Ore liete

Ricordi dolci, perché un po' di dolcezza ci spettava.


Le sigle, almeno.

La terrazza delle nostre villeggiature era ampia, più di quanto potessimo sognare noi affittuari venuti dalla cittadina. Non era granché rifinita, non ne capisco niente di edilizia, mattonelle arancio/marrone e guaina bituminosa sui muretti verticali, ma era nostra per un mese e tanto bastava. Ci si potevano guardare le stelle nella notte buia, non sporcata dalle luci infinite della città; ci si poteva abbronzare, volendo, ma non siamo mai stati amanti della tintarella.

La stagione turistica è fondamentale per questi paesini, piccoli all'epoca e ancora più piccoli adesso, quindi si cercava di tenersi stretti i villeggianti con serate canore, danzanti, sagre, mangiate; tutto molto rustico, ma andava bene così. Non sempre avevamo voglia di uscire la sera, o ci ritiravamo più presto del solito, ma fin sulla terrazza arrivavano comunque i suoni dalla villa comunale, con uno spazio circolare cementato adibito a eventi vari: quella sera, una di quelle che avevamo deciso di passare a casa, era discoteca per i giovani.

Italo disco, Ivana Spagna, Samantha Fox, Modern Talking, Raf con Self control, mica sto a fare l'elenco completo: quei nomi li conosciamo e conosciamo quelle tastiere e quei suoni, che sono ancora tra noi con qualche piccolo travestimento, ma non andranno via mai. Poi, all'improvviso, l'italo disco si trasforma in un raggio missile, con circuiti di mille valvole. Era la sigla di Goldrake, seguirono altre sigle di robottoni e cartoni animati. Echeggiavano per tutto il paese, dalla terrazza si sentivano che era un piacere.

Ero piacevolmente sconvolto, stupito dal fatto che la gente stesse ballando con le sigle dei miei eroi dell'epoca. Ore davvero liete.


I ricatti senza senso e sporporzionati che i genitori fanno ai bambini. Nel mio caso, “mangia tutto, altrimenti domani non andiamo ad affittare la casa per la villeggiatura.

Era la seconda metà degli anni Ottanta, il decennio più lungo della storia, visto che non è ancora finito e non ne ha alcuna intenzione. I miei genitori ne avevano parlato tra loro, non ne sapevo niente, era il momento del pranzo di un giorno. Mia mamma non ha mai saputo cucinare pasta e piselli, il risultato sembra sempre della pasta scaldata e poi buttata in una latta di piselli, con lo stesso feeling tra gli elementi dell'olio versato nell'acqua. All'improvviso, alla mia recalcitranza a finire il piatto: “mangia, altrimenti non eccetera eccetera”. Così, all'improvviso.

Avevo sentito parlare di questa villeggiatura. Non siamo mai stati ricchi, neanche sufficientemente benestanti, ma all'epoca c'era un certo margine di manovra per andare in villeggiatura. Non c'erano le spese che oggi reputiamo indispensabili e prima erano superflue, poi ci si poteva arrangiare a poco prezzo; alla fine, era praticamente come addossarsi un mese di affitto in più. Ci si arrangiava affittando per un paio di settimane, o un mese, la seconda casa di qualcuno, solitamente poco rifinita o in stato di semiabbandono, in un paesino di montagna non eccessivamente celebrato. Ho detto un mese: in quegli anni la vita in Italia si fermava per tutto agosto, tranne che nelle località... di villeggiatura.

Mangiai, recalcitrante, tutto il piatto di pasta e piselli, il giorno dopo partimmo alla ricerca di una casetta. Saremmo partiti lo stesso, ovviamente, ma uno dei compiti dei genitori è quello di riversare sui figli decisioni e aspettative ingrate. Il mezzo era una Fiat 127 900 tre porte, terza serie, blu. Non ricordo se Super, che poi era la versione base, o Special; probabilmente Super, sicuramente a quattro marce. La destinazione è il Matese, San Gregorio Matese.

Era una zona che conoscevamo bene, ma come poteva conoscerla bene della gente che andava a farci, spesso, dei picnic. Quindi, per forza di cose, esperienze mordi e fuggi. Arrivi, trovi un posticino per parcheggiare, piazzare il tavolino e accendere la brace, vai in giro a cercare legna se non hai la carbonella, poi si inizia a cucinare, riposino dopo pranzo e via, si torna in paese per un caffè o un gelato e poi a casa. Ve li ricordate i tavolini da picnic di una volta, quelli che si aprivano e chiudevano con meccanismi da sedie pieghevoli? Quelli che incorporavano tavolo e piano seduta. Facevano il paio coi set di piatti e posate di plastica riutilizzabili, spesso contenuti tra due insalatiere semisferiche.

