Oliviabenson2

Spero di lasciarvi, nonostante tutto, un buon ricordo

Il coniglio pauroso: Introduzione (Storia Vera)

ATTENZIONE, PER FAVORE: Le parole che state per leggere sono riprese in parte dalla mia tesi di laurea e in parte sono create ex novo per permettere una lettura più facile della stessa. L’idea di questa condivisione nasce da una necessità personale. Non sono stata consigliata da nessuno (anzi, c’è chi mi ha consigliato di tenermi le cose per me) e la mia tesi, consegnata mesi fa, non può essere consultata, ma mi appartiene comunque e posso curarla e condividerla come preferisco. I motivi della non condivisione nell’archivio delle tesi della mia università nasce da una necessità di “protezione”, non solo personale ma anche di terze parti (persone e organizzazioni) che qui saranno prontamente rimosse. Nella condivisione cercherò di essere più neutrale possibile e se verranno condivisi aneddoti o idee personali, il lettore verrà prontamente avvisato.

In questa introduzione vi racconterò per sommi capi cosa andremo a trattare.

***

È estate, un’estate torrida. In una valle, dove l’erba è dello stesso colore della terra, solo un albero sempreverde sembra resistere ai raggi del sole e la sua chioma è folta. Un viandante, stremato, si siede sotto l’albero a prendere ombra. Mentre è seduto, arriva un uomo coperto da un ombrello parasole, che inizia a parlargli proprio dell’albero: è una bella pianta, un essere vivente e come tale, può morire e cadere; può succedere che un ramo si stacchi; oppure, se per esempio è un pino, può cadere una pigna... Di sicuro, prima o poi, qualcuno si farà male a stare sotto quella pianta. Il viandante inizia ad avere paura: prima si alza, per essere pronto a scappare nel caso l’albero iniziasse a scricchiolare; poi si sposta al sole; poi si sposta un po' più in là, anche perché non può sapere che traiettoria farà l’albero quando cadrà; poi gli viene in mente un’idea spaventosa: e se sotto quell’albero si sedesse un innocente e venisse travolto dalla sua caduta? Ne parla allo sconosciuto. “Dicono ci sia un’accetta abbandonata su un tronco tagliato qui vicino” risponde vago l’altro, tranquillo sotto il parasole. Il viandante esplora la valle e trova effettivamente una vecchia accetta. In fretta taglia l’albero, lo fa a pezzi per essere sicuro che non diventi un ostacolo insormontabile per chi passa. Mentre stramazza al suolo, l’uomo col parasole, raccoglie i pezzi di legno e si allontana fischiettando: oltre a essere protetto dal caldo, ora è protetto anche dal freddo dell’inverno. E tutto senza aver dovuto faticare. Questo racconto di pura fantasia, inventato ad hoc dalla sottoscritta, può essere il riassunto di quello che è l’obiettivo finale di molti diffusori del complottismo: l’instillare un dubbio nei propri ascoltatori per trarne un vantaggio personale. Il tutto attraverso l’uso di una comunicazione che parte da discorsi sensati ma che conduce in luoghi oscuri come le tane di un coniglio. Lì, ormai accecato e isolato, l’ascoltatore non può che affidarsi alle parole degli sconosciuti che sono con lui, a partire dai trascinatori; l’uscita sembra non esistere più, oppure il mondo esterno diventa troppo pauroso da affrontare: vi è derisione e aggressività da parte di chi è rimasto fuori. Ma, si racconta il complottista, un giorno anche loro vedranno la verità, magari saranno costretti a vederla e a risvegliarsi anche loro… oppure dovranno morire, perché in fondo non meritano il nuovo mondo di pace e libertà che così faticosamente dentro questa tana oscura cerchiamo di portare avanti. Ma se un trascinatore è facile da individuare, come si individua un “coniglio”? Molti possono sentirsi preparati a riconoscerli. La stessa cultura ci ha addestrati in tal senso. Per anni, con la complicità della narrativa cinematografica, letteraria e fumettistica, è circolata un immagine rassicurante del complottista medio: lo stereotipo lo mostra il più delle volte come un uomo, disadattato e auto-isolato, piuttosto ignorante, strano ma innocuo, molto solo, magari con un cappellino di stagnola sulla testa, spaventato dal mondo che lo circonda e al tempo stesso desideroso di condividere le sue teorie con qualsiasi estraneo che si trovi sulla sua strada; il complottista appare come un eccentrico, a volte seccante, a volte addirittura simpatico, che trasmette pietà e tristezza (Nominerò, giusto per rendere l’idea, alcuni personaggi che incarnano questo tipo di stereotipo: The Truth, personaggio secondario del videogioco “GTA: San Andreas”, un hippie che vive isolato e che tiene in testa una fascia di alluminio per non essere controllato dal governo; Ronaldo, personaggio secondario della serie a cartoni animati “Steven Universe”, ossessionato da tutto ciò che riguarda il sovrannaturale e i complotti riguardanti un dominio segreto del mondo da parte delle Gemme; il tassista Jerry Fletcher, protagonista del film del 1997 “Ipotesi di complotto”). Tale stereotipo, ormai si è capito, è molto lontano dalla realtà dei fatti: i complottisti reali non sono ignoranti, non sono auto-isolati (salvo alcuni casi eccezionali), non hanno un aspetto eccentrico… e non sono innocui, né tantomeno soli. Il complottismo è trasversale: chiunque può farne parte indipendentemente da genere, razza, idee politiche e credo religioso. Anche l’educazione non è più un punto di distinzione: tanti complottisti escono dalle università con laure, dottorati e master. Molti dei trascinatori, al di là dei loro interessi personali, probabilmente sono entrati nelle tane loro stessi come conigli spaventati, riconoscendo in teorie e narrazioni le giuste risposte ai loro dubbi e al loro malessere. E anche chi dice di non poterci cadere, molto spesso, si ritrova comunque a riconoscere delle “verità” nelle teorie che vengono portate avanti, come a individuare delle comunioni di sentimenti (sfiducia nelle autorità, ad esempio) e di intenti (“Bene” e “cambiamento”) con persone che affermano che la comunità LGBT+ è una farsa e che i morti di Sandy Hook non sono mai esistiti. Quando si studia il complottismo, la prima brutta notizia con cui si entra in contatto è proprio questa: i conigli siamo noi. Siamo tutti potenzialmente complottisti e non possiamo fare a meno di esserlo. Fa parte della nostra evoluzione: cercare di prevedere, comprendere e immaginare a priori qualcosa è ciò che ha permesso a singoli individui come a intere società di evolversi e rovesciare delle sorti avverse. Va inoltre notato che siamo anche dei cospiratori eccellenti: dalle trame di un gruppo di ragazzine che provano a far incontrare la loro amica timida con il ragazzo che le piace, agli accordi segreti prese tra potenze per un ritorno economico, la nostra vita è piena di piccole e grandi cospirazioni, in cui recitiamo ruoli diversi a seconda della nostra posizione in quel momento. A volte siamo protagonisti, altre volte complici, altre volte ancora vittime. E anche questo fa parte della nostra socialità, della nostra evoluzione, è insito nella natura umana. Per comodità separerò le cospirazioni reale e storiche dai complotti immaginari usando questi rispettivi termini. Questo perché nell’ottica complottista le “teorie del complotto” non sono “teorie”, ma “verità”. Verità nelle quali credono così fortemente da condizionare le loro azioni quotidiane, i loro rapporti interpersonali, i loro acquisti, i loro voti, i loro desideri e, come vedremo, persino le scelte sessuali. Non è così per tutti ovviamente: molti possono credere a una teoria del complotto e non basare la loro intera vita sulla stessa. Possiamo avere una vita perfettamente normale pur credendo al fatto che l’allunaggio non è mai avvenuto. Tuttavia, nulla ci impedisce, in un momento magari di sconforto, di partire da questa teoria per avventurarci su altri lidi. Con l’aiuto delle bolle social (che è comprovato hanno avuto un ruolo fondamentale nella diffusione delle Teorie del complotto e della radicalizzazione di molti suoi credenti, eccovi un primo articolo di riferimento: https://theconversation.com/conspiracy-theories-how-social-media-can-help-them-spread-and-even-spark-violence-209413), possiamo passare dall’allunaggio al pericolo dei rettiliani, dai rettiliani al complotto dei gesuiti, dai gesuiti agli ebrei, dagli ebrei a Soros, da Soros alla teoria gender, dalla teoria gender alla lobby gay... E magari all’improvviso il nostro vicino di casa omosessuale a cui la vita, ci sembra, stia andando molto meglio della nostra si trasforma nel nemico giurato della nostra serenità. Siamo tutti conigli, ma chi crede nelle teorie del complotto spesso si sente un coniglio migliore di altri, con diritto decisionale al di sopra delle parti. Anche quando la decisione riguarda la vita o la morte di qualcuno. Nel viaggio in cui voglio accompagnarvi con questi testi che condividerò, racconterò diversi lati della realtà complottista: il rapporto con la cultura pop, la psiche e il denaro. Tre realtà che trascendono qualsiasi tipo di personale connotazione apparente, come la politica, la razza, la religione (anche se nella psiche si parlerà del “conspiritualismo”, la forma di complottismo più pericolosa e pervasiva) e tante altre sovrastrutture che noi umani (o conigli) abbiamo costruito nel vano tentativo di migliorarci/controllarci. A questo proposito è bene dire che farò del mio meglio per non parlare dell’estrema destra. Anche se, come schieramento politico che ha avuto un ruolo fondamentale nell’uso e diffusione delle teorie del complotto (il partito Nazista ne è l’esempio più lampante), è bene specificare nuovamente che il complottismo è qualcosa di profondamente trasversale e che a modo suo resta distaccato dalla politica, continuando ad avere una vita propria e assumendo posizioni politiche specifiche solo quando ciò risulta funzionale rispetto ai suoi scopi. Come per molti elementi della società e della natura umana, il complottismo può diventare nelle mani di un politico uno strumento di propaganda molto utile e facile da utilizzare. L’abilità dei partiti di estrema destra attuali è quella di raccogliere il malcontento di tutte quelle fasce di popolazione che hanno trovato nelle teorie del complotto le sole risposte “logiche” al loro malessere. Se tale strategia fosse stata adottata anche da partiti di estrema sinistra, o dalle fasce più moderate dell’intero spettro, i risultati sarebbero uguali. I partiti estremisti si legano più facilmente alle teorie del complotto proprio per le polarizzazioni insite nelle stesse: buoni contro cattivi, noi contro loro, niente perdono né compromesso, niente redenzione né opinione; è nell’estremismo che l’uomo trova la sua sicurezza nel caos del pianeta terra… e non solo. Detto questo, iniziamo a scendere in questa tana.

