La casa sulla ferrovia

Racconto

Violet Hill, città di provincia. Un lago e diecimila anime immerse tra le colline colorate di viole. Ero nato lì, in quella unica città italiana che manteneva il nome dato dagli alleati durante la liberazione del ’45.
Dicevano di doverlo al battaglione inglese che li aveva liberati dai fascisti, a quell’epoca non mi importava molto di quei discorsi. Ero troppo giovane o troppo egoista per capire l’importanza di mantenere viva la memoria storica del nostro paese. Ora cerco di insegnarlo. Oggi nella casa nella grande città, dove mi sono trasferito e aver trovato lavoro come insegnante, ho trovato un mio vecchio zaino con all’interno una foto di una tavolata. Sette persone sedute ad un tavolo, sorrisi misti tra imbarazzo e sincerità. Sette visi che cambiarono il mio modo di vedere alcune cose della mia vita. Parlare e vivere con loro per un periodo, che mi è sembrato una vita, mi ha forse fatto diventare l’uomo che sono ora. L’ultima estate a Violet Hill.

Capitolo 1

Occhi tra i fogli

-Piove sempre sul bagnato!” Esclamai sotto il diluvio universale. Una signora mi guardò torva e continuò a proseguire con il suo ombrello a fiorellini. Come avrei potuto darle torto? barba incolta, capelli zuppi, zaino con spille multicolore e pantaloni strappati, sembravo un tossico. Qui chiunque non abbia un certo portamento viene subito etichettato come “strano” o “tossico”. -Maledetta città di provincia e maledetta pioggia, proprio oggi che mi hanno sbattuto fuori casa. Con quella esclamazione non migliorai la mia situazione e la signora sparì dietro un angolo veloce come un gatto che sentiva l’odore del suo cibo preferito.
Scossi la testa cercando un riparo dal temporale e dal vento che cominciava a lacerarmi le ossa. In fondo alla strada un bar con un’insegna di una teiera. Mai lo avevo notato. Mi affrettai ed entrai con foga. Una signora di mezza età con occhi stretti mi fissò come se mi stesse guardando l’anima, io sorrisi a trentadue denti, già immaginando che mi avrebbe accompagnato alla porta. In cinese gridò qualcosa alla ragazza dietro al bancone. -Ecco ci siamo. Pensai. Stavo per uscire da solo quando in un italiano stentato mi disse di sedermi indicandomi un divanetto rosso a fianco a me. Poco dopo arrivò una ragazza con i capelli raccolti in una coda e gli occhiali. Mi sorrise e mi diede un asciugamano, poi mi chiese se volevo un the caldo da bere. Mi toccai la tasca, avevo ancora qualche euro da parte e annuì sorridendo. Mi elencò tutti i The che aveva, cinesi, giapponesi, ne presi uno a caso sperando che non costasse più di quanto avevo in tasca. Con un altro sorriso si diresse dietro il bancone e disse qualcosa alla terza persona che stava lavando le tazzine. Mi guardai intorno, tutti i commensali non mi guardavo più e chiacchieravo di sport e di pensioni. In quel momento alzavo l’eta media. Appoggiai le braccia sul tavolo e mi passai l’asciugamano sui capelli e sul viso, sapeva di rose. Con il panno davanti alla faccia e il profumo che mi inebriava le narici mi sistemai più comodo sul divanetto e inspirai. Quando lo tolsi davanti a me c’erano parecchi fogli, un dizionario spesso come due mattoni, un tablet e decine di penne colorate. Due piccoli occhi tra dietro lenti rotonde mi stavano fissando. Deglutì. – Stai cercando di bagnare i miei appunti? Disse una voce femminile. I suoi occhi erano come quelli della signora che mi aveva accolto, ma ancora più freddi. -Scusami, nella fretta non avevo visto che eri seduta qui. Ora mi trovo un altro posto. -No, puoi restare. Solo fai attenzione a dove metti le mani. Sospirai pensando a dove fossi finito. Mai avevo notato un Bar di cinesi vicino a dove abitavo. -Non importa, appena finisce il temporale andrò via e cercherò un nuovo posto dove dormire. Pensai. La ragazza portò il The che avevo scelto e qualche biscotto. Mi disse che quelli li offriva la casa. Mi sentii fortunato per una volta. Mi versai il caldo