Qualche riflessione sui dispositivi digitali – Seconda Parte
in un tentativo di “buoni propositi per il nuovo anno”, ho deciso di pubblicare a puntate una cosa che avevo scritto qualche anno fa sui dispositivi digitali: per “dispositivo” non intendo necessariamente un pezzo di hardware, ma un “concatenamento” di hardware e software che in qualche modo ci “porta a fare cose” in maniera performativa. Ci apre delle porte, ci porta da alcune parti, ce ne chiude altre, anche nella misura in cui noi il dispositivo non lo possediamo mai interamente. Questa è la seconda parte.
(2.0) Il paragone più immediato con il tipo di controllo morale esercitato dai dispositivi digitali, è quello con la società dello spettacolo descritta da Guy Debord. Benché l’autore francese abbia prodotto numerose iterazioni della definizione di spettacolo (alcune, va detto, piuttosto criptiche e contraddittorie), si può concordare su alcune questioni di fondo. A prima vista, il concetto di “società dello spettacolo” è stato in passato ridotto esclusivamente all’ambito massmediatico con un forte riferimento alla “tirannia” dei mezzi di comunicazione in generale – e in particolare della televisione. Questo però rappresenta soltanto un lato marginale del tema che Debord cerca di affrontare nel suo sforzo teorico: tale aspetto dello “spettacolo” era, almeno fino a tutti gli anni 90, “la sua manifestazione sociale più opprimente” (SdS, Par. 24), ma costituisce solo il lato apparente dello spettacolo, che va invece inteso come una specifica forma che l’alienazione prende nel mondo contemporaneo. Debord precisa che “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (SdS ¶ 4). Decisivo appare in questo discorso il ruolo dell’immagine: lo spettacolo, depurato da una visione meramente superficiale, si presenta come il tipo di relazioni interpersonali costruito a partire dalle immagini, in cui la contemplazione passiva di queste ultime soppianta il vivere e la capacità di determinare gli eventi in prima persona. Tutto il discorso debordiano è in realtà una rivisitazione del tema dell’alienazione – tema che eredita dalla tradizione hegeliana e marxista. La visione che Debord ha della società dello spettacolo muove da una critica della vita quotidiana, mostrandone i caratteri di impoverimento dell’esperienza, della sua disgregazione in ambiti sempre più separati con la perdita di ogni aspetto unitario della società. L’alienazione, in questo senso, va ad assumere una caratterizzazione nuova rispetto al primo stadio della sua evoluzione storica, descritto da Marx: se nella filosofia tedesca tra sette e ottocento essa era determinata da una degradazione dell’essere in avere da parte dei soggetti, con l’ascesa dello spettacolo abbiamo uno slittamento generalizzato, che passa dal semplice avere all’apparire. In una realtà che si mostra frammentata e alienata, lo spettacolo fornisce una forma di ricomposizione degli aspetti separati, una soluzione virtuale alla scomposizione del soggetto, tutta basata sul piano dell’immagine. Nel primo capitolo de La Società dello Spettacolo, intitolato, quasi emblematicamente, “La separazione compiuta” Debord scrive: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» (SdS ¶ 1): è proprio lo spettacolo il corso comune, l’insieme di rappresentazioni indipendenti in cui si ritrova tutto quello che manca alla vita. Un esempio lampante è dato dai personaggi famosi, attori o uomini politici , che vanno a rappresentare quell’insieme di qualità umane e di godimento della vita che è assente dalla vita effettiva di tutti, imprigionata in ruoli miseri. Lo spettacolo, quindi, riunisce gli individui separati, tra loro e da loro stessi, ma lo fa anche in quanto essi sono separati e affinché restino separati (SdS ¶ 29). Lo spettacolo, come rapporto sociale tra soggetti mediato dalle immagini, dà vita a un linguaggio comune, a una comune rappresentazione, di una parte del mondo davanti al mondo stesso, e che si rivela superiore. La comunicazione che si instaura è del tutto a senso unico, unilaterale: lo spettacolo e chi ne sfrutta efficacemente le potenzialità, si accaparra tutta l’attenzione degli spettatori, in modo da rimanere l’unico a parlare, mentre i singoli soggetti, gli “atomi sociali”, non possono che ascoltare. Il messaggio che si impone è essenzialmente uno solo: l’ininterrotta giustificazione della società esistente, il monologo elogiativo del potere che giustifica se stesso. La facilità con cui il messaggio autoassolutorio sulla “sola via possibile” trova risonanza è disarmante, ma è determinata da un argomento molto semplice: per Debord, se è soltanto lo spettacolo a poter parlare, se è lui il padrone del linguaggio, non sono concesse repliche e dunque “non c’è alternativa”. Di conseguenza, il presupposto dello spettacolo è nello stesso tempo il suo risultato principale: ossia l’isolamento, la passività della contemplazione, «il contrario del dialogo» (SdS ¶ 18), con l’individuo che è da parte sua ridotto al silenzio, e non ha come altra destinazione che ammirare, contemplare le immagini che sono state scelte per lui. Conseguenza dello spettacolo è appunto la passività, che porta a incarnare esclusivamente l’atteggiamento del pubblico, di chi sta a guardare e non interviene, ponendosi come nient’altro che consumatori di immagini: lo spettacolo è «il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna» (SdS ¶ 13). Tutto viene relegato alla sfera delle esigenze spettacolari, e la falsificazione della realtà rivela così tutta la sua forza, al punto che Debord, richiamandosi a Hegel, arriva a invertire la sua famosa affermazione, sostenendo che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (SdS ¶ 9). La menzogna si pone come il fulcro di ogni potere, il suo strumento per governare, e lo spettacolo da questo punto di vista è il potere più sviluppato, quindi il più menzognero.