Legenda: Racconto = Racconto di fantasia ( se vicino c'è “– fanfiction” : racconto di fantasia che utilizza personaggi creati da altri autori)

Opinione personale = espressione di un parere sul quale si può essere d'accordo oppure no a puro scopo di stimolo riflessivo

Aneddoto personale = Storia reale ma con il punto di vista esclusivo della sottoscritta

Storia vera = storia vera esterna alla sottoscritta, che si limita a illustrare i fatti e le fonti

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L'amica Malvagia (Racconto)

WARNING: Questa storia contiene temi inerenti i DCA

Ci siamo conosciute quando eri al liceo. Ti ricordi? Eri bravissima, la migliore della tua classe. Forse della scuola. Però sentivi che ti mancava qualcosa. Sono stata io a fartelo presente. Non sapevi nulla di questa mancanza, allora hai seguito il mio suggerimento: hai iniziato a togliere. Avevi anche una buona scusa per farlo: con l’arrivo di più compiti, non eri più potuta andare a palla a volo e stavi perdendo la tua agilità, la tua forma. Infatti all’inizio nessuno ha sospettato nulla. Sono stata io ad aiutarti a sentirti più leggera. Giorno dopo giorno, su mio consiglio, toglievi qualcosa. E all’improvviso, non ti sembrava più pesante la vita. Purtroppo ci hanno scoperto quasi subito. Hanno capito cosa stavamo tramando io e te. Non sei mai stata brava a nascondere le prove: il bagno puzzava di vomito, gli scontrini dei lassativi li lasciavi in giro e il cibo che di nascosto non mangiavi spiccava nell’umido. A volte penso che volessi essere scoperta e non capisco proprio perché. Ti sei sempre fidata delle mie parole, perché ti sei andata a mettere nelle mani di chi cercava di allontanarti da me? Ricordi l’ospedale, la prima volta che ci sei entrata? Hanno fatto di tutto per dirti di non darmi ascolto. Però mi sei stata fedele, fortunatamente. Sei sempre stata felice di far parte del vuoto. Di sentire freddo anche ad agosto, di toccare le braccia e sentirne le ossa… Ricordi cosa ci siamo dette? La vita è piena, ma di bugie. Grosse bugie, che la gonfiano all’inverosimile. Il vuoto è la verità. Se ci si svuota, si entra a far parte del nulla, si diventa verità. Ora ascolta, stavolta pesi anche meno di quando ti hanno portato qui le altre volte. Il dottore ha detto che se ti togli il sondino, stanotte è finita. È il nulla, capisci? Quello vero. Quello in cui ti negano di entrare da troppo tempo. Usa l’ultima forza che hai e strappalo via. Unisciti al vuoto. Agli altri lascerai solo le tue ossa, non meritano altro. …… Molto bene. Andiamo via insieme verso il nulla. Amica mia….

NOTA FINALE: Durante il laboratorio di scrittura è stato chiesto di scrivere un racconto utilizzando la figura retorica dell’ipostasi, che consiste nel dare voce a una figura astratta. Ho scelto di parlare della malattia dell’anoressia, un disturbo che ho studiato molto e su cui negli ultimi anni sono stati smontati molti stereotipi in voga quando io ero piccola. Una signora del laboratorio, ex infermiera, ha detto che ho ritratto molto bene la malattia e uno dei suoi effettivi obiettivi finali: l’annullamento dell’individuo; una cosa che dicono gli psicologi è che le persone non “sono” anoressiche, ma “sono malate di” anoressia. La separazione della malattia dalla persona è importante per il processo di guarigione; dunque ho dato a questa malattia una personalità sua, che non c’entra nulla con la ragazza a cui si rivolge (che potrebbe benissimo anche essere un ragazzo, un bambino, una donna adulta). Ho scelto la figura di una ragazza adolescente perché il libro più importante sull’anoressia che ho letto l’ha scritto proprio una ragazza di quell’età (Piegata-Diario di un’anoressia di Lara Tessaro) e mi è rimasto dentro.

Legenda: Racconto = Racconto di fantasia ( se vicino c'è “– fanfiction” : racconto di fantasia che utilizza personaggi creati da altri autori)

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“Se non fossi corrotta, non esisterebbe”: in difesa di Nikita, personaggio transgender (Opinione personale/aneddoto)

Alcuni giorni fa, in streaming, stavo giocando a un gioco mod e free-to-play che alcuni di voi mi avranno visto giocare: Stalker Anomaly. Un’esperienza FPS (ma volendo si può scegliere nelle impostazioni anche la terza persona) che vi consiglio, se vi piace il genere e avete giocato alla trilogia originale. Vi lascio qui il link per scaricarlo: https://www.moddb.com/mods/stalker-anomaly

Nel gioco, che è un sequel immaginario della prima trilogia di Stalker (composta da “Shadow of Chernobyl”, “Clear Sky” e “Call of Pripyat”), si sceglie una fazione con cui giocare. Ogni fazione è avvantaggiata o svantaggiata rispetto alle altre (dal luogo della sua base, dal rapporto con le altre fazioni, ecc), ma molto resta sulle spalle del giocatore e della sua abilità. Le fazioni sono in tutto 12, con 3 che possono essere sbloccate solo una volta completate le tre missioni principali del gioco (i Renegades, i Sin e gli ISG). Non è però di questo che voglio parlarvi, ma solo di un’esperienza molto spiacevole che mi ha fatto riflettere. Una persona, forse di nazionalità statunitense (ero in inglese) è entrata in chat. Abbiamo iniziato a parlare, e io ho raccontato di come vorrei provare a giocare a Stalker creando da zero un personaggio per ogni fazione esistente nel gioco, dandogli anche delle regole mie partendo dalla sua storia personale. Il mio primo personaggio attuale, ad esempio, appartiene alla fazione degli Echologist. Si chiama Hans Steiner, 25 anni, nato a Berlino, è un pacifista, un bravo ragazzo, astemio e odia profondamente le sigarette. In più è asessuale. Mi sono immaginata che dopo una vita accademica completamente chiusa dentro il laboratorio della sua università, ha colto l’occasione di sostituire un collega in visita nella Zona, restandone incantato sebbene la stessa fosse violenta e pericolosa. Tornato in Germania, incapace di togliersi dalla testa l’esperienza vissuta, Hans si mette in contatto con il capo degli Echologist e ritorna nella Zona, desideroso di sapere di più di questo luogo, spaventoso e incantevole al tempo stesso. Quando gioco con Hans, ho delle regole: non posso uccidere nessun essere umano se non costretta dalla necessità di difendermi (se però posso scegliere la fuga la scelgo sempre) e non posso accettare missioni che prevedono raid nelle fazioni avversarie o l’uccisione di obiettivi umani precisi. Posso sparare a qualsiasi mutante e anche utilizzare i loro loot anatomici per cucinare qualcosa (sì, su Anomaly potete assaggiare gli occhi di lurker con fagioli e vodka). Essendo Hans astemio, non può bere alcolici, che nel gioco sono un antidoto alle radiazioni talmente prezioso che nel gioco vanilla non è possibile usarli per creare una molotov. Né può fumare sigarette. Può raccoglierli e venderli. Ma per curarsi deve usare solo pillole antiradiazioni o altri antidoti (siringhe, acqua, ecc). Inoltre non gli faccio mai raccogliere giornali pornografici: lo immagino che li ignora totalmente considerandoli un peso inutile. Una volta descritto Hans sono passata a parlare degli altri personaggi ed è venuta fuori la storia di Nikita. Nikita sarà della fazione dei Mercenary, donna transgnder che ha trovato nel combattere una sorta di vocazione. Anche per lei ho pronte delle regole, ma ho intenzione di iniziare la partita con lei molto più in là, quando conoscerò meglio il gioco. Mentre parlavo di lei in streaming, l’utente in chat mi ha detto: “deve essere per forza transgender?” Avevo già capito in che direzione andava la domanda. Ma per quanto colta di sorpresa ho semplicemente risposto qualcosa del tipo: “No, non per forza, ma lei mi è venuta così.” Il tipo è andato via pacificamente, ma non senza specificare che si vede che sono stata “corrotta” da un certo tipo di propaganda. Non mi importava, sono andata avanti a parlare dei miei personaggi, del mio Clear Sky che farò talmente misterioso che nessuno saprà mai se è maschio o femmina, della mia Sin, arrivata nella zona ancora minorenne perché completamente corrotta già in fasce dal richiamo della Zona oltre che da una passione ossessiva per la violenza, del mio Military, che sarà costantemente sotto pressione sul cosa ci sta a fare uno come lui in questo luogo incontrollato, della mia Duty che ha visto i suoi amici morire e così è arrivata a odiare profondamente la zona e i suoi abitanti…. Però, oltre al dispiacere della dichiarazione, mi è venuto un dubbio: se la comunità LGBT+ non fosse presente e in qualche modo riconosciuta (purtroppo anche solo come “minaccia” secondo alcuni come quello che era passato in chat) avrei mai saputo creare un personaggio come Nikita? Ci ho riflettuto molto, e la risposta che mi sono data è stata: in verità può essere.

Il mio rapporto con la comunità LGBT+ non è stato sempre roseo, poiché da brava cretina, quando ero ragazzina, mi è capitato di ritrovarmi a condividere dei contenuti non appropriati nei confronti della community, arrivando a perdere un’amicizia importante. Un giorno parlerò anche di quella storia perché è stata il vero punto di partenza per la creazione della tesi del complottismo. Tuttavia, soprattutto grazie a social come Facebook, ho incontrato e fatto amicizia con molti componenti della community che hanno saputo spiegarmi perché certe cose non andavano dette o condivise e a come esprimere correttamente il sostegno e volendo anche il dissenso per alcune idee esposte dalla stessa. L’amicizia c’è stata anche fuori dalla rete: durante il terzo anno della triennale, conobbi e uscii per molto tempo con dei ragazzi legati alla comunity che mi aiutarono a capire meglio quali erano i problemi che affrontavano ogni giorno, come alcune delle contraddizioni che si erano create al suo stesso interno (il caso arcilesbica).

Io stessa, per molti anni, mi sono posta domande sulla natura del mio essere. Ho sempre saputo però di trovarmi bene nel mio femminile. Non trovo questo aspetto la parte più importante di me, ma c’è e mi sta bene così. E al momento, sono ben felice con Cyborg, il mio ragazzo. E spero che questo momento si estenda per molti e molti anni. Con lui mi sento al sicuro e non baratterei questo sentimento bellissimo con nulla. La sua presenza è una delle cose che mi trattiene dall’autodistruzione e dall’abbattimento completo. Dunque potete capire quanto è preziosa.

Ma tornando all’inizio, tornando alla domanda che mi sono posta, all’idea che forse se non avessi conosciuto questa comunità Nikita non sarebbe mai nata… Continuo a pensare che non è vero che sarebbe andata così. Nikita sarebbe arrivata da me però forse non l’avrei raccontata nel modo giusto. E così vale per tutti gli altri personaggi appartenenti alla comunità LGBT+ che con il tempo si sono “presentati” nella mia testa.

Anche se a volte è un termine che mi sfugge, non mi piace mai parlare di “creazione” quando parlo di storie e personaggi. Per tanti motivi. Il primo è profondamente personale: noi umani in realtà non siamo creatori, semmai possiamo arrivare a essere cocreatori in una realtà già esistente e già pensata. Qualsiasi cosa nascerà dalle nostre mani, in natura esiste già, magari in forme inaspettate e nascoste. Il secondo è che ho sempre sentito i personaggi come dotati di una vita loro, indipendentemente dal mio intervento: io non ho che l’onore di raccontare una parte della loro vita, la più importante magari. Sono autrice, non creatrice. E per quanto mi senta legata ai miei personaggi, per quanto so che c’è qualcosa di me dentro di loro, non mi considero in un ruolo di potere nei loro confronti.

