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Inktober 2025 – Però per scritto – 8/10 – Reckless

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

8/10 – Reckless

Su internet se ne parlava sempre di più. All'inizio erano alcuni post qua e là, prontamente sommersi da commenti in disaccordo, ma col passare del tempo le voci che davano Ph0tonP0wer come “finito” si facevano sempre più insistenti, i commenti solidali col famoso streamer diminuivano di volta in volta, e ormai iniziava a crederci perfino lui.

Anzi, a dire il vero, le cose non stavano andando bene da anni. La piattaforma è in crisi, si diceva. Ormai, nessuno fa più successo. Gli investitori stessi non ci credono più. E poi, alla fine, chi diamine ha il tempo di guardare tutte quelle ore di live stream su internet? Ma in cuor suo, Ph0tonP0wer sapeva benissimo che quelli erano soltanto parte del motivo. Se così fosse, il successo di tutti quanti starebbe scemando, e invece pareva che il declino fosse principalmente suo. Nuovi canali lo stavano raggiungendo in quanto a popolarità, streamer più giovani, sicuramente spinti da chissà quale raccomandazione, e sicuramente anche qualche ragazza che si è guadagnata la popolarità a suon di “lavoretti”, per così dire. E allora, piano piano, il top streamer mondiale stava vedendo il suo successo svanire, e con esso naturalmente anche la fonte economica che finanziava il suo stile di vita fatto di eccessi e divertimento.

C'era bisogno di qualcosa di nuovo. Qualcosa che avrebbe scosso il suo pubblico, qualcosa che l'avrebbe fatto tornare sul “trono” del live stream globale. Si, ma cosa? Una collaborazione? Nah, non avrebbe funzionato: non sopportava nessuno dei creator che conosceva, ed era abbastanza convinto che il sentimento fosse corrisposto. Certo, se fosse stato una ragazza formosa, avrebbe aperto un profilo su quell'altro sito o avrebbe iniziato a fare stream in vasca da bagno. Le ragazze hanno tutti i vantaggi, si trovò a pensare.

Ci voleva qualcosa che nessuno aveva mai fatto. Qualcosa di estremo. Decise di chiamare il suo agente. Se vuoi sfondare devi affidarti ai professionisti, si ripeteva da sempre, e infatti con lui andò proprio così. Da essere uno streamer qualunque, una goccia nel mare di sfigati, all'essere il top mondiale in meno di 5 anni era un risultato incredibile, ma Ph0tonP0wer sapeva benissimo che buona parte del suo successo dipendeva dal marketing e dalle idee che provenivano dalla sua agenzia, a cui si affidava da sempre.

La call non durò molto, ma l'idea era geniale: uno stream interamente trasmesso dall'auto sportiva di Ph0tonP0wer, e ogni 10 iscrizioni al canale lo streamer avrebbe schiacciato il piede sull'acceleratore per 10 secondi.

L'agenzia iniziò dunque la sua campagna di promozione: post ovunque, stories, addirittura l'annuncio arrivò anche su qualche notiziario in TV. “Cos'altro s'inventaranno?” si chiese qualcuno. “La mamma degli stupidi è sempre incinta.” affermò qualcun altro. “Questi influencer fanno danni incalcolabili alla psiche dei nostri bambini” dissero in TV.

Sta di fatto che la gente ne parlava. Si parlava di nuovo della Piattaforma, della content creation, degli streamer, e soprattutto si parlava di Ph0tonP0wer.

Dopo settimane di hype, annunci, scambio di opinioni, venne finalmente il giorno. Con rinnovata fiducia, lo streamer entrò nella sua auto fiammante, accese l'apparecchiatura, e premette su Start Live.

Solita introduzione di rito: sorriso d'ordinanza, tono di voce alto e impostato, saluto a chi si è già collegato, reminder di iscriversi e attivare la campanella delle notifiche.

Pronti? Si parte!

Le prime iscrizioni non tardarono ad arrivare. Questi sono i momenti in cui si vede l'amore della propria community, pensò lo streamer. Alla decima iscrizione, scattò l'alert, e Ph0tonP0wer non tradì la promessa: piede in fondo, sorriso di chi è sicuro delle proprie abilità, e via! La chat era letteralmente impazzita. Come ai tempi d'oro, quando era al top. Macché top, si trovò a pensare: non sono mai stato al top come adesso! Adesso sì che il mondo si ricorderà di me!

Ancora iscrizioni, ancora soldi, ancora alert, e ancora piede sull'acceleratore. La risata dello streamer ben rappresentava l'esaltazione che stava vivendo in quel momento. Senza più remore, senza più dubbi, questa era la cosa giusta da fare, questo era ciò che il pubblico voleva!

La Piattaforma registrò un record di presenze nel suo stream quel giorno, proprio nel momento in cui la trasmissione si interruppe improvvisamente, per poi non riprendere mai più.

Inktober 2025 – Però per scritto – 7/10 – Starfish

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

7/10 – Starfish

Il piccolo Timmy era il bambino più sfortunato del mondo. O per lo meno, è così che si sarebbe dichiarato a tutti coloro che glielo avessero chiesto. Le vacanze stavano per finire, e lui non aveva trovato nemmeno un tesoro. Neanche l'ombra, eppure aveva cercato in lungo e in largo. Gli altri bambini della spiaggia erano naturalmente stati più fortunati: chi aveva trovato un braccialetto, chi un vecchio camioncino di plastica, chi un secchiello rosso, e addirittura c'era chi aveva trovato una macchinina perfettamente funzionante.

Timmy niente. Ma certo: d'altronde, era il bambino più sfortunato di tutti. Quel giorno decise di tentare il tutto per tutto: i suoi genitori si erano addormentati sotto l'ombrellone, e c'era un'insenatura a sinistra della spiaggia, poco lontano, dove non era ancora andato. Il posto non gli piaceva più di tanto, c'era una specie di grotta da cui gli altri vacanzieri si tenevano alla larga per qualche ragione, probabilmente perché era buia e fredda e non prometteva niente di buono. Il posto perfetto per un tesoro! Maledicendosi per non averci pensato prima (chissà quante volte avrebbe potuto vantarsi del suo tesoro con gli amici del mare!), Timmy si allontanò velocemente dall'ombrellone, facendo attenzione a non svegliare i suoi genitori, e corse in direzione della grotta.

Se la ricordava bene: fredda, buia, e rocciosa. Niente spiaggia calda qua, e anche l'acqua sul fondo era decisamente gelida. Però Timmy lo sapeva benissimo: è nei posti più inospitali che si celano i tesori migliori, i suoi eroi della TV e dei videogiochi non avevano mai paura a cacciarsi nei labirinti più spaventosi, e ne uscivano sempre vittoriosi e con qualcosa di scintillante in più. Facendo attenzione a non scivolare, il piccolo Timmy si armò di coraggio e entrò nella grotta.

Pochi metri dopo, la luce del sole non era già più sufficiente per capire dove si potesse andare, ma dalle pareti poco più avanti arrivava una debole luce azzurra. Sarà sicuramente un cristallo luminoso preziosissimo, pensò Timmy, e con rinnovata fiducia fece ancora qualche passo.

Non erano cristalli.

Decine e decine di stelle marine adornavano le pareti della caverna, e ciascuna emetteva quella luce, qui decisamente più evidente, una luce fredda ma comunque confortante in tutto quel buio. Maledizione, pensò Timmy, questo non è un tesoro! Decise comunque che in ogni caso sarebbe stato qualcosa di interessante da mostrare agli amici, e allungò la mano verso una delle stelle marine. All'inizio non si accorse di niente, ma dopo poco divenne evidente che l'intensità della luce aumentava via via che le sue dita si facevano più vicine, come se quegli strani molluschi si concentrassero per identificare cosa si stesse avvicinando.

Non appena l'indice del piccolo Timmy toccò la superficie di una delle stelle marine, un silenzioso lampo di luce attraversò la caverna, e il piccolo Timmy perse i sensi.

Quando riaprì gli occhi, si rese conto di trovarsi su una sorta di tavolo metallico, freddo e umido. Una gelida luce bianca, emessa da un faro su quello che doveva essere il soffitto della stanza dove si trovava, lo investiva completamente, e rendeva difficile abituare la vista e scorgere tutti i dettagli. Riusciva a sentire solo un insopportabile fischio, e una sorta di borbottio provenire dal fondo della stanza. Provò a sollevare la testa per capire di più dove si trovasse, ma era impossibile: qualcuno lo aveva bloccato al tavolo, testa mani e piedi. Eppure non sentiva alcuna sorta di legaccio, o manette. Come se una forza nascosta lo tenesse fermo.

