KSGamingLife

Quanto si guadagna con Twitch

Solitamente, quando capita di parlare della nostra attività su Twitch, ci viene chiesto “Quanto ci guadagnate?” Il motivo è ovviamente come sempre il capitalismo, radicato fin nel profondo della società in cui viviamo, che impedisce ai più di fare a meno di parlare di soldi. Ma ok, parliamo di soldi: quanto ci guadagniamo con Twitch?

Per i comuni mortali, ovvero quelli che rifiutano o non ricevono sponsorizzazioni, ci sono tre fonti di guadagno tramite Twitch: le iscrizioni, altresì note come sub (da subscription), i bit e la pubblicità, più ovviamente lo donazioni. Andiamo a vederle in dettaglio.

Quanto si guadagna con le sub?

Ci sono tre “livelli” di sub: tier 1, tier 2 e tier 3. Le sub tier 1 costano, in Italia (il costo è differente in paesi differenti), 3.99 euro. Le tier 2 costano 7.99, mentre le tier 3 costano 19.99. Di questa spesa, circa metà va a Twitch, e circa metà va allo/a streamer. Quindi, abbonandovi a un canale per circa 4 euro, darete circa 2 euro al canale. Il resto va a Twitch. Così succede anche per i tier più elevati: a fronte di un'iscrizione tier 3, il canale ottiene circa 10 euro. Questo accade anche per le sub donate: se un utente dona 5 sub, è come se 5 utenti si fossero abbonati spontaneamente. Amazon, tramite l'integrazione con Prime Gaming, permette agli abbonati di sottoscrivere una sub tier 1 “gratuitamente”, questa conta per il canale come se fosse una sub tier 1 pagata con soldi veri. Sottoscrivere un abbonamento a un canale ne permette la visione senza interruzioni pubblicitarie (ma ci sono potenzialmente eccezioni, vedi sotto), l'accesso alle emote riservate agli abbonati, e un badge di fianco allo username in chat.

Quanto si guadagna coi bit?

I bit sono monete virtuali, che gli utenti possono pre-acquistare. 1 bit costa 0.015 euro, cioè un centesimo e mezzo circa. Per fare i conti più facilmente, 100 bit costano 1,59 euro. Donare bit a un canale equivale a contribuire alle casse del canale per un importo pari a 0,01 euro per bit. Se donate quindi 100 bit a un canale, spendete 1,59 euro, e al canale arriva 1 euro. Ci sono alcune eccezioni a questo, ovvero i bit spesi tramite le estensioni come il Crowd Control, dove l'80% va al canale e il 20% a chi ha sviluppato l'estensione, ma si tratta di meccaniche non statisticamente rilevanti. Donare bit permette di ottenere alcune emote riservate ai donatori, e conferisce un badge di fianco allo username in chat.

Quanto si guadagna con la pubblicità?

Risposta facile: poco. Risposta complessa... dipende. La pubblicità su Twitch può essere pilotata dallo/a streamer, in questo modo: 1) Tramite il Gestore Annunci, che mostra un quantitativo schedulato di pubblicità ogni tot 2) Manualmente, ovvero lasciando allo/a stremaer l'onere di lanciare la pubblicità quando preferisce

Nel primo caso, il quantitativo minimo che il Gestore permette è 30 secondi ogni ora. In questo modo, Twitch non mostrerà i cosiddetti preroll ad, ovvero sia la pubblicità che viene mostrata a un utente che si collega allo stream per la prima volta. Nel secondo caso, comunque lo/la streamer deve lanciare manualmente almeno 30 secondi di pubblicità ogni ora, per evitare i preroll ad. I preroll ad durano 30 secondi, e appunto sono visualizzati solo alla prima connessione: se lo/la streamer non lancia altri annunci, e l'utente non si scollega, quelli saranno gli unici annunci che vedrà. Tutto questo, solitamente, si applica soltanto agli utenti che non hanno sottoscritto un abbonamento. Sebbene lo/la streamer ha comunque facoltà di far visualizzare la pubblicità anche agli utenti abbonati, raramente si fa questa scelta. Quanto alla resa, è davvero difficile a dirsi. Per il nostro canale KSGamingLife abbiamo deciso di non abilitare il Gestore, e di non lanciare pubblicità manualmente. Questo significa che un utente non abbonato vedrà solo 30 secondi di pubblicità per ciascuno dei nostri stream se non si scollega. Sostanzialmente, è il minimo. Da inizio 2024, cioè in tre mesi e 16 giorni (questo articolo è stato scritto il 16/4/2024), il canale ha registrato un introito di 6,61$ (Twitch esprime i valori economici in Dollari USA). Un guadagno irrisorio, ma è così volutamente per quanto ci riguarda. Di questo ne parliamo meglio dopo.

Quanto si guadagna con le donazioni?

Le donazioni sono volontarie, di entità volontaria, e non tracciate da Twitch in alcun modo. Non portano vantaggi diretti (cioè non eliminano la pubblicità, non conferiscono emote, ecc ecc) ma possono portare vantaggi a discrezione dello/a streamer (ad esempio, una certa donazione potrebbe essere scambiata con un'azione da parte dello/a streamer, ad esempio scrivere il nome del donatore su qualcosa).

E le tasse?

Le tasse si pagano! Nel senso, gli introiti di Twitch vanno dichiarati nell'ambito della dichiarazione dei redditi. Twitch rilascia regolarmente documenti di valenza fiscale, una sorta di CUD, e pertanto tutti gli introiti di Twitch sono tassati a norma di legge.

Considerazioni – Guadagni medi per mese

Nell'ambito della gestione del nostro canale, abbiamo scelto di non trattare l'utenza differentemente, tra chi può/vuole sottoscrivere un abbonamento e chi no, e abbiamo scelto di non mostrare a schermo widget di gamification come ad esempio una barra che conta quante sub mancano al raggiungimento di un “sub goal”. Questo ci porta comunque un guadagno mensile di circa 120-130, a volte 150 euro. Il nostro canale è attivo per 2 ore e mezzo a sera, dal lunedì al giovedì. Calcolatrice alla mano, si tratta di circa 40 ore di trasmissione ogni mese (senza contare le ore spese a preparare le live, gestire i social, e quant'altro), il ché significa un guadagno orario di 3,25 euro circa, sui quali dobbiamo poi pagare le tasse come spiegato sopra.

