Ore liete

Ricordi dolci, perché un po' di dolcezza ci spettava.


Mio padre, quando decise di portarci in villeggiatura per la prima volta, fu categorico: “se mi stanco della montagna, ci facciamo una decina di giorni e ce ne torniamo a casa. È sempre stato un tipo da mare, come mia sorella; il restante 50% della famiglia, invece, preferiva e preferisce la montagna. A me il mare piace, sia detto: mi piace guardarlo, mi piace l'atmosfera delle località di mare, mi piace camminare e averlo di lato; stare spiaggiati sulla sabbia in una calca di sconosciuti, a morir bruciati dal sole e accecati dal riverbero, a fare chissà cosa, proprio no.

Mio padre era impiegato comunale, autista di mezzi vari, e la montagna gli piacque così tanto che volle provare, per la prima volta questi “giorni di malattia” di cui tanto si parlava in certi ambienti. Niente di truffaldino, anzi: una leggera febbricola, accompagnata da sintomi collaterali vari, fu giudicata sufficiente dalla guardia medica per chiedere e ottenere quattro o cinque giorni di malattia. Questo era accaduto nel tardo pomeriggio di quel ferragosto.

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Non so, effetto Mandela o allucinazione collettiva in famiglia? Fatto sta che credevamo quella forra fosse in località Sprecavitelli. Non sapevamo neanche fosse una forra, per noi era un generico burrone. La vera Sprecavitelli è una località nei pressi del Lago Matese, mentre il ponte di Arcichiaro, questo il vero nome, svetta sul torrente Quirino, che siamo sicuri di non aver mai visto. Per gestire queste acque, successivamente, è stata costruita una diga, di cui non so granché, a parte il fatto che sembra i lavori siano iniziati a fine anni Novanta e completati all'italiana, solo parzialmente, almeno fino al 2023.

Allego un paio di foto d'epoca, della mia epoca, così ci togliamo il pensiero e potete smettere di leggere. Scattate con la mia solita reflex delle vacanze, classicamente 36 esposizioni da far durare dalle due alle quattro settimane.

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Delle mie esperienze con lo skatebobard, in estate e lontano da casa, ne ho parlato qui. Del tennis, invece, ne scrivo adesso e anticipo che racchetta e skateboard trovano un punto di contatto nel punto di contatto tra il mio coccige e una superficie più o meno piatta, ma indiscutibilmente solida: sì, sono caduto, anche stavolta pesantemente, con una racchetta in mano mentre stavamo in villeggiatura e questo è il succo di questo articolo, che continuo per chi fosse ancora interessato.

Stavolta, la casa era a Castello del Matese, località in cui abbiamo villeggiato una sola volta, e quell'anno avevamo la compagnia dei miei zii dalla Toscana. Noi salivamo di poco, loro scendevano di parecchio e ci incontravamo in questo piccolo paese tra Piedimonte (Matese) e San Gregorio (Matese). Il Matese è un'area geografica, fatta di monti e valli, a cavallo tra la Campania e il Molise e i nomi di molte località incorporano questa dicitura, subentrata quasi sempre a “d'Alife”. Piedimonte è in collina, 300 metri più su c'è Castello e salendo per altri 300 metri, circa, si arriva a San Gregorio. Ci eravamo fermati nel mezzo, quell'anno.

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Per un anno siamo stati in villeggiatura a Lettopalena, un ridente (si dice sempre così) paesino abruzzese in provincia di Chieti, oggi circa 300 abitanti e qualcuno in più, ma non tanti, nei primissimi anni Novanta. Del paesino, però, avrò modo di parlarne qualche altra volta.