contenuto nella piccola tazzina e annusai, era buono, sapeva di fiori e frutta, ne bevvi un sorso e subito mi scaldai. – Non hai una bella cera. Gli occhi erano tornati a fissarmi. -Ho preso troppa pioggia, dopo che mi sarò fatto una doccia andrà meglio. Sorrisi a stento pensando che avrebbe dovuto farsi i fatti suoi. Come si avesse letto nel pensiero la ragazza spostò il tablet mostrando tutto il suo viso. Aveva circa tredici anni, capelli lunghi e lisci sino alle spalle. Arricciò il piccolo naso e mi scrutò a fondo. Bevvi nervosamente di nuovo dalla tazzina. -Non so come la gente possa bere il The. Disse alzandosi e dirigendosi verso il bancone, tornò poco dopo con una tazza gigante. Si sedette al suo posto. -Acqua calda. Il meglio che si possa desiderare. Ero confuso, forse stavo sognando. Presi un biscotto e ne morsi un pezzetto. Era buonissimo. Mangiai avidamente il resto. La ragazza continuava a fissarmi mentre trangugiava la sua acqua. -Ne vuoi uno? -No, non mi piacciono i dolci, mia sorella li fa bene, ma io non li mangio. Annuì nervosamente. -Che cosa ti piace della vita? Chiese. improvvisamente mentre posava la tazza. I suoi occhi non si staccavano da me. -Della vita? Mai avevo pensato cosa mi piacesse della vita, da alcuni anni vivevo alla giornata cercando di finire l’università. Trovavo dei lavoretti all’ufficio del turismo come fotografo ma mi bastavano appena per gli studi. Guardai alla mia destra, c’era uno specchio. Mi toccai il viso. Venticinque anni e non sentirli. La barba scura e incolta mi faceva sembrare più vecchio di almeno cinque anni, i capelli corti e scuri erano in disordine grazie all’asciugamano. Gli occhi marroni erano segnati dalle preoccupazioni. -Cosa mi piace della vita? Lei annuì, i suoi occhi non nascondevano la curiosità. Avrei voluto dirle che mi faceva cagare la mia vita, che non ero riuscito a combinare nulla di buono, che ero in crisi, che non avevo una ragazza, una famiglia, una laurea, un lavoro vero… Eppure guardandola negli occhi dissi una cosa che mai mi sarei aspettato. -Mi piacciono le persone. Conoscerle e capirle, di solito sono bravo a capire le persone. In lei si accese come una luce. -A te invece? le chiesi. Bevve un sorso dalla tazza, feci lo stesso. -A me piace parlare con le persone, persone che non ti giudicano, quelle persone che anche se stai in silenzio rimangono tali senza l’imbarazzo di dover per forza dire qualcosa. Anche se preferisco di più ascoltarle. Bevvi tutto il liquido dentro la tazza, quelle parole mi scesero nel profondo sino allo stomaco. -E’ difficile trovare quel tipo di persona. Lei annuì guardando dentro la tazza. Improvvisamente la ragazza con la coda si presentò al tavolo. -Spero ti stia piacendo il the. -Assolutamente! E’ davvero ottimo! -Spero anche che mia sorella non ti stia disturbando. -Cazzo, sto solo facendo un po’ di conversazione! Rispose adirata mentre i suoi occhi ritornarono su appunti e libri. – Nessun disturbo, mi piace la sua compagnia. Un piccolo sorriso comparve tra le sue labbra. -Sei in partenza? Mi chiese guardando lo zaino. -No, sto cercando un posto dove dormire, ho dovuto lasciare il mio appartamento. Per… ecco… delle incomprensioni. Lei mi guardò confusa. La ragazzina prese la parola. -Perché non lo mandi dalle due signore della ferrovia? Quelli che hanno pochi soldi vanno tutti lì a dormire. -Xiao, non fare la maleducata! -Ecco, in realtà in questo periodo sono a corto… se mi dite dov’è questo posto… La mia voce era talmente flebile che quasi non si sentiva. -Ma certo! Sono delle nostre clienti, affittano stanze a poco, hanno una casa davanti alla ferrovia. Disse in fretta. Poco dopo tornò con un pezzo di carta e l’indirizzo. -Ecco qui. Dì che ti mandiamo noi, la famiglia del Bar, loro capiranno. Guardai fuori e ormai il temporale era finito, la ragazza dai capelli raccolti mi guardava sorridendo mentre la ragazzina era tornata ai suoi studi. Pagai promettendomi di tornare a parlarci.