Considerazioni – Gestione della pubblicità

La pubblicità su Twitch può essere la migliore o la peggiore fonte di guadagno. Scegliendo di mostrarne tantissima, e avendo una media spettatori di gran lunga maggiore della nostra, si guadagna potenzialmente bene. Il problema sorge nel momento in cui si vuole ottenere o mantenere la propria audience. Se Twitch costringe a guardare la pubblicità invece dello stream, gli spettatori si spazientiranno e andranno altrove (oppure si iscriveranno, forse). È nostro parere che la pubblicità sia il maggiore ostacolo che gli/le streamer si auto-infliggono nel cammino verso l'aumento di popolarità. C'è da dire che l'equilibrio tra preroll ad e pubblicità durante lo stream è molto precario, e dipende tanto dal tipo di community ottenuta e che si vuole ottenere. Non esiste una soluzione che va bene per tutti. Quel che è certo è che nella misura descritta poco sopra, lo/la streamer ha facoltà di impostare la pubblicità come più preferisce: chi sostiene che non può fare a meno di mettere tanta pubblicità o è in malafede oppure non sa configurare il proprio canale. Il minimo impostabile sono 30 secondi di preroll per gli utenti non abbonati, in un canale affiliato o in un canale partner, non cambia.

Considerazioni – Vale la pena?

Non si vive di Twitch. Non è neanche ipotizzabile vivere di Twitch, solo con le proprie forze. Vive di Twitch chi già ha intorno a sè centinaia (CENTINAIA) di persone pronte a pagare continuativamente, tramite sub ma soprattutto tramite donazioni, e chi ha già contratti di sponsorizzazione stabiliti. In Italia, si contano sulle dita delle mani. Non ha il benché minimo senso iniziare a streammare per guadagnare. Si rientra del necessario investimento in termini di attrezzatura in anni. Per questo motivo, fa sorridere chi insiste col chiedere se lo si faccia per soldi. Allo stesso modo, fa sorridere chi inizia una carriera di stream per guadagnarci, o anche per arrotondare lo stipendio. Il motivo per cui viene da commentare “Chissà quanto ci guadagnano!” è perché molte persone (spettatori e emittenti) non sanno bene come funziona, perché come ogni ambito dove intervengono i soldi, è complesso. Va da sé che sapendo come stanno le cose, è evidente che una carriera di streaming non può basarsi sul guadagno monetario. Ognuno trae dalla propria attività il tornaconto che vuole, ma è sensato che esso consista di soddisfazioni, non di soldi nel conto corrente.

Il Respiro del Selvaggio – Una recensione di Zelda BOTW di un non appassionato di Zelda

Parte 1 – Disclaimer Scrivere di videogiochi è difficile, specialmente se non sei uno scrittore professionista. È difficile farlo anche quando sei uno scrittore professionista, perché in quel caso non puoi scrivere ciò che vorresti. Scrivere di videogiochi universalmente acclamati è doppiamente più difficile. Pertanto, prima di iniziare a scrivere, devo mettere un paio di avvertimenti: 1) Nel momento in cui sto scrivendo, non ho ancora finito Breath of the Wild 2) Sto giocando Breath of the Wild su Steam Deck, non su Switch 3) Sto giocando Breath of the Wild nel 2023 4) Qualsiasi opinione espressa è mia personale, e non è da considerarsi come un giudizio sul gioco. Piuttosto, su come io ho percepito il gioco 5) Ci saranno alcuni spoiler

Parte 2 – Background Chi scrive è un giocatore PC. Non mi ritengo membro della “PC Master Race” ma riconosco molti meriti del PC che non trovo su altre piattaforme. I videogiochi sono parte della mia vita da quando ho memoria. Il mio primo ricordo è guardare mio fratello che gioca col Commodore 64 (che ancora custodisco come una delle cose più care). La mia prima console, però, è stata una Playstation 2 (orrenda colorazione argentata, ma era in sconto), perché da piccolo/adolescente ho sempre appunto giocato soltanto su PC. I miei genitori non mi avrebbero mai comprato una console, e nel paesino dove sono nato e cresciuto non c'erano le sale giochi (gli unici cabinati erano in un bar dove non avevo il permesso di andare). Non ho quindi mai vissuto, se non da adulto, il gioco su console, e tanto meno i titoli Nintendo. Li conoscevo, ovviamente, ma non avevo mai giocato da piccolo a Super Mario, a Sonic, a Final Fantasy, a Street Fighter. E nemmeno a Zelda. Per me, i videogiochi erano le avventure Lucas Arts, erano Wolfenstein e soprattutto Doom, Duke Nukem, Half Life, giusto per dirne un paio. La saga di Zelda non mi ha mai attirato, vuoi un po' per la grafica pucciosa (penso più che altro a Link to the Past), vuoi perché cercavo di paragonarla a un action RPG e non vedevo le meccaniche che mi piacevano (farsi una build, accumulare punti esperienza, cose che amavo nella trasposizione videoludica dei giochi di ruolo pen&paper, altra cosa che mi accompagna fin da tenera età), vuoi perché comunque non c'era niente del genere su PC e allora automaticamente entrava in gioco la dinamica della volpe e dell'uva. Da grande, ho recuperato molto. Non saprei (né ritengo necessario) quantificare la mia “cultura videoludica”, anche perché più che altro a me piace giocare, più che dire che conosco questo o quest'altro titolo. Da appassionato di videogiochi, ritengo che non debba esistere una distinzione tra retrogame e videogioco moderno, e credo che questo provenga dal fatto che ho sempre giocato su PC: spesso, cercando di definire la parola “retrogame” si parla di “generazioni di console”: se un gioco è uscito per una console di due generazioni fa, è retrogame, sennò no. Però, nel mondo PC, questa definizione non ha senso, perché non è mai esistito un PC2. Per questo motivo, non ho avuto problemi ad approcciarmi alla saga di Zelda senza considerare i vari titoli come parte del passato, ma bensì cercando di contestualizzarli nell'epoca in cui uscirono per capirne le caratteristiche e l'impatto che avessero avuto, ma soprattutto per capire quanto e se fossero ancora divertenti oggi. Nel tempo, ho stabilito una preferenza verso i titoli 2D della saga di Zelda. Il mio preferito è Oracle of Ages/Seasons (ma più Ages), seguito a ruota da A Link Between Worlds e Link's Awakening. Ho giocato anche i 3D, stancandomi molto presto. Trovo che il focus principale di Zelda, ciò che differenzia gli Zelda da qualsiasi altro gioco, sia l'armonia con cui l'azione si alterna col puzzle solving, e ho sempre trovato i puzzle delle versioni 3D meno affascinanti dei capitoli con vista dall'alto. Anche il combattimento, non certo il focus principale di questi giochi, l'ho sempre trovato più affascinante, più puro nella sua semplicità, nei titoli 2D. Mi sono approcciato a Breath of the Wild in varie occasioni, più che altro per “vedere come gira” nei vari emulatori. Adesso che ho uno Steam Deck, ho pensato di provarlo anche “in portabilità”, e complice il fatto che per lo meno su Steam Deck ho tempo e modo di giocare (maledetto lavoro, maledetti impegni, vojo tornà bambino) stavolta lo sto continuando.