Venivamo da tre anni consecutivi di villeggiatura al Matese (San Gregorio – Castello – San Gregorio) e avevamo deciso di cambiare un poco aria, all'epoca si spulciavano le inserzioni su pubblicazioni come Fieracittà e Bric à Brac; non so che fine abbiano fatto, il primo avrà chiuso i battenti di sicuro. Troviamo questa inserzione, c'eravamo con i tempi e le date e anche il prezzo sembrava interessate. Quanto pagavamo per quelle casette? Solitamente, tra 350.000 e 450.000 lire, per un mese o una ventina di giorni. La ventina di giorni sarebbero, in realtà, nominalmente due settimane, ma i proprietari ci dicevano puntualmente che non ci sarebbero stati problemi a restare qualche giorno in più del dovuto.

E andiamo in Abruzzo, troviamo il paesino, raggiungiamo la casa a suon di indicazioni dei passanti. Due livelli e un'ampia cantina, un lato della casa affacciava direttamente su uno dei monti della Maiella, 2.500 metri di altezza circa, una cosa che non smetterà mai di stupire gente che, come noi, veniva dal livello del mare. Ogni mattina era una meraviglia.

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Circumvallazione è una parola probabilmente grossa, per un paesino di 1.000 abitanti scarsi e il cui nucleo, seppur all'interno di un'area abbastanza generosa, è racchiuso metaforicamente in un pugno.

Questa fantasiosa circumvallazione, della lunghezza di circa 3 chilometri, avvolge il paese ed è ottima per farci delle camminate, cosa che a volte facevamo prima dell'orario di colazione o nel pomeriggio, quando il sole iniziava a trovare ostacolo nelle montagne; lungo il percorso, la caserma dei carabinieri e della forestale, alcuni punti panoramici dove far spaziare la vista, la chiesa grande e un forno.

Uso questo termine perché non ricordo quale fosse l'attività principale: vendevano pane, pizzette, dolciumi, biscotti, dolce e salato. Qualunque cosa fosse, era in un punto strategico del tracciato e ci si poteva fermare per poter prendere qualcosa da portare a casa, o mangiare nei paraggi, e rifarsi della lunga camminata. Che non era lunga per niente, ma da piccoli il mondo sembra molto più grande.

All'epoca, ora non saprei, era tutto bianco, dentro e fuori. Semplice intonaco, insomma, ma mi è rimasto dentro così, nella sua banale semplicità, per qualche motivo. Ancora oggi, nella mia mente, il forno per definizione è tutto bianco, appena fuori dal centro, tranquillo, rassicurante. Un posto così è un posto dove mi piacerebbe comprare il pane, dei biscotti, del dolce e del salato.


I nostri anni di villeggiatura, tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, non erano funestati dai telefonini e dalla necessità di essere perennemente in contatto con tutti, come se si avesse sempre qualcosa da dire o da far sapere.

Qualche volta, però, del telefono avevamo bisogno, specialmente per mettersi d'accordo coi parenti per eventuali visite: qua tutto bene, si sta freschi (eh sì, all'epoca a 800 metri di altitudine in agosto c'era il fresco), venite a trovarci, allora vi aspettiamo tal giorno.

Poco lontano dalla nostra casetta a due livelli, c'era questo localino buio, praticamente una sorta di spaccio con coloniali, barattoli, merceria, candele, di tutto un po' su scaffalature di ferro, quelle della ferramenta. Si chiamava proprio “la botteguccia”, se non ricordo male; ricordo di sicuro l'oscurità che impregnava il piccolo locale, stretto tra due palazzi sufficientemente alti a evitare che il sole lo lambisse, se non con un fievole riflesso, in ogni ora del giorno. L'illuminazione era affidata a un neon abbastanza indeciso, sembrava un rifugio ipogeo; nell'angolo più buio, protetto da una tendina, un telefono da parete, quelli grigi della SIP che si trovavano anche in parecchie case, anche se quelli da tavolo erano enormemente più diffusi. In quanto casalingo, non accettava gettoni, ma si faceva sentire al passaggio di ogni scatto, con un qualche marchingegno che produceva un suono ben udibile.