Ben

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La casa sulla ferrovia

Seguii la istruzioni ed arrivai ad una piccola villa poco sopra la ferrovia. Mi avvicinai al campanello, il nome era cancellato, suonai con forza. Una voce stridula chiese chi fossi. Risposi che volevo affittare una stanza e che mi mandava la famiglia del Bar. Il cancello si aprì. All’interno il piccolo giardino pieno di fiori ricordava quello dei cottage inglesi. Due figure mi vennero incontro. Entrambe con i capelli corti e grigi, la faccia piena di rughe da sembrare una ragnatela, ma un sorriso che scioglieva il cuore. Erano due gocce d’acqua. L’unica cosa che le distingueva è che una di loro aveva in piccolo neo sotto la guancia sinistra. Mi presentai come Ben, il mio nome intero non mi piaceva e ci ho messo un po’ ad apprezzarlo, forse perché non mi sentivo me stesso a quell’epoca.
-Buongiorno. Lei è molto fortunato si è appena liberata una stanza. Se vuole gliela mostro. Le seguì all’interno del piccolo giardino, entrando sentì un profumo di cibo misto all’odore di pulito. Una delle due signore mi fece vedere la sala da pranzo. -A volte con gli ospiti mangiamo tutti insieme, mia sorella esagera sempre con le porzioni. -Sei tu che fai troppa spesa. Rispose l’altra dietro di me. Sorrisi. Salimmo le scale e dopo qualche porta ci fermammo. -Ecco qui, la stanza numero cinque. Girò la chiave nella serratura e l’aprì. Era una piccola stanza con al fondo un grande finestra, una scrivania sul lato del muro, un letto a soppalco, un armadio e un piccolo cucinino. -Quella piccola porta porta ad un piccolo bagno con una doccia. L’affitto è di cento euro al mese. Spese comprese, ovviamente non abbiamo il Wai fai. -Non c’è problema, non lo avevo neppure prima. -Quindi la prende? Il primo mese chiediamo l’anticipo. Mi si strinse lo stomaco, stavo per dire qualcosa quando la donna si mise a ridere dicendomi che stava scherzando. Uscì dalla porta e mi disse che alla otto ci sarebbe stata una cena comune e che io ero invitato. Le ringraziai e tolsi i miei pochi oggetti che possedevo dallo zaino. Controllai che la macchina fotografica non fosse bagnata, per fortuna non lo era. L’appoggiai sulla scrivania e misi ad asciugare i vestiti che avevo addosso nel bagno, poi mi sedetti e guardai fuori dalla finestra, il sole stava facendo capolino tra le nuvole.
Un fischio. Un treno sfrecciò facendo vibrare i vetri della finestra, sembrava di essere sul binario. -Ora capisco perché costa così poco qui. Pensai sorridendo. Controllai i miei programmi sull’agenda il primo lavoro l’avrei avuto tra un settimana, speravo che mi pagassero abbastanza da permettermi qualche sfizio oltre che l’affitto della stanza e la spesa. Sospirai e aspettai l’inizio della cena tra i miei pensieri. Quando fu l’ora mi presentai nel salone da pranzo, quattro persone erano già sedute al tavolo che mi guardarono in contemporanea. Le due zie accorsero in aiuto dietro di me. -Lui è Ben, il nuovo ospite della stanza cinque. -Buonasera a tutti. Dissi con un filo di voce, non ero mai stato a mio agio con le presentazioni. Mi sedetti vicino ad una ragazza molto bella, aveva capelli color fieno e labbra rosse come ciliegie, i suoi occhi blu indagarono il mio animo, sembrava uscita da una pubblicità. -Io sono Giorgia, piacere. Disse mentre mi porgeva la mano, me la strinse con forza. -Il ragazzo davanti a me aveva i capelli corti a spazzola, una camicia di Jeans e due orecchini. La cosa che mi colpì fu la sigaretta spenta tra le labbra. -Giorgia, lui ti va bene? sembra meno pezzente di noi, magari è al tuo livello. Disse ridendo. Lei rispose alzando gli occhi al cielo. -Io sono Alex, Alex dei Manfolk, ovviamente ci avrai sentiti suonare al miglio rosso o alla taverna dei dieci barili. Disse con una luce negli occhi, sembrava cercasse conferma della fama della sua band. -Nell’ultimo periodo non ho frequentato pub, mi spiace. La sua luce si spense di interesse. -Beh dovresti venirci a sentire una volta, siamo come una droga, una volta che ci ascolti non puoi farne a meno. Le zie cominciarono a distribuire il cibo, un profumo di carne mi inebriò le narici. Stavo per prendere una forchettata di quei spaghetti quando una vocina stridula mi fermò. -Prima facciamo una foto! Nuovo ospite, nuovo selfie a tavola. Disse la ragazza che non avrà avuto più di diciannove anni seduta al fondo della tavolata. -Dai Francesca, non possiamo mangiare subito? Io ho fame! Disse Alex. Anche gli altri seduti al tavolo sbuffarono, ma alla fine acconsentirono alla richiesta. La ragazza prese il cellulare e scattò la foto. La guardò soddisfatta e si mise a mangiare. Le due zie, ancora non avevo capito il loro nome, continuavano a mettere cibo sulla tavola, sembrava natale in anticipo. Tutti mangiavamo avidamente mentre Giorgia e Alex si stuzzicavano parlando di vestiti. Erano su due mondi opposti. Francesca durante il dolce mi si avvicinò e cominciò a farmi domande sulla mia vita personale, non ero contento di rispondere, ma feci l’uomo educato e risposi a tutto. L’unica persona che non parlava era un ragazzo al fondo del tavolo vicino alle zie. Guardava fisso sul piatto parlando a monosillabi. Nessuno sembrava farci caso. Non ci pensai più per il resto della cena. Quando fu il momento di sparecchiare il misterioso ragazzo scomparve dalla mia vista. Le zie si diressero verso un altro salone e una delle due accese la Tv.
Giorgia disse che avrebbe lavato lei i piatti perché Alex ieri sera li aveva lasciati tutti unti. Lui di risposta sbuffò dicendo che sua maestà può lavarli tutte le sere se non gli piace come lavano gli altri. -Vorrà dire che li asciugherò con un panno di seta. Continuò facendo un inchino. Senza dargli una risposta lei si diresse verso la cucina. Io diedi una mano a Francesca a pulire e a sparecchiare. -Non ti preoccupare di quei due, fanno sempre così, ma non ammetteranno mai che si stanno simpatici.