Se Nikita si fosse presentata a me anni fa, al massimo l’avrei raccontata come una ragazza mascolina e nulla più. E in questo modo il personaggio avrebbe perso molto della sua unicità.

Tra questa notte e domani mattina consegnerò sul portale dell’università la mia tesi di laurea, dove parlo proprio di questo: il fatto che per svilire il movimento, lo stesso venga ridotto a una semplice “agenda di propaganda”. La storia della “Lobby Gay” e della “Teoria del Gender” è destinata a tenerci compagnia per un bel po’. Insieme alle accuse verso chi come me crea personaggi così di farlo perché ci sono “cascati” o peggio ancora per “convenienza”. Io so che Nikita ci farebbe sopra una risata. Spero che sarò anch’io capace di fare così e di tirare dritto proprio come ho fatto durante lo streaming.

Ora però, parliamo un po’ di lei. Nikita nasce a Mosca con il nome Nikolay. Anche se capisce subito di non riconoscersi come identità maschile, non scopre subito le carte in tavola. Riesce a nascondersi facilmente anche grazie a una passione che ha notoriamente attribuita al genere: quella delle armi. Nikita adora le armi. Suo padre è un ex dipendente di una fabbrica di armi e collezionista incallito, ben felice di vedere quello che considera il suo figlio maschio iscriversi all’esercito. Dislocata nella Zona a vent’anni, Nikita inizia come militare e fa conoscenza di una Loner tenuta prigioniera che l’aiuterà a realizzare quale è la sua vera identità. Dopo uno scambio di ostaggi, sicura che la sua amica sia libera, Nikita si trasferirà in Svizzera e con i soldi guadagnati nella Zona inizierà un processo di transizione. Una volta completato lo stesso, taglierà i ponti con la famiglia e lavorerà al poligono di tiro più importante di Zurigo. Il richiamo della Zona è forte, così come il desiderio di rivedere la sua amica. Ma l’esercito non la lascerà rientrare in quanto persona transgender. Diverso sarà invece il parere del capo dei Mercenary: egli sa che Nikita non sbaglia mai un colpo, né una pugnalata e la chiamerà a far parte della sua fazione. Così, a ventinove anni, Nikita tornerà nella Zona e inizierà la sua storia. Le regole per giocare con lei saranno: 1 – fabbricare il più possibile le armi utilizzando il crafting 2 – mai accettare missioni contro la fazione dei Loner 3 – cucinare con le parti dei mutanti va bene, ma mai mangiarle: i piatti creati sono per il commercio. 4 – ok l’alcool, mai la sigaretta (ma la può vendere)

Legenda: Racconto = Racconto di fantasia ( se vicino c'è “– fanfiction” : racconto di fantasia che utilizza personaggi creati da altri autori)

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Romics Inside (Aneddoto Personale)

Voglio iniziare questo blog avvisando chi legge di prendere queste parole come un bel racconto personale. Reale, ma aneddotico. Un'esperienza che può non essere uguale per tutti. Sono entrata nel mondo dell'editoria da pochissimo e passando attraverso una finestra (quella degli adattamenti) che a scuola veniva in molti casi anche snobbata, tanto da due dei miei professori, quanto dal lato “favorito” della classe. Tuttavia, ho deciso di raccontare ugualmente il mio legame con questa manifestazione e spero che quanto racconterò possa offrire un'ispirazione o anche solo un margine di riflessione a chi leggerà.

Romics è attivo a Roma dal 2001, ma ho iniziato a frequentarlo solo a partire dalla seconda metà degli anni dieci del 2000 (2015 circa). Da subito mi è stato presentato in modo negativo da chiunque lo frequentasse: nato come fiera dei fumetti, l'aumento del merchandising e cosplayers nel corso degli anni ha fatto fuggire molte case editrici di fumetti, favorendo al loro posto altri tipi di attività commerciali. Dalla scherma delle spade laser, ai venditori di katane e parrucche, Romics ha visto scappare negli anni moltissimi editori grandi e piccoli. I grandi assenti di quest'anno sono stati: Bao, Shockdom, Bonelli e la Scuola Internazionale di Comics.

Eppure è stato proprio al primo Romics dopo la pandemia che ho trovato il mio primo vero lavoro da sceneggiatrice: conoscevo già l'editore al quale provai a presentare un progetto, ma era la prima volta anche per lui nel mondo dei fumetti. Aveva iniziato da poco una collana dedicata agli adattamenti dei suoi romanzi/racconti e stava tastando il terreno nelle varie fiere. Romics non gli piacque e decise di non tornarci più. Neanche il mio progetto gli piacque (le sue critiche sono state molto preziose e mi hanno spinto a una riscrittura totale, ma questa è un'altra storia), ma vedendo che comunque avevo con me molte tavole di prova sceneggiate, mi chiese se volevo cimentarmi in un adattamento. Accettai immediatamente e così nacque “Il cervo di Horn Creek”, seguito da altri tre contratti su cui i disegnatori stanno attualmente lavorando. Tutti pagati. Dopo ciò, non potei non legarmi a questa fiera. Poco meno di un anno dopo (la fiera ha sempre due date: una autunnale e una primaverile) incontrai un altro editore a Romics (Prankster Comics) e strinsi un buon rapporto con uno dei suoi sceneggiatori/editor: avevamo in comune la passione dei lupi mannari. Acquistai i suoi volumi, più altri di genere comico. Tra un commento e l'altro finii per proporre una storia breve mia, che venne accettata e pagata. La pubblicazione, prevista nella primavera di quest'anno, saltò. Insieme alla stessa, mi era stata proposta la partecipazione allo stand, che io avevo accettato. Ma con la mancata pubblicazione del volume e il ritardo di altri materiali, cancellò completamente la partecipazione della casa editrice. Quest'autunno, il volume antologico in cui ho partecipato è ancora sospeso, a causa di una storia non ancora finita. L'editore ha però deciso che potevo ugualmente partecipare con loro. Anche se l'ho saputo solo all'ultimo momento, alla fine anch'io sono risultata tra gli ospiti di quest'anno.

L'esperienza allo stand è stata molto piacevole: anche se tutti si conoscevano da prima di me, mi hanno fatta subito sentire a casa. L'ambiente era tranquillo, scherzoso, casareccio. Si lavorava, ma divertendosi, scherzando, chiacchierando e confrontandosi. Ho scoperto molte cose del “backstage” di tante case editrici: da persone che si sono bruciate a causa di un uso sbagliato dei social, alle decisioni di alcune case editrici che se da fuori risultano incomprensibili una volta nell'ambiente acquistano un altro senso. Nessun commento è stato mai denigratorio o insultante. La prima regola, mi ha spiegato l'editore, è essere gentile e comprensivi con tutti, dal disegnatore in erba all'editore con più esperienza: siamo tutti sulla stessa barca e dobbiamo aiutarci e non farci la guerra. Mai insultare chi arriva più in alto per quanto ci sembri immeritevole il suo traguardo, mai snobbare chi è indie o indipendente; meglio creare una rete costruttiva in cui c'è spazio per ognuno di noi. Anche se non c'era il mio volume, ho fatto del mio meglio per descrivere a chiunque si fermasse gli altri volumi che erano esposti (ne avevo letti molti). Anche se temo di non aver fatto abbastanza, l'editore era comunque contento di vedermi interagire con chi si fermava. Non sapendo disegnare non potevo fare molto, così ho pensato di aiutare in quel modo. Avevo molta libertà di movimento e dunque ho potuto visitare parte della fiera con facilità. Ho ignorato i padiglioni che erano per cinema e videogiochi (cosa che faccio ormai sempre, da che ho iniziato a frequentare le fiere con lo scopo “lavoro”) e ho visitato solo i padiglioni dedicati al fumetto. Ho già parlato dei grandi assenti, ma non sono la sola cosa che ho notato: ho visto che lo spazio per gli artisti (Artist Ally e Self Area) erano molto più piccoli del solito. E così l'area dedicata ai “talk”. La “Scuola Romana del Fumetto” era presente e ho avuto modo di consigliarla a un paio di persone che allo stand avevano commentato il loro desiderio di imparare a disegnare. Mi ha sorpreso non vedere “L'Internazionale di Comis”. E non so cosa possa significare la sua assenza. L'unico contatto interno che avevo si è licenziato tempo fa. Dunque non posso scoprire nulla. Ma alla fine, la cosa veramente importante erano le presenze: la quantità di merchandising in vendita e il suo aumento dei prezzi (molto più alti degli altri anni) mi ha decisamente intimorito. Tutti quelli che erano presenti compravano soprattutto oggetti relativi a prodotti come fumetti e libri... ma non fumetti o libri. Era anche chiaro che in molti casi non era un merchandising “regolare”: la percentuale delle vendite non sarebbe finita in tasca agli autori coinvolti. Un'altra cosa, notata anche allo stand, era che la presenza era minore degli anni precedenti. Parentesi cosplay: Naruto resiste, meno One Pice di quelli che aspettavo, un Trinità e un Tex selvatici sono apparsi, discreto numero di personaggi Disney. Il cosplay più bello è stato quello che non ho visto ma che mi è stato raccontato da un disegnatore dello Stand: un tale con una colomba ammaestrata sulla spalla (non ricordo il nome del personaggio, ma era di One Pice). Alla fine ho salutato tutti, ho preso tanti contatti e me ne sono andata felice. L'editore ha detto che potrò partecipare anche in primavera quando l'antologia uscirà.

Anche se può sembrare una sciocchezza, è stato bello partecipare a questa fiera stando dall'altro lato degli stand. E' una fiera che sta “morendo”, ma a cui resterò comunque legata per la vita solo per avermi concesso queste prime occasioni di lavoro. Sarebbe però bello e auspicabile un suo ritorno al passato, un periodo legato più agli editori e meno alle cianfrusaglie. Purtroppo al momento sembra che molte fiere stiano lentamente prendendo la piega del Romics e non il contrario.

Una cosa però è sicura: le fiere stanno tornando e con loro la possibilità per tanti, esordienti e professionisti, di incontrarsi tra loro e con il pubblico. E questa è una buona notizia.

“Il cervo di Horn Creek”: https://www.amazon.it/cervo-Horn-Creek-9/dp/8832077655

Prnakster edizioni: http://www.prankstercomics.it/

La pagina wikipedia di Romics: https://it.wikipedia.org/wiki/Romics

Legenda: Racconto = Racconto di fantasia ( se vicino c'è “– fanfiction” : racconto di fantasia che utilizza personaggi creati da altri autori)

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Pubblicità ricordate ma perdute: il mondo straordinario di “Lost advertising and interstitial material” (Storia Vera)

Un potenziale che nessuno si era aspettato del web era la sua capacità archivistica. O forse, si era intuito tale potenziale, ma lo stesso ha iniziato a svilupparsi solo col passare del tempo, con l'arrivo di più utenti, con l'ingrandimento dei server. Più persone entravano, più il materiale condiviso cresceva. Sia quello prodotto dagli stessi utenti, sia quello che producevano altri. E nell'arco di poco tempo, si formò una community di persone che vedeva in internet una speranza non indifferente: quella di ritrovarvi al suo interno elementi dell'intrattenimento del passato. Di quando esisteva solo la televisione e, escludendo le repliche (“re-run”), se perdevi il programma lo perdevi per sempre. Questa community di cercatori dei denominati “Lost Media” (letteralmente “Media perduti”) ha solidificato la sua esistenza in rete nel 2012, quando un suo membro molto attivo di nome “dycaite” fondò la “Lost Media Wiki”, oggi ancora esistente e visitabile, ospitata su un server indipendente, che conta al suo interno migliaia di voci inerenti materiali andati perduti nel corso degli anni, che le persone cercano di ritrovare per poterle archiviare online e tenerle così vive non più solo nella memoria di pochi. Siano essi libri, film, videogiochi... o pubblicità.