Parte 3 – Problemi e (parziali) soluzioni La prima volta che provai a giocare BOTW venni immediatamente colpito da tre cose, che mi fecero passare sostanzialmente subito la voglia di andare avanti: 1) le armi si spezzano dopo pochi colpi 2) la grafica è “strana”, i colori sono quasi desaturati, è tutto troppo luminoso al punto da risultarmi sgradevole 3) la storia inizia con una delle tecniche narrative che più mi stanno antipatiche (ma ne parlo meglio dopo)

Fortunatamente, per i punti 1 e 2 mi è venuto in aiuto CEMU, l'emulatore che sto usando. Ho abilitato un cheat che rende ogni arma indistruttibile. Si, lo so, così facendo mi sto negando una delle meccaniche distintive di BOTW, però è la mia partita, e fortunatamente l'emulazione mi permette di giocarci come voglio. So che volendo posso disabilitare questo cheat quando mi pare per avere un'esperienza più autentica, ma scelgo di non farlo, perché secondo me si tratta di una pessima idea di game design (mi piace invece come la fragilità delle armi sia, in Tears of the Kingdom, un elemento ben armonizzato con le altre meccaniche del gioco in modo sinceramente geniale). Relativamente alla grafica, CEMU permette di modificare l'aspetto dei giochi con una funzione che si chiama Clarity. Ho abilitato il preset “Hexae's clear preset” che scurisce i toni e mi risulta molto gradevole (tranne in certe zone dove tutto diventa letteralmente nero, e lo devo disabilitare, fortunatamente sono due click). Rimane il punto 3. Personalmente, io detesto i giochi che senza spiegarti nulla ti lanciano nel mondo ad esplorare. Lo so, lo so, in tanti la pensano diversamente, ma vi rimando al quarto disclaimer scritto all'inizio. L'ho odiato in Dark Souls, l'ho odiato in Hollow Knight, l'ho odiato in Zelda BOTW. Per lo meno, in BOTW neanche il protagonista sa chi sia e cosa ci faccia in un sarcofago e come mai un vecchio appassionato di parapendio si prenda a cuore la sua condizione, quindi ho fatto un sospirone, ho resistito, mi sono fatto i primi sacrari e ho ingoiato il rospo quando mi sono sentito dire “devi salvare il mondo, e mo' so' cazzi tua, stacce, vai in giro e salva il mondo”. La storia è, in ogni Zelda, ciò che mi piace meno. In BOTW, all'inizio, mi è piaciuta ancora meno del solito, e uno dei motivi per cui ho sempre fino a ora mollato BOTW è proprio che non sono riuscito a ingoiare questo rospo. Stavolta mi sono davvero dovuto forzare. E in parte, sono stato premiato.

Parte 4 – Un gioco omeopatico Ben presto, ho percepito la vastità del mondo di BOTW. Hyrule è grandissima, e la direzione artistica insiste, giustamente, tantissimo sul farti apprezzare quanto grande e maestosa sia la mappa. Pochi giochi mi hanno fatto sentire così piccolo, così sperduto. Forse solo Elden Ring ci è riuscito. Tralaltro, Elden Ring e BOTW iniziano nello stesso identico preciso modo, manca il vecchio col parapendio, ma poi sono quasi le stesse inquadrature. Ma non divaghiamo. Io ho un rapporto strano con gli open world, mi piacciono e mi piace esplorare, ma solo se l'esplorazione viene in qualche modo premiata. In BOTW, l'esplorazione viene ripagata nella maggior parte dei casi con un sacrario, o forse con una fonte di materiali per il crafting. Non sono il tipo che si ferma a osservare il panorama in un videogioco, apprezzo le belle inquadrature e le belle scene, ma non è questo che mi aspetto come premio di essermi fatto 10 minuti a piedi circondato dal niente. L'esplorazione in BOTW poi è anche, secondo me, svantaggiosa nel senso che combattere è svantaggioso, quasi sempre. Io lo sto giocando con le armi infrangibili, ma se non lo facessi penso che scapperei da quasi tutti i combattimenti, pena perdere l'uso delle mie armi preferite, per ottenere materiali che probabilmente non mi servono. È rarissimo imbattersi in qualcosa che non sia un combattimento o una fonte di materiali. Non c'è “vita” nel mondo di BOTW, non come ad esempio in Red Dead Redemption 1 e 2 (altri giochi su cui avrei tanto da dire ma chiaramente non in questa sede). Pretendo troppo? Si, sicuramente. Ma perché fare un open world con un mondo gigante, quando per buona parte non c'è niente da fare se non camminare verso la prossima destinazione? BOTW ha tantissimi momenti interessanti e divertenti, ma non posso che ritenerli davvero tanto diluiti, al punto di farmi parlare di “omeopatia” videoludica. Non fa ridere? Ok, scusate. Ripeto: magari sono io che non capisco. Ma a me, vagare senza meta, non diverte. Non aggiunge nulla, non aumenta il divertimento, aumenta solo il tempo che impiego a raggiungere la destinazione dove mi sto recando, se nel tragitto non incontro niente che carpisca il mio interesse. Certo, ci sono i sacrari. Ne parlo dopo. Altra cosa: la ripetizione. Questo è un tratto distintivo non di Zelda, ma di Nintendo. Potrei fare migliaia di esempi, dico quelli che mi vengono in mente: potenziare le armature. Bisogna selezionare un pezzo alla volta, consegnarlo alla fatona, dirle che siamo sicuri, guardare l'animazione, ricevere il pezzo. Poi, tocca farlo col prossimo pezzo. Idem ricevere i cuori o le barre di stamina in cambio delle pallette che si ricevono in premio dai sacrari: la statua della dea ci chiede cosa vogliamo in cambio del pegno del nostro valore, scegliamo, guardiamo l'animazione, e così avanti per il prossimo premio. Idem aumentare l'inventario delle armi/scudi/armature. È tutto tempo “sprecato” che alla lunga non fa che diluire la narrazione, spezza il ritmo. Ma a Nintendo sono fatti così, prendere o lasciare.