Ben

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La lunga salita

Amore incondizionato

Dopo alcuni giorni che abitavo dalle zie mi chiesero di accompagnare Francesca “nella parte alta del paese”. Violet Hill aveva due facce, una parte di città si estendeva tutta intorno al lago, mentre la parte più antica era situata su un piccolo promontorio. Per arrivarci, se non avevi la macchina, dovevi prendere una piccola cabina su binari che lentamente ti conduceva alla meta. Ovviamente nessuno di noi possedeva una macchina, tantomeno le zie. Mi dissero che servivano degli attrezzi da giardinaggio, feci notare con più educazione possibile che c’erano altri negozi a Violet Hill, molto più comodi. Non ci fu nulla da fare, come li avevano lì non c’erano da nessuna altra parte. Mi arresi, chiamai Francesca e ci dirigemmo verso la piccola cabina su binari. Lei allegra come sempre mi faceva cento domande, io rispondevo, ma mai le avevo chiesto nulla, che forse tutte le sue domande aspettassero altre domande piuttosto che risposte? -Cosa ci fai alla casa sulla ferrovia? Chiesi di botto mentre la piccola stazione compariva davanti a noi. Lei mi guardò con il solito sorriso di sempre. -A casa mia non stavo bene, così mi sono trovata un lavoro part time in un supermercato. Cerco di vivere senza l’aiuto di nessuno. -I tuoi genitori ti facevano pesare il fatto di mantenerti? Lei sospirò come se avessi aperto un vaso di Pandora, a volte mi odiavo per le mie domande dirette, ma ero fatto così, quando cercavo di capire una persona andavo sino in fondo. -Ogni ora, ogni giorno da quando ho memoria, non sono mai stata abbastanza, un peso, ma le ferite le ho sempre trasformate in sorriso. Quando mi sono decisa a non farmi più male ho preso un treno con pochi soldi e pochi vestiti, sono scesa a Violet Hill. -Una vera fortuna. Dissi io sarcastico. Lei rise -Lo è stato perché ho trovato la casa delle zie, mi hanno aiutata, accudita. In un anno mi hanno dato più amore che in diciannove i miei genitori. Annuì in silenzio. Sempre in silenzio arrivammo alla cabina, un signore sulla sessantina con una cappello da ferroviere ci salutò e ci fece segno di salire. – Tra poco partiremo. Disse tra i baffi ingialliti dalla sigaretta che stava fumando. Era mattina, i turisti sarebbero arrivati tra almeno un mese. Eravamo gli unici seduti sulla legnose panche. -Probabilmente deve finire la sigaretta. Disse a bassa voce Francesca. Risi. Salimmo e aspettammo che l’uomo finisse le sue boccate. Buttò nel posacenere di bronzo il mozzicone e si diresse verso la cabina di comando. Tirò la leva e il cigolio cominciò. -Sei mai salito ultimamente? Chiese la ragazza sporgendosi dal finestrino ammirando il panorama del lago che cominciava a spuntare tra le piante. -Solo quando ero piccolo. Ogni tanto i miei genitori mi portavano. -Non li vedi spesso vero? -Se gli dicessi che sono in difficoltà mi darebbero tutto quello di cui ho bisogno, ma gli ho preso già troppo nella mia vita e senza risultati che mi abbiano soddisfatto. Ho deciso di non chiedere più nulla loro. -Onesto. Disse senza guardami. -Avrei voluto avere io la tua fortuna. Continuò. -A volte non ci si accorge della fortuna che si ha. Pensai che non avrei potuto trovare una frase più scontata, ma sentivo che era la verità. -L’importante è accorgersene in tempo. Si girò verso di me facendomi l’occhiolino.
Ripetei la sua frase nella mente mentre la luce del sole rifletteva sull’acqua del lago formando tante piccole stelle diurne. Dopo venti muniti ci trovammo nella piazza principale di Violet Hill alta. L’uomo dai gialli baffi ci disse che l’ultima corsa era alle diciassette. Sperai con tutto il cuore di non rimanere lì così tanto, sarei dovuto andare in biblioteca a continuare la tesi. Lo ringraziammo dell’informazione e Francesca mi fece strada verso il negozio in cui le zie ci avevano mandato. -Che poi mi chiedo che cosa abbia questo negozio in più di quelli al piano di sotto. Dissi ad alta voce, non ebbi risposta.
Entrammo, l’aria era calda e viziata. Maceti di ferro appesi alle pareti mi ricordavano un mattatoio degli anni ’20. Rabbrividì. Francesca davanti a me si destreggiava leggera come volpe che evita tutte le morse messe dai cacciatori. Io per poco non urtai un rastrello appoggiato tra latte di vernice, scatole di chiodi e cassette degli attrezzi in sconto. Imprecai nella mente. Raggiunsi la ragazza che al balcone suonò un campanello da Hotel, le tremava la mano. Dal retro del negozio comparve un ragazzo che avrà avuto la sua età. Sorrise e ci diede il buongiorno. Mi avvicinai al bancone ma prima che potessi dire che cosa ci serviva Francesca aveva già sciorinato tutta la lista in meno di 0,5 secondi netti. Il ragazzo le sorrise e le chiese come stava mentre prendeva vicino a lui i primi oggetti della lista. -Cosa vuoi che ti dica. Disse appoggiandosi ad una latta lì vicino. -Si tira avanti, supermercato, commissioni per le zie, portare a spasso gli anziani. Disse indicandomi. Il ragazzo