sleepingcreep

in un tentativo di “buoni propositi per il nuovo anno”, ho deciso di pubblicare a puntate una cosa che avevo scritto qualche anno fa sui dispositivi digitali: per “dispositivo” non intendo necessariamente un pezzo di hardware, ma un “concatenamento” di hardware e software che in qualche modo ci “porta a fare cose” in maniera performativa. Ci apre delle porte, ci porta da alcune parti, ce ne chiude altre, anche nella misura in cui noi il dispositivo non lo possediamo mai interamente. Questa è la seconda parte.

(2.0) Il paragone più immediato con il tipo di controllo morale esercitato dai dispositivi digitali, è quello con la società dello spettacolo descritta da Guy Debord. Benché l’autore francese abbia prodotto numerose iterazioni della definizione di spettacolo (alcune, va detto, piuttosto criptiche e contraddittorie), si può concordare su alcune questioni di fondo. A prima vista, il concetto di “società dello spettacolo” è stato in passato ridotto esclusivamente all’ambito massmediatico con un forte riferimento alla “tirannia” dei mezzi di comunicazione in generale – e in particolare della televisione. Questo però rappresenta soltanto un lato marginale del tema che Debord cerca di affrontare nel suo sforzo teorico: tale aspetto dello “spettacolo” era, almeno fino a tutti gli anni 90, “la sua manifestazione sociale più opprimente” (SdS, Par. 24), ma costituisce solo il lato apparente dello spettacolo, che va invece inteso come una specifica forma che l’alienazione prende nel mondo contemporaneo. Debord precisa che “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (SdS ¶ 4). Decisivo appare in questo discorso il ruolo dell’immagine: lo spettacolo, depurato da una visione meramente superficiale, si presenta come il tipo di relazioni interpersonali costruito a partire dalle immagini, in cui la contemplazione passiva di queste ultime soppianta il vivere e la capacità di determinare gli eventi in prima persona. Tutto il discorso debordiano è in realtà una rivisitazione del tema dell’alienazione – tema che eredita dalla tradizione hegeliana e marxista. La visione che Debord ha della società dello spettacolo muove da una critica della vita quotidiana, mostrandone i caratteri di impoverimento dell’esperienza, della sua disgregazione in ambiti sempre più separati con la perdita di ogni aspetto unitario della società. L’alienazione, in questo senso, va ad assumere una caratterizzazione nuova rispetto al primo stadio della sua evoluzione storica, descritto da Marx: se nella filosofia tedesca tra sette e ottocento essa era determinata da una degradazione dell’essere in avere da parte dei soggetti, con l’ascesa dello spettacolo abbiamo uno slittamento generalizzato, che passa dal semplice avere all’apparire. In una realtà che si mostra frammentata e alienata, lo spettacolo fornisce una forma di ricomposizione degli aspetti separati, una soluzione virtuale alla scomposizione del soggetto, tutta basata sul piano dell’immagine. Nel primo capitolo de La Società dello Spettacolo, intitolato, quasi emblematicamente, “La separazione compiuta” Debord scrive: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» (SdS ¶ 1): è proprio lo spettacolo il corso comune, l’insieme di rappresentazioni indipendenti in cui si ritrova tutto quello che manca alla vita. Un esempio lampante è dato dai personaggi famosi, attori o uomini politici , che vanno a rappresentare quell’insieme di qualità umane e di godimento della vita che è assente dalla vita effettiva di tutti, imprigionata in ruoli miseri. Lo spettacolo, quindi, riunisce gli individui separati, tra loro e da loro stessi, ma lo fa anche in quanto essi sono separati e affinché restino separati (SdS ¶ 29). Lo spettacolo, come rapporto sociale tra soggetti mediato dalle immagini, dà vita a un linguaggio comune, a una comune rappresentazione, di una parte del mondo davanti al mondo stesso, e che si rivela superiore. La comunicazione che si instaura è del tutto a senso unico, unilaterale: lo spettacolo e chi ne sfrutta efficacemente le potenzialità, si accaparra tutta l’attenzione degli spettatori, in modo da rimanere l’unico a parlare, mentre i singoli soggetti, gli “atomi sociali”, non possono che ascoltare. Il messaggio che si impone è essenzialmente uno solo: l’ininterrotta giustificazione della società esistente, il monologo elogiativo del potere che giustifica se stesso. La facilità con cui il messaggio autoassolutorio sulla “sola via possibile” trova risonanza è disarmante, ma è determinata da un argomento molto semplice: per Debord, se è soltanto lo spettacolo a poter parlare, se è lui il padrone del linguaggio, non sono concesse repliche e dunque “non c’è alternativa”. Di conseguenza, il presupposto dello spettacolo è nello stesso tempo il suo risultato principale: ossia l’isolamento, la passività della contemplazione, «il contrario del dialogo» (SdS ¶ 18), con l’individuo che è da parte sua ridotto al silenzio, e non ha come altra destinazione che ammirare, contemplare le immagini che sono state scelte per lui. Conseguenza dello spettacolo è appunto la passività, che porta a incarnare esclusivamente l’atteggiamento del pubblico, di chi sta a guardare e non interviene, ponendosi come nient’altro che consumatori di immagini: lo spettacolo è «il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna» (SdS ¶ 13). Tutto viene relegato alla sfera delle esigenze spettacolari, e la falsificazione della realtà rivela così tutta la sua forza, al punto che Debord, richiamandosi a Hegel, arriva a invertire la sua famosa affermazione, sostenendo che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (SdS ¶ 9). La menzogna si pone come il fulcro di ogni potere, il suo strumento per governare, e lo spettacolo da questo punto di vista è il potere più sviluppato, quindi il più menzognero.