Parte 5 – Ricordare la storia Dopo un incipit narrativo che, come ho spiegato sopra, mi ha soddisfatto pochissimo, ho accolto con felicità il momento in cui l'iPad di Link riconquista la funzione “Galleria Fotografica”, e mi è stato affidato l'obiettivo di andare a visitare i luoghi dove sono state scattate le fotografie che Link si è ritrovato nel suddetto iPad. I vari flashback che queste immagini triggerano, insieme a quelli che avvengono ogni volta che si entra in contatto con gli spiriti dei campioni ormai vincolati alle bestie meccaniche e soggiogati dalla calamità, e soprattutto quello scatenato dal ritrovamento della Master Sword sono per me i momenti più alti di Breath of the Wild, caratterizzano benissimo i personaggi e aggiungono note di lore in un universo vastissimo ma forse mai fino a oggi definito con questa chiarezza e dovizia di dettagli. Questa è la narrazione che avrei sempre voluto in uno Zelda, questa è la trama che cercavo invano in una saga che (nel bene e nel male) ho sempre percepito essere focalizzata più sul gameplay. La storia di Breath of the Wild è bellissima, i personaggi sono ben delineati, e il premio della “fatica” investita nell'andare a ricercare i vari luoghi è proprio la comprensione a 360 del mondo e dell'epoca dove le nostre imprese sono ambientate. Non è un caso, però, che tutto ciò sia totalmente e assolutamente opzionale. È possibile iniziare e finire Breath ignorando completamente la storia, lasciando le foto nell'iPad, e andare avanti come un rullo compressore. Nessuno ce lo vieta, perché il focus degli Zelda non è la storia. Però, caspita, almeno stavolta la storia se la vuoi c'e! Eccome se c'è! Questo modo di raccontare gli avvenimenti pregressi non è affatto nuovo, e non fa gridare al miracolo, ma è importante perché stiamo parlando di Zelda. Ha la stessa importanza del salto in Elden Ring: si lo so che i salti nei videogiochi ci sono da 40 anni, ma il fatto di averli in un Souls è importante. Il fatto di avere la possibilità di approfondire, in modo esplicito e “cinematografico” tutti gli eventi successi fino al (ennesimo) risveglio di Link, come questi eventi abbiano cambiato i personaggi, come soprattutto abbiano cambiato Zelda, cosa abbia portato alla sua disperazione e poi determinazione a combattere mi ha dato modo di apprezzare il mondo di Zelda sotto una luce nuova, una dimensione di cui da sempre ho sentito la mancanza in questa saga.

Parte 6 – Darsele di santa ragione Al netto di quanto già detto circa la fragilità delle armi e degli scudi, c'è da dire che i combattimenti in Breath sono interessanti, nella misura in cui si vede un chiaro tentativo di renderli più entusiasmanti di quanto lo fossero stati prima. In Zelda, combattere significava grosso modo premere ripetutamente un tasto. Al limite, significava smanacciare col wiimote o col joycon in Skyward Sword (di cui ho giocato la remastered per Switch e rimpiango molto le ore che avrei potuto investire diversamente). In Breath, sembra quasi di giocare a un Souls. Ci sono le parry, ci sono le schivate tattiche, ci sono diversi moveset. Molto importante è anche l'arco, con le diverse frecce che fanno cose diverse, tutte situazionali, che possono interagire con l'ambiente. Decente la gestione dello stealth, nel senso che molte situazioni si possono affrontare agendo di soppiatto e piantando una pugnalata tra le scapole del malcapitato di turno oppure facendo saltare in aria l'omnipresente barile esplosivo oppure facendo franare qualche roccia, o chissà cos'altro. Non è implementata benissimo e non approfonditamente, ma c'è, esiste, vive e lotta insieme a noi. Le boss fight sono ben strutturate e affascinanti, perché i boss non sono soltanto mostri più grossi che reggono più colpi e fanno più danni. Ci sono nemici su cui dobbiamo arrampicarci, nemici che dobbiamo schivare in un certo modo, nemici che diventano vulnerabili solo in certe circostanze. Altro trademark degli Zelda, ma fa piacere vedere come ogni volta riescano a fare qualcosa di nuovo e di armonico col resto del gioco. Semmai, è vero che non essendoci scaling dei danni e progressione del personaggio, la difficoltà rimane costante dall'inizio alla fine del gioco, il ché non è necessariamente un male. Il problema forse è passare da una parte della mappa con nemici one-shottabili a una parte dove i nemici reggono il quadruplo e one-shottano te, ma d'altronde, il mondo è grande, e comunque l'importante è...