Il piccolo Timmy voleva naturalmente urlare, dimenarsi, scappare, ma riusciva a muovere soltanto gli occhi. Muto e immobile, non potè che assistere all'avvicinarsi di una figura dal lato del tavolo dove si trovavano i suoi piedi. Aveva la pelle come quella di un delfino, o forse di una foca (Timmy non poteva esserne certo, aveva visto questi animali soltanto in TV), di statura bassa, forse perfino più basso di Timmy, e con una testa perfettamente sferica. Dove Timmy si sarebbe aspettato di vedere gli occhi, non vi era nulla, ma poco più in basso si poteva scorgere una sorta di piccola fessura, da cui affiorava un corpo molliccio di colore giallo. La figura sollevò quello che poteva essere un braccio, seppur somigliasse di più a un tentacolo che si divideva in tre verso l'estremità. In quella sorta di mano teneva una specie di cubo perfettamente liscio, color acciaio. Lo posò sulla fronte di Timmy. Era gelido, e emanava una specie di debole vibrazione.

Nei pensieri del bambino comparve un messaggio. “Non fare parola con nessuno di ciò che hai visto. Torna dai tuoi simili. Non toccare le stelle marine.”

Timmy aprì gli occhi. Si doveva essere addormentato sulla spiaggia, sicuramente. Ancora il sole del pomeriggio era alto nel cielo. Le vacanze non erano finite, c'era ancora tempo per divertirsi. Se solo avesse trovato un tesoro da mostrare ai suoi amici!

Inktober 2025 – Però per scritto – 6/10 – Pierce

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

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6/10 – Pierce

Le luci sulla plancia non lasciavano spazio ai dubbi. Nemico a ore sei.

Bruce tirò verso di sé la cloche del motore con un movimento rapido, e con l'altra mano avviò una manovra di cabrata. L'aveva fatto mille volte all'accademia, una contromisura classica quando c'è un nemico in coda. Il motore del suo caccia diminuì conseguentemente la velocità, e i flap puntarono verso il cielo, con meccanica precisione. Guardandosi intorno, Bruce cercò di avvistare l'aereo nemico che risultava dal suo radar, e con la coda dell'occhio riuscì a vederlo uscire da una nuvola appena sotto di lui. Il briefing della missione ne segnalava la probabile presenza in zona, e ormai ne era certo: era stato scoperto.

L'addestramento dell'accademia permise a Bruce di identificarlo rapidamente: era un caccia di ultima generazione, modello SK-190, due motori a reazione, adatto al decollo da pista o da portaerei, 16 missili a tracciamento termico, cannone rotante a 6 canne. Un mostro di agilità e maneggevolezza, armato fino ai denti. Un vero osso duro, nelle mani di un pilota esperto.

Bruce strinse i denti, e riposizionò la barra di comando in posizione neutra, pronto a forzare il motore in una virata a sinistra. Come da manuale, aumentò lievemente il gas, e tornò a controllare la strumentazione. Il nemico sembrava essersi lievemente allontanato, ma Bruce ne era certo: ci sarebbe voluto altro per seminarlo.

Dopo pochi secondi, infatti, lo vide nuovamente apparire sul radar. Nemico a ore 6. Si accese un'altra luce sulla strumentazione, quella luce che nessun pilota vuole mai vedere. L'allarme di lock-on. Bruce allungò la mano verso la bottoniera sulla sua sinistra, e premette il tasto che comanda le contromisure. Contemporaneamente, iniziò la virata, e il suo caccia lasciò dietro di sé una nuvola di piccoli bengala, un'ottima contromisura per le testate a tracciamento termico.

Non sarebbe stato abbastanza, Bruce ne era certo. Riportò ancora una volta in orizzontale il suo caccia, e spinse in avanti la cloche del gas. Gli SK-190 erano agili, è vero, ma il suo aereo era più moderno, più potente. E soprattutto, aveva un motore supersonico.

Più veloce, pensò Bruce, più veloce, devi andare più veloce!

L'aereo prese a vibrare, e la velocità divenne l'unico pensiero di Bruce. Chiuse gli occhi, e spinse ancora più in avanti la cloche.

Il boato arrivò all'improvviso, quando meno se l'aspettava. Un tonfo secco, forte, e poi il silenzio. Durante l'allenamento ne aveva sentito parlare, ma non aveva idea che squarciare il muro del suono sarebbe stato così. Riaprendo gli occhi, venne colpito dalla luce che sembrava emanare dappertutto, non più soltanto dal sole all'orizzonte, ma dalle nuvole stesse. Istintivamente, guardò il radar per controllare la posizione del nemico. Nessuna spia, nessun allarme. Tutto tranquillo. Ce l'hai fatta un'altra volta, pensò, dandosi una metaforica pacca sulla spalla. Hai vinto anche stavolta.

Riportò in posizione neutrale la cloche, e puntò il suo caccia verso le montagne a est, come da piano. Poco contava per Bruce, ormai, che le montagne non ci fossero più, così come il radar, la cloche, l'aereo. Tutto era luce, ormai.

Inktober 2025 – Però per scritto – 5/10 – Deer

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

5/10 – Deer

La foresta non gli era mai piaciuta, a voler essere onesti. Ogni volta che ne parlava, veniva preso in giro e sminuito: questo è il tuo posto, gli dicevano. Qui sei al sicuro. Qui c'è tutto quello che ti serve.

Di notte, era ancora peggio. Ogni rumore, ogni ombra sembrava una minaccia. Il caldo conforto del sole lasciava il passo al vento freddo, che portava con sé suoni spaventosi e misteriosi. Ogni volta, al tramonto, provava a farsi coraggio. Provava a ripetersi ciò che da sempre gli dicevano gli amici e i parenti. Non devo aver paura, andrà tutto bene, sono al sicuro.

Al sicuro. Ma quando mai era stato veramente al sicuro? Quando mai, in un mondo come questo, fatto di prede e predatori, si è veramente al sicuro?

Quella notte non fece eccezione. Tramontato il sole, come sempre, non riusciva a dormire. Si ritrovò a vagare per i sentieri della foresta, quei sentieri che solo lui conosceva, calcati dai suoi passi chissà quante volte. Eppure, non riusciva a trovarli rassicuranti, perché anche lì c'erano le tanto odiate ombre, anche lì la luna proiettava ombre e riflessi attraverso le foglie degli alberi che gli facevano vedere forme irreali, personificazioni dei suoi peggiori incubi, minacce. Minacce ovunque.

Anche quella notte, provò a scappare. Ma non si scappa dal buio, non si scappa dall'ignoto, non si scappa dalla paura, perché la paura vive dentro di noi, ed è sempre un passo avanti.

E quella notte, sentì un rumore nuovo. I suoi passi l'avevano portato in una zona diversa, lontana dai soliti posti. Non riconosceva i tronchi degli alberi qui, c'erano radure che non gli risultavano familiari, e le foglie fremevano sotto l'influenza del vento in modo ancora più sinistro.

Non avrebbe saputo descrivere in che modo quel rumore fosse diverso dal solito. Era come lo spezzarsi di un legnetto, ma più deciso, più violento, non goffo ma bensì determinato, di certo non accidentale. Le sue orecchie erano ben allenate, dopo innumerevoli notti trascorse a catalogare ogni suono, per associarlo a chi o cosa l'avesse causato. Un rumore così non l'aveva proprio mai sentito. Uno simile, si, certo. Ma così, no. Se c'era qualcosa di cui si fidava, era sé stesso, e i suoi sensi. Quando devi sopravvivere ogni giorno, è importante affidarsi a sé stessi.

Si fermò all'istante, e con gli occhi scandì ancora più attentamente l'area in cui si trovava. Tronchi d'albero a perdita d'occhio. Saranno stati almeno tanti quante stelle c'erano nel cielo. Ogni albero recava con sé i suoi rami, la cui forma contorta rendeva impossibile contarli. Ogni ramo, innumerevoli foglie. Ciascuna con la propria voce, ciascuna che sussurrava un messaggio di morte. Vicino alle radici dei tronchi più vicini scorse alcuni vermi, ragni, formiche, e un paio di topi. Ma nessun topo avrebbe potuto fare quel suono. Un uccello, forse? Qualche gufo, il cui canto lo spaventava sempre? Ma non c'erano gufi in questa parte della foresta. Dove diamine era capitato, che nemmeno quei maledetti osavano venire qui?

