Pane e autocommiserazione

Una strappa storia lacrime scritta da un giovane uomo in pena. E che pena che mi fa.

Capitolo precedente: Come sempre la festa di chi è

Il telefono segnava le otto e mi avvertiva di sei chiamate non risposte di Marco, tutte tra la mezzanotte e le quattro del mattino. Cosa avevo combinato? Le strade erano deserte e questo mi tranquillizzava molto, guido male col mal di testa. Due ciambelle e un caffellatte al McDonut's per colazione ed ero di nuovo a casa. Dovevo ricostruire la notte. Forse qualcuno che era alla festa poteva dirmi qualcosa. Prima di tutto dovevo chiamare Marco. Il bip del telefono penetrava nel timpano. “Dove sei? Stai bene?” “Sì bello, sto bene. Sono a casa” “Per fortuna! Ieri sera sei sparito da casa di Alice dopo che ti sei messo a parlare con quella biondina” “Io avrei fatto cosa?” “Non te lo ricordi? Bionda, bassina, occhialuta” “Non ricordo molto onestamente” “Almeno lei dovresti cercare di ricordartela” Bionda, bassa, con gli occhiali. Mi ricorda... “Sofia?” “E io che ne so, non me l'hai mica presentata. Anzi, a dire il vero non hai più parlato con nessun altro” Possibile fosse Sofia? Perché il passato doveva ricominciare a tormentarmi? “Senti grazie Marco e scusa, ma non ero in me... Ti richiamo più tardi” Probabilmente la risposta era arrivata dopo che avevo attaccato e cominciato a cercare il numero di Sofia in rubrica. Il bip del telefono martellava di nuovo nel cranio, a quanto pare non aveva più cambiato numero dopo tutti questi anni. “Pronto?” una voce dolce e calma spuntava dall'altoparlante e io ero di nuovo un ragazzino timido. “Sofia?” “Sì, chi parla?” “Sono... Sono... Dispiaciuto, credo di aver sbagliato numero” Stavo per chiudere quando “Francesco aspetta” “Oh, ehi, hai riconosciuto la voce?” “Veramente sui cellulari compare il nome della persona che sta chiamando” “Oh” Davvero? Un “oh” secco? Era tutto quello che sapevi fare? “Senti... Ehm, per caso ieri eri da Alice?” “La tua memoria non cambia mai eh? Ti sei già scordato di quel fantastico quarto d'ora passato in bagno?” Lei non poteva vederlo, ma sapeva benissimo che la mia mascella era appena arrivata a terra. “Eh...” “Sei stato molto carino ad aiutarmi a vomitare” “Ah” Sei diventato Monosillabo-Boy? “Ti sento deluso, che ti aspettavi?” “Io... Beh... No, niente” “Senti io ho ancora il tuo cappello...” “Mi fa piacere” “Sicuro che non lo rivuoi?” “No, sta meglio a te. Hai la testa più piccola della mia e a me non copre le orecchie” Una risata dolce e il mio cervello s'era liquefatto. “Va bene, va bene” “Comunque avevo chiamato per sapere di più su cosa fosse successo ieri notte” “...” “Qualcosa non va?” “Te lo dico se ci troviamo per un caffè” “Sai che non dico mai di no ad un caffè” “Per quello te l'ho proposto” “Facciamo alle 15, al Bios Cafè” Dopo quella telefonata il mondo sembrava diverso, il tempo sembrava scorrere più lentamente e le 15 sembravano non arrivare mai. Alla fine erano arrivate e il Bios Cafè era vuoto, come sempre. Spuntava da una sedia una giacchetta nera in pelle e una cuffia invernale con la fantasia simile al “nessun segnale” delle vecchie tv analogiche. Ero imbarazzato e agitato. “Ciao Sof” Sorrideva. “Allora non ti ricordi proprio nulla?” “Nulla di nulla” “Io sono arrivata da Alice che tu avevi già bevuto abbastanza” “...” “Ma tranquillo, era anche il mio intento. Infatti quando mi hai vista e mi hai offerto da bere non ho rifiutato” “Io? Io ti ho offerto da bere?” “Le magie che fa l'alcol, eh? Comunque me ne hai offerti tanti di bicchieri, così tanti che ti ho trascinato in bagno con me in fretta e furia” “Chissà cos'avranno pensato gli altri” “Nulla, dato che si sentiva da fuori che stavo rigettando anche l'intestino” “E dopo?” “Dopo siamo andati via perché insistevi a volermi riportare a casa” “Ma non avevo l'auto” “Te l'ho detto anche io, ma volevi comunque andare” “E cosa ho fatto? Ho rubato un'auto?” Sorseggiava il suo caffellatte guardandomi dritto negli occhia con un sopracciglio alzato. “Ho davvero rubato un'auto?!” “Secondo te? Di chi era l'auto in cui ti sei svegliato?” Sa che ho dormito fuori, fino a che ora siamo stati insieme? “Come sai che ho dormito in auto?” “Perché ti ci ho lasciato” “Hai guidato la mia auto?” “Solo dopo essermi ripresa, camminando fino a casa tua” Da casa mia a casa di Alice erano più di quattro chilometri, normalmente una persona con la mente funzionante ci impiegherebbe