Parte 7 – Arrivare preparati Ovvero, agire d'anticipo e avere sempre a disposizione una carriola piena di elisir e cibo con effetti particolari, per aumentare l'attacco, la difesa, gli HP temporanei, la silenziosità, ma anche banalmente avere abbastanza cure a disposizione. Questo rende gradevole e interessante il tempo trascorso a cucinare, cosa che avviene con una dinamica di gioco che sinceramente trovo un po' tanto macchinosa: trova pentolone, accendi fuoco, apri inventario, seleziona ingrediente, aggiungi altri ingredienti, premi tasto per tenere in mano, posizionati vicino a pentolone, lascia cadere, guarda animazione, ammira la roba che hai cucinato. Altra meccanica interessante, le armature, con le loro caratteristiche situazionali. Quella per sembrare una ragazza e introdursi di soppiatto a Gerudo City e essere considerati un'icona gay come ho letto in un articolo su non ricordo quale sito ma che mi ha fatto molto ridere, quella per nuotare, quella per resistere al fuoco, quella per resistere al freddo. Non c'è un setup definitivo, sia nella difesa che nell'attacco (specialmente se consideriamo che le armi hanno una durata e poi vanno in mille pezzi, meccanica che come ho detto io ho disabilitato), e tutto va sempre ricalcolato. L'ultima volta che mi sono ritrovato a fare i conti con qualcosa del genere è stato in The Witcher, specialmente nel 3, e lo considero uno dei migliori giochi della storia.

Parte 8 – Aguzzare l'ingegno Il combattimento, però, come dicevo secondo me non è il motivo per giocare Breath. Non è il motivo per giocare uno Zelda. Il motivo sono i puzzle, o meglio il modo in cui gli Zelda riescono a incastonare i puzzle insieme al resto. Breath secondo me ha i migliori puzzle di tutti gli Zelda. Si, anche di quelli in 2D. Oh, l'ho detto, e lo penso, e credo sia vero. I sacrari sono al 100% ciò che più mi piace di Breath, insieme naturalmente alle bestie meccaniche, sia per quanto riguarda l'approccio ad esse sia per quanto riguarda il loro interno. Ogni enigma è una piccola grande lezione di level design, di come dare al giocatore l'illusione del controllo, l'illusione della libertà, ma comunque vincolare la soluzione a una e una sola cosa, senza incappare in circostanze dove il giocatore può “rompere” l'enigma. O per lo meno, non facilmente, o non in un modo in cui io ci sia riuscito pur provandoci. Specialmente i 4 “dungeon” principali, ovvero le bestie meccaniche da strappare al giogo di Ganon, sono un concentrato di genio creativo che non mi aspettavo affatto, nemmeno da una saga che fa di questi enigmi giustamente il proprio punto di vanto, o per lo meno così è come io l'ho sempre percepito. Le varie funzioni della tavoletta (sto faticando tanto a non continuare a chiamarla iPad), a prima vista così potenti e potenzialmente game-breaking vengono imbrigliate in modo da rendere ogni enigma diverso dal precedente, ma comunque risolvibile entrando nel giusto ordine di idee. Come un brano musicale sarà diverso da qualsiasi altro, seppur fatto con le stesse note nello stesso pentagramma. Ci sono decine e decine e decine di sacrari, e mi ci fiondo dentro appena ne vedo uno, non per il premio, ma per la soddisfazione di aver risolto un altro enigma. Questo elemento di auto-gratificazione è ciò che rende “eccezionale” un gioco “buono”. Potrebbe non esserci alcun potenziamento come premio, i sacrari li vorrei fare lo stesso. Gli enigmi, poi, sono tutt'altro che semplici, specialmente quelli dei 4 dungeon principali. Vorrei solo fossero più lunghi, ma poi si rischierebbe la diluizione anche qui, e temo sarebbe peggio.

Parte 9 – Conclusione? Punto interrogativo d'ordinanza. Non ho, come dicevo all'inizio, ancora finito Breath. Lo sto facendo durare, perché voglio vedere tutti i sacrari e tutti gli enigmi, voglio scoprire tutta la storia, voglio che il gioco mi dia ciò che io voglio da esso, visto che finalmente c'è uno Zelda disposto a darmelo. Ci sono pochissimi giochi che nella mia vita mi hanno spinto a scriverne, soprattutto un papiro così lungo. Qualcosa vorrà pur dire, soprattutto se si tratta di un capitolo di una saga che, personalmente, non amo. Eppure, scrivere aiuta a capire, ad analizzare, e Breath of the Wild merita riflessione, analisi, quasi introspezione. È un gioco che mi obbliga a rivedere il mio rapporto coi giochi, con le mie convinzioni, con i miei preconcetti. Non è un gioco per tutti, ma tutti dovrebbero provare a giocarlo, soprattutto coloro che sospettano di non gradirlo.