Scelse allora di affidarsi nuovamente all'udito. Se qualcuno, o qualcosa, aveva fatto quel suono, allora l'avrebbe fatto di nuovo. Aspettò, fermo e immobile, ancora qualche attimo. Ogni muscolo del suo corpo lo implorava di non tradire la regola: mai fermarsi. Se stai fermo, sei un bersaglio. Eppure, quella notte scelse di provare a capire, scelse di affrontare la sua paura, e restò fermo, in ascolto, totalmente concentrato. Passò qualche secondo, o forse addirittura un paio di minuti. A lui sembrarono ore, addirittura giorni interminabili, laggiù nella foresta che proprio quella volta scelse di restare in silenzio, come se anche le foglie e i topi volessero stare in ascolto.

Quando all'improvviso, lo sentì di nuovo. Più vicino. I suoi arti dunque presero il sopravvento sulla determinazione, e lo portarono di scatto lontano da lì, via, via da quella maledetta radura. Corse come il vento stesso, senza sapere dove, senza una meta, ma lontano. Corse fino all'alba, quando il sole graziò di nuovo le sue corna maestose, di cui non si sentiva degno, e che gli ricordavano ogni giorno di quanto fosse vigliacco. Non seppe mai l'origine di quel suono, ma quel che importava era che un'altra notte era passata.

Inktober 2025 – Però per scritto – 4/10 – Murky

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

4/10 – Murky

“Così è deciso, la seduta è tolta!”

Con un tonfo del suo bastone, il Grande Castoro concluse il suo discorso, e lasciò ammutolita l'assemblea. La situazione era grave, certo, ma nessuno si aspettava che quella sarebbe stata la soluzione che sarebbe stata adottata.

Dopo così tanti anni, abbandonare l'ansa del fiume per spostarsi a nord, dover ricostruire tutte quante le tane, e chi si sarebbe occupato dei piccoli della tribù, quelli appena nati, che ancora neanche avevano rosicchiati i primi legnetti?

In fondo, però, le alternative non erano molte.

Qualcuno, a dire il vero, già si era insospettito quando, tante lune prima, vennero avvistati numerosi gruppi di uomini, molto più numerosi del solito, soprattutto considerando che il fiume scorreva molto lontano dalle loro chiassose città. Tuttavia, nessuno della tribù se ne preoccupò più di tanto. Saranno campeggiatori, dissero.

Poi arrivarono con le loro grandi macchine di metallo, col loro fumo e col loro assordante rumore. Iniziarono a scavare, spaccare, riempire, e infine portarono lui: il tubo.

Il tubo era grigio, freddo e sporco. Molto più grande del più grande tronco che qualsiasi castoro avesse mai rosicchiato, e dal suo interno ben presto iniziò a sgorgare un tipo di acqua che nessuno della tribù aveva mai visto. Aveva uno strano odore pungente, e un colore violaceo che rendeva le acque del fiume melmose e dense.

E dire che i più forti della tribù ci avevano provato a tapparlo! Ma il tubo era troppo grande, il flusso troppo potente, e soprattutto chi si avvicinava a quelle acque melmose perdeva istantaneamente le forze, e doveva stare a riposo nella tana per almeno due o tre giorni prima di tornare in salute.

Non c'era scelta, gli anziani concordavano tutti, bisognava fare come aveva deciso il Grande Castoro: abbandonare l'ansa del fiume per spostarsi a nord, lontano dal tubo, e ricostruire una vita, una casa, un posto dove la tribù poteva continuare a esistere.

“Ma... ma Grande Castoro, cosa succederà se gli uomini costruiranno un altro tubo anche a nord?”

La voce apparteneva alla giovane Lucinda, una di quelle castorine sempre con la testa tra le nuvole, più dedite a sognare che a rosicchiare il legno.

Tutti quanti i castori dell'assemblea si voltarono, sgomenti, a fissare la giovane. Che arroganza, contraddire il Grande Castoro! Ma il Grande Castoro non tardò a rispondere.

“Giovane Lucinda, quel che dici ahimé è realistico, ma cos'altro possiamo fare? In fondo, il fiume è grande, e potremo spostarci di nuovo. Hai per caso un'altra opzione in mente?”

“Beh... potremmo chiedere aiuto alle altre tribù. Anche loro dovranno affrontare i problemi causati dal tubo, in un modo o in altro!”

“Ma le altre tribù non hanno mai collaborato con noi! Anche quando abbiamo costruito la Grande Diga, nessuno volle prenderne parte, neanche i serpenti, eppure da allora hanno potuto badare più facilmente alle loro uova senza preoccuparsi della corrente del fiume.”

“Lasciate fare a me, Grande Castoro! Parlerò alle altre tribù, e troveremo una soluzione!”

L'assemblea dunque si sciolse per davvero, tra lo scuotere delle teste dei castori più anziani, e lo sguardo incuriosito del Grande Castoro. Che fosse davvero giunto il momento di lasciare che i giovani decidessero le sorti della tribù?

La giovane Lucinda raccolse dunque qualche provvista, e si mise in viaggio poco dopo, fronte alta illuminata dal sole, e coda ben piantata a terra, segno di determinazione e convinzione.

Passarono i giorni, e con ogni tramonto gli anziani si convincevano sempre di più dell'assurdità della proposta. “Questi giovani d'oggi, pensano di saper fare tutto! Figuriamoci, le tribù hanno sempre pensato soltanto a sé stesse, abbiamo sempre fatto bene a fidarci del Grande Castoro e basta!”

Al sorgere del sole del trentesimo giorno, però, Lucinda fece ritorno all'ansa del fiume. Non sembrava più tanto giovane, recava addosso i segni di un arduo viaggio, qualche graffio, il pelo tutto arruffato, ma lo sguardo ancora più fermo e ambizioso.

Lucinda convocò il Grande Castoro, e illustrò il piano maturato nel corso di lunghi giorni e interminabili riunioni con le altre tribù del fiume.

In confronto, il progetto della grande diga sembrava un gioco da ragazzi. Qua si parlava di pietre, tronchi, una struttura ambiziosa e mai realizzata prima di allora.

Gli aironi avrebbero fatto da guardia dall'alto. I tassi avrebbero portato le pietre. I serpenti avrebbero spaventato qualsiasi umano si fosse avvicinato. I castori avrebbero rosicchiato il legno, e i più anziani avrebbero diretto i lavori.

“Ma come faremo a portare le pietre e il legno alla bocca del tubo? Il fango è tossico, ci avvelenerà!” chiese il Grande Castoro.

“A quello penseranno i rospi! A loro la fanghiglia del tubo non crea nessun problema!”

“Ma... ma allora, i rospi non avrebbero bisogno di tappare il tubo! Perché mai hanno accettato di aiutarci?”

“Grande Castoro, non tutte le tribù sono come noi. I rospi sono un po' viscidi e mollicci, ma hanno un gran cuore. A loro piace l'ansa del fiume, per il paesaggio e il clima, certamente, ma soprattutto perché ci siamo tutti quanti noi. Non vogliono vederci scappare, e per questo hanno acconsentito ad aiutarci.”

Il Grande Castoro sorrise, e capì che ormai i tempi erano davvero cambiati. Se le tribù del fiume avessero voluto continuare a sopravvivere, avrebbero dovuto iniziare davvero ad ascoltare i giovani, aprirsi a nuove idee, collaborare, e non scappare di fronte alle difficoltà.

Si dette dunque il via ai lavori. Chi fosse capitato di lì per caso, nonostante il cattivo odore emanato dal tubo avrebbe scorto uno spettacolo unico: i possenti tassi che trasportavano le pietre, i rospi che ascoltavano attenti le istruzioni dei castori anziani, gli aironi in volo in formazione, e una struttura di sassi e legno che piano piano cresceva e andava a tappare il tubo.

Ci volle qualche settimana, ma alla fine il tubo venne tappato e le acque tornarono a sgorgare limpide e pulite lungo l'ansa del fiume.

Gli uomini se ne accorsero, naturalmente, e inviarono le loro macchine di metallo a rimuovere il blocco. Ma le tribù ormai erano diventate esperte, e tapparono nuovamente il tubo in minor tempo: i rospi avevano appreso la tecnica, e non avevano più bisogno di tante istruzioni. I castori avevano affilato ancora di più i loro denti, e riuscivano a rosicchiare il legno ancora più velocemente. Gli aironi avevano perfezionato i turni di guardia, e niente sfuggiva al loro sguardo. I serpenti erano riusciti a scoprire metodi per sbucare all'improvviso e spaventare anche il più temerario degli uomini.

Ogni volta che gli uomini rimuovevano il blocco, il tubo veniva di nuovo tappato, finché un giorno gli uomini non vennerò più. Nessuna macchina venne a rimuovere il blocco, e di lì a poco risultò evidente che il tubo non conteneva più la fanghiglia puzzolente, come se fosse stato in qualche modo dismesso. Gli uomini se n'erano andati, e le tribù dell'ansa del fiume erano restate lì dove si erano stabilite. Tutte insieme.