circa un'ora e mezza, noi eravamo in stato pietoso quindi ci avevamo impiegato... “Due ore e mezza, se te lo stessi chiedendo” “E non mi sono ripreso in due ore e mezza?” “Comunque hai provato a guidare, ma non riuscivi a trovare le chiavi della macchina per accendere e così hai deciso di provare a dormire sul volante. Dopodiché ti ho spostato sul sedile accanto, con molta fatica, e ho lasciato la macchina vicino casa” Vicino casa? Quindi abita vicino Roberta! “Conosci per caso una ragazza chiamata Roberta? Bassa, capelli castani, un po' timida...” “Certo, ha fatto scout con me per anni” Ma certo, stessa parrocchia. “Come mai lo chiedi?” “Era una mia compagna delle elementari, ci siamo rivisti da poco ad un funerale di una nostra insegnante” “Oh... Mi dispiace...” Il mio caffè era quasi finito e ne bevevo poco alla volta per farlo durare di più. Lei continuava a sorseggiarlo e a guardare fuori dalla finestra. “Comunque so che sta andando via, a Parigi credo” “Uh... Sì” Avanti chiediglielo, non sprecare questa occasione. “Sai se...” Ora mi guardava e aveva un po' lo sguardo perso nel vuoto. “Sì?” “Sai se, per caso, sia... Ecco... Se sia occupata” “Intendi...” “Sentimentalmente, sì” “Non lo so. Quindi ti interessa?” “Non so se voglio parlarne con te” Il silenzio che si era creato veniva interrotto ogni tanto solo dai suoni provenienti dalla cucina e da qualche sporadica macchina che passava di fuori. “Pensavo fossimo tornati amici” “Solo perché ci siamo presi una sbronza insieme?” “No, perché pensavo mi avessi perdonato dopo tutto questo tempo!” “Mi serviva per metabolizzare quello che mi hai fatto” “Sono passati otto anni Francesco, quanto tempo ti serve?” “Io ci tenevo, sei stata forse l'unica ragazza per cui non ho pensato 'forse è meglio così'. Volevo andare insieme a te nei musei d'arte e farmi spiegare tutto quello che non sapevo o andare al cinema e farti vedere dei film bellissimi e pesantissimi. Ma a quanto pare non provavi quello che pensavi dovesse essere'vero amore'” Mentre finivo di parlare aveva preso a fissare la tazza. “Ero piccola ed ingenua. Credevo ancora che l'amore fosse quello che vedi nei film, che ti innamori al primo sguardo... Mi dispiace, ma pure tu sei scomparso quando, avevi detto che saresti rimasto” “Certo che sono scomparso, io provavo davvero qualcosa per te. Dovevo dimenticarmene, come avrei potuto continuando uscire con te e gli altri?” Ora era tornata a guardarmi in faccia. “Mi sei sempre mancata in questi anni, anche se sono stato con altre” “E non potevi chiamarmi?” “Ma scherzi? Chiamarti? Per dirti che? 'Ehy ciao, sono Francesco, quello che hai mollato quel giorno al parco perché non avevi ancora capito se ti piacesse o meno il tuo migliore amico o se quello che provavi per me era il vero amore. Ti ricordi? Sì? Beh mi manchi e preferirei che questa chiamata fosse per dirti di andare a qualche mostra, ma non stiamo insieme perciò niente, buona vita, me ne torno a stare da solo'” “...” “Che c'è?” “Niente, io... Mi dispiace” “Anche a me” “Non credi che sia passato sufficientemente tempo per potermi perdonare?” “Ma io ti ho perdonata! Nn accetto il fatto che saremmo potuti essere felici insieme” Il mio caffè era diventato freddo e imbevibile, lei aveva la tazza vuota. Nessuno ci era venuto ad offrire altro perché non siamo in una tavola calda americana e se vuoi altro ti alzi e lo chiedi. Non disprezzo i silenzi, ma questo era davvero imbarazzante. E io non sono bravo a districarmi dalle situazioni imbarazzanti. “Sei sicuro che non vuoi il cappello?” “Ti ha stufato?” “No, ma magari... Non lo so...” “Tienilo, mi fa piacere che tu lo abbia” Guardando fuori continuavano a passare pochissime auto, le nuvole si raggruppavano minacciose, probabilmente a breve sarebbe piovuto. “Vuoi andare?” “Mmh?” “Fissavi fuori, pensavo volessi andartene” “No, guardavo... Niente. Forse però è ora che vada. Grazie per aver fatto luce su ciò che ho fatto mentre non ero in me” “Figurati, è stato carino riparlarti” “Sì, immagino di sì” Pagarle il caffellatte mi sembrava il minimo. Salendo in macchina pensavo che sarei dovuto andare al cinema, era da un po' che non ci andavo. La lista di orari che compariva sullo schermo del cellulare mi avvertiva che non c'era nulla di interessante, tranne un vecchio film uscito quando ero più giovane. Non c'era pericolo di incontrare troppe persone a quella proiezione, quindi per pensare sarebbe andato benissimo.