Partimmo alla volta di San Gregorio Matese, una novantina di chilometri in tutto, non abbiamo contatti, avremmo chiesto ai passanti nella piazza del paese. Il primo suggerimento è una villetta ampia, con una generosissima vista sulla vallata, abbastanza fuorimano, tanto che difficilmente ci saremmo incamminati a piedi verso il paese. Saremmo stati isolati un po' per tutto il tempo, niente da fare.

Il secondo suggerimento fu quello giusto. Una casa in un vicoletto del centro storico, centro storico che poi sarebbe quasi tutto il paese. L'ingresso raggiungibile dopo una prima rampa di scale, perché nei centri storici le case possono essere così: accatastate. Su due livelli, collegati da una scala esterna di gradini abbozzati epoco regolari, il bagno solo al piano più alto. Fuori, un terrazzo spettacolare dove la vista può spaziare, la pelle abbronzarsi. Con le stelle brillanti come possono brillare in montagna, senza l'inquinamento di un milione di finestre e altrettanti lampioni. Sotto, l'area giorno, con cucina e camino, soggiorno tendenzialmente vuoto come lo sono quelli delle case da villeggiatura, un balcone. Nel soggiorno c'erano anche altri lettini, mi pare ci dormissimo noi figli, in bagno dovevamo andarci solo la mattina dopo.

A poca distanza, una chiesetta semiabbandonata, ma con le campane perfettamente funzionanti che si facevano sentire ogni quarto d'ora; alla medesima distanza, in un'altra direzione, una botteguccia col telefono per i villeggianti.

Abbiamo villeggiato in quella casetta diverse volte, interrotte da un triennio in Abruzzo e da qualche variazione matesina, ma ci sarà tempo per parlarne.


Non era proprio la Saltafoss originale, ma uno dei suoi cloni più diffusi: Super Cross, forse? Quella con la leva del cambio che sembrava una manopola del Daitarn, insomma; il modello più diffuso, dalle mie parti, era quello nero coi finimenti gialli. E nera, coi finimenti gialli, era quella di un mio amico alle medie, il secondo di quattro fratelli.

Da bambino, ho avuto un paio di biciclette per un periodo brevissimo, ho davvero imparato ad andarci sul balcone di casa, tre metri in tutto e stretto abbastanza da non poter neanche fare inversione di marcia, a patto di non sollevare la bici sulla ruota posteriore e farla ruotare. Ci facevo i tre metri del balcone e poi tornavo indietro spingendomi coi piedi, una, dieci, cento volte, fino a imparare. Non mi portarono mai in un parco, niente.

Diversi anni dopo, bontà loro, ricevetti una Graziella di quelle pieghevoli, col freno a contropedale: nessuno dei miei amici ne aveva una del genere, quindi fui sempre ostile a quella soluzione. L'ostilità, però, durò poco: un giorno tornai da scuola e seppi che la bici era stata venduta. Stavolta, però, per qualche sabato mi avevano accompagnato al Centro Direzionale di Napoli, allora ancora in costruzione, per qualche giretto nei viali già completati, mentre intorno sorgevano quei palazzi che sembravano del futuro.

Nei film statunitensi, quelli che ci hanno indottrinati e plasmati, le BMX accompagnavano i ragazzi in avventure fantastiche, o anche solo da casa a scuola. Quelle case brutte tutte uguali, col giardinetto e il garage. E la cameretta al piano di sopra, con la finestra da cui scappare di soppiatto per le avventure notturne. Tipo sfuggire ai poliziotti, prima coi fucili e poi coi walkie-talkie, per salvare l'alieno nel cestello della bici, diventando una silhouette contro la Luna. Tante altre avventure, forse più terrestri ma non meno esaltanti.

Noi, invece, abitavamo in case brutte tutte scassate, la cameretta solo per i più ricchi, in un palazzo o in una palazzina. Le avventure altrui (mi escludo, essendo sempre stato appiedato) consistevano, al massimo, nell'andare con la bici nei posti ancora risparmiati dalla cementificazione, a sfrecciare, saltare e cadere sulle cuneette di terreno. In periferia, quando la periferia era più vasta. La mia unica avventura in bici, quindi, fu su quella lunga sella strana delle Saltafoss e delle loro imitazioni, questi chopper a pedali che invogliavano a girare con un passeggero.

