pop e memorie

Scritti di una persona pop, del popolino, una persona che non ce la può fare. Memorie agrodolci. Memorie pop, pop memorie.


E anche questo testo, recuperato casualmente, non è recentissimo.

Cielo come latte affumicato, quasi scozzese. Tra un balcone e l’altro, conversazioni di massaie in uniforme, quei loro vestitini dai colori e motivi assurdi. Fiori, cuori, azzurro quasi fluorescente. Anche qualche merletto. “Mi son svegliata presto per battere i tappeti e andare alla prima messa”. Sono le 9.30 passate da poco, in queste strade semivuote a quell’ora è ancora presto.

Un motorino tutto scassato, un vecchio 50, è appoggiato a un muro tutto crepato, si reggono a vicenda. La scocca in plastica è tutta rotta, nessuno si degna di rubarlo: dovrebbero spingerlo, probabilmente. Mentre il cielo inizia a tendere all’azzurro, in una traversa ancora più spettrale annuso quel che sembra essere una frittata di cipolle, la colazione dei campioni. Staranno preparando la genovese, penso sia questa l’ipotesi più plausibile Uno stupido volpino da guardia mi abbaia contro, la padrona esce da una panetteria con un sacchetto e mi rassicura, “non fa niente”. Buon per lui.

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Non so se fosse in prima o seconda visione, Alien, quando l'ho visto per la prima volta. Visto, comunque, sul solito televisore, chiaramente in bianco e nero e con una ricezione non esattamente ottimale.

La scena del viaggiatore spaziale (poi avrei saputo, anni dopo, che lo chiamavano space jockey), il facehugger che evolve in chestburster. Quel portello spalancato sullo spazio che pare non chiudersi mai.

Quella sera, mia mamma aveva un forte mal di denti e, il giorno dopo, andammo dal dentista. Mentre lei attendeva il suo turno, mio padre mi portò a perdere un po' di tempo in un piccolo supermercato a pochi passi, in cui lavorava tale [omissis], più grande di me di dieci anni e che molti anni dopo sarebbe diventato amico mio. Agli albori della nostra amicizia, mi chiamava “trumbettella”: in quel periodo bevevo un bel po' e reggevo spesso la birretta in posa da Miles Davis. Comunque, mi comprò un sacchetto di patatine e dentro c'era una di quelle pistoline di plastica caricate a elastici, che ne scagliano sei o sette, uno dopo l'altro premendo ripetutamente il grilletto. Era verde.

Trovammo anche una clessidra buttata in strada, una specie di blocco di resina giallastro, trasparente, ovalizzato. Tagliato in basso e in alto e lateralmente. Uno degli angoli era scheggiato. La sabbia dentro era di un rosa buio, oggi direi magenta con una piccola percentuale di ciano. Era un oggettino molto povero, ma oggi farebbe la sua bella figura in una stanza dal design Settanta. Mi piaceva molto veder scorrere quella sabbia. Ho visto quella clessidra ormai diversi anni fa, non so che fine abbia fatto.


Il primo film ad avermi folgorato, credo. Intanto, per chi ha una certa età, si chiama Guerre Stellari. Se siete giovani, o vi sentite tali, chiamatelo pure Star Wars. Come l’Uomo Ragno, anche se oggi si vuol chiamarlo Spiderman.

Dicevo. Era pomeriggio, l’immediato dopopranzo domenicale. Dovete sapere, i pomeriggi domenicali erano dedicati alla visita ai miei zii, mentre quelli del sabato li dedicavamo alla nonna, che abitava a Napoli. Su una rete locale, di quelle che avevano un concetto tutto loro dei diritti televisivi, stavano trasmettendo questo film. Astronavi. Un robot che sembrava d’oro, accompagnato da una specie di bidone a rotelle. Viaggi spaziali, deserto. Una spada laser, non so se rendo l’idea. Complessivamente, quanto può essere potente, per un bambino, un immaginario simile? Una vera e propria esplosione, roba mai vista prima. E volevano strapparmi a quella visione per andare da mia zia! Da mia zia ci andavamo ogni settimana, quante volte nella vita si vede Guerre Stellari per la prima volta?

Puntai i piedi: sarebbe servito un raggio traente, non disponevano di mezzi talmente potenti da staccarmi dal televisore: uno dei due 12” pollici, ovviamente in bianco e nero, lasciatici da nostro nonno. Uno era bianco, l’altro rosso: li facevamo girare, ne avevamo due da dividere per tre famiglie . Arrivammo a un compromesso: approfittare della pubblicità per sfrecciare a casa di mia zia, compiendo il viaggio in meno di 12 parsec.