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Originally wrote in 2017-02-15T00:34:00.000+01:00

Capitolo precedente: Perché piove sempre ai funerali?

“Pronto?” “Ehi bestiaccia, come stai?” Marco. “Al solito” “Lo immaginavo. Ascolta: domani, casa di Alice, ore 21,vestiti bene ma non troppo elegante” “Non c'è pericolo” “Vestiti bene, dai, non farmi fare brutte figure. Ti passo a prendere alle 21 e 30, fatti trovare pronto che non voglio tardare” Il bip del telefono occupava il vuoto lasciato dalla cornetta riagganciata dall'altra parte. La notte era andata come previsto, tanta birra e pochi pensieri. Un raggio di luce filtrava dalle tende e finiva sui miei occhi, come nei migliori film. Alzandomi avevo buttato a terra tre o quattro lattine vuote, probabilmente sarebbero rimaste lì fino quando non ci sarei finito sopra con un piede. Il cellulare non aveva messaggi o chiamate perse. Stupido. Avrei dovuto occupare mezza giornata. C'era da finire quel cofanetto di documentari che un giorno mi avevano prestato e mai più chiesto indietro. Non ricordo neanche di chi fossero. Tutta roba noiosa, ma sempre meglio dei programmi in televisione. Quella roba ti scioglie il cervello. Dopo aver messo su un disco a caso partiva la sigla. Era molto rilassante, anche se alla lunga cominciava a dar noia. Il documentario trattava la guerra civile avvenute in Inghilterra dopo l'uscita dall'Unione Europea. Salì al potere una figura che inizialmente sembrava operare per il bene della popolazione, ma quando si accorsero che il suo piano era un altro era ormai troppo tardi. La polizia massacrò migliaia di persone fino a che partirono centinaia di rivolte per tutto il paese. Intervenì anche l'esercito e fu una carneficina. Da questo punto in poi il buio. Troppo soporifero. Meglio così, al mio risveglio erano passate già quattro ore, avevo tutto il tempo di prepararmi con calma e mangiare. Il getto gelido della doccia mi aveva fatto sussultare. Respiro affannato, a tratti soffocato. L'acqua mi impediva di respirare. Poi ecco di nuovo che i polmoni riprendevano a funzionare. La calma. Il corpo si era abituato e l'acqua scorrendo copriva le orecchie. Il mondo produceva un suono ovattato mentre io mi cullavo in un movimento ipnotico cercando di rimanere sotto il getto protettivo dell'acqua. Un'ora e mezza dopo mi stavo finendo di preparare e stavo per scendere dopo aver ricevuto la chiamata di Marco. Casa di Alice era in centro, in un enorme e nuovo palazzo di una dozzina di piani. La porta non aveva il campanello, ma un pesante battiporta che sembrava esser placcato d'oro. Una voce nasale e poco acuta stava parlando. “Ehi! Benvenuti!” “Grazie Alice, non potevamo mancare!” “Come stai Francesco?” Conduco la solita triste e mediocre vita di sempre, e ho per la testa una ragazza che non vedevo da vent'anni. “Bene” “Loquace come sempre” “Parlare non mi si addice” “Lo sappiamo benissimo. Venite, ci sono già delle persone” La sala più grande, quella piena di gente, era molto spaziosa e pulita, mobilia in legno di colore chiaro. Gruppi di ragazzi e ragazze, tutti sulla trentina, parlavano intensamente con bicchieri e piatti in mano. C'è una cosa che non mi è mai passata ed è la voglia di mangiare. Stavo prendendo del cibo dal tavolo del buffet ed ecco una mano afferrarmi. “Q-q-quanto tempo!” Riconoscerei quel balbettio anche dopo mille anni. “Nicola? Oh Dio, quanto tempo!” Ero realmente sorpreso. Non lo vedevo da troppi anni, da quando aveva cambiato città e smesso di suonare insieme. “P-paarecchio! Ti vedo b-bene però” “Potrebbe andare peggio” “Non ti smentisci m-mai eh? Co-ooo-munque lei è la mia ra-ragazza, Chiara” Alta quanto me, mora, bei boccoli uscenti da un sobrio cappello nero. “Piacere” Sorrideva e aveva una forte stretta di mano. Il volto era familiare. “Ci siamo già visti?” “Forse a u-u-una mia festa di compleanno” Già, forse. “Tieni” Alice mi aveva porto un bicchiere pieno davanti la faccia. “Spero sia alcolico” “Così mi offendi” Non avevo fatto in tempo a scolarlo che già era di nuovo pieno. Questo svuota-riempi continuò per un po', non so quanto di preciso. Ricordo solo di aver incontrato altre persone, ma non le conversazioni. Sta volta la luce passava dal finestrino della macchina. Ero disteso sul sedile posteriore della mia auto. Quindi ero vicino casa? E in caso, per quale motivo avevo dormito in macchina? Alzandomi, oltre ad un gran mal di testa, sentii le campane suonare. La chiesa si ergeva di fronte a me, io invece me ne stavo in piedi appoggiato al cofano della macchina. La piazzetta era deserta, doveva essere molto presto. Osservavo come il vento smuovesse i rami degli alberi, quando una figura si materializzò in lontananza. Mentre si avvicinava notavo sempre più particolari: capelli castani, un maglione lungo fino alle cosce, calze, stivaletti neri. Che fosse Roberta? Mi ero staccato dalla macchina per camminare a fatica verso la figura. Era proprio lei, ma cosa ci faceva qui? “Io abito qui vicino, ricordi?” Certo che lo ricordo “Oh, giusto” “Cosa fai tu qui, piuttosto” “Io... Dormivo” “In chiesa?” “No, in... In macchina” Mi guardava come se fossi un pazzo o un barbone o entrambi. “Non ricordo perché, però...” “Fatto serata?” “Già...” “Che strano, per tantissimi anni non ci siamo visti e ora ci siamo incontrati due giorni di seguito” “È molto strano. Oh, ehi, ti andrebbe di vederci un'altra volta? Per un caffè o un gelato” “Non mi piace il gelato. Comunque non credo di potere” “Ah...” “Perché me ne vado” “Ah... Ah si?” “Vado a Parigi, per lavoro” “Ma poi torni?” “No. Non subito, comunque” Ero un po' morto dentro. Ci si presenta così, dopo anni e anni, offrendo un ombrello e poi si sparisce? “Senti io devo andare, magari ci risentiamo” Ed era sparita.