Parte 10 – Conclusione! Scrivo questa parte a distanza di molto tempo. Ormai ho finito Breath, ho anche finito un paio di altri giochi (Yakuza 7!!!) e mi sono voluto prendere del tempo per riflettere. Ho portato a termine anche i DLC (usando un cheat per potenziare al massimo la Master Sword, lo ammetto. Dopo due pomeriggi di tentativi, non ne potevo veramente più) col principale obiettivo di scoprire il passato degli amici di Link i cui spiriti mi avevano accompagnato per tutta quanta l'avventura. Sinceramente, ho trovato i DLC come la parte più debole e innecessaria di tutto il playthrough. Il grado di sfida è decisamente altissimo, forse sproporzionato rispetto al resto, e il premio è piuttosto misero, sia come espansione della lore sia come “bonus in gioco”. Evitabili, sicuramente. Non so cosa pensare dell'ultimo dungeon, il castello di Hyrule. Da una parte, è il più grande e il più inquietante, e vedere in quelle condizioni di corruzione la meta più celebre di tutti quanti gli Zelda mi ha colpito molto. D'altro canto però ciò che più mi era piaciuto degli altri dungeon era la possibilità di interagire col dungeon stesso cambiandone la struttura, cosa che col castello di Hyrule non si può fare (e, per quanto ho visto per ora, neanche in Tears of the Kingdom, peccato). Il boss finale non mi è dispiaciuto, ma concordo con l'opinione comune stavolta: è troppo semplice. A livello narrativo, ci sta: d'altronde, è stato indebolito dalle 4 macchine leggendarie. Avrei voluto più interazioni con tutte quante le abilità speciali di Link, ma vabbè. Campo lo stesso. La scena finale invece l'ho proprio adorata, è stata la culminazione del messaggio che il gioco stava cercando di comunicarmi dall'inizio: non smettere di esplorare, di viaggiare, di osservare. C'è tanto da vedere, e tanto di cui stupirsi. È ciò di cui avevo bisogno in questo momento della mia vita videoludica. Sono molto, molto contento di aver dato una chance a questo Zelda. Sono un giocatore dai gusti complicati, ma il gioco è riuscito a prendermi per mano e mostrarmi cose che non avrei altrimenti notato. Grazie.

Owncast, come, quando, perché

Da quando il Progetto K&S include anche Owncast tra i propri mezzi di condivisione e comunicazione, giustamente ci troviamo a ricevere molte domande su cosa sia Owncast, in cosa differisce da altre piattaforme di live streaming, cosa vogliamo farci, cosa potete farci voi, come potete aiutare. Scriviamo questo articolo per provare a fare un po' di chiarezza.

Cos'è Owncast? Se siete qui su Log, probabilmente è perché conoscete il Fediverso, o per lo meno ne avete sentito parlare. Come Mastodon è la risposta del fediverso a Twitter, Pixelfed è la risposta a Instagram e così via, Owncast è la risposta a Twitch, o comunque ai servizi che permettono di trasmettere dirette e interagire col broadcaster tramite una chat. Come le altre realtà del Fediverso, Owncast è interfacciabile con gli altri servizi: tramite un account di Mastodon, si può seguire un canale di Owncast, esattamente come si può seguire un profilo di Pixelfed, e un canale di Owncast può inviare toot sull'istanza di Mastodon con cui è federato. Owncast quindi è un sistema open, non commerciale, decentralizzato per condividere uno stream.

In cosa differisce da Twitch / YouTube / TikTok? Le più celebri piattaforme di streaming, quelle che tutt* conoscono, sono entità commerciali. Produrre live stream su queste piattaforme ha un costo per le piattaforme stesse, banalmente per mantenere i server e pagare le persone che mantengono le infrastrutture informatiche. Ovviamente, trattandosi di aziende, l'intento principale è quello di generare un guadagno. Per questa ragione, l'audience degli stream viene indotta a contribuire economicamente, tramite sub, bit, superchat, e soprattutto tramite la pubblicità che si è costretti a guardare a meno di non sottoscrivere un abbonamento. La suddivisione dei guadagni tra streamer e piattaforma ovviamente è a favore della piattaforma, e per favorire maggiori guadagni le piattaforme implementano un algoritmo, non dissimile da quello usato per altri social proprietari (Instagram, Twitter, Facebook...) che privilegia certi canali piuttosto che altri: per Twitch è vantaggioso far crescere ulteriormente un canale già grande, perché frutterà di più a Twitch. Su Owncast, tutto questo non accade. Ogni canale di Owncast è di proprietà di chi trasmette, non di un'azienda esterna. Per questo motivo, Owncast non implementa alcun sistema di monetizzazione, nessun sistema di algoritmi, nessuna dinamica commerciale. Non ci si può iscrivere a un canale di Owncast, non esistono funzioni accessibili solo a chi paga, non c'è alcun algoritmo che favorisce o inibisce la visibilità. Non è, cioè, un network commerciale, proprio come qualsiasi altra entità del Fediverso. Questo significa anche che le regole in vigore su ciascun canale di Owncast sono a giudizio di chi lo possiede. Quando guardate uno stream su Owncast, siete a tutti gli effetti “in casa” di chi lo trasmette. Non ci sono dunque limiti a ciò che potreste vedere. Per esempio, Twitch vieta la pole dance ( https://safety.twitch.tv/s/article/Community-Guidelines?language=en_US ), Owncast ovviamente no, o per lo meno non è la piattaforma a vietarlo: vige la regola di ogni specifico canale.

Ok ma quindi come si fa a monetizzare il proprio stream? Come si vuole. Ci sono tante opzioni. Si può per esempio ottenere donazioni tramite PayPal, o ancora meglio sistemi come https://en.liberapay.com/ o come si preferisce. C'è anche chi, come ad esempio noi di K&S, preferisce non implementare niente di tutto questo, e lasciare il proprio canale orgogliosamente in perdita.

Come sarebbe a dire “in perdita”? Cioè, ci rimettete dei soldi? Ebbene, si. Owncast, come detto precedentemente, è una realtà decentralizzata. Significa che ogni canale è hostato su un server, e questo server qualcuno lo deve pagare, così come eventualmente il dominio. Il canale di K&S, https://live.ksgaming.it/ è hostato su un server cloud fornito da https://www.hetzner.com/ che ha un costo mensile che dipende dalle performance che desideriamo avere. Non è un costo esorbitante, ma è comunque un costo che sosteniamo di tasca nostra, per fornire un intrattenimento DAVVERO alternativo e DAVVERO libero.

Come posso supportare il Progetto K&S su Owncast? Ci sono tantissimi modi. Il più importante è spargere la voce. Il Progetto K&S è il primo canale italiano su Owncast, e siamo fieri di portare innanzi questa bandiera. Condividete i nostri toot, parlate di Owncast a chi è stanco di Twitch, indirizzateli verso https://livellosegreto.it/@KSGamingLife per parlarne più approfonditamente. Attualmente, stiamo finanziando il server tramite gli introiti di Twitch, principalmente perché amiamo l'ironia e ci piace pensare che Twitch stia tecnicamente rendendo possibile il sostentamento di un'alternativa a Twitch. Per aiutarci, potete seguirci e partecipare alle nostre dirette anche su Twitch, all'indirizzo https://www.twitch.tv/ksgaminglife .