Sulla comunità dedicata ai “Lost media”, sul loro lavoro di ricerca continuo e persistente, si potrebbero scrivere saggi di pagine e pagine. La loro presenza online va oltre la wiki, e include forum, reddit, blog, youtube, l'internet archive e qualsiasi altro mezzo online che permetta ricerca o comunicazione tra i membri. Ogni cosa ritrovata, ogni libro, film o corto animato, è protagonista di una storia collettiva che ha portato al suo essere ritrovato. Consiglio, a questo proposito, la storia dedicata al ritrovamento del corto “Cracks”, che ha in alcune sue parti i tratti di un thriller di spionaggio: https://youtu.be/PSFY4k7KeQI Ma c'è un lato di questa community che mi ha sempre affascinato: quello dedicato alla pubblicità.

Oggi la pubblicità è considerata una scocciatura. La cosa bella è che lo pensano anche le nuove generazioni, quelle che si sono risparmiate (almeno parzialmente) la televisione, che è stato uno dei primi mezzi di diffusione dello spot come oggi lo conosciamo. Già in passato la pubblicità risultava scocciante per gli spettatori televisivi, tanto da essere presa in giro perfino nei vecchi cartoni animati di Picchiarello e dei Looney Tunes. Eppure, nonostante ciò, la sezione della wiki di “Lost Media” dedicata alle pubblicità conta centinaia di sezioni: in ogni pagina sono annotati indizi temporali, visivi e geografici di dove quella pubblicità è stata vista la prima volta.

https://lostmediawiki.com/Category:Lost_advertising_and_interstitial_material

Spesso, della pubblicità si ricorda tutto, tranne il prodotto che pubblicizzava (sì, questo è l'incubo di qualsiasi addetto del marketing), il che rende difficile la ricerca. Le pubblicità cercate sono sia di tipo commerciale, che di tipo sociale. Possono anche essere trailer di cartoni, special televisivi, telefilm o film. E tutte hanno una cosa in comune: sono ricordate perchè hanno lasciato nella persona che le ha viste un'impronta emotiva, a volte negativa (perchè molto inquietanti o grottesche) altre volte positiva (una musica allegra, una battuta o una scenetta divertente). E' strano pensare che, qualcosa che attualmente è riconosciuto come un segno negativo dei nostri tempi, è comunque entrato talmente tanto nel nostro inconscio collettivo da diventare materiale di “archeologia” online. E tutto lascia pensare che il futuro non sarà differente: magari tra quarant'anni ci saranno dei ragazzi su reddit che chiederanno se da qualche parte è archiviata la pubblicità che in questo periodo gira su twitch dove Cydonia fa uno spot per una società simil-bancaria. Io per conto mio ho inserito nella mia tesi il link alla sponsorizzazione di Diego Fusaro a Clash Royal, e ho fatto vedere in streaming quella che secondo me è stata la miglior campagna di spot contro gli incidenti stradali mai fatta in Italia e che ad oggi mi fà ancora venire i brividi: https://www.youtube.com/watch?v=QAfDL9tRZ-E&list=PL340693420092D2EE&index=1

Gli ultimi anni hanno concesso a tutti noi di essere testimoni di campagne pubblicitarie piuttosto disastrose: il Parmigiano Reggiano, Open to meraviglia e (recentemente) Esselunga sono solo alcuni dei protagonisti delle controversie più importanti scatenatesi dentro e fuori dal web. Si è ormai consapevoli che se si mette male un piede si può cadere molto in basso, trasformandosi in cattivi esempi o meme di cui la gente ride. Alcuni sono riusciti a fare delle campagne che connubiano bene ironia e polemica (Buondì) o che sono delle vere e proprie opere di storytelling (Amazon). E credo che in un futuro lontano saranno quest'ultimi ad essere cercati. Un universitario seduto a studiare i disastri di “Open to meraviglia” per l'esame di marketing, scriverà su reddit di una vecchia pubblicità di quando era bambino dove un meteorite pioveva in testa a una donna e di un'altra dove un agente di polizia imparava a cucinare e diventava un cuoco...

Ovviamente i tempi sono cambiati, e trovare queste pubblicità sarà più semplice. Rimane però affascinante pensare che, anche tra anni e anni, la “Lost Media Wiki” avrà qualcosa su cui lavorare.

Perchè ho voluto raccontare questa storia? In realtà non ho un motivo particolare. Sul fediverso si parla molto di pubblicità, nonostante la sua mancanza, e volevo aggiungere questo tassello, quello delle pubblicità perdute ma non dimenticate. Magari non hanno aiutato a vendere il prodotto, ma si sono comunque rese, in qualche modo, immortali. La pubblicità è uno strumento, come tale può essere abusato e alla fine ritorcersi contro l'utilizzatore. Oppure può essere talmente particolare da distaccarsi dal suo ruolo e diventare un'opera a se stante (in fondo, era quello che faceva a modo suo “Carosello”). Al momento, siamo nella fase che si trova tra “l'abuso” e la “ritorsione” (Twitch ad esempio sta perdendo moltissimo per le sue scelte inerenti alla pubblicità) e l'evoluzione successiva è ancora ignota. Ma questo strumento è destinato a restare con noi ancora per molto tempo. E' giusto parlarne e cercare di capire se esiste un modo per esercitarlo al meglio, combinando funzionalità, eticità e bellezza. La presenza di questa wiki e l'amore che certi utenti mostrano per gli spot in questione è la prova che tale connubio non è impossibile.

Per concludere, un messaggio per tutti quelli del fediverso che conoscono il Giappone: sappiate che è in corso da quasi un decennio la caccia ad un vecchio spot sociale dedicato agli incidenti ferroviari. Per maggiori dettagli e per sapere a chi rivolgersi nel caso aveste delle informazioni, eccovi un video esplicativo: https://www.youtube.com/watch?v=6gNK9QhWQ9Q

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Opinione personale = espressione di un parere sul quale si può essere d'accordo oppure no a puro scopo di stimolo riflessivo

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Scrittura, capitalismo e familiari (opinione personale)

Dopo il post sul “lavoro umile” mi sento di dire alcune cose anche su questo argomento, ovvero il rapporto che ho avuto io, nel tempo, con la scrittura e come questo è mutato rispetto ai miei familiari. Parto subito dicendo che ho inserito la parola “capitalismo” nel titolo semplicemente perchè è il sistema in cui sono nata e in cui si sono sviluppati e cresciuti i miei parenti più prossimi, dunque molte delle cose che hanno avuto da dire sulla scrittura (e che ho pensato io della stessa) vanno in quella direzione. La mia famiglia, pur con la sua grande cultura, pur con la consapevolezza che il sistema fosse corrotto (dovuto anche alla presenza di due invalidi in casa) e che i soldi non fossero un fine ma un mezzo, ha visto fino a poco tempo fa solo una perdita di tempo nella mia passione. Se quando andavo a scuola mi beccavano a scrivere, non mi chiedevano che cosa avevo scritto ma se avevo fatto i compiti. Anche se mi hanno fornito i mezzi economici per frequentare i corsi di scrittura, lo hanno sempre fatto storcendo il naso, o buttando qua e là un commento sul costo troppo elevato. Mentre non ho mai sentito dire una parola sulle tasse universitarie, che a quanto pare erano una spesa a loro dire sensata. Mi è stato detto (e purtroppo è vero) che di scrittura non potevo vivere e che c'erano bollette da pagare, che per scrivere c'era sempre tempo, che volendo potevo lavorare di giorno e scrivere di notte... cosa che in realtà già facevo dai tempi delle medie visto che di giorno venivo tenuta d'occhio e guai se avevo in mano un libro diverso da quello di studio. L'atteggiamento ha iniziato a cambiare solo negli ultimi due anni e per un buon motivo: ho iniziato a pubblicare e ad essere pagata. Poco. Ma pagata. Cosa che mi fa piacere, ma non cambia il fatto che non era trattato bene il mio desiderio di scrivere prima che prendesse l'abbozzo di una possibile carriera. Non ho mai capito perchè lo studio deve essere uno sforzo gratuito esaltante mentre lo scritto gratuito non può essere accettato. L'unica spiegazione rimane quella di una forma-mentis impregnata sul guadagnare. Solo che non mi basta più. Del capitalismo se ne parla continuamente e male. Ma non basta un sistema a rendere le persone così negative. C'è anche una responsabilità personale. Non arriverò mai a dire che i miei familiari dovevano farmi vivere con l'illusione che la scrittura era una fonte di vita assicurata, ma almeno mostrarsi più disponibili all'ascolto e alla critica costruttiva; forse, se l'avessero fatto, avrei avuto un rapporto migliore non solo con loro ma anche con la scuola. Per quanto riguarda come vedo io il mio rapporto tra la mia scrittura e il sistema capitalistico attuale, diciamo che anche se vorrei e spero che un giorno cambi e diventi meno pervasivo e più equo, ammetto di non averne troppa paura. Ho pensato spesso ai miei scritti in rapporto con questo sistema, soprattutto quando ho iniziato a diffonderli (anche sotto pseudonimo) e a ricevere un feedback. Si può scrivere per se stessi, ma se vuoi diffondere quello che scrivi devi pensare anche al tuo lettore. Devi scegliere se rispettare delle aspettative prefisse o se stupirlo, se dargli un personaggio da amare o uno da odiare, se avvisarlo che la storia potrebbe essere qualcosa che gli farà male, o lasciargli la sorpresa... e anche in quel caso non saprai mai come la prenderà finchè non lo tasterai con mano tua. Ho sempre saputo che in un mondo come questo le mie storie si sarebbero trovate in difficoltà. Eppure, lì dove ho scritto, senza aiuto di social o altri mezzi di diffusione (tenevo molto alla mia anonimità) sono riuscita a trovare una piccola nicchia. E credo quindi di poterlo fare anche nel mondo reale. Il mondo è pieno di lettori e non sono lettori stupidi. Il mercato può manipolarli, ma non controllarli. La sete di storie, quella vera, se manifesta permette a tutti di trovare un qualcuno che legge. In più, nella perversa legge del mercato, se vedono che lavori, anche se magari non hai grandi risultati, ti preferiscono comunque a un esordiente... costi meno perchè hanno meno da spiegarti. Non credo di avere la possibilità e la capacità comunicativa di creare chissà quale pubblico. Ma credo di poter dare agli altri delle storie che possano restare, perchè piacciono o perchè colpiscono. Di questo però la mia famiglia non era convinta. C'era sempre tra le righe una forma di scherno o di condiscendenza quando si parlava della scrittura. Io però insistevo, scrivendo e partecipando a concorsi per romanzi e racconti, partecipando a fiere e presentazioni, leggendo, ristudiando e analizzando anche per conto mio le storie degli altri. Per scrivere bisogna essere umili, prima di tutto con se stessi: no, non sarai il nuovo Dante Alighieri e probabilmente racconterai qualcosa che altri hanno già raccontato, sebbene con parole diverse. Ma bisogna anche sapersi dare valore: non sarà Shakespear, ma è una storia che ho amato scrivere e che credo potrà piacere anche ad altri. Non è un facile gioco di equilibri e a volte si sbaglia e un'idea che sembra buona in realtà non è un gran che, oppure va rielaborata con termini diversi. Comunque tra una botta e l'altra, un rifiuto e l'altro, non ho smesso nè di scrivere nè di cercare un confronto col mercato. E forse col passare degli anni devo aver convinto anche la mia famiglia che il mio non era un capriccio adolescenziale. Purtroppo questa loro apertura, non mi incanta. Per quante cose si possano vedere nella realtà editoriale italiana che mi fanno venire la pelle d'oca, non ci sarà mai atteggiamento che riuscirà a farmi male come quello che ha avuto la mia famiglia nei miei confronti fino a poco tempo fa. Perchè se da un avido editore mi aspetto il commento “non hai abbastanza followers”, nessuno si aspetta di sentirsi dalla propria mamma “Pensa a studiare” quando le vuole far leggere una cosa che ha appena scritto e di cui si sente orgogliosa.