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Originally wrote in 2016-11-28T01:37:00.000+01:00

Capitolo precedente: Silenzi

A lavoro avevo una scrivania ricurva che seguiva la forma della parete Ovest dell'ufficio, con due grosse finestre che si trovavano esattamente ai bordi del tavolo. Il computer era riposto su di un lato in modo tale da poterci mettere un secondo schermo e ottimizzare gli spazi. Una tazza conteneva qualche matita, due penne rosse mai utilizzate e un lecca lecca, mentre sul tavolo c'era una papera di gomma, una Batmobile in miniatura e gli attrezzi da lavoro, ovvero tastiera e mouse. “Stanno bene?” Ero saltato sulla sedia. “Eh? Cosa?” Simone era spuntato da dietro, facendomi quasi prendere un infarto. “Le matite, stanno bene? Le fissavi intensamente” “No, io... Ero altrove. Con la testa, dico” “E...?” “E cosa?” “Devo farti altre domande o esponi il problema per conto tuo?” “È un discorso lungo, ne parliamo alla pausa” “Come vuoi, sai dove trovarmi” Intanto il sistema operativo era pronto ad eseguire ogni mio comando e, dopo che Simone se ne era andato, avevo cominciato a scrivere codice a mente libera. Non c'era una pausa per tutti, ma io e Simone avevamo degli orari precisi, così da regolare il nostro flusso di lavoro. “Alle 11:00 si smette di scrivere e ci si alza per prendere qualcosa da bere o mangiare, e così alle 16:00. Niente obiezioni”. Quindi alle 11:00 ero in piedi e mi stavo dirigendo verso l'angolo più bello dell'ufficio: quello con la macchinetta del caffè. “Ho comprato delle cialde aromatizzate al caffè, te ne lascio provare una se mi dici cosa ti turba”, mi aveva detto Simone mentre mi passava una cialda che emanava un profumo di caffè misto a cioccolato. L'acqua scorreva bollente nei tubi e si trasformava in delizioso caffè, sgorgando dalla bocca della macchinetta. “Ieri sera ho parlato con Maria” “Maria... Scusa, lo sai che non ti sto dietro con tutte le ragazze che hai” “Che non ho, vorrai dire. Comunque è quella che lavora a Milano per...” “Per la rivista di cucina, certo, mi ricordo. E cosa ha fatto 'sta volta?” La tazzina di caffè scottava come il Monte Fato. “Si è fidanzata, del tipo finché morte non li separi” Un sorso di caffè incandescente per lavare via il ricordo. “Ahi, ahi. Mi dispiace. Per lei ovviamente” “Ah, ah, ah. Comunque penso volesse dirmelo di persona, mi ha scritto lei per vederci” “Comprensibile, quanto tempo siete stati insieme?” “Non siamo mai stati insieme” “Giusto. C'è altro, Don Giovanni?” Nel frattempo c'eravamo seduti al tavolo e io avevo portato dei biscotti che probabilmente erano composti al 90% da burro e al 10% da cioccolato. “Hai presente il pacchetto di sigarette in macchina?” “Certo, sei l'unica persona che non fuma e ha un pacchetto sempre a disposizione” “È sempre lo stesso e non è neanche mio” “Lo so, è della tua amica... Com'è che si chiamava?” “Serena” “Serena! Che fine ha fatto?” “Non lo so, credo stia ancora lavorando per quel giornale locale” “E penfi che fia oa di pallacci?” Pezzi minuscoli di biscotti uscivano dalla sua bocca* e finivano sul tavolo. “Come?” “Scusa. Pensi che sia ora di parlarci?” “Cosa risolverei? Nessuno dei due dice niente all'altro da ormai qualche anno. E non mi va di riallacciare i rapporti con lei” “Allora metti da parte il passato” “Già, penso farò così” La pausa caffè era finita e io ero tornato alla mia scrivania, riprendendo a lavorare. La pausa pranzo era arrivata in fretta, le ore scorrevano veloci e il sole cominciava già a tramontare, creando sfumature arancioni e rosa in cielo. “Ciao Fra, a domani” Simone era uscito, seguito da qualche altra persona. Avevo ordinato al computer di spegnersi e nel frattempo preparavo le mie cose da riportare a casa. Fuori era umido e abbastanza caldo da togliermi il respiro. Il tragitto verso casa con l'aria condizionata, seppur breve, mi aveva rimesso in sesto. Spento il motore il pacchetto mi fissava con insistenza. La mia mano lo aveva afferrato, ero sceso dall'auto, messo lo zaino in spalla e al primo cestino della spazzatura il pacchetto se ne era andato. “A mai più rivederci” Casa era ancora lì, buia e accogliente, come sempre.

*Per ricreare al meglio la frase è stato mangiato un biscotto e recitata la battuta ad alta voce (n.d.r.)