in un tentativo di “buoni propositi per il nuovo anno”, ho deciso di pubblicare a puntate una cosa che avevo scritto qualche anno fa sui dispositivi digitali: per “dispositivo” non intendo necessariamente un pezzo di hardware, ma un “concatenamento” di hardware e software che in qualche modo ci “porta a fare cose” in maniera performativa. Ci apre delle porte, ci porta da alcune parti, ce ne chiude altre, anche nella misura in cui noi il dispositivo non lo possediamo mai interamente. Questa è la prima parte.

(1.0) I dispositivi digitali sono il tentativo di produrre un soggetto politico di nuova natura: la postmodernità ci consegna una forma di relazione del potere che non è più quella del suddito né del cittadino, ma quella dell’utente. Ci sono notevoli differenze tra queste tre figure, ma è importante notare che non si tratta di momenti successivi e contrapposti, di figure che scompaiono nel tempo e si sostituiscono l’una all’altra: il cittadino non sostituisce il suddito e l’utente non soppianta il cittadino, ma si integrano reciprocamente. Più che succedersi cronologicamente, evolvono e si palesano divenendo in maniera progressiva la forma prevalente di assoggettamento, instaurando un certo rapporto con il potere e con la vita. Cercando di semplificare, possiamo dire che il suddito è il soggetto del potere sovrano, obbedisce a un potere che governa sulla sua vita, che lo lascia vivere e lo obbliga a morire (in guerra, per esempio), su di lui il potere è esercitato senza che abbia un vero e proprio ruolo attivo; il cittadino, invece, è il soggetto del potere governamentale, creato a partire dalla dichiarazione dei suoi diritti – che è un modo particolare di dire anche come deve vivere perché sia considerato un cittadino. Il cittadino è sottoposto a un potere che governa e decide della sua vita, un potere che lo obbliga a vivere, ma lo lascia morire. Il cittadino è un soggetto attivo, che partecipa alla rete del potere: la cittadinanza non identifica una generica soggezione ad un’autorità regale o a un determinato sistema di leggi; essa nomina il nuovo statuto della vita come origine e fondamento della sovranità. L’asse sul quale si muove la differenza tra suddito e cittadino è quindi quello dei diritti e sulle finalità del potere costituito, di come si esercitano sulla vita del soggetto e del grado di decisione che quest’ultimo ha sul proprio essere biologico. La differenza tra cittadino e utente sta proprio nel totale “mettere da parte” la questione biologica, i suoi diritti di cittadino e “di nascita”, per concentrarsi sulla progressiva smaterializzazione dei rapporti statuali: l’utente non ha patria, perché l’utente non ha uno spazio pubblico nel quale riconoscersi. L’utente è definito dalla sua capacità e volontà di fruire di una serie di dispositivi (che si identificano come “servizi”), che gli vengono messi a disposizione da una serie di soggetti diversi: le piattaforme informatiche, le corproration, le aziende, persino lo Stato e le istituzioni. Tutti questi attori erogano dei servizi, nella contemporaneità: l’utente non è un affiliato di questi attori, non gli giura né gli deve fedeltà e può attraversare e abitare queste istituzioni senza per questo viverle in senso pieno – eppure la sua identità viene formata e definita principalmente attraverso il loro utilizzo. Del resto l’utente-in-quanto-utente è definito primariamente dall’uso che fa di qualcosa e non ha un contenuto proprio: non è definito dal modo in cui fa uso di qualcosa, ma solo dal suo avere accesso a un determinato dispositivo/servizio.