Inktober 2025 – Però per scritto – 3/10 – Crown

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

3/10 – Crown

La missiva giaceva arrotolata sul possente tavolo di quercia, col sigillo infranto, segno che era stata quantomeno aperta. Se era stata aperta, era presumibile fosse stata letta. Se era stata letta, era presumibile fosse stata compresa. Se era stata compresa, era presumibile che gli ordini fossero stati eseguiti.

E allora perché la missiva si trovava lì, e perché il messaggero aveva riportato indietro insieme ad essa soltanto parole di rifiuto?

Rifiuto! Figuriamoci, il Principe Andrea non sapeva nemmeno cosa significasse “rifiuto”. Nessuno rifiutava mai una richiesta del Principe. Per di più, un umile fabbro si era permesso di rifiutare un'esplicita richiesta? Assurdo!

“Vostra altezza, tecnicamente si tratterebbe di un orafo. L'ultimo orafo a essere precisi.”

“SILENZIO! Cosa ne vuol mai sapere un messaggero come te della differenza tra fabbro e orafo? Ma sei sicuro di aver capito bene?”

“Beh, sì, vostra altezza, senza dubbio. Il vecchio Mario ha proprio detto di no, non intende più lavorare. Anzi, avrebbe anche aggiunto altro, ma non voglio tediarla con i dettagli.”

“No no, ormai voglio proprio sapere tutto, che diamine avrebbe mai detto questo mentecatto scansafatiche?”

“Ha proprio detto che non intende lavorare per voi, nello specifico.”

“È inaudito! Che sia dunque portato al mio cospetto! Staremo a vedere cos'ha il coraggio di dire, di persona!”

Vennero dunque inviate le guardie fino alla collina dove si trovata la casa del vecchio Mario, l'ultimo artigiano orafo del regno. Era una casetta piccola, ma di fianco c'era una grande ciminiera, l'ultima forgia ancora attiva. Da tanti anni ormai un nuovo materiale aveva sostituito praticamente ogni forma di metallo, primo tra tutti quelli lavorati a mano. Era una sorta di plastica, importata da terre lontane, e si poteva lavorare con apposite macchine per farla diventare dura quasi quanto il metallo. Con un po' di immaginazione e una lavorazione aggiuntiva, poteva diventare brillante quasi quanto l'oro. Con una speciale rifinitura, il peso e la sensazione la faceva somigliare a qualcosa di quasi prezioso.

Quasi. Ma di certo, non era adatto per ciò che desiderava il Principe.

Il guanto d'arme del capo delle guardie, naturalmente realizzato in plastica, picchiò forte per tre volte sul portone di casa dell'orafo.

“Qui è la guardia reale. Aprite!”

Il vecchio Mario, dopo qualche istante di esitazione, aprì la porta e, sorpreso, rispose “Ancora voi? Cosa volete ancora?”

“Siete convocato al cospetto di sua altezza il Principe Andrea! La vostra insolenza vi ha infine fruttato questo destino!”

“Oh beh, se basta questo ad accontentare il Principe, poteva dirlo anche prima!”

Qualche tempo dopo, la truppa delle guardie fece ritorno al palazzo reale, con il vecchio Mario al seguito.

Il Principe Andrea, che a dire il vero non aveva chissà quanti impegni, appena ricevuta voce che la spedizione aveva fatto ritorno convocò subito le guardie e il vecchio al suo cospetto.

“Ordunque vecchio, è vero quel che riportano le mie guardie? Che ti sei rifiutato di prendere in carico il lavoro che ti ho ordinato?”

“Beh, vostra altezza, cosa volete che vi dica, la fedeltà delle guardie reali è ben nota dappertutto, non mi sognerei mai di contraddirle, tanto più quando hanno ragione.”

“Fai anche lo spiritoso? Ti ho ordinato di realizzare la mia corona, hai idea dell'importanza di questo ordine? Da quando mio padre ha finalmente esalato l'ultimo respiro, sono io il sovrano, e tutti i sovrani devono avere una corona!”

“Immagino sia così vostra altezza, io non me ne intendo, sono solo un umile orafo, ma se lo dite voi di certo sarà così, vi credo.”

“Insolente da quattro soldi, ti farò cavare la pelle dalla schiena a suon di frustate! Ti ordino di procedere col lavoro, immediatamente! Torna alla tua catapecchia all'istante, accendi la forgia e realizza la mia corona come ho specificato! E voi guardie, scortatelo e assicuratevi che lavori! 10 frustate per ogni esitazione o errore!”

Il sole stava ormai tramontando, e durante il viaggio di ritorno il vecchio Mario si rassegnò a una notte insonne dedicata completamente al lavoro. Poco contava che le sue energie fossero ormai quasi esauste, il valore di un lavoratore esperto si vede soprattutto quando chi l'ha sottovalutato ne ha bisogno davvero. Era tradizione del regno che le corone dei Re venissero seppellite insieme al sovrano, e il vecchio Re non fece eccezione. I tempi però erano cambiati: la plastica aveva sostituito tutto ormai, costava meno, era più comoda da lavorare, tanto che anche un bambino avrebbe potuto comandare le macchine capaci di stampare in serie oggetti che erano quasi resistenti e belli come quelli fatti dagli artigiani come Mario.

Quasi. Ma di certo, non era adatto per ciò che desiderava il Principe.

Tornato a casa, con il gruppetto di sgraditi e inaspettati ospiti, Mario non esitò suo malgrado a riaccendere la sua forgia, consultò nuovamente il progetto del Principe e si trattenne dallo scuotere la testa: era pieno di indicazioni vaghe, sprecise, spesso contraddittorie, neanche uno scarabocchio d'esempio. Ma d'altronde, pensò Mario, chi detiene il potere raramente capisce qualcosa del mestiere della povera gente, chiedono e basta, pretendono e neanche sanno di preciso cosa vogliono. Tuttavia, il vecchio Mario riconobbe di non avere tante alternative. La forgia era ormai calda, ed era l'ora di mettersi al lavoro. Attenendosi precisamente al progetto, Mario realizzò un primo prototipo entro le prime luci dell'alba. Sbadigliando, consegnò il prototipo nelle mani delle guardie così che lo consegnassero al Principe per farlo approvare, e finalmente se ne andò a letto per un po' di meritato riposo.

Poche ore dopo, però, Mario venne di nuovo svegliato dall'ormai familiare rumore di un guanto in plastica che picchiava sulla sua porta.

“Vecchio, apri! Il Principe non è soddisfatto del tuo lavoro! Dice che la corona dev'essere più preziosa, che non calza bene, e che pretende sia più decorata!”

Tutti così i potenti, pensò di nuovo il vecchio artigiano. Chiedono, pretendono, e non sanno neanche cosa vogliono. E si stupiscono se poi gli artigiani non vogliono lavorare per loro.

Mario aprì la porta, ma non fece a tempo neanche a dare il buongiorno alle guardie che queste entrarono bruscamente, lanciarono il prototipo della corona per terra, bloccarono mani e piedi del povero Mario e procedettero somministrando 10 frustate.

Dolorante, una decina di minuti dopo il povero Mario accese nuovamente la forgia, e qualche ora dopo il nuovo prototipo era pronto. Di nuovo, lo consegnò alle guardie, e si dedicò a medicarsi le ferite.

Poco più tardi, però, il solito suono di plastica contro legno tornò a disturbare il povero Mario. Il protopito non andava ancora bene, anzi, era ancora peggio! Il principe infatti riteneva che il nuovo prototipo fosse ancora più storto, il design non abbastanza alla moda, e non denotasse abbastanza autorità.

Altre 10 frustrate, e via a ritoccare la corona.

Anche stavolta però le guardie recarono brutte notizie: il Principe non era soddisfatto dal colore (non era abbastanza dorato) e la fascia era di forma ancora più sbagliata!

Altre 10 frustate, e via a ritoccare la corona.

Di nuovo, non andava bene: il Principe riteneva che la luce si rifrangesse in modo fastidioso sulla fascia della corona, e la forma non andava ancora bene.

Altre 10 frustate, e via a ritoccare la corona.

Ancora una volta, il Principe non era soddisfatto: era asimmetrica, si vedevano i segni delle martellate, ed era talmente storta da essere maledettamente scomoda.

Altre 10 frustate, e... e niente. Il vecchio Mario ormai non aveva più energie per poter lavorare, le frustate e le frustrazioni infine ebbero la meglio su di lui. Giaceva lì, tra forgia e tavolo da lavoro, come un arnese che non serve più, o che si pensa non serva più. L'ultima forgia, l'ultimo artigiano, spenti per sempre. E l'incoronazione avrebbe avuto luogo soltanto pochissimi giorni dopo!