rise di gusto. -E’ un nuovo ospite della casa e in effetti non è così vecchio dai. Disse dandomi una gomitata sul fianco. -Sono Ben, piacere. -Io sono Mattia, molto piacere. Disse in modo educato, ma subito mi ignorò per tornare a chiedere a Francesca delle sue gaffe al supermercato. Lei arrossì e ne raccontò un paio. Mi girai osservando un vaso pacchiano da giardino per non crearle ancora più imbarazzo. Mentre il ragazzo esaudiva tutte le richieste di Francesca li guardai parlare e capì che cosa aveva quel negozio in più degli altri. Solo dopo qualche tempo mi resi conto del perché le zie mi mandarono con lei. Era arrivato il tempo di pagare, Francesca avrebbe voluto tergiversare ancora, come anche il ragazzo, ma entrarono altri due clienti e la magia si interruppe. Mentre le dava lo scontrino le chiese se sarebbe andata quella sera alla festa delle viole. Dj set, balli occitani, cibo e vino. Arrossendo gli disse che ci avrebbe pensato. Lo sguardo di lui era un misto tra il confuso e il deluso. Francesca prese tutto l’arsenale, me lo diede talmente in fretta che per poco mi cadde e uscì velocemente dal negozio. Nel mentre nella mia mente imprecai perché quella sera avevo promesso alla pro loco di fare delle foto. Me ne ero completamente dimenticato. -Neppure mezzogiorno è già è due volte che mi maledico, andiamo bene. Pensai Raggiunsi Francesca fuori dal negozio che guardava lungo la via colpendosi la testa con la mano. -Non mi sembrava così male la proposta del ragazzo. Provai a dire. Lei si girò di scatto verso di me. -Voglio una granita. Perplesso l’accompagnai al primo gelataio che trovammo. Faceva più caldo rispetto a quando eravamo partiti da case delle zie. Prese le due granite ci sedemmo su una panchina sul belvedere. Francesca bevve rumorosamente dalla cannuccia il liquido gelato al gusto di fragola, io giravo la cannuccia con fare nervoso. -Che cosa sai dell’amore Ben? Chiese con la cannuccia in bocca guardando la ghiaia sotto di lei. -Che è un casino. -Non è la prima volta che quel ragazzo mi invita ad uscire o ad una festa, ma io non gli ho mai risposto chiaramente. -Forse oggi è la volta buona. -Tu hai mai amato qualcuno? -Una volta. Tanto tempo fa. -Ho sempre pensato che l’amore fosse un dono. Donare all’altra persona una parte di te senza aspettarsi nulla in cambio. Disse sempre senza staccare gli occhi dal terreno. -Ma se tu dai tutto e l’altro non ti da niente in cambio come puoi chiamarlo amore? Dissi con fermezza egoistica. -Me lo sono chiesta anche io tante volte. Che cosa mi spingesse ad amare incondizionatamente persone che nulla mi davano. Eppure ancora adesso quando penso ai miei genitori non posso che provare un misto tra amore e odio. Aspirò del liquido con ancora più rumore. -Vedo me in quel ragazzo, continua a chiedermi di vederci senza che abbia nulla in cambio. -Tu non sei i tuoi genitori Francesca, ognuno di noi sceglie chi essere non lo diventa per genetica o per l’educazione che riceve. Lei mi guardò come se avessi capito tutti i suoi dubbi. -Ho paura di godere dell’amore di una persona senza mai dargli quello davvero merita. Restammo qualche minuto in silenzio guardando il panorama. -Forse l’amore è proprio quello che dici tu, entrambi donano una parte di sé. E’ un gioco di anime che si legano tra di loro fondendosi senza pensare a chi ha dato cosa. Vivono dell’altro. Questo è l’amore incondizionato. Dissi mentre guardavo il ghiaccio sciogliersi nel bicchiere di plastica. -Hai ragione, l’amore è un gran casino. Dovrei andare stasera? -La risposta la sai già. Dissi facendo l’occhiolino. Lei sorrise come era suoi solito fare, un sorriso sincero che non nasconde malizia. -Ho paura. -Tutti ne abbiamo, superarla significa avvicinarsi sempre di più a quello che vogliamo davvero. Stasera ci sarò anche io, se ti mette la mani addosso ci penso io. Ridemmo insieme mentre il vento faceva danzare le ombre delle foglie colpite dal sole. -Grazie per avermi ascoltata. Disse con un filo di voce. Francesca mi disse di aspettarla che sarebbe andata a dire al ragazzo che accettava il suo invito. Mentre l’aspettavo pensai a quello che le avevo detto. Mi sentivo un’ipocrita. Erano cose che pensavo ma che mai avevo trasformato in azioni. Quante volte avrei dovuto abbandonare la paura, proprio come ha fatto lei adesso. Ricacciai indietro quei pensieri, ma qualcosa in me era cominciato a cambiare e mi piaceva quello che sentivo. Dopo che Francesca mi raggiunse aveva un umore diverso, come se il peso del passato e la paura di diventare come chi l’aveva cresciuta fosse sparita come nebbia a contatto con il sole. Tornammo alla stazione allegri e spensierati, il sorriso di quella ragazza dal naso all’insù incorniciano di lentiggini era contagioso. Ridemmo ancora mentre la cabina si inclinava per il pendio imitando il nostro austero autista. Quando arrivammo a casa e consegnai la nostra spesa. Le zie felici cominciarono ad armeggiare con essi e i rovi che spuntavano tra la staccionata e i binari del treno.