(1.1) È interessante, a questo livello, cercare di fare un parallelo tra l’usum definito dalla regola monastica nel medioevo e l’uso che l’utente fa dei dispositivi digitali. Usum è un termine che entra nel linguaggio filosofico e giuridico solo nel tardo medioevo, nell'ambito delle regole monastiche, come quella benedettina: in sostanza, l'usum definisce la regola, il monaco appartiene a un ordine proprio perché usa comportarsi alla maniera di quella regola. Con l'usum le regole definivano il rapporto tra i monaci e il mondo circostante: l'usum è quindi uno specifico modo di rapportarsi al mondo attraverso cui la regola crea uno spazio in cui regola e la forma-di-vita coincidono, in cui cioè l’adesione alla regola crea lo spazio del monastero e definisce la vita stessa del monaco. In una strana evoluzione, il dispositivo digitale è quel particolare dispositivo – nel senso di insieme di disposizioni che mira a creare uno spazio virtuale (nel senso stretto di spazio potenziale) che agisce sulla nuda vita dell’utente, che però la rende di fatto superflua: rimaniamo utenti di un servizio anche dopo che la nostra vita è terminata, tutt’al più diventiamo utenti “inattivi”. I più grandi e influenti tra i dispositivi digitali contemporanei, i Social Network, stanno da anni dibattendo se sia il caso o meno, e a che livello, di eliminare dai propri database le informazioni relative agli utenti deceduti, senza che fino a oggi si sia arrivati a una decisione socialmente condivisa. Se dunque l'utente monastico è una parte attiva che adotta la regola monastica e ne fa parte, l'utente digitale si adatta al dispositivo, ne segue le regole e – pur senza parteciparvi con trasporto emotivo – ne viene definito, spesso senza neanche essere del tutto consapevole del fatto che ne sta venendo in qualche modo formato e trasformato.

Qualche giorno fa ho scritto alcune riflessioni – se vogliamo, piuttosto comuni e veloci – su cosa sono stati i social negli ultimi quindici anni (più o meno), come si sono evoluti da strumento di comunicazione e interazione one-to-one a veri e propri media one-to-many, in un corso della storia in generale, per miliardi di persone, è andato in una direzione ben precisa, pur avendo creato tanti distinguo e tanti rivoli laterali che hanno preso direzioni diverse (penso a #Mastodon e al #Fediverse).

Questo corso storico è stato determinato essenzialmente dalla necessità di fare profitto di queste aziende (cosa che, all'interno di certi limiti, non reputo scandalosa né criminale) e dal fatto che questo profitto dovesse essere garantito partendo da una gratuità di base del servizio (in modo da guadagnare la base utenti più alta possibile). In breve, il modello di business che si è imposto è stato quello basato sull'advertising, ma era un modello che aveva numerosi limiti. Limiti che, in larga misura, possiamo vedere esposti in questi ultimi mesi, nei quali molti player stanno rivedendo i loro piani (su tutti, Meta e Twitter), rendendo palese che il detto modello sembra scricchiolare.