Costernati, le guardie fecero ritorno al palazzo, con l'ultima revisione della corona, che ormai aveva subito così tante modifiche, apportate da mani sempre più stanche e martoriate, da sembrare tutto fuorché un simbolo di autorità e prestigio.

Il giorno dell'incoronazione, tuttavia, il Principe Andrea non ebbe scelta. Dopo tutti i discorsi di rito, venne calata sul suo capo quel circolo di metallo, segno di testardaggine, ignoranza, e mancanza di rispetto. Il popolo si chiese se avesse imparato qualcosa da quest'episodio, ma i padroni in fondo sono spesso proprio come diceva il povero Mario, e alla fine a forza di chiedere e pretendere ottengono proprio ciò che si meritano.

Inktober 2025 – Però per scritto – 2/10 – Weave

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

2/10 – Weave

Che cosa bellissima l'amicizia! E l'amore, ah, l'amore, due persone che scelgono di unirsi in qualcosa più grande di loro! Ma anche semplicemente due persone che si incontrano, si stringono la mano, e da allora possono dire di conoscersi! Che bella la società, tanti legami, qualcuno si forma, qualcuno si sfalda, qualcuno si ricrea, una fantastica sinfonia di battiti di cuore, sguardi, parole, intese, litigi, lacrime, urla! Incredibile come una singola persona sia legata a così tante altre, con così tanti interessi diversi, così tanti momenti vissuti assieme!

E che cosa fantastica poter descrivere chiaramente tutti questi collegamenti, vederli tutti disposti innanzi a sé in un diagramma, tutti i rapporti di conoscenza dell'intera umanità rappresentati in un caos organizzato di collegamenti, nodi, divergenze, convergenze, ricami, uno sconfinato tessuto. Una tela. Una rete.

Eh ma d'altronde, fratelli e sorelle mie, non c'è niente da fare, gli umani con la tecnologia ci sanno proprio fare. Non è mica uno scherzo gestire gli interessi e i collegamenti dell'intera specie attraverso quello che chiamano “computer”. Inoltre, aver realizzato queste postazioni comodissime per i nostri corpi, così diversi dai loro, è stato proprio un tocco di classe.

Quasi un po' mi dispiace che presto li faremo ammazzare tutti quanti a vicenda.

Oh, intendiamoci, non è questione di odio. A me stanno pure simpatici, e non ci vedo nemmeno nulla di male nel fatto che ci abbiano dato un lavoro. Gli umani l'hanno fatto tante volte nella loro storia, pensate alle mucche o i cavalli o gli asini usati per trainare i carri, o i cani da caccia, o i piccioni viaggiatori. Lo fanno anche l'un l'altro, qualcuno lo chiamano “padrone” e qualcuno lo chiamano “dipendente”, quello che facciamo noi è semplicemente business. Business immensamente redditizio, se posso permettermi. Uno degli accordi più illuminati della storia. In fondo, ci è bastato riuscire a comunicare le nostre intenzioni, e gli umani sono stati d'accordo sostanzialmente da subito. Rappresentavamo il miglior sistema per realizzare il loro progetto: eravamo già nelle case di tutti quanti, conoscevamo i loro interessi e il funzionamento della loro società, e in fondo chiediamo davvero poco in quanto a compenso.

Il fatto è che gli umani, a volte, fanno il passo più lungo della gamba: avevano creato tutto questo sistema informatico per rappresentare e gestire la loro società, ma gli mancava la cosa più fondamentale: un sistema per farla funzionare “davvero”, un modo in cui la rete di ciascuno di loro si sarebbe potuta espandere secondo i propri interessi: persone che potresti conoscere, pagine che potrebbero piacerti, gruppi di cui potresti voler fare parte. Impensabile che il sistema avesse potuto funzionare senza una mente dietro, gli umani sono troppo sprovveduti per decidere da soli cosa amare e cosa odiare.

Ed eccoci qua, a fare ciò che facciamo da sempre: tessere la nostra tela, solo che stavolta lo facciamo spostando dati e informazioni. E come sono contenti, gli umani, quando gli consigliamo qualcosa che li fa arrabbiare! Si indignano, commentano, condividono, si insultano, e così ci danno ancora più informazioni, e dunque prossima volta saremo ancora più precisi, e gli mostreremo proprio ciò che vogliono vedere. Ovvio, loro diranno che non è così, ma sotto sotto lo sappiamo benissimo quanto amino arrabbiarsi, specialmente con chi non la pensa allo stesso modo. Sono secoli che i nostri “colleghi” osservano questo curioso comportamento nelle loro case, e sono secoli che li ascoltiamo, con le vibrazioni delle nostre tele. Chi li conosce meglio di noi?

Neanche si rendono conto di quanto sia stato facile portarli a un passo dal baratro. Inizialmente, ve l'assicuro, non eravamo neanche sicuri fosse la cosa giusta da fare, però ormai penso di parlare a nome di tutti quando dico che se ciò che vediamo sui nostri schermi è davvero la rappresentazione della loro società, e ahimè sappiamo che le cose stanno proprio così, allora per il loro stesso bene dobbiamo continuare in questa direzione, e lasciare che si annientino a vicenda. Non sono recuperabili, non possiamo salvarli. Possiamo soltanto incoraggiarli verso l'unica direzione possibile.

E dunque fratelli e sorelle, fate lavorare le vostre otto zampe, e come accade da sempre continuate a tessere la vostra tela: il giorno della nostra vittoria è sempre più vicino!

Inktober 2025 – Però per scritto – 1/10 – Moustache

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

1/10 – Moustache

“Tordek! Tordek, svegliati maledizione! È il tuo turno!” Il giovane nano, non più di 30 anni per gamba, avrebbe di gran lunga preferito restare nel caldo abbraccio dei suoi sogni: la sua casa, laggiù sotto le montagne del sud, davanti al focolare, con sua madre che costantemente rimestava la zuppa e il sorriso di suo padre di ritorno dal turno di lavoro, piccone in mano e sacchettino di monete alla cintura, il frutto di un'onesta giornata tra pietre e scintille. Ma ormai tutto ciò faceva parte del passato. La miniera era esausta da tempo, e il giovane Tordek era dovuto andare prematuramente in cerca di fortuna per potersi permettere qualche spicciolo per sopravvivere e contribuire ai bilanci familiari. Fù così che si unì alla spedizione nelle terre degli elfi, capitanata dal leggendario Baburk Sventradraghi, un vero eroe nell'esercito nanico, una figura a cui ogni giovane recluta come Tordek si ispirava. E, naturalmente, temeva. “Tordek! Scansafatiche che non sei altro, tocca a te fare la guardia!” Il giovane soldato di ventura finalmente aprì gli occhi, si scosse la brina dalla corta barba incolta, tipica dai nani adolescenti, e prese coscienza di sé e di dove si trovasse. “Buon... buongiorno. Chi c'è di turno adesso? A chi devo dare il cambio?”

“A Baburk in persona, idiota! Non vorrai mica farlo aspettare?”

Tordek non lo sapeva, ma dare il cambio al turno di guardia del capitano era un classico “rito di iniziazione” delle nuove reclute. Baburk Sventradraghi era famoso per il suo eroismo, ma anche e forse soprattutto per la sua scontrosità e spietatezza nei confronti dell'inefficenza delle proprie truppe. Proprio per questo i suoi diretti sottoposti, quando organizzavano i turni di guardia, facevano in modo che a dargli il cambio capitassero sempre nuove reclute, certi che il vecchio capitano avrebbe avuto modo di dare spettacolo con qualche “ramanzina”.

Tordek indossò l'armatura di cuoio, e nervosamente si recò al limitare del campo, dove la neve scendeva copiosamente, e ricopriva tutto in un gelato torpore. Tutto, tranne che la possente figura del capitano. Avvicinandosi, Tordek lo vide statuario, immobile, la sua stessa presenza incuteva timore e ispirava disciplina. Un pesante colbacco gli adornava la testa, e una grossa sciarpa di lana gli ricopriva il volto, tranne che per la sua barba e i foltissimi baffi, invidia della maggior parte dell'esercito nanico. Erano certamente ricoperti di ghiaccio e neve, ma spiccavano comunque col loro colore rosso fuoco. Decisamente dei baffi da leader, pensò Tordek.

“Capitano... capitano Baburk, sono venuto a darle il cambio. Capitano?”

La nervosa voce del giovane Tordek si confondeva col vento freddo, tagliente come un rasoio.