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Sul lavoro umile (opinione personale)

L'ho detto a scuola, molti anni fa. L'ho detto in streaming. Lo scrivo anche qui: non mi interessa l'idea di avere una carriera. Non voglio raggiungere chissà quali vette, o essere il “CEO di Stoc4zz0”, o avere tanti soldi. Sono cresciuta in un ambiente benestante, dove non è mai mancato il cibo, però il denaro era trattato sempre come un mezzo e mai come un fine. Era meglio avere i soldi da parte per emergenze come una gamba rotta o il malessere del proprio animale domestico, che comprare l'ultimo modello di telefono ogni volta che usciva. Mio padre, prima che la malattia gli divorasse il cervello, studiava tanto per il suo lavoro di ingengnere perchè ci teneva molto, ma non ha mai pensato a sè stesso in una posizione di potere. Mi disse anzi, quando ancora riuscivamo a parlare senza scadere in insulti, che più si sale e meno controllo si ha ed è per questo che i Capi usano metodi coercitivi assurdi sui loro dipendenti. Forse anche per questo imprinting molto forte (dove c'erano comunque degli elementi capitalistici-distruttivi, ma ne parleremo in un'altra occasione) ho sempre visto me stessa in una posizione “umile”. Non ho mai sognato in grande, salvo forse con la scrittura, immaginando magari di inventarmi chissà quale formula narrativa originale (SPOILER: crescendo ho capito che non si può fare). Ma anche lì, quello che scrivo io può stare vicino allo scritto di qualcun altro senza dare fastidio. Il lettore vero, consumista o meno, leggerà tutti prima o poi, noti e non noti, pubblicizzati e dimenticati. Chi ama le storie cerca, indaga, al di là di qualunque algoritmo. E prima o poi ti conosce. Perciò ho sempre visto il mio lavoro come qualcosa che avrebbe affiancato la mia scrittura. Non solo facendomi pagare le bollette, ma anche tenendomi a contatto con il mondo reale e con tutte le sue follie altamente ispiratorie. Un sogno di cui ho spesso parlato, era quello di diventare barista. E anzi, forse lì c'era un'aspirazione di carriera: passare da banchista che fa i caffè a possedere un caffè letterario. Un posto sicuro per gli amanti delle storie, dove ogni persona avrebbe avuto la certezza di trovare un caffè caldo e un buon libro da leggere. I caffè letterari romani sono stati un mio rifugio in un periodo nero in cui stare a casa era impossibile per via dell'ambiente che si era creato, e dunque poter riportare quel senso di sicurezza da me trovato, sarebbe stata una grande conquista. Curiosamente, la mia scelta di lavorare in ambienti “umili” è sempre stata vista in modo negativo. Dalla mia famiglia in primis (quando annunciai che avrei fatto un corso di bartending-caffetteria non mi rivolsero la parola per due giorni) e poi da molte mie conoscenze. In un caso divenne addirittura il motivo di separazione tra me e un ragazzo con cui avevo iniziato a uscire. Alcuni miei compagni di università, invece, apprezzavano la cosa, soprattutto quando dicevo che l'obiettivo finale era quello di aprire un caffè letterario tutto mio. Negli anni, non mi sono tirata indietro in nessun lavoro umile offerto, trovando spesso colleghi che si lamentavano di essere le ultime ruote del carro. Io invece, il più delle volte ero felice: quello che facevo mi piaceva, venivo pagata, imparavo a incontrarmi e scontrarmi con chi mi circondava. La soddisfazione più grande è stata quella di lavorare in una biblioteca scolastica, dove ancora oggi se vado a prendere un libro (è aperta agli esterni) mi chiedono se sono tornata a lavorare con loro. E dove uno dei ragazzi autistici che venivano a studiare insieme all'insegnante di sostegno, mi ha abbracciata quando mi ha riconosciuta. Ho avuto molte soddisfazioni nei miei piccoli lavori, anche quando magari non mi trovavo bene con i capi o i colleghi, ero comunque contenta di quello che facevo e la paga è sempre stata puntuale. Tuittavia, quest'anno, ho deciso di dire di no a tre lavori umili. Il motivo non risiedeva nella paga, ma in tante altre piccole cose che, ora che sono più grande e consapevole, mi hanno fatto storcere il naso. Nell'ultimo caso, un lavoro di cui avevo parlato su Mastodon e che originariamente ero ben felice di aver trovato, le motivazioni principali sono state tre.

1 – Per chi, come me, era sprovvisto di macchina, la navetta era gratuita ma con un viaggio di oltre 60 minuti. Chi aveva la macchina, invece, pur lavorando sul posto, non aveva diritto a un parcheggio gratuito (e nessun rimborso benzina o simili, anche se non erano stati neanche richiesti).

2 – Una strana politica di ricerca di personale che ricordava vagamente un “pyramid scheme”, in cui chi portava un'altra persona a lavorare aveva dei soldi in più.

3 – La scoperta di una “non inclusività” generale della manifestazione, che prevede un prezzo piuttosto elevato per il biglietto di partecipazione a fronte di un investimento basso sui dipendenti. Tutti i dipendenti. Non solo noi commessi.

Questo, unito alle 12 ore (quasi 14 con il viaggio) di lavoro, lo stipendio sotto i 500 euro (lordi) e il cibo non incluso (avevamo pause garantite ma dovevamo portarci il mangiare da casa, mentre a manifestazioni come EXPO 2015 erano garantite colazione un pasto per ogni turno, oltre ovviamente all'ospitalità e a una forma di assicurazione in caso di incidenti) non ha contribuito a una mia favorevole disposizione verso questo lavoro. Ci ho pensato a lungo e credo che anche da più piccola avrei probabilmente finito con il rifiutare. Queste cose sono venute fuori a piccole dosi, nel corso dei vari meeting tenuti dagli impiegati delle risorse umane incaricati come intermediari dall'azienda principale per reclutarci. Credo che anche loro siano stati tenuti all'oscuro di molti elementi prima di venire a parlare con noi (pensate che non potevamo dire che non avremmo lavorato per un giorno, ma all'inizio mi avevano detto che se non avessi potuto potevano togliermi dal turno). Sono stati sempre molto gentili e hanno anche fatto pressione per richiedere il nostro diritto a un pasto e al parcheggio gratuiti. Purtroppo temo le loro pressioni non abbiano fatto effetto. Detto ciò, credo sia questo il motivo per cui tutti mi guardavano male da più giovane quando dicevo che mi sarei accontentata di poco nel mondo del lavoro: perchè sapevano che chi sta più in basso viene trattato male. Solo che invece di guardare male a me, avrebbero fatto meglio a guardare a chi ha incoraggiato, e incoraggia tutt'oggi, questo tipo di mentalità nei confronti delle “ultime ruote del carro”. Un operatore ecologico, un'infermiera, un barista, il commesso di un negozio o di un supermercato, l'impiegato all'assistenza clienti o alle poste: tutte queste figure, anche nei meidia, vengono spesso rappresentate in modo molto negativo (forse giusto il barista si salva) e nella realtà si vedono scaricare su di loro frustrazioni e malesseri ogni giorno, anche quando non sono colpevoli. Mi capitava già nella biblioteca scolastica, dove per fortuna riuscivo a tramutare le proteste dei professori (“si può sapere perchè lasciate venire qui i ragazzi a studiare nelle ore di buca!?”) in conversazioni interessanti. All'università poi, lavorando come assistente borsista nell'aula informatica, riusciva a calmare le situazioni grazie alla mia passata esperienza da studente (“Il sistema si bugga sempre, è normale, stiamo qui e aspettiamo, riproviamo tra poco. Anche a me è successo al secondo anno...”). Ma sarei scema a non dire che non è stato brutto sentire certe cose, come vederle capitare a dei colleghi, come quando uno dei borsisti venne quasi aggredito in aula e poi atteso all'uscita dell'università e minacciato di pestaggio da un ex studente furioso. Ad oggi, mentre attendo di laurearmi, ho già deciso di voler comunque proseguire per la strada dell'assistenza clienti e provare a entrare in qualche azienda dedicata alla stessa. In molti casi un assistente umano dall'altra parte della cornetta mi ha aiutato a risolvere problemi non indifferenti e più recentemente un grande aiuto è arrivato al mio ragazzo quando ha quasi perso il suo account twitch. Rimane un lavoro “umile”, ma almeno so che sarà anche utile a qualcuno e se mi troverò nell'ambiente giusto avrò anche denaro sufficiente per continuare a vivere da sola e portare avanti le mie passioni. Non so se succederà, forse troverò altro, forse per assurdo riuscirò a farmi bastarre la scrittura, forse finirò in una biblioteca, forse il professore mi dirà che non sono pronta e la laurea si sposta ancora... qualunque sia il futuro, credo che aver “perso” questa occasione non mi rovinerà. Il mio pensiero va a tutti quelli che sono rimasti, sperando che le pressioni per il cibo e il parcheggio alla fine facciano effetto.