Come posso aprire un mio canale Owncast? Servono tre cose: 1) un dominio 2) un server 3) l'installazione di Owncast server Per creare un dominio, basta andare su https://www.register.it/ e registrare il nome che si vuole dare al proprio sito (ovviamente deve essere libero). Tip: i domini .it sono gratuiti per un anno, poi costano circa 50 euro. Per il server, ci sono tante possibilità. Si può anche scegliere di dedicare un PC a casa propria per questa funzione, se si crede di avere abbastanza banda. Noi abbiamo scelto di noleggiarne uno da Hetzner. Installare Owncast server non è esattamente banale, ma fortunatamente con la crescita della piattaforma stanno spuntando fuori sistemi sempre più semplici. Hetzner per esempio permette l'installazione one-click sui propri server: https://docs.hetzner.com/cloud/apps/list/owncast/

Cosa serve per streammare su Owncast? Niente di più e niente di meno rispetto a farlo su Twitch o altre realtà analoghe. Un programma come OBS e Streamlabs possono essere puntati verso il proprio server di Owncast tramite chiave dello stream (reperibile tramite la propria pagina di admin del proprio canale) e url del server. Si tratta di due informazioni che Owncast ci da non appena si apre la pagina di admin. Naturalmente, le integrazioni di Twitch non funzioneranno: il chatbot di Streamlabs per esempio non è capace di interagire con Owncast, così come le animazioni di notifica o gli emote wall. Ci sono però molti bot e automatismi in sviluppo: è pur sempre una tecnologia open, quindi chiunque può integrare e sviluppare.

Invece, per seguire un canale Owncast come posso fare? Una delle cose più interessanti di Owncast è che per guardare e interagire con uno stream non serve nemmeno un account. È possibile parlare in chat e guardare qualsiasi stream semplicemente andando sull'indirizzo del canale, per esempio appunto https://live.ksgaming.it/ e volendo attivare le notifiche desktop, così da essere informati dell'inizio di ciascuno stream. Naturalmente, se si possiede già un account su qualche istanza di Mastodon o comunque nel Fediverso, è meglio. Si può seguire tramite Mastodon l'account del canale ( il nostro è @kappaesse@live.ksgaming.it ) e ricevere toot direttamente da esso, che per esempio possono riguardare i prossimi stream programmati. Un enorme vantaggio rispetto a Twitch infatti è che tramite il canale si possono mandare messaggi ai propri follower, favorendo notevolmente l'interazione.

Ci sono app per Owncast? Al momento (Marzo 2023) non esiste niente del genere. È sufficiente un browser, preferibilmente da desktop, perché su cellulare funziona ancora maluccio, sinceramente.

Come faccio a esplorare i vari canali Owncast esistenti? Esiste una directory che mostra tutti i canale attualmente federati. Si trova qui: https://directory.owncast.online/ La promozione delle realtà su Owncast comunque passa principalmente dall'interazione tramite Mastodon, quindi tendenzialmente sarà sull'istanza Mastodon scelta dall* streamer che si parlerà del canale e di cosa verrà trasmesso prossimamente.

Ho altre domande, come posso contattarvi? Parliamone su livellosegreto! Seguite l'account @KSGamingLife e non esitate a chiedere, così magari aggiorniamo anche questo articolo.

Al bar con Stilgar – Come leggere un'etichetta di un whisky

Immagino di poter dare per scontato che chiunque abbia visto in vita propria una bottiglia di whisky, ma forse non vi siete soffermati troppo su tutte le informazioni che sono racchiuse in essa. Il mondo del whisky è vastissimo, e per permettere all'acquirente di capire “a scatola chiusa” cosa sta per comprare, l'etichetta fornisce tutte le informazioni necessarie per farsi un'idea.

Prima di tutto, però, facciamo un passo indietro. Sto usando la parola “whisky”, scritto proprio così, ma avrei potuto scrivere “whiskey”. Può sembrare una sottigliezza, ma non è affatto così. Lo spelling “whisky”, senza la E, corrisponde alla maniera scozzese di scrivere la parola che sta a definire “un distillato ottenuto dalla fermentazione e successiva distillazione di vari cereali, maturato in botti di legno (generalmente di rovere).” Questo è vero anche per il whiskEy, ma se questo distillato viene prodotto in Scozia (e, in misura ridotta, in Canada) allora si scrive whisky, senza la E. Se invece viene prodotto altrove, tipo in Irlanda, negli Stati Uniti, in Giappone, in Australia, in India o via dicendo, allora si -dovrebbe- scrivere whiskEy con la E.

Appurato questo, se parliamo di scotch whisky, quindi whisky scozzese, solitamente nell'etichetta vedremo scritto il nome del produttore, tipo Glenfiddich, Bruichladdich, Talisker e così via. Partiamo subito col dire che questo non necessariamente corrisponde al nome della distilleria che ha prodotto ciò che si trova dentro la bottiglia.

Per spiegare meglio questo concetto, bisogna però passare alla seconda cosa più evidente che si legge su un'etichetta di whisky: l'origine del malto.

Spesso si sente parlare infatti di Single Malt o Blended Malt, l'errore che molti neofiti fanno però è credere che si traduca in Italiano come “malto singolo” oppure “malto miscelato”. In realtà, la parola “malt” si riferisce a “whisky”, non all'aggettivo che la precede (single o blended che sia). Significa che nella bottiglia c'è “whisky di malto”, ovvero “malt whisky”. Cosa significa allora Single o Blended?