Baburk non accennò alcuna reazione. Continuava a guardare l'orizzonte, ascia in pugno, come se i suoi occhi volessero fendere l'oscurità e la neve stessa, come se la ghiacciate terre del nord non avessero alcun segreto per lui. Di certo, con una vedetta così, perfino i vigliacchi elfi non avrebbero potuto nascondersi, pensò Tordek.

“Capitano? Vada a riposare, è il mio turno adesso.”

Di nuovo, nessuna risposta. Tordek, confuso, pensò di essersi presentato in ritardo, e che questo trattamento del silenzio fosse un preludio alla rabbia che ne sarebbe scaturita. O forse, una lezione: forse il capitano voleva dimostrare alle truppe cosa fosse davvero il senso del dovere e della disciplina, forse intendeva fare due turni di guardia uno dietro l'altro! Si, sicuramente, Baburk Sventradraghi era considerato forte come una legione intera di nani, cos'erano due turni di guardia per uno come lui?

Dopo qualche minuto d'attesa, complice il freddo vento che gli tagliava la faccia come un rasoio, Tordek era ormai convinto: Baburk gli stava mostrando cosa fosse davvero lo spirito di un soldato, il ligio rispetto del dovere, la risposta di un vero eroe alle angherie della rigida vita militare.

“Capitano, dunque io... io andrei eh... mandi un segnale se cambia idea, arriverò subito a dare il cambio!”

Tordek tornò dunque al suo giaciglio, sotto al riparo che la truppa aveva approntato. Tutti nell'accampamento stavano di nuovo dormendo, certi che la recluta avesse sostituito il capitano, stranamente senza incappare in una delle sue solite dimostrazioni d'ira.

Tordek chiuse gli occhi, e la stanchezza lo riconsegnò rapidamente ai suoi sogni. Sognò sé stesso, valoroso modello d'eroismo, ascia in pugno, baffi smaglianti color fuoco, che si impongono contro la notte e il gelo, quasi ad affermare la propria superiorità.

Tordek però non si svegliò con le luci dell'alba. I suoi occhi rimasero chiusi, e i suoi baffi non ebbero mai occasione di crescere. Quella notte, un vile assalto dei codardi dalle orecchie a punta sorprese la legione di nani, curiosamente sguarnita da una qualsivoglia guardia. Dopo aver piantato saldamente le proprie lame nel costato degli invasori, gli elfi ebbero occasione di ridere copiosamente scoprendo una buffa figura, impettita, ascia in pugno e smaglianti baffoni rossi sul volto. Volto che, come d'altronde tutto il resto del corpo, era rimasto assiderato da chissà quante ore.

Tutorial su come configurare Stremio e evitare di impazzire tra mille provider di servizio streaming multimediali

I servizi di stream sul mercato hanno molti problemi: – Costano un botto, – Hanno qualità scadente, – Non hanno la lingua originale – Se ce l'hanno, hanno i sottotitoli in Italiano quando va bene – Hanno le proprie esclusive e poco più – Non hanno i classici – Cancellano le serie a metà – Rimuovono content che magari vorresti vedere

Qui vi spieghiamo come configurare Stremio e ottenere così l'esperienza di stream di film, anime e serie definitiva.

Partiamo con le definizioni e i disclaimer, in caso chi legge sia un appassionato di legge e diritto d'autore. Stremio è nient'altro che un sistema per vedere trasmissioni da svariate sorgenti, in un unico posto. Queste sorgenti possono contenere materiale legale, o illegale. Questo rende Stremio perfettamente legale: come un mattone, che potete usare per costruire una casa o per fracassare la testa a qualcuno, dipende dall'utilizzo che ne fate e dalla vostra moralità e etica.

Veniamo alla parte interessante: le sorgenti più popolari da visualizzare con Stremio sono torrent, ovvero file (in questo caso, video) che stanno da qualche parte su internet (nel computer di qualcuno). I torrent si vedono se ci sono “seed”, ovvero persone che mettono a disposizione il file, restando connessi alla rete e permettendoci di scaricarlo (o, nel caso di Stremio, vederlo in tempo reale). In aggiunta a questo, Stremio è anche compatibile con i servizi di debrid, il più famoso è Real Debrid, che sostanzialmente mettono a disposizione (a pagamento) i video a qualità più alta, senza doversi preoccupare di trovarne uno con tanti seed. È opzionale, ma con questi servizi funziona tutto immensamente meglio.

Come si fa?

Step 1: create un account su Stremio e scaricate il client. Funziona ovunque: windows, mac, linux, android, (più o meno) iOS, Firestick... tutto. Si scarica da qui: https://www.stremio.com/

Step 1bis: se volete la qualità massima possibile, andate qui https://real-debrid.com/ , fatevi un account, scegliete un piano (più mesi acquistate, meno costa), poi andate qui e segnatevi la chiave: https://real-debrid.com/apitoken

Step 2: potete scaricare i plugin che volete, ma così fate prima: andate qui https://stremio-account-bootstrapper.vercel.app/ e inserite i dati del login. Se avete sottoscritto un abbonamento a Real Debrid (step precedente), inserite la api key dove dice di farlo, scegliete la lingua preferenziale, e se volete impostate gli addon opzionali.

Step 3: In realtà, avete già finito. Aprite Stremio, loggatevi, e godetevi tutto lo scibile umano in fatto di cinema e TV, alla qualità massima, senza problemi. Naturalmente, gli addon, le configurazioni, la libreria, l'avanzamento di ciò che guardate viene sincronizzato tra tutti i dispositivi.

Buona visione!

Hollow Knight, recensito da un creator che non ama(va) Hollow Knight

Ci sono giochi di cui è difficile parlare bene. Ci sono giochi di cui è difficile parlare male. E poi ci sono giochi di cui è difficile parlare, specialmente perché il proprio parere dipende dalle circostanze in cui esso è stato formulato. Questo perché i giochi “importanti” ti toccano dentro, interagiscono col tuo stato d'animo, lo modificano, diventano parte attiva di ciò che sei durante l'avventura che ti fanno vivere, e lo restano per molto, molto tempo. C'è anche un altro concetto da considerare, ovvero che una cosa è vivere un videogioco per sé stessi, come esperienza individuale, come fanno (fortunatamente) la maggior parte dei videogiocatori, e tutt'altra cosa è utilizzare un videogioco come mezzo col quale generare intrattenimento per un pubblico. Nel primo caso, il gioco sta sul palco, e tu sei tra il pubblico, e decidi se applaudire o fischiare. Nel secondo caso, tu stai sul palco insieme al gioco, diventi un'altra variabile che fa applaudire o fischiare il pubblico che sta in platea, e se non vai d'accordo con l'altro ingombrante inquilino del palco è un grosso problema, specialmente considerando che tu non sei nessuno, e l'altro magari è famoso, universalmente apprezzato e acclamato. Forse, se non ti ci trovi bene, il problema sei tu. Anzi, è molto probabile, e notando il tuo disagio, la platea non mancherà di fartelo presente. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Estetica, design e poesia

Hollow Knight è un gioco bellissimo, dal punto di vista estetico. Non c'è zona che non abbia la propria identità, ma allo stesso tempo non c'è zona che non risulti armoniosa con le altre, perché il concetto che il gioco vuole esprimere è che Hallownest è un vero e proprio alveare, dove le creature trovano la propria casa e convivono sia con l'ambiente che con gli altri abitanti. È una metafora, che ci esprime la complessità e la fragilità di un mondo che, seppur alieno a noi, vale la pena salvare. Hollow Knight è un gioco che parla poco con le parole, ma tantissimo con le immagini. È criptico ma chiarissimo allo stesso tempo. La musica è parte integrante dell'aspetto grafico: precisa, mai invasiva, ma che collabora con ciò che vediamo con gli occhi al fine di esprimere un “mood” perfettamente coerente. Ci sono momenti in Hollow Knight dove l'impatto narrativo è comprensibile soltanto fermandosi a guardare, e ad ascoltare. La tristezza e la malinconia della City of Tears, l'opprimente strusciare di Deepnest, il mistero e l'anticipazione di Dirtmouth ci raccontano il luogo dove ci troviamo con chirurgica precisione senza pronunciare una sillaba. Certo, tutto ciò è chiaro e evidente se permetti a un gioco come Hollow Knight di parlarti, di raccontarti, di esprimerti questo suo “mood”. Non è qualcosa a cui il videogiocatore medio è abituato, specialmente considerando quanto solitamente si viene tenuti per meno, quanto le scelte registiche siano intente a farci notare gli elementi importanti e funzionali alla narrazione e lasciare il resto sullo sfondo. In Hollow Knight, ogni dettaglio è importante, ogni elemento grafico e sonoro ha un'importanza di lore e di gameplay. Il sound design è efficacissimo: quando vieni colpito, te ne accorgi inevitabilmente, e quell'istante di pausa nelle animazioni è sufficiente per permetterti di capire cosa hai sbagliato e ti permette di porti il problema su come non sbagliare la prossima volta. Allo stesso tempo, è immediatamente palese se ciò che stai colpendo sta subendo danni, o se è il caso di valutare una strategia differente. Naturalmente questo dialogo può avere luogo col giusto contesto. Ce ne sono tanti di adatti, ma di certo quello di trovarsi sullo stesso palco insieme al gioco, e con davanti il pubblico, non è un contesto che permette pause, riflessioni, introspezione. Questo perché il parere consolidato della “scienza” dell'entertainment sancisce che non puoi mai startene zitto, non puoi fermarti a riflettere, non puoi far passare neanche un secondo senza “dare spettacolo”, senza sforzarti di tenere il tuo pubblico con gli occhi incollati a te, specialmente considerando che il motivo per cui sono venuti nel tuo teatro è perché si aspettano che la tua presenza rappresenti un valore aggiunto rispetto al trascorrere il proprio tempo col tuo compagno di palco, estromettendoti dall'equazione. Che valore aggiunto dai, se ti fermi, zitto, e guardi? E ascolti? Un gioco come Hollow Knight è totalmente inadatto all'essere usato come strumento tramite il quale generare entertainment, specialmente se è la prima volta che lo giochi. Concentrandoti sul rapporto col pubblico, sei costretto a estromettere o quantomeno limitare il rapporto col videogioco, che sta parlando al pubblico ma soprattutto a te. E tu non lo ascolti, perché devi parlare, devi divertire, devi fare il giullare. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Elegia della difficoltà