Follow the money

Cosa ci sarà stato dopo l'advertising?

Per capire cosa sarà venuto dopo i social, è essenziale concentrarsi sul modello di business, perché senza un'alternativa sostenibile a questo modello di business, un'alternativa realistica si può immaginare difficilmente.

Questo non vuol dire che, senza un'alternativa alla pubblicità come fonte di sostentamento, i social scompariranno, ovviamente, ma che rischiano di vedere seriamente depotenziato il loro peso culturale e la loro egemonia nello spazio mediatico: avere meno entrate vuol dire avere meno soldi per fare investimenti su nuove funzionalità (che sono quelle che tengono gli utenti “attivi” o ne attirano di nuovi) e, contemporaneamente, avere meno persone dedicate a gestire il lavoro quotidiano (moderazione di contenuti, manutenzione del codice, etc.).

Un breve sguardo al disastro creato da Elon Musk in poche settimane con Twitter dovrebbe darci un'idea di cosa vuol dire avere meno investimenti su un social, peraltro relativamente piccolo rispetto a quelli gestiti da Meta (Facebook, Instagram, Whatsapp).

In una fase di enorme incertezza economica come quella che sta vivendo il mondo alla fine del 2022, con scenari potenzialmente ancora più foschi, è difficile dire da che parte ci si girerà per far quadrare i bilanci: come spesso accade, e come è già accaduto alla fine della crisi del 2008, cioè quando si è affermato questo modello qui, i grandi player si muoveranno tutti in ordine sparso, finché non emergerà un modello dominante, ma sostanzialmente – almeno all'inizio – tutti cercheranno di diversificare, non dipendendo da un unico modo di fare soldi – cosa che era stupida già oggi, ma vabbè, i soldi che arrivavano erano veramente tanti.

Per quello che possiamo vedere da qui, è possibile che ci si orienti su cinque direttrici:

  1. Piattaforme freemium: come sta già avvenendo per Twitter, è possibile che i provider comincino a chiedere pagamenti ricorrenti per funzioni avanzate o esclusive. Quanto avvenuto su Twitter, ovviamente, è stato gestito in maniera piuttosto confusa, ma non è escluso che Meta decida a un certo punto di aumentare la visibilità dei contenuti per gli utenti che vogliano sottoscrivere un piano di abbonamento che includa un sistema di verifica. In sostanza, l'idea non è sbagliata in sé, ma certamente Musk l'ha pensata, implementata e comunicata in modo piuttosto scriteriato. Il limite di questo approccio è sempre sul quanti utenti dovrebbere pagare (e quanto dovrebbero pagare) perché il sistema sia profittevole, considerando che il mantenimento di un'utenza costa certamente più di 8 dollari al mese.
  2. Servizi in abbonamento: accanto alla possibilità di pagare un abbonamento per avere un account freemium, c'è la possibilità di sviluppare servizi specifici in abbonamento, separati rispetto al social in sé, che rappresentino un business collaterale a quello del social in sé per sé. È un po' quello che fa Amazon con Amazon Prime Gaming: sottoscrivendo un abbonamento mensile, ricevi alcuni videogame gratuitamente ogni mese, da un catalogo anche piuttosto vasto, e in questo modo sostieni il business di Twitch (la piattaforma per streaming di contenuti di Bezos).
  3. Microtransazioni: un'ulteriore possibilità è quella di offrire prodotti digitali di personalizzazione o di scambio all'interno delle piattaforme stesse. Si tratta di un modello molto usato nei videogame di grande successo (come Fortnite o nei giochi sportivi come NBA2K ) che consente di mantenere il servizio di base gratuito, spingendo i consumi di beni digitali (set di emoticon, skin per i propri profili, etc.).
  4. Servizi su commissione: è possibile anche che i provider si concentrino nell'ottenere parte del guadagno dei prodotti che aiutano a vendere, o attraverso il proprio advertising o attraverso i servizi di shop integrati. Pensiamo al marketplace di Facebook: anziché un servizio di base gratuito, potrei decidere di cedere il 20% del mio guadagno perché Facebook faccia di tutto per trovarmi un acquirente, gestendo in questo modo la transazione. Se questa cosa lato utente ha presentato storicamente molti problemi e alcuni test in questo senso sono andati piuttosto male, non è detto che questo sistema non possa estendersi a un vero a proprio sistema di affiliation basato sull'advertising online, dove Facebook pubblicizza prodotti di un ecommerce, trattenendo una percentuale su tutti gli acquisti.
  5. Partnership: un'ultima direttrice possibile è rappresentata dalla possibilità per i grandi player di collaborare con altre aziende per proporre esperienze d'uso dei propri sistemi che siano esclusive per i loro clienti (o per i loro programmi fedeltà) o che generino contenuti sponsorizzati disponibili a tutta l'utenza. Per una settimana, vi potrà capitare, anziché di fare “Like” alle foto di zia Concetta su Instagram, di “reagire” con la vostra scarpa Adidas preferita.