Venne sera. Tornai dalla biblioteca in fretta e furia. La Pro-Loco mi aveva lasciato una vecchia panda per raggiungere la festa, speravo con tutto il cuore che non mi abbandonasse a metà della salita. Con l’ansia da una parte e la macchina fotografica dall’altra bussai alla camera di Francesca, lei si presentò con una gonna lunga bianca e un top rosso che faceva intravedere l’ombelico. Le labbra avevano lo stesso colore. Le sorrisi come un fratello che vede la sorella crescere più in fretta di quanto si aspettasse. -Farai colpo stasera. Dissi quasi imbarazzato. Lei rispose toccandosi nervosamente i capelli. Salutammo le zie e gli ospiti a tavola che riempirono di complimenti Francesca. Salimmo sul potente mezzo e percorremmo la strada verso la festa. Entrambi eravamo in ansia, lei per amore, io per i rumori che faceva la macchina. Quando arrivai al parcheggio tirai un sospiro di sollievo. Ci dirigemmo alla festa, ci salutammo e ci focalizzammo sui nostri obiettivi. Scattai le fotografie per l’ufficio del turismo. Bancarelle, persone, luoghi. Sembrava di essere fuori dal tempo e da quella cittadina così soffocante, la festa aveva preso tutto ciò che di buono c’era in Violet Hill. Le danze erano cominciate. Tornai alla piazza e scattai alcune fotografie. Poi li vidi: Francesca e quel ragazzo. Ballavano felici guardandosi negli occhi, lui prese la mano di lei, la fece girare su se stessa. La gonna si alzò leggermente ruotando, presi la Leica e scattai. Due anime che volteggiavano sulla cima del mondo.

Ben

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Noodles piccanti e gioco d’azzardo