E sull'altro televisore, credo quello rosso, per la prima volta ho visto esplodere la Morte Nera.


Sembrava una domenica qualunque, a casa di mia zia, nel mezzo di una di quelle cenette che organizzavamo spesso; una casa, la sua, già vecchia all’epoca, al primo piano. Un primo piano, di quelli alti di una volta, un primo piano che sembran due. Il televisore trasmette qualcos e poi tutto si mette ballare tutto, coi mobili che si spostano dalle pareti. Non ne avevamo mai affrontato e immaginato uno così imponente, ma l’urlo generale, nel silenzio della provincia all'ora di cena, non ammetteva dubbi: IL TERREMOTO.

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Non so dare un peso e un'età agli esseri viventi, ma di una cosa sono certo: quel cagnolino, 5 o 6 chili al massimo, era già vecchio quando l'abbiamo conosciuto.

Ci siamo trasferiti in un altra regione e, probabilmente, già il nostro primo nuovo giorno in un posto nuovo l'abbiamo incontrato. Tutto marroncino, poco ingombrante, col faccino più chiaro, come sbiancato dall'età. L'abbiamo incontrato quasi al centro della nostra strada, una traversa a senso unico. Il posto dove è quasi sempre stato, quando non si ritirava a casa.

E sì, si piazzava come una sfinge non al centro della strada, ma quasi: questa mancanza di simmetria serviva a far passare , alla sua destra o sinistra, gli automobilisti. Fosse stato impalato al centro, avrebbe dovuto spostarsi, invece no: restava immobile, quasi parte dell'arredo urbano, una rotonda, uno spartitraffico. Abbaiava con estrema parsimonia, mia mamma non deve averlo mai sentito emettere un suono per tutti questi quasi tre anni.

Tutti in zona lo conoscevano, ovviamente: non sarebbe arrivato illeso a quell'età, diversamente. Negli ultimi tempi stava addirittura formando un discepolo: un cagnolino un po' più esile, quasi identico; chissà, un fratellino di un'altra cucciolata, un figlio. Lo portava in giro, gli mostrava le strade, dove piazzarsi. L'allievo imparava bene, li si vedeva piazzati sui due lati della strada, sfalsati. Le macchine facevano la gincana.

Un pomeriggio, un sabato, sono uscito per una consegna, non potevo fermarmi, il tempo mi spingeva. In una traversa laterale, larga giusto per una macchina, vedo questa macchina bianca ferma, il padrone della macchina a parlare, rabbuiato, col padrone dei due cagnolini.

L'automobilista era rimasto chissà quante decine di secondi ad aspettare che si spostasse. Quella sfinge in miniatura non si sarebbe mai più mossa.

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Era il profumo dell'estate che finiva, con mio padre, quando ero piccolo.

La villeggiatura chiudeva l'estate, quando ancora a fine agosto il tempo cominciava a rinfrescare e nelle serate dei paesini di montagna spuntavano giubbini e maglioncini. Quando ad agosto si poteva dormire la notte, piuttosto che macerare in un bagno di sudore.

Andavamo in villeggiatura per due settimane o un mese. Due settimane in Abruzzo, perché due erano le sue settimane di ferie. Un mese, invece, quando andavamo più vicino e poteva lasciarci lì e raggiungerci nei fine settimana. Oppure, ci ospitavano degli zii in Toscana, per diversi giorni. E c'era sempre il profumo dell'origano, perché lo incontravamo selvatico, incustodito, libero ai margini della campagna.

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Scrivo nell'ultimo giorno di ottobre, ieri al sole pareva il 1° maggio, fuori la bougainvillea esplode di un rosso che sfuma nel violetto, direi che non va proprio bene.

Quando ero bambino, questi quattro giorni erano una piccola vacanza dopo poche settimane di scuola, erano ancora festivi 2 e 4 novembre. Non si festeggiava ancora Halloween: non sono contro alle festività percepite come importate, non vedo perché sia accettabile e consigliato riempire l'italiano scritto e parlato di itanglese e poi scagliarsi contro queste festività che ci sostituiscono etnicamente, in spregio totale ai patrioti e alle radici cristiane. All'epoca, il 1° novembre “erano i morti”: proprio così si diceva dalle mie parti, sono i morti.