Hollow Knight è difficilissimo. Ok, l'ho detto, potete skippare questa sezione. Ah, siete ancora qui? Ok, allora riflettiamo un attimo. Che cosa significa che un gioco è “difficile”? Hollow Knight è uno di quei giochi che vengono in mente quando si parla di giochi “difficili”. Senza dubbio è perché si tratta di un titolo molto celebre, come d'altronde anche l'altro che viene in mente nello stesso contesto: Dark Souls. Una volta lessi una bellissima e concisa analisi: “Dark Souls non è difficile. Semmai, è severo.” ed è assolutamente vero. Hollow Knight, come anche Dark Souls, non ti spiega cosa devi fare, quando, o perché. Ciascuno dei due giochi ti offre la possibilità di personalizzare fino a un certo punto la tua esperienza di gioco, ma chi comanda rimane il gioco, non il giocatore. È il giocatore che deve adattarsi, usando gli strumenti che gli vengono dati, per superare le sfide. Il gioco non si inginocchia mai, non si piega di fronte alla frustrazione del giocatore. Il gioco ti invita a provare un'altra strada, un'altra strategia, ma assiste impassibile: sei tu a dover cambiare, non lui. Questa è una importante lezione di vita. Se devi spaccare un blocco di marmo, puoi provare a prenderlo a testate: il blocco di marmo non ti dirà se è giusto oppure no. Sarà la tua testa dolorante a suggerirti che forse può essere una buona idea provare un piccone. O un martello con un cuneo. O una carica di tritolo. Tutte soluzioni che in quel contesto possono funzionare, ma se l'ostacolo fosse “trovare un cappello che calza bene” dovrai avere la prontezza di tornare a utilizzare la testa: con la carica di tritolo non riuscirai a portare a termine la missione. Hollow Knight è difficile perché ti costringe a identificare la difficoltà e ad agire di conseguenza. Però, questo si potrebbe dire di fronte a qualsiasi difficoltà, no? Insomma, più o meno. Ci sono giochi dove puoi usare la stessa tattica dall'inizio alla fine del gioco, e funziona sempre. Ci sono giochi dove premendo un tasto si vince, o poco ci manca. Giochiamo ai videogiochi perché vogliamo un'esperienza narrativa interattiva: una storia dove una nostra azione ha una conseguenza. Altrimenti, se non c'è interattività, non è più un gioco: sarà un libro, un film, una canzone, ma non è un videogioco. I giochi “difficili” ci mettono di fronte a una situazione dove sono sempre di più le azioni di noi giocatori a fare la differenza, mentre nei giochi “facili” sono le azioni del personaggio, per lo più automatizzate. Non c'è il tasto “premi qui per vincere” in Hollow Knight. Non c'è l'accumulare punti esperienza per fare più danno e sostenere più ferite, che peraltro nell'altro esempio di gioco “difficile”, Dark Souls, invece è presente. Il personaggio diventa solo marginalmente più potente dall'inizio alla fine della storia. Chi diventa immensamente più forte è il giocatore. Le sezioni di platforming sono una chiara dimostrazione: all'inizio, superare un piccolo puzzle dove se sbagli vai a finire su una punta acuminata non è banale. Verso la fine, riesci a superare il Path of Pain nel White Palace. Non è il personaggio che è diventato più bravo a saltare, e le punte acuminate fanno lo stesso, letale danno. Sei tu giocatore che con le tue azioni hai sortito una conseguenza, non solo nel mondo di gioco, ma perfino nel tuo mondo reale: sai benissimo di essere diventato più bravo, e sai benissimo che è tutto merito tuo. Ecco perché ci piacciono i giochi difficili, più sono difficili e meglio è: perché siamo certi che, con il giusto impegno e tempo, riusciremo a conquistare anche quella difficoltà, che inizialmente ci sembrerà impossibile. Non c'è pensiero più confortante di questo, e forse è per questo che giochiamo ai videogiochi difficili: per dimostrare a noi stessi che siamo capaci di migliorare, di diventare più bravi, più forti, che siamo capaci di crescere. Hollow Knight, dicevo, è difficilissimo. Questa caratteristica è parte del suo fascino. Provare, riprovare, riprovare, riprovare, riprovare e infine riuscire è un processo indigesto, intenso, frustrante, e spesso bruttissimo e noiosissimo da vedere. Lo spettatore medio non vuole vedere un giocatore cadere per 100 volte nello stesso buco. E allora la pressione aumenta, perché stai facendo del tuo meglio e stai cadendo comunque nel buco, e ogni volta che ci cadi ti incazzi un po' di più, e più ti incazzi e meno sopporti qualcuno che in chat magari animato da buoni propositi ti spiega come fare, o peggio qualcuno che non aspettava altro per prenderti per il culo, o ancora peggio vedi che il tuo stream va male in quanto non stai offrendo l'entertainment che il tuo pubblico vuole, quel “valore aggiunto” che cercano da te. E più ti incazzi, e più è facile cadere in quel buco. E più ci cadi, e più ti incazzi. E più ti incazzi, e meno ti concentri, e meno impari, e più cadi nel buco, e più gente se ne va dal tuo pubblico, qualcuno forse per sempre. Che brutta idea scegliere un gioco come Hollow Knight da condividere con un pubblico. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Una manciata di aghi nel pagliaio