Quando le finanze me lo permettevano nella pausa pranzo o tra un capitolo e l’altro della tesi mi dirigevo verso la famiglia che mi aveva confortato a suo modo durante il mio sfratto e mi aveva mandato alla casa sulla ferrovia. Inizialmente lo facevo perché mi sentivo in debito con loro, dopo mi sembrava di mangiare in famiglia. Quando entrai mi diressi diretto al mio solito tavolo, tra fogli e penne due occhi mi fissavano. Un sorriso spuntava genuino. -Ciao. -Ciao Xiao. Si rimise a scrivere. Poco dopo arrivò la ragazza con la coda che mi prese l’ordine. Non sapevo dirle di no, una vera venditrice sorriso bonario, chiacchieravamo piacevolmente di the e vacanze che forse mai avremmo fatto. Sognare non costava nulla. Quando arrivò il mio ordine la ragazzina mi guardò incuriosita e mettendo i fogli e libri da parte si alzò e si diresse verso la cucina, poco dopo tornò con un piatto simile al mio. -Mi hai ispirato. Mangiammo il nostro piatto in silenzio. Quando improvvisamente comparve la terza figura che conoscevo da poco. Frangetta, occhiali rotondi e sguardo perforante, quando mi parlava era un confrontarsi su quello che la vita ci aveva riservato. Si sedette con noi con un piatto di noodles fumante. -Vuoi provarli? Sono noodles piccanti Coreani. Come avrei potuto dire di no? Prima ancora che potessi cambiare idea era già davanti a me, piccoli pezzi di peperoncino spuntavo dal brodo. Guardandomi fisso negli occhi mi diede un augurio di buona fortuna. Cominciai a pentirmi della mia scelta. Assaggiai il mio piatto e ci volle tutta la mia fermezza e compostezza per non affogare la lingua nel bicchiere di acqua gelata davanti a me. Con calma finì il mio secondo piatto, la ragazza soddisfatta della mia forza di spirito mi sorrise e chiacchierammo fino a che non tornò a sbrigare alcune commissioni. Tutto questo successe in meno di mezzora.

Un uomo entrò nel bar chiedendo un gratta e vinci. Vinse cinque euro che subito rigiocò con un altra schedina. Non vinse più nulla. Io e la ragazzina lo stavamo osservando. -Che cosa pensi dei gratta e vinci? -Non saprei, non ci ho mai pensato, davvero. -Penso proprio che sia come la pirite, oro per gli sciocchi. Riflettei in silenzio, quella sentenza aveva un fondo di verità. -Sai quante probabilità ci sono di beccare biglietto vincente? Davvero basse. Cioè, poi li vedi. Disse abbassando la voce. -Appena vincono ne comprano subito degli altri che poi non sono vincenti. Non capisco proprio il senso di fare una cosa del genere. -Il senso di ignoto è allettante. -Tu hai mai giocato d’azzardo? Disse con sguardo indagatore. -No, non mi ha mai interessato. -Non pensi che la vita sia un gioco d’azzardo? Ti svegli la mattina e non sai cosa potrebbe capitare. E’ un po’ come se i soldi fossero il nostro tempo, tu li usi, ma non sai se ti daranno dei frutti. Una volta dato il tuo tempo non si torna indietro. Riflettei su quelle parole e le diedi ragione. Stavo sprecando il mio tempo? Lo avevo fatto in passato e ora cercavo di rincorrerlo prima che fosse troppo tardi.
La ragazzina poco dopo tornò ai suoi libri. Io uscì e mi diressi verso la biblioteca, dovevo recuperare il tempo perduto.

Ben

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Rosso il cappotto.

rosso il cappello

Per quasi tre settimane il tempo cambiò a Violet Hill. Temporali e vento forte avevano sostituito il sole e il caldo asfissiante. La cosa non mi disturbava minimamente se non fosse che l’ufficio del turismo mi aveva bloccato il lavoro. Giorgia gentilmente mi aveva detto che nell’ufficio dove lavorava lei cercavano per un mese un addetto alle pulizie. Stavo per essere a secco e con tutto quello che facevano le zie per me non avevo il cuore di dire loro che non avevo i soldi per pagarle questo mese quindi accettai senza pensarci. Mi presentò lei stessa al responsabile e dopo un breve colloquio mi disse di presentarmi l’indomani. Giorgia mi guardò soddisfatta come se mi avessero proposto un contratto milionario, la ringraziai. Mi capitava spesso di vederla a lavoro, vestita precisa, puntuale nel consegnare quello che le chiedevano mentre io in divisa pulivo il pavimento. Una volta fermandomi davanti al lavandino del bagno mi guardai e mi vergognai in confronto a quelli che mi circondavano ogni giorno. Scossi la testa e continuai a pulire, avevo bisogno di quel lavoro.

Ricordo ancora quel giorno particolarmente freddo per essere estate, percorrevamo la strada insieme tra il vento e le nuvole minacciose colme di pioggia. Lei leggiadra camminava con una mano su un cappello rosso e l’altra che teneva chiuso il leggero cappotto dello stesso colore. La matita intorno agli occhi era sottile come le sue labbra. Io goffo le stavo affianco vestito con le prime cose prese dall’armadio. Ammisi che era davvero bella, perfetta nel modo di fare che nel vestire e per poco non andai a sbattere contro la palina del pullman. Quando arrivammo all’ingresso dell’ufficio un uomo sulla quarantina salutò Giorgia. -Uao, sei davvero bella oggi. Disse senza neppure guardami. -Grazie, sei molto gentile. Rispose con un sorrisetto. -Un vero peccato che tu sia ancora una stagista, una donna con il tuo portamento porterebbe aria nuova in ufficio. Mi sentii a disagio per lei, la presi per un braccio e l’accompagnai dentro, lo feci anche se non ne comprendevo il motivo. Tutto sotto lo sguardo dell’uomo che nascondeva, neanche troppo, un senso di disprezzo.