Mio padre lavorava al Comune e, in quel periodo, si occupava di servizi cimiteriali accessori, quindi lavorava e a casa c'eravamo io con la mia piccola dose di ferie e mia mamma, ero ancora figlio unico. Mi agghindava coi vestiti buoni, i nostri vestiti buoni erano quelli non usati presi al mercato, ma roba di qualche stock di abbigliamento, ultrascontata. Le polacchine ai piedi. Scendevamo, con la carrozzina al seguito, casomai dovessi stancarmi, in genere ce la portavamo dietro inutilmente. Erano un paio di chilometri, ma da bambino mi sembrava chissà quale viaggio, da bambini tutto sembra troppo grande. Quante volte iniziavo a lagnarmi per la sete, mia mamma bussava con le nocche a una qualche finestra al piano terra, quella si apriva e una signora ci allungava un bicchiere d'acqua.

Quel percorso infinito mi sembrava una specie di festa sparpagliata, nonostante sapessi il motivo per il quale si va al cimitero. Man mano che ci si avvicinava, aumentavano le bancarelle coi giocattoli (scuole chiuse, tanti bambini) e i dolciumi, ovviamente dominava il torrone, storicamente il dolce dei morti in quella zona. Ne compravamo un pochino, assieme ai melograni, sicuramente l'elemento più caratteristico di quelle giornate. Non che ci piacessero particolarmente, pure fastidiosi da preparare, ma era la tradizione.

Sempre per una sorta di tradizione, quel giorno il cielo era di un bellissimo azzurro. Pulito, striato di poche nuvole candide. C'era un freddo pungente, da maglioncino, sostenuto da un vento più che frizzante, vere e proprie fitte di gelo, brevi e intense.

Era sempre così, non ci si poteva sbagliare: il 1° novembre era un limpidissimo giorno di freddo, anticipo d'inverno. Sono anni che non è più così, stavolta con le maniche corte è caduto l'ultimo tabù. Per troppa gente ancora va bene così, non c'è da preoccuparsi. E invece non va bene per nulla.


Quell'italiano non sono io, non mi sento italiano come non mi sento finlandese, polacco, cileno, maltese e così via, ma di questo parlerò un'altra volta.

L'italiano medio di cui parlo, italiano brava gente, non ha pronunciato quella frase, sentita parecchio in questi giorni di famosa rassegna cinematografica (scrivo nei primi giorni di settembre 2023), ma il fasciometro riporta approssimativamente gli stessi valori. Frase legata a un film che, diversamente, sarebbe passato del tutto in sordina, interpretato da uno dei 5 o 6 (cinque o sei) attori che interpretano tutti i film italiani da diversi anni a questa parte e si lamentano pure; di questo non parlerò, perché non meritano neanche questa attenzione.

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Antichi scrittori statunitensi, per identificarli con un aggettivo a loro caro e, da loro stessi, usato allo stremo.

Parlo di H.P. Lovecraft e Robert E. Howard, in particolare: conosciamo tutti il primo, il secondo pure. Indirettamente, per opera della sua creatura più famosa: Conan il barbaro, protagonista del suo ciclo più fortunato e, azzardo, avendo letto ampia parte della sua produzione, anche il migliore. Tutti lo conoscono, anche per i muscolacci di Schwarzenegger. Non sappiamo chi ne abbia scritto i libri, o non ne ricordiamo immediatamente il nome, ma due braccia possenti, costantemente impegnate a mulinare uno spadone, le ricordiamo tutti.

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Sì, ci ho messo del tempo a recuperare la serie. 30 e più anni fa l’avevo mancata clamorosamente. Mi sentivo ancora troppo duro, per badare a questi due che si sposeranno, perché è chiaro sin dalla prima puntata, forse dalla sigla. La prima sigla è bellissima, a differenza di tutte quelle di apertura di Lamù: non penso ce ne sia una che mi piaccia davvero. Non me ne vogliano i puristi (o me ne vogliano, non cambia), ma la sigla italiana è perfetta

Maison Ikkoku è un seinen, intanto: potrà sfuggire a qualcuno, era sfuggito a me di sicuro, fin quando non ho iniziato a vederlo. Ha la struttura superficiale di un’ottima commedia leggera, di una comicità difficilmente sopra le righe, con momenti di tristezza e emozioni che preferiremmo non provare. Scavando giusto un pochettino, si rivela una serie assolutamente ancorata agli anni della sua pubblicazione in Giappone, negli anni intermedi tra la fine del boom economico e l’inizio della crisi dei ‘90.

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