Finita la telefonata, passavamo al bancone, e pagavamo per gli scatti consumati. Così, due o tre volte lungo la nostra permanenza, queste telefonate quasi telegrafiche. Ci capitava anche di dover fare la fila, mica eravamo gli unici villeggianti.


Le sigle, almeno.

La terrazza delle nostre villeggiature era ampia, più di quanto potessimo sognare noi affittuari venuti dalla cittadina. Non era granché rifinita, non ne capisco niente di edilizia, mattonelle arancio/marrone e guaina bituminosa sui muretti verticali, ma era nostra per un mese e tanto bastava. Ci si potevano guardare le stelle nella notte buia, non sporcata dalle luci infinite della città; ci si poteva abbronzare, volendo, ma non siamo mai stati amanti della tintarella.

La stagione turistica è fondamentale per questi paesini, piccoli all'epoca e ancora più piccoli adesso, quindi si cercava di tenersi stretti i villeggianti con serate canore, danzanti, sagre, mangiate; tutto molto rustico, ma andava bene così. Non sempre avevamo voglia di uscire la sera, o ci ritiravamo più presto del solito, ma fin sulla terrazza arrivavano comunque i suoni dalla villa comunale, con uno spazio circolare cementato adibito a eventi vari: quella sera, una di quelle che avevamo deciso di passare a casa, era discoteca per i giovani.

Italo disco, Ivana Spagna, Samantha Fox, Modern Talking, Raf con Self control, mica sto a fare l'elenco completo: quei nomi li conosciamo e conosciamo quelle tastiere e quei suoni, che sono ancora tra noi con qualche piccolo travestimento, ma non andranno via mai. Poi, all'improvviso, l'italo disco si trasforma in un raggio missile, con circuiti di mille valvole. Era la sigla di Goldrake, seguirono altre sigle di robottoni e cartoni animati. Echeggiavano per tutto il paese, dalla terrazza si sentivano che era un piacere.

Ero piacevolmente sconvolto, stupito dal fatto che la gente stesse ballando con le sigle dei miei eroi dell'epoca. Ore davvero liete.


I ricatti senza senso e sporporzionati che i genitori fanno ai bambini. Nel mio caso, “mangia tutto, altrimenti domani non andiamo ad affittare la casa per la villeggiatura.

Era la seconda metà degli anni Ottanta, il decennio più lungo della storia, visto che non è ancora finito e non ne ha alcuna intenzione. I miei genitori ne avevano parlato tra loro, non ne sapevo niente, era il momento del pranzo di un giorno. Mia mamma non ha mai saputo cucinare pasta e piselli, il risultato sembra sempre della pasta scaldata e poi buttata in una latta di piselli, con lo stesso feeling tra gli elementi dell'olio versato nell'acqua. All'improvviso, alla mia recalcitranza a finire il piatto: “mangia, altrimenti non eccetera eccetera”. Così, all'improvviso.

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Non era proprio la Saltafoss originale, ma uno dei suoi cloni più diffusi: Super Cross, forse? Quella con la leva del cambio che sembrava una manopola del Daitarn, insomma; il modello più diffuso, dalle mie parti, era quello nero coi finimenti gialli. E nera, coi finimenti gialli, era quella di un mio amico alle medie, il secondo di quattro fratelli.

Da bambino, ho avuto un paio di biciclette per un periodo brevissimo, ho davvero imparato ad andarci sul balcone di casa, tre metri in tutto e stretto abbastanza da non poter neanche fare inversione di marcia, a patto di non sollevare la bici sulla ruota posteriore e farla ruotare. Ci facevo i tre metri del balcone e poi tornavo indietro spingendomi coi piedi, una, dieci, cento volte, fino a imparare. Non mi portarono mai in un parco, niente.

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Oggi si chiamano action figure: è un oggi relativo, come lo ieri che poi, calcolatrice e calendario alla mano, son passati alcuni decenni. Poco dopo quella visione, potenzialmente pirata, del film, ci fu l’esplosione del merchandising anche dalle nostre parti.

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