E passeggero ero quella volta che, in un pomeriggio di strade ancora poco trafficate, stavamo andando a casa di un altro amico, sfrecciando davanti a un venditore di sigarette di contrabbando. Nell'ebbrezza della velocità, posseduti dalla libertà e dall'anarchia, gli urlammo qualcosa contro, non ricordo precisamente ma nulla di sconvolgente. Quello, per tutta risposta, abbandona il banchetto delle sigarette, salta in sella a un Ciao scassato parcheggiato alle sue spalle e fa per avviarlo e, presumibilmente, per insegurci. Iniziamo a ridere, incoscienti, l'amico spinge sui pedali, per quanto possibile, ma impossibile lasciarcelo alle spalle: era una di quelle cose che si fanno stupidamente, come se si potesse evitare l'ineluttabile. Un centinaio di metri, considerato il nostro vantaggio iniziale, ci raggiunge e ci becchiamo uno schiaffo sul coppino a testa. Senza neanche una parola a commento.

Proseguiamo fintamente mesti, intanto il contrabbandiere si allontana e, appena riteniamo di essere ormai a distanza di sicurezza, scoppiamo a ridere. Questa è stata la mia più grande unica avventura in bici, nei tanto celebrati Anni Ottanta.


Oggi si chiamano action figure: è un oggi relativo, come lo ieri che poi, calcolatrice e calendario alla mano, son passati alcuni decenni. Poco dopo quella visione, potenzialmente pirata, del film, ci fu l’esplosione del merchandising anche dalle nostre parti.

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Erano questi giorni, i primi di settembre, ma di decine di anni fa. È un rito che ancora si perpetua, probabilmente, ma non ho più l'età per viverlo, nè una discendenza con cui condividerlo. Gli acquisti scolastici per il nuovo anno (scolastico)

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Mi è capitato di fare le medie ai tempi del C64, quando ancora costava parecchio (sulle 400.000 lire scarse), pur non essendo più una roba esclusivamente da ricchi; per la mia famiglia, per tutti quelli che conoscevo, quella era una grossa somma.
Mi comprarono il C64C, nel 1987, solo in seguito a una piccola vincita al lotto, lo prendemmo in un negozio di elettronica alle spalle della Ferrovia, assieme a un orologio della Inno-Hit, questa fusione italo-giapponese tra Elektromarket Innovazione e la Hitachi. 370.000 lire il Commodore, 18.000 l'orologio che , imperterrito, come se il passaggio di alcune decine di anni non lo riguardasse, impegnatissimo contare i secondi, ancora svetta in cucina. Del C64C, invece, mi è rimasto solo il manuale. In olandese. Ah, pure una montagna di ricordi.

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Mia zia nacque in uno dei paesini più o meno rasi al suolo dal sisma del 1980, di quei paesini poi in qualche modo ricostruiti e lasciati a morire di vecchiaia, un abitante alla volta. Nel 2003, circa, ci infiliamo in cinque macchina e torniamo a visitare questo paesino, dopo chissà quanti anni; siamo rimasti in tre, ora.

Classico paesino collinare del Sud: silenzioso, prevedibilmente lindo, vuoto, con un edificio importante posto in cima, in questo caso la chiesa; ci dirigiamo verso quella e, disappunto, è chiusa nonostante sia, probabilmente, la domenica mattina. Incontriamo un essere umano nei paraggi e chiediamo degli orari, la signora «Venite, ve la apro io.» Aveva la chiave.

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Il primo film ad avermi folgorato, credo. Intanto, per chi ha una certa età, si chiama Guerre Stellari. Se siete giovani, o vi sentite tali, chiamatelo pure Star Wars. Come l’Uomo Ragno, anche se oggi si vuol chiamarlo Spiderman.

Dicevo. Era pomeriggio, l’immediato dopopranzo domenicale. Dovete sapere, i pomeriggi domenicali erano dedicati alla visita ai miei zii, mentre quelli del sabato li dedicavamo alla nonna, che abitava a Napoli. Su una rete locale, di quelle che avevano un concetto tutto loro dei diritti televisivi, stavano trasmettendo questo film. Astronavi. Un robot che sembrava d’oro, accompagnato da una specie di bidone a rotelle. Viaggi spaziali, deserto. Una spada laser, non so se rendo l’idea. Complessivamente, quanto può essere potente, per un bambino, un immaginario simile? Una vera e propria esplosione, roba mai vista prima. E volevano strapparmi a quella visione per andare da mia zia! Da mia zia ci andavamo ogni settimana, quante volte nella vita si vede Guerre Stellari per la prima volta?

Puntai i piedi: sarebbe servito un raggio traente, non disponevano di mezzi talmente potenti da staccarmi dal televisore: uno dei due 12” pollici, ovviamente in bianco e nero, lasciatici da nostro nonno. Uno era bianco, l’altro rosso: li facevamo girare, ne avevamo due da dividere per tre famiglie . Arrivammo a un compromesso: approfittare della pubblicità per sfrecciare a casa di mia zia, compiendo il viaggio in meno di 12 parsec.

E sull'altro televisore, credo quello rosso, per la prima volta ho visto esplodere la Morte Nera.