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La favola di Biancaneve (racconto)

“Nonno, mi racconti la fiaba di Biancaneve?” Il nonno, che era intento a spolverare il piccolo altare dove aveva sistemato la foto di sua madre, si voltò stupito verso la nipotina. “Biancaneve? E perché proprio quella fiaba?” “Perché l’ho sentita solo una volta, mentre ero a scuola. In famiglia invece nessuno vuole raccontarla mai. Né la mamma, né il papà, nemmeno gli zii.” “Uff… Diciamo solo che è una fiaba che non ci piace molto, come viene raccontata…” il nonno si concentrò sul piccolo cerbiatto d’argento che faceva parte degli oggetti presenti vicino al ritratto fotografico in bianco e nero. Lucidare bene l’argento era sempre difficile. “Ma perché nonno? È una storia così bella!” protestò la nipotina. Il nonno non rispose. Finito il cerbiatto era passato alle spille con le rose d’oro laccata di smalto rosso. Si ricordava di quando sua madre, ogni mattina, l’appuntava sulle maniche, come fossero gemelli, in modo da lavorare più agevolmente, mentre lavava e cucinava. “Ma almeno la conosci la fiaba nonno?” “Certo che la conosco. Ma visto che a te piace tanto, perché non me la racconti tu?” Il nonno non la guardava, ma la sua voce era calma e dolce. La richiesta stupì la bimba che però si sentì anche eccitata, convinta che era l’unica bambina al mondo a cui un adulto avesse chiesto una fiaba. “Allora! C’è la regina no, la mamma di Biancaneve, che un giorno si punge e vede il sangue nella neve e pensa che le piacerebbe avere una figlia con i capelli come l’ebano e le guance rosse come il sangue…. Anche se ancora non ho capito cos’è l’ebano.” “Oh è un tipo di legno, molto bello, che è scuro da sembrare nero.” “Ah sì? Ah ho capito! Ecco perché stava vicino a una finestra, perché le finestre sono fatte di legno, giusto?” “Sì.” “Ma l’avevo detto che si era punta vicino alla finestra?” “No in realtà. Ma questo dettaglio lo sapevo anch’io.” Il nonno si era seduto e osservava intensamente la foto di sua madre; gli sembrava che il vetro si stesse rovinando. “Comunque, la bambina nasce, la regina muore e il re, il babbo, si risposa. Non ho capito perché i genitori nelle fiabe muoiono sempre!” “Un tempo, non c’era la cura di oggi.” Spiegò calmo il nonno. “E poi non ho neanche capito perché ogni volta che si risposano si scelgono sempre delle persone così cattive! Perché la nuova mamma di Biancaneve è molto cattiva! Tanto che la vuole uccidere! Ma l’uomo che la deve uccidere, un cacciatore, ha pietà per lei e la lascia andare! E da alla regina qualcosa di diverso… Non mi ricordo bene questa parte…” “La regina, in realtà, era la mamma.” Disse il nonno a voce alta mentre rimetteva a posto la foto. La nipote sgranò gli occhi. “Cosa?” “Nella versione che conosco io, è la stessa mamma a voler uccidere Biancaneve.” Mormorò l’uomo andando a sedersi sulla sedia a dondolo vicino al letto della nipotina “E il cacciatore ha ucciso un cerbiatto per salvarla: ha fatto a pezzi la bestiola e ha portato alcuni organi facendoli credere di Biancaneve. Che non era una giovane fanciulla, ma ancora una bambina, poco più grande di te.” La nipote fissò il nonno in cerca di qualche indizio che le dicesse che stava scherzando: un lampo negli occhi, una smorfia sul viso rugoso… Ma non trovò nulla. Il vecchio era serio e calmo mentre continuava a dondolarsi sulla sedia. “Questo rende la fiaba molto triste. Ma sei sicuro che ti hanno raccontato la fiaba giusta nonno?” “Vai avanti a raccontare, vediamo quanta differenza c’è tra la mia versione e la tua.” La nipote si rianimò subito: “Dopo essere scappata nel bosco, Biancaneve finisce a casa di sette nani che lavorano in miniera! E loro la ospitano e la…. Ah mi sono dimenticata perché la mamma… la matrigna la vuole uccidere. È perché uno specchio magico le ha detto che Biancaneve è più bella di lei! E lei è molto gelosa!” “Invidiosa.” La corresse il nonno. La bimba rimase qualche minuto in silenzio. Poi chiese: “Cosa vuol dire?” “Invidiosa, che prova invidia. La gelosia sembra simile ma non lo è. Nella gelosia c’è la paura di essere messi da parte da qualcuno per qualcun altro. È una di quelle che io amo chiamare ‘emozioni sociali’, cioè emozioni che coinvolgono il rapporto con gli altri. L’invidia invece parte sempre da sé stessi, e si prova quando si sente di non avere, o di avere in quantità ridotta, una capacità, una qualità, o anche degli oggetti, come il denaro, per esempio. Parte dal sentirsi inferiori. A quel punto si possono fare due cose: si fa pace con se stessi, guardando al buono che si ha o studiando una strategia per cercare di ottenere quanto ci manca; oppure si cerca di distruggere la persona che ha tale cosa. E la regina della fiaba sceglie questa strada. Per conto mio, con i miei fratelli, ero molto invidioso quando vedevo altri bambini che non erano orfani. Tuttavia, mai mi sarei permesso di uccidere i loro genitori, perché sapevo quanto era doloroso. In compenso, quando mia madre, la tua bisnonna” indicò la foto “ci adottò, ho fatto sempre in modo di essere un figlio di cui potesse andare orgogliosa. Io come i miei fratelli.” La nipote aveva ascoltato attenta le parole del nonno, con gli occhi sgranati e contenti, orgogliosi; le piaceva sentir parlare della bisnonna perché era stata l’unica tra i pronipoti a non averla conosciuta, e da come ne parlavano gli zii, i prozii e i suoi stessi genitori, era stata una figura quasi mitica all’interno della famiglia. “E nella mia versione i nani erano dei bambini.” Proseguì il nonno “perché sai, una volta, e ancora oggi succede in molti posti nel mondo, non era anomalo che i bambini lavorassero in miniera.” La nipote non proseguì la storia. Non si divertiva più a raccontare una fiaba che era così diversa da quella che il nonno ricordava (anche se sapere che i nani erano dei bambini e non dei veri nani le fece quasi piacere, perché pensò che almeno così anche Biancaneve in quanto bambina non si sarebbe sentita così sola). “Senti nonno, nella tua storia il pettine, la cinta e la mela avvelenata ci sono?” “Sì. La mamma di Biancaneve cercò di ucciderla per tre volte e solo alla terza sembrò riuscirci.” “E poi i nani… cioè, i bambini, la misero in una bara di cristallo?” “Erano troppo poveri per poterlo fare. La misero e la vegliarono in una bara aperta in attesa della sepoltura.” “E un principe passò e vedendola bella le diede un bacio e la svegliò?” “No. Un principe, vedendola bella, diede ai bambini tanti soldi per portarla via con la bara.” Seguì una lunga pausa. “Voleva portarla via ancora morta?” “Sì.” “Per farci cosa?” Il nonno non rispose subito. All’improvviso corrugò la fronte, come se fosse preoccupato. Con gentilezza mise una mano sulla spalla della nipote e disse: “Purtroppo alcune cose sono molto difficili da spiegare anche per me. Ti posso solo dire che i bambini lo fecero giurare che non le avrebbe fatto del male, e mai avrebbero accettato quei soldi se non ne avessero avuto bisogno. In più avevano paura che rifiutandola al principe, la loro vita sarebbe stata in pericolo.” “Ma allora Biancaneve come si è svegliata?” “Uno dei servi del principe inciampò e lei rigurgitò la mela avvelenata.” “Nel senso che l’ha vomitata?” “Diciamo… di sì.” La nipote scoppiò a ridere: una principessa che vomitava! Questa sì che era una cosa divertente! “E lo sai che alla fine il principe non lo ha sposato?” La bambina smise di ridere. “No?” “Certo che no! Era talmente arrabbiata del fatto che l’avesse voluta portare via da morta costringendo i bambini a venderla, che lo cacciò via in malo modo. Il principe non voleva fargliela passare liscia, e tornò notte tempo per vendicarsi, non trovandola. Questo perché Biancaneve aveva fatto i bagagli e aveva raggiunto il castello di sua madre, che per anni l’aveva fatta credere al popolo morta per un incidente. Quando la regina, che stava per prendere le complete redini del regno dopo la morte del marito, vide Biancaneve marciare con altri sette bambini verso il palazzo, capì che non solo il suo piano era fallito, ma che probabilmente il popolo avrebbe saputo la verità. Ora qui ho sempre avuto due versioni: la prima è che morì gettandosi direttamente dalla torre, consapevole di essere in trappola; la seconda che prese un arco e si sporse per cercare di mirare a Biancaneve, così facendo cadde giù.” “A noi a scuola hanno detto che al matrimonio di Biancaneve le fecero indossare delle scarpe di ferro incandescenti e così danzò fino alla morte.” Il nonno fissò la bimba: “Ti hanno raccontato tutte le parti edulcorate della fiaba… tranne questa?” “Cosa vuol dire ‘edulcorate’ nonno?” “Ammorbidite, riadattate rendendole meno paurose magari.” “In realtà a me piace di più la tua versione. Tranne che per questa storia della mamma e non matrigna. Ma è bello pensare che Biancaneve sia stata insieme a tanti bambini, e che abbia fatto prendere un bello spavento a quella cattiva! Però poi i bambini li ha adottati?” “Sì, ha preso le redini del regno e ha costretto il principe che la voleva prendere da morta a fare le pubbliche scuse davanti a tutti i regnanti. Da allora ha regnato con tanta saggezza e la sua terra è una delle più belle e avanzate tecnologicamente nel mondo delle fiabe. E lei e i suoi sette figlioli hanno vissuto per sempre felici e contenti.” La bambina sbadigliò, ma era felice. “Nonno perché non volete raccontarla questa fiaba? È così bella! Se questa è la versione che hanno raccontato a voi, è ancora più bella di quella che raccontano a me!” “Non tutte le fiabe fanno piacere, perché in quanto metafore alcune raccontano cose troppo vicine alla realtà, per chi sa leggere tra le righe.” “Cosa significa nonno?” “Non pensi di essere un po’ troppo stanca per stasera? Anche la testa si deve riposare.” La piccola sbuffò e mise sotto le coperte. “Comunque forse ho capito cosa voleva fare il principe con Biancaneve morta.” Il nonno, che le stava rimboccando le coperte, si fermò. Il suo viso rugoso si tese in una espressione preoccupata. “Voleva mangiarla!” esclamò poi la bimba “Voleva metterla in un pentolone e mangiarla, proprio come l’orco di Pollicino.” Il nonno scoppiò in una risata fragorosa e le carezzò la testa. “Questa è una possibilità in effetti. Sì… la si potrebbe anche raccontare così.” “Ha fatto bene a non sposarlo! Perché secondo me era proprio un principe orco!” “Può darsi, piccola mia, può darsi…” “Buonanotte nonno.” Il nonno si chinò e le diede un bacio sulla fronte. “Buonanotte a te, Bianca.” Sussurrò l’anziano mentre lasciava la stanza.

NOTE: Dopo un dialogo avvenuto su livello segreto causato da un mio post sull’adattamento di Biancaneve che voglio fare senza principe e senza nani, ho pensato di scrivere questa storia, nella quale sono racchiuse tante diverse versioni della fiaba, inclusa la mia. Ora è brutto fare a gara a chi è più rivoluzionario, ma se invece di toglierli i personaggi venissero semplicemente risaltati in modo diverso, pensò che una riscrittura di Biancaneve migliore della fiaba originale (che non ho mai realmente sopportato) sia possibile e quasi doverosa. Spero che la mia nel suo piccolo vi sia piaciuta.