Originally wrote in 2018-08-16T19:31:00.000+02:00

La pioggia ticchettava leggera sugli ombrelli neri, aperti sopra le teste degli invitati. Erano circa una trentina, tutti vestiti di scuro, chi in maniera elegante, chi no. Un chirichetto reggeva un ombrello più grosso di lui, cercando di coprire il prete: un anziano signore che stava recitando le solite parole confortanti dirette ai familiari. Un grosso uomo era seduto su una sedia a fianco la tomba, era vestito di nero e aveva un bizzarro papillon giallo oro. La sua faccia era piatta, non lasciava trapelare emozioni di nessun tipo. Fissava qualcosa per terra, poco lontano dai suoi piedi. Non aveva distolto lo sguardo neanche per un secondo, ormai da mezzora. “Ora che è stata chiamata da Dio al Suo cospetto, è in un posto migliore”. Un tuono preannunciava l'arrivo di una tempesta. Ovviamente ero uno dei pochi senza ombrello, ma per fortuna indossavo l'impermeabile. Mancava ancora mezzora alla fine di questo strazio. Mi trovavo li solo per una questione di rispetto, non andavo a messa da anni. In più non avevo per niente voglia di rivedere certe persone, ma per una volta non sarei morto. Invece mi sarei preso una polmonite, se non fosse che ad un tratto si era avvicinata una ragazza: bassa, capelli lisci, castani, sembrava un po' impaurita, non so se dalla situazione o dal temporale. “Ti serve un ombrello?” La sua voce era gentile, ma lei sembrava impaurita, come se un coniglio si fosse alzato in piedi e avesse porto una zampa all'uomo col fucile davanti a lui. “Certo, credo che il tempo tenda a peggiorare” Lei non rispose. Cercavo di essere gentile e di ricordarmi chi fosse. Passammo il resto del tempo in silenzio. Io pensai a quanto fosse incredibilmente stupido tutto questo e nel frattempo gettavo occhiate incuriosite verso la timida ragazza che mi stava a fianco: cercava di sembrare a suo agio, nonostante fosse palese l'agitazione. Per cosa agitarsi? Forse era una parente? Una nipote? La messa era finita, sarei potuto finalmente tornare a casa, per concludere la giornata nel migliore dei modi: tanto alcol e una dormita. “Tu sei Francesco vero?” Mi sembrava abbastanza sicura da poter evitare la domanda. “Ehm, sì. Sì, sono io...” “Non ti ricordi di me, vero?” Non riusciva a tenere la testa alta mentre lo diceva, si fissava le scarpe nere, lucide. E no, non mi ricordavo. “A volte ho la memoria che non funziona benissimo” “Roberta... Andavamo a scuola insieme” A scuola? Quindi alle elementari. Una vita fa, praticamente. Roberta, sì, forse? La ragazza con cui non ho mai parlato per cinque anni perché lei era troppo timida e io troppo emarginato? Forse cominciavo a ricordare. “Non abbiamo mai parlato molto, giusto?” “Non abbiamo mai parlato, direi” Aveva distolto lo sguardo, tornando a fissare le scarpe. Era calato il silenzio, cosa che a me personalmente non disturbava, ma a lei? Quasi paradossalmente sarebbe stato il caso di chiederlo. “Ti disturba il silenzio?” “No, in genere no” Interessante, ma non ci credevo molto. Una manciata di secondi più tardi, “È un peccato che sia morta, non trovi?” Ma non le piaceva il silenzio? “Sì, anche se non la vedevo da anni. Mi ero ripromesso che un giorno sarei tornato a trovarla, invece non l'ho più fatto” “Come mai?” “Sono pigro” “E basta?” Mi fermai a riflettere. “No. Ma non credo di volerlo ammettere” Il vialetto che portava al parcheggio stava finendo. “Hai la macchina qui immagino” “Sì, ti serve un passaggio?” “Oh, no... Ho un – io abito qui vicino” “Come vuoi. Grazie per l'ombrello” “Figurati. Allora, ehm, ci vediamo, ciao” Era stata rapidissima, uno scoiattolo sarebbe stato più lento. Durante il tragitto in macchina mi era venuta fame e avevo incrociato uno di quei grossi cartelloni pubblicitari, riportava: “McDonut's, le migliori ciambelle del Paese. Tra 200m” e sotto una grossa freccia che indicava la direzione. Una, ma cosa, due belle ciambelle, perché no? In fondo mangiare è una delle poche cose che mi rende felice. Mentre parcheggiavo ripensavo a Roberta: come mai si era avvicinata? Come mai tutto d'un tratto voleva parlare con me? Sono solo da troppo tempo, sto diventando paranoico? Una ragazza non può cambiare con gli anni? Ma lei non sembrava cambiata, sembrava sempre la stessa timida ragazza dalla pronuncia strana. Il cassiere mi stava guardando in maniera strana, probabilmente mi ero scordato di fare qualcosa. “Vuole ordinare, signore?” “Oh, ehm, sì, prendo due ciambelle, una al cioccolato e l'altra con la crema, ricoperta di glassa” Il posto era semi vuoto. Sfido io, chi deve esserci ad Agosto in un posto desolato e triste come questo? La pioggia, poi, rendeva tutto più cupo e malinconico. Credo di aver sempre amato la malinconia. L'essere triste in generale mi portava un senso di soddisfazione. Paradossale come la tristezza possa farti provare un sentimento quasi opposto. O forse, in questo momento, mi sentivo bene per via delle ciambelle. Avevo deciso, inoltre, che non ci sarebbe stato nulla di meglio che accompagnarle con del tè caldo. Erano passate svariate decine di minuti e la pioggia non smetteva di scrosciare sul marciapiede. Tanto valeva andare a godersi la pioggia a casa. La giornata tendeva al termine, i lampioni illuminavano la pioggia che cadeva inesorabile, mentre io mi infilavo nell'ennesima coda di macchine e guardavo la scatola di sigarette sul sedile passeggeri. Non fumavo, non ho mai fumato, non regolarmente almeno. Quel pacchetto era lì per ricordarmi che avevo un conto in sospeso con un'amica. Ma non era ancora il momento di saldare quel conto. In compenso ora dovevo cercare di arrivare a casa il prima possibile, tutto quello stare in giro mi aveva dato la nausea. Incrocio dopo incrocio, ero finalmente a casa. Un tempo avevo progettato il mio meraviglioso appartamento da uomo single, con un lavoro e tutto il resto. Avrei dovuto sapere già al tempo che le cose non vanno mai come le progetti. Non nei minimi particolari, almeno. Mi aspettavo un lavoro non grandioso, ma neanche pessimo. Non ci sono andato lontano. La casa era, ovviamente, come l'avevo lasciata: buia, fredda e silenziosa. L'unico rumore che si sentiva era il fievole sibilare degli elettrodomestici e delle ventole del computer. La sala era illuminata dalle varie luci di tutti gli aggeggi sparsi in giro: tv, computer, stereo, telefono. In genere, non amando la luce, mi accontento dei led per poter vedere dove cammino. Quel giorno non sarebbe stato da meno, avevo lasciato tutto sul divano e me ne ero andato in bagno. Trovo particolarmente rilassante lavarmi la faccia, guardarmi allo specchio, per vedere le gocce d'acqua scendere pian piano sul viso, arrivare alla barba e fermarsi e restare, poi, qualche minuto a fissare l'immagine di me incorniciata dai prodotti per la pulizia, lo spazzolino e le lampadine dello specchio. A volte pensavo a cose successe in passato, a volte a fatti recenti, quella volta pensavo di nuovo a Roberta. Cosa mi aspettavo? Una telefonata? Un messaggio? Qualcosa, sicuramente. Nessuna chiamata o messaggio, nessuna richiesta di amicizia nei vari social network, neanche un'email. Era veramente finito tutto oggi, dopo il funerale? Aveva detto “ci vediamo”, era tanto per dire? Ma perché mi stavo facendo quelle domande? Era da molto che una ragazza non mi faceva quell'effetto. Avevo deciso che era tempo di aprire il frigo e tirare fuori la prima birra della serata, andare sul divano e perdere la cognizione del tempo, finché la fame non si sarebbe fatta sentire ancora, verso mezzanotte. Allora avrei tirato fuori altro dal frigo, insieme all'ennesima birra. Poi, come sempre, mi sarei addormentato sul divano. Invece non avevo fatto in tempo a chiudere lo sportello del frigo che il telefono stava squillando.