I Single Malt sono whisky preparati in un’unica distilleria (tipicamente, quella il cui nome si trova sull'etichetta, anche se potrebbero esserci imbottigliatori indipendenti, ma in questo caso la distilleria è sempre esplicitata) e con una singola qualità di malto. I Blended sono una miscela di vari single malt che possono provenire da diverse distillerie. Attenzione, questo non significa che si tratti di prodotto più scadenti: il mestiere del Master Blender è tutt'altro che semplice, e moltissimo Blended sono prodotti eccellenti. Provate ad esempio qualsiasi bottiglia della linea Compass Box per ricredervi (specialmente il Peat Monster e l'Orchard, per citarne giusto un paio). Più rari sono i Single Barrel o Single Cask. Questa nomenclatura sta a significare che il whisky contenuto nella bottiglia viene un unico barile. I prodotti di questa tipologia tendono naturalmente a essere notevolmente più cari.

Subito dopo, generalmente, troveremo il periodo di invecchiamento. Questo non è un requisito obbligatorio, ci sono molte distillerie che preferiscono non esplicitare quanto tempo il whisky trascorre in botte (tipo Highland Park o Talisker, la cui gran parte dei prodotti ha nomi di fantasia piuttosto che un semplice numero. Esiste infatti il Talisker 10, come esiste anche il Talisker Port Ruighe, o il Talisker Storm). Fermo restando che uno scotch whisky può dirsi tale solo se ha trascorso per lo meno 4 anni in botte, e fermo restando che il whisky come qualsiasi distillato non invecchia una volta trasferito in bottiglia (al contrario dei fermentati come ad esempio il vino), la notazione di invecchiamento significa sostanzialmente quanto tempo il whisky ha avuto a disposizione per assorbire le proprietà del legno della botte dove è stato messo dopo la distillazione. A essere precisi però se si tratta di un Blended, che è composto da diverse miscele, possiamo avere anche dei tempi di invecchiamento diverso. Ciò significa che l’età riportata è quella del prodotto più giovane contenuto nella bottiglia, e questo vale anche per i Single Malt.

Sicuramente poi, specialmente nei Single Malt, leggeremo la tipologia di legno in cui il whisky è invecchiato. Si tratta quasi sempre di botti usate precedentemente per qualcos'altro, almeno nella tradizione Scozzese. Se parliamo di whiskey statunistense, e quindi per lo più parliamo di bourbon, per legge si tratta sempre di botti nuove (virgin oak casks), perché il governo degli Stati Uniti ha disposto appunto una norma che impedisce di riutilizzare le botti per più di un invecchiamento, a tutela del mestiere dei bottai. Le botti usate per un batch di invecchiamento di bourbon, ad esempio, vengono poi spedite appunto oltre oceano, per accogliere il “new make” (così si chiama il distillato di malto, che dopo l'invecchiamento chiameremo whisky, o whiskey).

Le botti usate per invecchiare il whisky possono essere molteplici, in caso il produttore abbia deciso di invecchiare il whisky in più fasi e quindi in legni differenti (tipo nel Balvenie Triple Wood, che è un single malt creato da un mix di botti refill ex-bourbon, first-fill ex-sherry Oloroso butt e botti first fill ex-bourbon), oppure soltanto una (come fa per esempio Glendronach che invecchia quasi sempre solo in ex-sherry).

Solitamente, leggeremo anche se durante l'imbottigliamento sono stati usati coloranti alimentari (la normativa scozzese ne permette qualcuno), e soprattutto se si tratta di un whisky filtrato a freddo oppure no. Il chill filtering è un passaggio della produzione del whisky che avviene al momento dell'imbottigliamento con lo scopo di togliere le impurità (ad esempio, residui del legno e sostanze grasse che possono depositarsi all'interno della botte). Si tratta di una pratica molto divisiva nel mondo del whisky, perché sebbene il prodotto risultante sia effettivamente più limpido e appaia più puro, il filtraggio a freddo rimuove anche buona parte dell'aroma, eliminando le specifiche dell'identità di ciascun prodotto. Solitamente, si tende a preferire un whisky che sia “Non chill filtered”.

Da qualche parte, l'etichetta ci dirà anche la provenienza del whisky. Se parliamo di scotch, questa sarà sicuramente una tra Campbeltown, Highland, Islay, Lowland e Speyside, anche se a volte recentemente si parla anche di Islands, per significare il whisky che proviene da isole “minori” come per esempio Jura. Nel whiskey statunitense si parlerà ad esempio di Bourbon, Tennesse, e così via.

Per ultimo, ma non certo per importanza, l'etichetta deve riportare la gradazione, ovvero la concentrazione alcolica. Solitamente si tratta di 40%, ovvero 40 gradi, ma questo preciso numero si ottiene tramite diluizione. Il whisky nella botte ha sempre una gradazione più elevata. Se non viene diluito, si parla di whisky cask strenght, dicitura che sta a significare che il distillato è stato imbottigliato alla stessa gradazione della botte. Nel whiskey statunitense la dicitura invece è Full Proof.

Tutto questo possiamo derivarlo da una semplice etichetta. Il resto spetta a noi: capire cosa ci piace, perché, e soprattutto esplorare, provare cose nuove.

Alla salute!

Wow, che bello! Un nuovo spazio dove condividere cose belle, senza limiti di caratteri!

Naturalmente, ci lanciamo a razzo su questa nuova piattaforma.

Cosa troverete qui? Un po' di tutto, naturalmente, ma principalmente recensioni di cose. Pensavamo da un po', in realtà, a come meglio tormentare il web con le nostre opinioni relativamente a ciò con cui giochiamo, ciò che beviamo, i locali dove andiamo a spendere soldi, cose così. Pensiamo che possa essere questa la dimensione giusta.

Ovviamente, non ci sarà costanza alcuna nel postare qui, ma come già abbiamo detto altrove, la libertà è una feature. Libertà, in questo caso, è riferita a chi scrive, oltre che a chi legge, e pertanto scrivere ciò che si vuole quando si vuole è parte integrante dello spirito con cui ci affacciamo a questo nuovo spazio.

Vedrete dunque considerazioni arbitrariamente articolate su vari temi, ma come sempre il fulcro centrale resterà la condivisione di ciò che anima le nostre passioni. Di certo, come recita il nostro slogan, saranno “Solo cose belle”.