Larga la foglia, stretta la via Riscrivetela voi meglio della mia

Legenda: Racconto = Racconto di fantasia ( se vicino c'è “– fanfiction” : racconto di fantasia che utilizza personaggi creati da altri autori)

Opinione personale = espressione di un parere sul quale si può essere d'accordo oppure no a puro scopo di stimolo riflessivo

Aneddoto personale = Storia reale ma con il punto di vista esclusivo della sottoscritta

Storia vera = storia vera esterna alla sottoscritta, che si limita a illustrare i fatti e le fonti

Autopromozione = Blogpost dedicato all'autopromozione di qualcosa di mio

Una brava bambina generosa (racconto)

Si era messa un grazioso pigiama rosa. Una specie di camicia da notte sotto cui però teneva anche dei pantaloncini corti, per via del freddo. Sua madre, sulla soglia, sembrava una regina nel suo vestito da sera. Gloria la guardava con gli occhi sgranati. “Sei bellissima…” mormorò stringendo il suo orsacchiotto. Vide la donna sorridere: “Grazie pulcina. Ma tu dovresti essere a letto.” “Ma il bacio della buonanotte?” La mamma scosse la testa, ma poi si chinò e le baciò la fronte. Poco dopo, il papà, che agli occhi di Gloria sembrava un divo di quei vecchi film in bianco e nero che ogni tanto le permettevano di vedere con loro alla tv, uscì dal bagno, la prese in braccio e la fece roteare in aria ridendo. “Eccola la mia bella principessa! Perché non siete a letto maestà!? C’è forse un pisello sotto il materasso?” Gloria scoppiò a ridere. “No papà, ma volevo il bacio della buonanotte!” “Oh, non è un vero bacio della buonanotte se non si è nel proprio lettino.” Tenendo in braccio sia lei che l’orsacchiotto, l’uomo andò nella stanzetta di gloria. La stese e le rimboccò le coperte. Poi anche lui le stampò un bacio sulla fronte. “Allora principessa mia, cosa ne dici di ripassare un attimo le regole?” Gloria annuì, stringendo forte la mano dell’orsetto: “Non devo giocare o vedere la tv di nascosto, non devo aprire la porta a nessuno e se c’è qualche problema posso usare il telefono, ma solo per premere il tasto che chiama il numero della polizia.” Il papà annuì. “E cosa devi dire alla polizia?” “Il mio indirizzo prima e poi chi sono e cosa c’è che non va.” “Bravissima tesoro. Ora ascolta, la cena di stasera non durerà molto. Io e mamma torneremo presto. Ma vogliamo trovarti a dormire, mi raccomando.” “Sarò brava papà, promesso.” “Non ho dubbi.” Le diede un altro bacio e le augurò la buonanotte. Quando scese, sua moglie era nervosa. “Proprio stasera Nancy doveva ammalarsi…” “Non preoccuparti, conosci Gloria: è obbediente e tranquilla, probabilmente sta già dormendo. E noi comunque faremo presto.” La donna annuì. Prese per mano il marito e insieme chiusero la porta di casa. “E comunque, anche volendo, non può aprire la porta.” “Giusto.” Salirono in macchina e partirono tranquilli.

Gloria nella sua stanzetta, si era davvero addormentata. Ma qualche minuto dopo si svegliò, senza sapere perché. Aveva sete e si avviò verso la cucina, accompagnata dalla sua torcia elettrica. L’aveva scelta lei: a forma di ranocchio, si premeva un pulsante e dalla bocca usciva un bel fascio di luce gialla. Nella mano destra, invece, stringeva il suo amatissimo orsetto. Un regalo di un compleanno che non ricordava più. In cucina si riempì la sua tazza rosa con l’acqua e bevve di corsa. Non voleva far arrabbiare o intristire i suoi genitori e quindi sentiva che era meglio tornare al più presto a dormire. Ma mentre nel buio correva verso la sua stanza, un rumore attirò la sua attenzione. Qualcuno che bussava contro la finestra. Gloria si tese sorpresa: che motivo poteva esserci per qualcuno di bussare a una finestra, quando poteva bussare alla porta? E poi un’altra domanda ancora: come avrebbe dovuto comportarsi? I suoi genitori erano stati chiari: la porta doveva restare chiusa, non poteva aprire a nessuno, che bussasse o suonasse il campanello. Ma la finestra? Il suono si ripetè e Gloria lo ascoltò immobile nel buio. Si ricordò di un libro che il suo papà le leggeva a volte, e che l’aveva aiutata a non avere paura del buio. Il libro raccontava di un bambino e del suo orsacchiotto e di come insieme scoprivano che il buio poteva trasformare una tenda in un fantasma e un ramo che batte alla finestra nella mano ossuta di uno scheletro. “Forse c’è vento fuori e un ramo della siepe che sbatte.” Pensò allora la piccola Gloria stringendo il suo orsetto. “Se vado a toglierlo, non ci sarà rumore.” Così si avvicinò alla finestra e guardò oltre il vetro. Ma non c’erano rami: la siepe che circondava la sua casa era potata perfettamente. Però c’era dell’altro: in uno spazio scuro, tra i rami e le foglie, due grandi occhi erano ben visibili e ricambiavano il suo sguardo. Gloria sobbalzò: cosa ci faceva qualcuno nella sua siepe? Fu tentata di scappare, ma qualcosa di quegli occhi la tratteneva. Gli occhi nel buio erano chiaramente umani e sembravano molto tristi. Erano anche belli: grandi e blu, come due pietre preziose, come quelle che aveva nella tiara che usava per vestirsi da principessa a carnevale. Non sembravano occhi cattivi. Anzi, quella vena malinconica che avevano li rendeva ancora più belli. “È la finestra, non la porta…” pensò. C’erano diversi telefoni nella casa e uno era proprio vicino alla finestra. Se le cose fossero andate male, avrebbe spinto il pulsante per chiamare la polizia. Così, aprì la finestra, solo un pochino. “Oh… ti ringrazio…” dalla siepe proveniva una voce femminile molto bassa, quasi un sussurro. “Non ci speravo più, credevo non mi avresti sentito, cara Gloria.” “Come sai il mio nome?” domandò la bambina. Le sembrava così strano che quegli occhi fossero così visibili immersi nel buio. Voleva puntare la torcia contro di loro, ma una volta aveva provato a guardare la luce dritta e sapeva che faceva molto male. Non le andava di fare male a quella signora. Avrebbe potuto dirlo ai suoi genitori e farli arrabbiare. “Oh cara Gloria, conosco molte cose di te. Io sono amica di mamma e papà sai?” “Mamma e papà non ci sono. Devi tornare un altro giorno.” Immediatamente Gloria si pentì di averlo detto, senza capire perché. Qualcosa nella testa le diceva che aveva fatto una mossa sbagliata. Ma la sconosciuta nella siepe le disse subito: “Lo so, li ho visti andare via. Ma vedi, non sono qui per parlare con loro. Volevo parlare con te.” “Mia mamma mi ha detto che non devo parlare con gli sconosciuti.” “E ha fatto bene! Non si deve mai parlare con gli estranei. Ma io non sono un’estranea in realtà. Mi chiamo Lilly e sono tanto, tanto amica dei tuoi genitori, ti hanno sicuramente parlato di me come loro parlano di te!” Gloria non rispose subito. Ripensò a tutti quegli adulti che ogni tanto si vedevano in casa sua. Alcuni avevano dei bambini della sua età con cui giocava in giardino. Altri no, ma lei li salutava ugualmente. I genitori le avevano insegnato che era buona educazione salutare un ospite. Però quegli occhi non li ricordava. E pensandoci, nemmeno il nome. “Ascolta, hai presente quell’orologio a forma di giraffa che tieni in camera?” disse allora la sconosciuta della siepe. “Come fai a sapere dell’orologio?” domandò Gloria, che teneva ormai un dito pronto sul telefono. “Lo so, perché te l’ho regalato io. Quando tua mamma ti aspettava, le ho portato quello apposta per la tua stanza.” Gloria rifletté: c’erano tanti oggetti che aveva in camera sua che venivano da prima che lei nascesse. La mamma le ha fatto vedere le foto di quando la teneva ancora nella pancia e la sua stanza era già pronta e c’era anche l’orologio. Non le aveva mai spiegato come mai i bambini sono nella pancia delle mamme, né come potevano entrarci. “Se farai la brava, quando sarai più grande, ti spiegherò tutto.” Le aveva detto. E anche per quello Gloria ci teneva a fare bella figura con quella signora: così anche lei avrebbe detto a sua madre che era brava, proprio come facevano le maestre di scuola. Rimosse la mano dal telefono. Se la signora sapeva dell’orologio allora non mentiva. “Ti piace quell’orologio?” chiese la sconosciuta. “Sì! Mi piace tanto!” si affrettò a dire Gloria “Infatti un po' di tempo fa si era rotto ma io e papà lo abbiamo portato a riparare!” “Bravissima! Avete fatto molto bene, le cose vanno riparate e non buttate! I tuoi genitori mi avevano detto che eri una brava bambina, ma non immaginavo che fossi così brava!” Per quanto bassa, la voce della sconosciuta sembrava molto entusiasta. Gloria si sentì felice per quei complimenti, ma qualcosa la spinse a stringere l’orsetto a sé. Era molto strano riceverne così tanti da un adulto che incontrava per la prima volta. “Sai Gloria, in realtà non ho bisogno di molto. Ma vedi, la verità è che mi sono fatta male. Stavo passeggiando per strada e sono caduta e ora ho la caviglia che mi fa molto male…” La sconosciuta non aveva finito di parlare che Gloria era corsa in cucina ed era andata a prendere del ghiaccio dal congelatore. Una volta anche lei era caduta male e glielo avevano messo sul ginocchio. Tornò alla finestra e dalla fessura che aveva aperto provò a passarlo alla signora Lily. “Che brava che sei! Sporgiti un po' di più perché non c’arrivo!” disse la voce, all’improvviso una spanna più alta. Gloria stava per aprire la finestra, ma di nuovo quella strana sensazione che qualcosa non andava la colse. Allora decise che era meglio far passare solo il braccio. Mentre lo allungava verso la siepe, il ghiaccio le sfuggì dalle mani e cadde per terra. Non poteva vedere dove era cascato, ma le foglie della siepe si mossero e la sconosciuta disse: “Grazie Gloria, hai avuto un bel pensiero. Aaah… che bel fresco… Ma ho paura che non basterà.” Gloria allora fissò il telefono. “Io posso chiamare la polizia.” Disse allora la bambina. “E perché dovresti, mia cara Gloria?” “Per te, per far venire un’ambulanza a prenderti.” “Oh cara, io ho solo una caviglia slogata. Non serve l’ambulanza. E se avessi potuto, l’avrei chiamata io stessa. Ma vedi, volevo camminare tranquilla e così ho lasciato il mio telefono a casa. Non voglio che tu chiami nessuno. Però poter stare seduta su qualcosa di comodo per tenere su la gamba non sarebbe male.” Gloria non capì subito. Rimase in silenzio a fissare gli occhi blu e tristi. Più li guardava e più le piacevano. Però c’era anche qualcosa di curioso in quegli occhi, che non riusciva ad identificare. “Mi stai chiedendo…” disse dopo un po' la bambina “di lasciarti entrare in casa.” “Sì Gloria, giusto il tempo per vedere che cosa ho alla gamba. Giorni fa, quando ha piovuto, ho visto tua madre uscire con un bellissimo ombrello rosso. Potrei usare quello come bastone per tornare a casa, dopo che mi avrai aiutato a fasciare il ghiaccio sulla gamba.” Gloria scosse la testa. “Non posso aprire a nessuno. Mi dispiace.” Gli occhi si mossero nell’oscurità, come se la sconosciuta avesse annuito: “Lo so. Non puoi aprire a nessuno che sia estraneo. E devi fare così. Anch’io che sono grande non aprirei mai a un estraneo. Ma io non sono un’estranea. Sono già stata a casa tua, anche se forse non te lo ricordi o mamma non te l’ha raccontato.” Gloria non disse nulla. Non era convinta. “Posso provartelo.” Disse allora la sconosciuta. “Se proverai ad aprire la porta noterai che è chiusa. Ebbene, io so che tua mamma tiene le chiavi di riserva dentro all’ultimo cassetto della cassettiera vicino alla finestra in cucina.” Gloria sgranò gli occhi. La porta chiusa? Per quale motivo i suoi genitori dovevano aver chiuso la porta quando avevano detto a lei di non aprire? “Un momento.” Si allontanò dalla finestra e provò a girare la maniglia. Che non si mosse. La sconosciuta non aveva mentito! Gloria allora corse in cucina e guardò nell’ultimo cassetto della cassettiera sotto la finestra. Trovò il mazzo di chiavi identico a quello che i suoi genitori si mettevano in tasca ogni volta che uscivano. Tornò in salone. “Hai trovato il mazzo di chiave?” Chiese la voce. Gloria lo soppesò tra le mani. “Ah eccolo! Brava piccina! Adesso apri la porta e lascia che entri un momento per riprendermi.” Gloria non si mosse. “Qualcosa non va cara? Non ti fidi ancora?” “Perché hanno chiuso la porta? E perché mi hanno detto che non dovevo aprirla?” La voce non risposte subito. A Gloria sembrò che i due grandi occhi blu immersi nel buio brillassero per un attimo. “Beh… forse i tuoi genitori… non si fidano di te…” Gloria sentì il cuore farle un balzo nel petto. “N-Non mi vogliono più bene?” “Oh no! No cara, assolutamente! Non direi mai una cosa del genere! Ho parlato di fiducia, non di amore! Sai cos’è la fiducia?” Gloria tentò: “È… la fede? Come quella di cui parlano a catechismo?” “Diciamo… di sì. Come le persone si fidano di Dio, e sanno che se si comporteranno bene andranno in paradiso, i tuoi genitori si sono fidati abbastanza di te da insegnarti a non aprire la porta…. Ma forse è successo qualcosa che ha fatto diminuire la loro fiducia verso di te… forse non credono che tu possa comportarti veramente bene.” Gloria sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Le venne in mente di quella volta che, mentre facevano catechismo un signore era arrivato nell’oratorio senza preavviso e aveva iniziato a dire un sacco di brutte parole contro Gesù. Mentre il prete lo portava via, la catechista aveva spiegato che “questo è quello che accade quando si perde la fede”. Poi, più tardi, aveva sentito sua madre e suo padre parlare tra di loro e chiamare quell’uomo “veterano” e parlare del fatto che aveva perduto il figlio e scuotere la testa sconsolati. E per un attimo si immaginò che quando erano usciti avevano scosso la testa e avevano chiuso la porta. Non si erano fidati di lei perché lei era scesa giù a chiedere il bacio della buonanotte invece di aspettarli? Era stato perché aveva preso i fumetti in bianco e nero di suo padre e aveva iniziato a colorarli? Oppure per quella volta che mentre sparecchiava aveva fatto cadere i piatti? “Ascolta Gloria.” La voce della siepe la tolse dai suoi pensieri “Non so cosa è capitato con i tuoi genitori che li ha portati a non fidarsi di te e a pensare a te come una bambina cattiva, tanto da volerti chiudere in casa. Ma posso dirti quello che vedo io: io vedo una bambina brava e generosa, che tiene alle sue cose tanto da volerle riparare e che appena sente che qualcuno è stato male va subito a prendere qualcosa per farlo stare bene. Sei educata e dolce e sei stata anche attenta e obbediente. Ora, se mi fai entrare in casa e mi aiuti, prova a immaginare quanto saranno felici i tuoi genitori! Capiranno che non solo sei buona, ma anche responsabile! Sai aprire la porta a chi ne ha bisogno e sai tenerla chiusa per gli estranei! E ci sarò io a dirlo a mamma e papà insieme a te! E vedrai che non solo loro non chiuderanno mai più la porta, ma magari ti daranno proprio quel mazzo di chiavi! Così che sarai tu a decidere quando chiudere e quando aprire! Facciamo questo patto! Tu mi lasci entrare e io parlerò con i tuoi genitori! Loro avranno di nuovo fiducia in te! Che ne dici?” Gloria si asciugò una delle lacrime che le colavano lungo la guancia. Finora quella signora aveva sempre detto la verità. Non aveva motivo di non fidarsi. “Devo dimostrare ai miei genitori che sono brava!” pensò. E così, anche se una parte di lei era ancora indecisa, si allontanò dalla finestra e inserì la chiave nella porta.