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Originally wrote in 2015-09-07T21:35:00.002+02:00

Capitolo precedente: Necessità

Il caffè era bollente, riempiva la tazza quasi completamente. Onde minuscole se ne andavano dal centro verso l'esterno mentre Maria si accomodava al tavolo sedendosi difronte a me. Le erano cresciuti i capelli. “Ti sono cresciuti i capelli”, le avevo detto. “Mi stanno male?”, aveva risposto. “Mai, staresti benissimo anche senza, lo sai”, sorridevo e la guardavo negli occhi grigio piombo. Anche lei sorrideva, come sempre, come ha sempre fatto. “Allora vado a rasarmi e poi mi dici”. Mentre ridevamo era comparsa la cameriera, aveva chiesto cosa volessimo e se n'era andata con due hamburger da far preparare al cuoco. “Mangi dopo aver preso il caffè? Non sai che fa male?” “Sei tu che mi hai invitato a prendere un caffè, io ho preso un caffè” Mi guardava. Come sempre. Poi mi aveva chiesto come stessi. Se avessi mentito lo avrebbe capito. “Se menti lo capisco” Appunto. “Sto incasinato” “Non è cambiato molto. Ragazze? O ragazzi?” “Ti ricordi Roberta?” “No, dovrei?” “Stessa scuola” “Ma anni diversi” “Beh, sì” “Forse... La fotografa?” “Amatoriale” “Forse. Che ti ha fatto?” “Ci siamo incontrati ad un funerale” “Mmh... E?” “E mi ha offerto l'ombrello perché pioveva, poi non l'ho riaccompagnata a casa e due giorni dopo l'ho incontrata dopo essermi svegliato in macchina davanti una chiesa. La sera prima ho incontrato Sofia e abbiamo bevuto tantissimo” “Sofia?! E che avete fatto dopo? Si può dire anche se siamo in fascia protetta?” “A quanto pare ha vomitato tantissimo per colpa mia e l'ho accompagnata a casa in macchina nonostante fossi ubriaco quanto lei” “Non ci credo” “Neanche io ci credevo quando me l'ha detto” Nel frattempo erano arrivati i panini accompagnati da due montagne di patate fritte. Stava addentanto il suo mentre i miei occhi cadevano sull'anello che portava al dito della mano sinistra. “E poi?” Mi ero distratto, “E poi cosa?” “Roberta?” “Ah già, parte per la Francia, per lavoro” “No! Quindi non vi sentite più?” “Cosa la sento a fare? Ehi ciao, sono Francesco, il coglione senza ombrello mentre pioveva, ricordi? Perché non ci sentiamo mentre tu sei in un altro stato con tanta gente attorno molto più interessante di me?” “Magari funziona” “Come no” Silenzio. L'unica cosa che penso è... “Tu invece?” “Cosa?” “Come va? Cosa fai? Trovato marito? Moglie?” “Io sto bene, lavoro a Milano per una rivista di cucina” “Beh era quello che volevi, no?” “Sì... Certo se lavorassi per qualche rivista più famosa non mi dispiacerebbe” “Si accorgeranno di te, è difficile che passi inosservata” “Mi sono fidanzata” “Lo so” Aveva smesso di masticare e aveva strabuzzato gli occhi. “Lo sai?” “L'anello al dito” Aveva abbassato lo sguardo su di esso e aveva preso a giocarci. “Chi è il fortunato? O la fortunata?” “Fortunato... È il mio capo redattore” “Ah, complimenti!” “Prima che lo chiedi: sì, è più vecchio di me” “Non ti giudico, ti ricordo cosa ho fatto in passato” Mentre mi sorrideva vedevo tutta la mia gioia uscire dal mio corpo sbattendo la porta. Se ne sarebbe accorta, così ero andato al bagno. Lo specchio mostrava una figura sformata, i capelli erano in disordine e l'acqua scendeva fino al mento, sgocciolando per terra. Lei mi stava aspettando al tavolo, le avrei detto la scusa preparata in bagno e me ne sarei andato. “Devo andare che domani mattina lavoro presto” “Certo, me ne ero dimenticata. Ma va tutto bene?” Ecco. Lo sa, lo sa benissimo. Mi sento come alle superiori, quando la professoressa sapeva che non avevo studiato, lo sapeva, ma mi lasciava mentire. “Sono solo stanco dalla giornata” Dopo avermi baciato su entrambe le guance se ne era andata salutando e sorridendo, ringraziandomi per aver accettato l'invito. La macchina era fredda e buia, la luce proveniva dai lampioni del parcheggio della tavola calda. Avevo spento il cellulare, basta persone per oggi.

