tradizione.

Sempre per una sorta di tradizione, quel giorno il cielo era di un bellissimo azzurro. Pulito, striato di poche nuvole candide. C'era un freddo pungente, da maglioncino, sostenuto da un vento più che frizzante, vere e proprie fitte di gelo, brevi e intense.

Era sempre così, non ci si poteva sbagliare: il 1° novembre era un limpidissimo giorno di freddo, anticipo d'inverno. Sono anni che non è più così, stavolta con le maniche corte è caduto l'ultimo tabù. Per troppa gente ancora va bene così, non c'è da preoccuparsi. E invece non va bene per nulla.