Quando uscimmo eravamo tutti e due stanchi. In silenzio ci dirigemmo verso quella che ormai chiamavamo casa immaginando che cosa avemmo messo sotto i denti. Le zie erano davvero delle ottime cuoche. Un rombo di tuono ci scosse dai nostri pensieri, le nuvole si erano fatte scure e dense. Ci guardammo e senza un parola cominciammo a camminare più in fretta possibile. Una goccia, due, tre, centinaia. Presi il mio piccolo ombrello dallo zaino, il vento lo girò al contrario e si ruppe. Imprecammo entrambi. Cominciammo a correre sino ad arrivare ad un piccolo parco giochi, un gazebo di legno fu il nostro rifugio. Ci lasciammo cadere sulla panca di legno scomodo, eravamo zuppi fino nell’anima. -Almeno il vento si è fermato. Sennò saremmo morti assiderati. Dissi con un filo di ironia nella parole. Giorgia si tolse il cappotto, si strizzò i capelli e mi guardò negli occhi, la matita era sparita insieme al trucco intorno alle guance. -Forse nella borsa si sono salvati due piccoli asciugamani, ne vuoi uno? Annuì. Con gesti veloci prese la borsa e frugò all’interno, sino a trovarli, me ne diede uno e cercai di asciugarmi il più possibile. Giorgia se lo passò con delicatezza sul collo pallido, inspirò l’aria. -Porca troia quanto mi piace l’odore della pioggia, mi fa sentire fottutamente me stessa. La guardai con gli occhi sgranati. Mai, nel poco tempo in cui ci conoscevamo, l’avevo sentita esprimersi così. -Stamattina quando mi hai portato via da quell’uomo…Grazie. Bofonchiai qualcosa arrossendo. -Cosa pensi di me Ben? Disse guardandomi negli occhi. -Che sei una donna indipendente, brava nel suo lavoro e anche una gran rompiballe. Dissi imitando dal voce di Alex. Ridemmo insieme. Tirai un sospiro di sollievo, non mi piacevano quelle domande. -Sai, dove lavoro devo essere perfetta, puntuale, bella. Quando stamattina quell’uomo ha detto quella frase, ho capito che se non avessi questo aspetto fisico non avrei neppure un posto da stagista in quel posto. Continuai ad ascoltare in silenzio. -Io non voglio essere scelta per come sono esteriormente, ma per quello che so fare. -Penso che guardino anche quello. Dubito che si fermino alla prima impressione. Lei mi sorrise. -Se una volta mi presentassi senza trucco, senza questi vestiti pensi che mi terrebbero? -A parte che sei bella anche in tuta e senza trucco. -Sei uno sciocco adulatore ma ti ringrazio. Tornò a guardare davanti a lei.
-Ma il mondo non è fatto di persone come te. Per quanto possano sembrare tutti cordiali, aspettano solo il momento in cui commetti un piccolo errore. -Perché continui a stare in quel mondo allora? -Forse perché nel profondo sono come loro. Giudico le persone da come si vestono, da come parlano. Eppure vorrei che gli altri non lo facessero con me. Ho passato metà della mia vita a sentirmi dire che ero bellissima, che dovevo vestirmi in un certo modo sennò non avrei trovato lavoro, un uomo. Odiavo sentirmelo dire e alla fine è quello che faccio tutti i giorni. Sono una bella ipocrita eh? -L’importanza di apparire. Dissi a bassa voce. -Si dice che l’abito non fa il monaco, ma porca troia, lo fa, non c’è nulla da fare. Giorgia si alzò e si appoggiò ad uno dei quattro pali di legno che tenevano in piedi il nostro guscio. -Penso che ci sia sempre una parte di noi che andrà oltre. Guarderà le persone per come sono e non per come si mostrano in pubblico.
Restammo in silenzio e lei si risedette vicino a me, tremava leggermente, presi dallo zaino una felpa che stranamente era asciutta. Gliela passai e mi sorrise con una dolcezza che mi sciolse. -Forse hai ragione, ma io continuerò ad apparire come non sono sino a dimenticarmi come ero. Riflettei un attimo.
-Forse non sei tu, ma questo mondo sbagliato, ci insegna ideali che non sono giusti ma che tutti attuano per sfamare il proprio ego. Dissi. -Il cambiamento deve venire da noi stessi prima che negli altri. Mi rispose tombale. -Facile a dirsi e non a farsi. Ammisi -Il mondo lo costruiamo noi e nessun altro. So che è un discorso ipocrita, io per prima non lo faccio e forse mi sono arresa. -Non è mai troppo tardi per cambiare. Guardai verso la pioggia, le gocce sembravano fendere la realtà, da una parte noi e dall’altra un mondo che non ci apparteneva.

Ben

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