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Originally wrote in 2017-12-28T23:27:00.000+01:00

Capitolo precedente: Porte che si chiudono

Il cinema era deserto, come previsto. La ragazza alla cassa masticava la gomma tenendo la bocca aperta, producendo il rumore tipico di chi deve esternare il fatto che stia ingerendo una buona dose di zuccheri e coloranti. “Hai la carta?” “No” “Sono otto euro e cinquanta” La sala era altrettanto vuota, di conseguenza il posto segnato sul biglietto non aveva più una particolare importanza. La pubblicità scorreva prima dell'inizio del film e una ragazza era entrata e si era fermata ad osservare le poltrone vuote. Salita al livello della mia fila, si era avvicinata a me. “Sei al mio posto” “Prendine un altro, sono tutti vuoti” “A me piace questo, l'ho scelto appositamente” Giovane, né bassa, né alta, riccia, viso rotondo e piccolo che faceva sembrare gli occhi più grandi e marroni del normale, labbra carnose, apparecchio. Mi fissava intensamente. Alla fine mi ero alzato, in silenzio, ed ero andato allo stesso esatto posto, ma una fila più avanti. Una canzone totalmente inappropriata accompagnava la pubblicità di una catena di ottici e la ragazza era spuntata dalla fila dietro sporgendosi sul sedile alla mia destra. “Come mai proprio questo film?” L'effetto sorpresa e la leggera incredulità non mi avevano fatto rispondere immediatamente. “Perché non lo vedo da molto tempo” ed ero tornato a guardare la pubblicità delle piccole imprese locali. “Pensavo che sarei stata da sola in sala” “Anche io. Evidentemente...” “Ti do fastidio?” Evidentemente i miei piani di starmene tranquillo erano sfumati. “Solo se parli durante il film” “Sai che è il mio regista preferito?” “No, non lo so, perché non so neanche come ti chiami” “Indovina” “Cosa? Il tuo nome?” “Sì” “Non ha senso, perché non me lo dici e basta?” “Non sarebbe divertente” “Non deve esserlo. A dire il vero non te l'ho neanche chiesto” “Sì che lo hai fatto” “Ti ho detto che non so come ti chiami per farti capire che no, non posso sapere chi sia il tuo regista preferito se non so neanche una cosa basilare come il nome” “Dai, dicono sia un nome da borghese” “Non mi interessa” “E dai!” I soldi del biglietto erano l'unica cosa a trattenermi al cinema. “Carmela” “No, ma che nome è?” “Un nome” “Un nome da borghese” “Elisabetta” “No” “Senti mi sono stufato, se vuoi dirmelo fallo e basta” “Sei noioso. Mi chiamo Ludovica” Capirai. “Francesco, ciao” Nel frattempo le luci si erano spente e i trailer erano cominciati. Poi era cominciato anche il film e poi era arrivato l'intervallo. “Francesco” Sigh. “Cosa?” “Vuoi andare a bere dopo il film?” “Non ci conosciamo” “Appunto, per conoscerci” Perché mi hai abbandonato, solitudine? D'altra parte, però, che avevo da perdere? “Va bene, ma domani lavoro e non mi va di fare tardi” “Shh che ricomincia” Odiosa e insopportabile. Proprio il tipo che mi scelgo di solito. Più si avvicinava la fine del film, più l'ansia cresceva. L'ansia per qualcosa di sconosciuto. Che voleva da me? I titoli di coda scorrevano e io mi stavo già alzando. “Che fai, non li guardi?” “Li conosco” “Aspettami al parcheggio” Pure. Aveva piovuto, le scale antincendio luccicavano alla luce dei lampioni e sentivo entrare l'umidità ad ogni respiro. “Mi hai aspettata!” “Non dico cazzate” “Quindi andiamo a bere qualcosa?” “E andiamo un po'...” “Guidi tu?” “Scherzi?” “Certo, mica vado in macchina con gli sconosciuti. Stammi dietro, ti porto in un posto carino” Era effettivamente un posto carino, con musica live e tanti tavolini sparsi qua e la. “Allora, Francesco, cos'è che ti ha spinto ad andare al cinema stasera?” “Sei diventata una psicologa adesso?” “Chi ti dice che non lo sia?” “Lo sei?” “Lo sono?” Cosa ci faccio qui? “Non lo so. Lo sei?” Mi ero ritrovato a fissarla negli occhi, un po' adirato. “Che scorbutico, non si può neanche scherzare un po'. No, non lo sono” “E cosa fai, allora? Oltre ad invitare gli sconosciuti a bere” “Studio cinema” Ma non mi dire “Ma non mi dire” “E tu? Cosa fai?” “Sono un programmatore” “Ah che bello! Devi essere molto intelligente per fare questo lavoro!” “Non hai idea di quanto questo sia falso” “Davvero?” “Oh, sì” “Mi sembri comunque una persona intelligente” “Beh, grazie” Ed ecco che se ne andava il primo boccale di birra. “E io come ti sembro?” In cerca di attenzioni e molto sola “Mi sembri carina” Sorridendo, mi aveva preso la mano. Non stavo spostando la mia. Perché? Perché non succedeva da tempo e anche se sapevo che non portava nulla di buono, perché era solo una