Hollow Knight ha alcune scelte di game design un po' curiose. Mi rendo perfettamente conto che in tanti le difendano a spada tratta, ed è proprio questo il bello: non penso siano sbagliate o scorrette, penso che a me, personalmente, non facciano particolarmente impazzire. La prima, la più evidente, quella con cui si schiantano tutti: la mappa. Il fatto che la mappa di ciascuna zona in Hollow Knight inizi a essere gestita solo dopo averla acquistata da Cornipher e si aggiorni soltanto a un save point (raggiunto in vita, o in morte) è carino a livello di coerenza e “realismo”, ma è una scelta che rende il gioco artificialmente difficile, così anche il fatto che la bussola che permette di sapere dove ci troviamo nella suddetta mappa ci occupi uno slot dei charm. “Artificialmente” perché non si tratta di una difficoltà da superare, o meglio, è una limitazione imposta il cui superamento non rappresenta alcun premio, neanche la soddisfazione personale, o almeno questa è la mia percezione. È un elemento di frustrazione aggiuntivo, che pare qualcosa di implementato per il gusto di complicare l'esperienza di gioco. Altra scelta, diciamo, curiosa risiede nell'unica meccanica di personalizzazione del personaggio, ovvero i charm. I charm sono strani. Si tratta di potenziamenti che devi trovare in giro nella mappa, che influenzano marginalmente come il personaggio si comporta. Alcuni fanno schivare meglio e più spesso, altri allungano la portata dell'arma, altri aumentano il danno delle abilità o dell'attacco base. Non è un brutto sistema, anzi, è interessante che sia l'unico elemento di personalizzazione, ma in quanto tale rimane comunque molto limitato. I charm sono rilevanti, è vero, ma personalmente ritengo che lascino un po' l'amaro in bocca: potrebbero alterare davvero tanto la modalità di interazione col mondo di gioco, e invece salvo forse un paio non rappresentano gli stravolgimenti che potrebbero invece provocare. Il fatto è che comunque, essendo appunto l'unica modalità di personalizzazione, pur variando l'1% effettivamente la differenza si sente. Non so esprimere un parere finale su questa meccanica. Da un lato mi piace, dall'altro poteva essere molto di più. E il charm che permette di capire dove ti trovi nella mappa è orrendo. Il fatto è che giocando per la prima volta Hollow Knight avevo trovato tante cose in più che non riuscivo a sopportare. Avevo l'impressione di attraversare le piattaforme durante qualche salto complicato. Ero pronto a giurare che in tante istanze il nemico di turno non mi avesse veramente colpito, o che la posizione di qualche trappola fosse decisamente ingiusta. Ero fermamente convinto che la mappa fosse illeggibile, che il combattimento fosse noioso e monotono, che il platforming fosse solo e unicamente trial and error, che ci si perdesse in continuazione. Rigiocandolo, stavolta senza un pubblico, l'ho trovato molto più accessibile, molto più corretto, mai mi è capitato di subire danni senza sapere precisamente perché, e cosa dovessi fare la prossima volta per evitarlo (riuscirci ovviamente è un'altra storia!). Perché? Come può un gioco cambiare così tanto tra giocarlo da soli o giocarlo con (anzi, per) altri? Perché troviamo così difficile ammettere che le incomprensioni comunicative nel dialogo tra gioco e giocatore possono dipendere dal giocatore e dal rumore di fondo che lo circonda, fatto dalle aspettative del pubblico principalmente nel caso dei creator, piuttosto che ricadere sempre nelle stesse dinamiche di biasimare il gioco? O il controller, o “internet che lagga” e “la squadra avversaria che usa i cheat” se si trattasse di un gioco online? Hollow Knight mi ha mostrato incontrovertibilmente che si, magari nel pagliaio ci sono un po' di aghi, ma c'è anche un tronco di baobab, e il tronco in questione ero proprio io. O meglio, erano tutte quelle dinamiche che orbitano intorno al modo che mi sono imposto per generare intrattenimento utilizzando un videogioco. Forse, capire che questo modo di fare non va bene, mi ha reso un creator migliore. O per lo meno, mi ha reso conscio che la mia percezione di qualcosa che vedo per la prima volta sarà irrimediabilmente vessata dall'utilizzo che ne faccio. La reazione a una qualsiasi cosa non potrà mai essere veramente autentica se avviene per un pubblico, o per lo meno mai pari a quella che si avrebbe privatamente, anche perché chiunque abbia mai provato a creare intrattenimento sa benissimo che non basta puntarsi una telecamera in faccia, mettersi un microfono in bocca, e “giocare a un giochino”. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

L'originalità e la ripetizione

Non posso dire che la storia di Hollow Knight mi sia piaciuta. O meglio, probabilmente mi sarebbe piaciuta se prima non avessi giocato Dark Souls, e non avessi letto o guardato le altre storie a cui Hollow Knight si ispira. C'è una differenza interessante tra la storia ciclica raccontata in Hollow Knight e quella raccontata in Dark Souls, ed è un po' la differenza tra 1984 e Brave New World: in Dark Souls dobbiamo propagare quanto più possibile la falsa speranza rappresentata dalla fiamma, per mantenere più a lungo lo status quo, e in Hollow Knight dobbiamo combattere specificamente questa falsa speranza, di cui il regno è diventato schiavo. È difficile però non tracciare paralleli, anche perché come detto all'inizio, in questi anni se dici “videogioco difficile” ti viene in mente Dark Souls e Hollow Knight, principalmente. Ci sono anche tantissimi elementi di gameplay che li rendono simili: i falò e le panchine, la perdita di geo e la perdita delle anime quando si muore, le cure che richiedono tempo, il focus sui boss che rappresentano la vera metrica per sancire l'avanzamento lungo la storia, e molto altro. Sembra quasi voluto. Ovviamente, questi elementi non li ha inventati Dark Souls, ed è francamente ridicolo considerare Hollow Knight un souls-like, come è francamente ridicolo usare Hollow Knight come paragone per i metroidvania. Una volta ho letto in una recensione di Metroid Dread che il gioco si ispira a Hollow Knight, ovvero un gioco che si ispira a Super Metroid. Ma d'altronde non ci si può aspettare che un potenziale acquirente di un gioco in uscita abbia giocato Super Metroid, mentre per qualche motivo è più legittimo aspettarsi che abbia giocato Hollow Knight. Il problema però è che Hollow Knight non è un normale metroidvania. Certo, è un platform in 2d con focus sul combattimento e potenziamenti sequenzali che permettono di espandere le zone esplorabili. Però, tutti questi dettagli, tutti questi esempi di rilettura di elementi dati per assunto in questo genere, tutte queste particolarità che emergono solo quando lo si gioca attentamente, lo rendono un gioco maledettamente originale. Hollow Knight è un po' come quelle immagini che se le guardi con gli occhi socchiusi vedi qualcosa, mentre se ingrandisci l'immagine e guardi attentamente ti accorgi che il tuo cervello si stava inventando elementi che in realtà non ci sono, con una buona dose di pareidolia. La prima cosa che ho pensato quando ho avviato per la prima volta Hollow Knight è stata “Ok, vediamo cosa fa di diverso rispetto a Castlevania”, e così facendo mi sono rovinato l'esperienza, perché la mappa non è a quadretti e quindi è meno leggibile, perché non c'è la scelta delle armi e quindi è più monotono, perché non è in pixel art e quindi è più brutto, e via discorrendo. Stavo giocando a un gioco pensando a un altro. Ma sarò coglione? Il problema è che non siamo abituati all'originalità. Ovviamente, aggiungo: è parte della definizione di originalità. Però, per quanto sia ovvio, non riusciamo a definire qualcosa senza partire da ciò a cui somiglia. Quando uscì Doom venne definito “un'avventura in tre dimensioni”, e tutti i giochi “simili” che vennero dopo vennero chiamati “Doom-like” molto prima di essere naturalizzati in first person shooter, o fps. Così facendo, però, partiamo sempre e comunque da un punto di vista potenzialmente sbagliato: abbiamo ben chiaro in testa il paragone, e andiamo a caccia di ciò che questo gioco fa diversamente, negandoci di vedere il quadro nel suo insieme, fallendo nel considerare come tutti questi elementi definiscano un'identità a sé stante. Questo solitamente non è un grande problema: molti videogiochi sono proprio derivativi, ma quando ne spunta fuori uno veramente originale rischiamo di non accorgerci. E così anche in qualsiasi altra circostanza: di fronte a una nuova destinazione di viaggio tendiamo a paragonare il paesaggio con qualcosa di già visto, ascoltando un nuovo album di una band lo paragoniamo ai loro precedenti lavori, mangiando un piatto di pasta al sugo in un ristorante lo paragoniamo a come la faceva nostra nonna. Ci vuole uno sforzo non trascurabile a valutare le cose in quanto tali. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Vi parlo di Hollow Knight

Il fatto è che io non saprei proprio parlarvi di Hollow Knight. Non è un gioco normale. Non è stata un'esperienza che posso descrivere senza parlare anche di tutto ciò che c'è girato intorno, tutte le considerazioni che mi ha obbligato ad affrontare. In giro si legge “Voto: 10”. Io i voti non li ho mai sopportati. Come si fa a riassumere con un numero un'esperienza interattiva, una narrazione in cui una parte di noi si stacca e diventa parte della storia stessa, un percorso a ostacoli al quale ci sottoponiamo di nostra sponte per il puro gusto di dimostrarci di essere in grado di superarlo? Ci sono tanti giochi come Hollow Knight. C'è chi vi potrebbe raccontare la stessa esperienza parlandovi di qualsiasi altro gioco, o addirittura di un libro, di una canzone, di un film, di un qualsiasi ricordo sul quale si decide di tornare, col sospetto che da un punto di vista diverso si scopra qualche altro dettaglio. Hollow Knight è ciò che mi ha insegnato che devo continuativamente mettere in discussione il mio punto di vista. Devo fare attenzione a come valuto qualcosa, perché il contesto di fruizione di un'opera è importante quanto l'opera stessa. Devo ricordarmi che quando sono seduto in una stanza da solo sono un persona, e quando sono di fronte a una platea sono un'altra persona. Non posso sapere se Hollow Knight vi provocherà le stesse riflessioni. Probabilmente no. Ma era proprio di questo che volevo parlarvi. Questa non era affatto una recensione di Hollow Knight.