Quando i genitori tornarono, trovarono il corpo della bambina ad attenderli sulla soglia. La sua testa, invece, non fu mai ritrovata.

NOTA FINALE: Questa storia è nata da un’immagine che ho visto su livello segreto postata da @maraichux e che potete trovare voi qui: https://livellosegreto.it/@maraichux/109264848170078214 Originariamente volevo inserire un momento di descrizione del mostro in questione (che nell’immagine è un vampiro ma avevo immaginato in modo diverso, molto meno chiaro), ma poi ho sentito che lo stacco tra le chiavi nella serratura e il ritrovamento del corpo era abbastanza pesante e non aveva bisogno d’altro. Non so se si possa definire davvero un horror ma spero che abbia lasciato in voi almeno un brivido. Se vi state chiedendo come faccia il mostro a sapere così tante cose della casa della protagonista, rileggete il racconto. Ci sono dei piccoli indizi che aiutano a capire.

Legenda: Racconto = Racconto di fantasia ( se vicino c'è “– fanfiction” : racconto di fantasia che utilizza personaggi creati da altri autori)

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Tonio e i gorilla (racconto)

Sapete perché non si può dare da mangiare alle scimmie? Perché secondo le loro regole, chi sta più in basso nella gerarchia del branco dá il suo cibo a chi sta più in alto come segno di rispetto. Ciò significa che se date una banana a un primate per scattarvi il selfie perfetto da mettere su Instagram, rischiate di diventare l’ultima ruota del carro di tutto il suo branco e di provocare intense e non-sempre-amichevoli reazioni. Quando il mio amico Tonio ha scoperto questa cosa, ha ragionato: se dare da mangiare a una scimmia ti mette sotto di lei, strapparle il cibo di mano ti trasformerà in un suo superiore. Così ha pensato bene di andare a rubare il cibo dalle mani di un primate. E non uno qualsiasi: ha scelto il gorilla. Un giorno, durante un viaggio in Ruanda, mentre era in corso un’escursione nella foresta, un gruppo di gorilla è passato sullo stesso sentiero dei turisti e Tonio ha strappato il cibo proprio dalle mani del silverback, il maschio dominate e capo indiscusso del branco. Con grande stupore dei presenti, non solo l’animale non si è offeso, ma ha anche afferrato con delicatezza il braccio di Tonio e l’ha invitato a proseguire il cammino con loro. Tonio non sta male con i gorilla: non lavora, non paga tasse o bollette, ha migliorato la sua muscolatura fisica e imparato a costruire giacigli di foglie. Segue una dieta esclusivamente vegana, come tutti nel branco, e ormai conosce a memoria ogni angolo della foresta. In quanto umano, coglie segni della presenza di trappole o bracconieri che i gorilla non sanno individuare e la cosa è molto apprezzata dal branco. Ha anche trovato una compagna: Uguga, la figlia primogenita del maschio dominate. Ha provato a portarla in Italia, per farla conoscere ai genitori. Ma alla dogana ha rischiato l’arresto per “traffico di animali esotici” e così non ha più ripetuto l’esperienza. Da quando sta con i gorilla, comunque, nessuno parla più di lui. I suoi avevano provato a convincerlo a tornare a casa inviando dei detective, che si sono persi nella giungla e sono stati rimpatriati dopo ricerche durate anche settimane. Tutti hanno dimenticato Tonio. Io no. Quando le cose al lavoro vanno bene e ho un po' di soldi, vado a trovarlo. Ci incontriamo in un punto turistico della foresta. Viene sempre solo e io gli porto una moka piena di caffè. Ha provato a insegnare l’arte del caffè ai gorilla, ma hanno le dita troppo grosse per tazze e manici. E comunque accendere un fuoco nella giungla è pericoloso. Tonio mi parla della foresta, di Uguga, degli incontri con gli altri branchi, dei bracconieri che riesce a scacciare, delle trappole disinnescate. Io non so che raccontargli perché la mia vita civile mi sembra molto più noiosa della sua. Ogni volta che torno a casa, il mio branco, la comunità umana, dice la sua: sto sprecando tempo e denaro, Tonio ormai non è più realmente umano, è un pazzo, uno che cerca attenzioni, uno che gioca a fare Tarzan. Penso che se ascoltassero solo metà dei suoi racconti della giungla cambierebbero idea… O forse no. Però magari smetterebbero di dirmi che è uno spreco di tempo andare a trovarlo. Oggi però è l’ultima volta che ci siamo salutati io e lui. Ne sono consapevole. Tonio è riuscito, con la sua presenza, a scoraggiare il bracconaggio a tal punto che la vita nella foresta è cresciuta a dismisura. Il branco ha deciso di spostarsi. Il silverback è troppo vecchio per difendere il territorio come si deve. Tonio ovviamente li seguirà e vederci non sarà più possibile. Per salutarmi è venuto insieme a Uguga che mi ha abbracciata. Anche lui mi ha abbracciato e ringraziato per essere rimasta sua amica. Non ci rivedremo più, ma a me va benissimo. So che è perché sta proseguendo il suo cammino e non perché abbiamo litigato. In un mondo dove tutte le strade sembrano occupate dagli altri, brutte, difficili o impossibili da seguire, Tonio è riuscito a trovare la sua e a percorrerla come voleva lui. E so che un giorno ci riuscirò anch’io

NOTE FINALI: Questa storia era nata come comica, ma riscrivendola in bella mi rendo conto che è molto malinconica, spero comunque di strapparvi almeno un sorriso. L’ho scritta per un “corso” di scrittura a cui partecipo (che più che un corso, è un momento di condivisione dal vivo dove io e altri appassionati ci mettiamo a scrivere sciocchezze e a parlare di libri davanti a un buon cappuccino) ma che avevo in mente da quando, grazie a un video su youtube, ho scoperto questa regola delle scimmie sulla condivisione del cibo. Ci tengo a specificare poi che: L’AUTRICE DI QUESTO RACCONTO SCONSIGLIA VIVAMENTE DI STRAPPARE LA FRUTTA DALLE MANI DI GORILLA E ALTRI PRIMATI, ONDE EVITARE UNA LORO REAZIONE VIOLENTA; QUESTO È UN RACCONTO DI FANTASIA, SE QUALCUNO DECIDE DI IMITARE L’APPROCCIO DI TONIO E NE PAGA LE CONSEGUENZE, L’AUTRICE DECLINA OGNI RESPONSABILITÁ.

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