ragazzina in cerca di attenzioni, mi piaceva quel momento. Dopo qualche secondo avevamo ritirato entrambi la mano dopo che la cameriera era venuta a ritirare il mio bicchiere vuoto e a chiedere se volessi altro. La birra era arriva mentre Ludovica mi stava raccontando di quanto le sarebbe piaciuto andare a vivere a Parigi e andare ogni giorno nei cafè a scrivere. Che sogno originale. Ma non me ne importava, sapevo che le avrei dato le attenzioni che voleva finché mi avrebbe fatto comodo, dopodiché fine, nulla. “Dimmi, Francesco, sei impegnato?” “Con il lavoro dici?” Io avevo capito benissimo e lei pure, ma rideva. “Ma no, intendo se hai una ragazza” “Secondo te se avessi una ragazza accetterei l'invito di un'altra?” “Beh io un ragazzo ce l'ho, eppure eccomi qui” Chiunque avesse incontrato questo tipo di ragazze per la prima volta ci sarebbe cascato, ma non è il mio primo rodeo. “Ah sì? Non è geloso?” “Perché dovrebbe? Sa che non lo tradirei mai” “Io sarei geloso lo stesso” “Perché sei un bravo ragazzo” Fino a quando sarebbe andata avanti? “Francesco, ti piace Twin Peaks?” “Lo adoro” “Ti andrebbe di guardarlo assieme, stasera?” “Intendi ora?” “Esatto” Perché no? Cos'avevo da perdere? “Certo, mi farebbe piacere” E così, l'avevo seguita fino a casa sua. Aveva un appartamento piccolo, da studente, ma in ordine. La sala era anche la cucina, dopo di quella c'era da una parte la stanza da letto e dall'altra il bagno. Pochi mobili, sulle pareti i poster di film erano incorniciati e la tv stava appoggiata sopra una cassa di legno chiusa con un lucchetto. “Fammi indovinare, adori Pulp Fiction” “Tu no?” “Diciamo che non è tra i miei preferiti” “Quindi non ti andrebbe di guardarlo?” “Pensavo fossimo qui per Twin Peaks” “Era un test, per vedere se stavi attento” Che originalità. Mi aveva di nuovo preso la mano, mi aveva fatto sedere sul divano di fronte alla televisione e poi si era girata per andare ad inserire il dvd nel lettore. Indossava delle calze scure e delle mutandine bianche di pizzo. Lo so perché si era chinata esattamente davanti a me, mostrandomi ciò che si nascondeva sotto una minigonna di jeans scura. Si era girata, ma io non avevo distolto lo sguardo. Era rimasta a fissarmi per un attimo, poi aveva spento tutte le lampade tranne una che lasciava una calda luce fievole e si era avvicinata al divano. “Dai fammi spazio” Stavo guardando Twin Peaks a casa di una sconosciuta. C'era un che di ironico in tutto questo. Mentre Badalamenti stava suonando le ultime note della sigla, lei si era tolta le scarpe e aveva poggiato i piedi sul divano, appoggiando le spalle sul bracciolo. Piano piano aveva fatto scivolare i piedi fino alla mia gamba, infilandoli sotto, mentre io facevo finta di non accorgermi. Nessuno dei due stava realmente seguendo cosa stesse accadendo nella tranquilla cittadina di Twin Peaks, il divano era molto più interessante. Senza offesa, Lynch. Mi era per sbaglio scivolata la mano destra su una delle sue caviglie che spuntavano da sotto la mia gamba e lei non aveva fatto una mossa. Ora la mano era scivolata più su, sempre per sbaglio, fino al polpaccio. Poi aveva superato il ginocchio, fino ad arrivare all'interno coscia. Stava ancora fissando lo schermo. Molto lentamente stavo spostano la mano verso l'interno, arrivando fino alle mutande. Il dito medio stava facendo su e giù e Ludovica aveva divaricato un po' le gambe. Sentivo il cuore battere forte e la testa farsi pesante, non ragionavo più. Il ricordo confuso di calze strappate, indumenti volavano in ogni direzione mentre ci scambiavamo baci, a volte lunghi e appassionati, a volte brevi e sfuggenti. Ora se ne stava nuda alla finestra, a fumare una sigaretta. “Sicuro che non ne vuoi una?” “Sì, sono sicuro, grazie” “Va bene... Sono le nove, se vuoi ordiniamo una pizza per cena” “Penso che andrò a casa a cenare” Si era bloccata, guardandomi mentre la sigaretta si fumava da sola fuori dalla finestra, un piede sopra l'altro. “Ma come? Neanche se te la offro?” Non è una cosa che può funzionare questa, né per me, tantomeno per te. “No, mi spiace, ho... Delle cose da fare” Continuava a fissarmi con sguardo perso. Alla fine si era girata verso la finestra, fumando l'ultimo centimetro di sigaretta. Mi ero rivestito e uscito da casa sua, avviandomi verso la macchina. Il cellulare aveva vibrato, era un messaggio, diceva: “Fra', sono Maria... Sono in città per qualche giorno e mi chiedevo se ti andasse di prendere un caffè insieme”.

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Originally wrote in 2017-05-31T01:02:00.001+02:00