Dai Walled garden alle Wallet trap?

Al netto di quale sarà la soluzione dominante a uscire vincente da questo periodo di interregno, va detto che a vario titolo quasi tutte le piattaforme hanno già implementato una parte o tutte queste alternative, anche senza dare particolare rilevanza a nessuna di esse – specie per non renderle invasive e invise all'utenza, il che non è mai facile, specie in ambienti così frequentati.

Va aggiunto, inoltre, che ci vorrebbe un ripensamento profondo delle meccaniche, delle procedure interne e delle interfacce delle piattaforme perché questi stream (uno solo o tutti insieme) sostituiscano l'enorme quantità di danaro che oggi arriva con l'advertising, ma anche solo per colmare le perdite che stanno subendo oggi stesso.

Rimane la domanda sul perché un'azienda o un content creator debba investire denaro per ottenere più visibilità su uno spazio che sta comunque perdendo utenza, o nel quale comunque gli utenti stanno perdendo interesse. Spazio nel quale, tra l'altro, soprattutto i brand hanno già investito milioni di dollari in advertising fino a ieri, oltre che tempo ed energie per produrre contenuti e generare engagement.

Infine, i social network per come sono oggi – prendendo a modello i principali, cioè Facebook, Instagram, TikTok e Twitter – sono strutturalmente pensati per essere piattaforme nelle quali l'interazione tra normali utenti ha ancora (malgrado le importanti trasformazioni descritte nello scorso articolo) un focus importante: rendere questi spazi ancora più saturi di contenuti professionali o di marketing rischierebbe seriamente di azzerare l'interesse degli utenti.

Cosa succederà? Ovviamente nessuno ha la sfera di cristallo o un Multivac a portata di mano, ma è probabile che molto di quanto avverrà, stia in realtà già avvenendo tra le generazioni più giovani, in particolare la generazione alfa, con il graduale spostamento dalle piattaforme di social networking alle app di intrattenimento definitivamente one-to-many, che lasciano l'interazione tra utenti come aspetto funzionale ma non principale. Ma di questo cercheremo di parlare in un prossimo pezzo, sempre guardando al futuro di spalle.

Mi è sempre piaciuto il futuro anteriore, come tempo verbale. E non solo perché una celebre rivista si chiamò così, tanto tanto tempo fa. Il futuro anteriore mi è sempre piaciuto perché in qualche modo guarda alle cose come dovrebbero essere viste adesso per essere in futuro, ma allo stesso tempo può comunicare un'incertezza, un'ipotesi su come le cose potrebbero essere andate.

Citando biecamente, da Wikipedia:

è una forma verbale che indica eventi, esperienze e fatti considerati come compiuti, ma che si trovano nell'ambito dell'avvenire (domani a quest'ora Marina sarà già andata via) oppure in quello dell'incertezza (Marina non c'è, sarà andata al cinema).

Pensare al futuro anteriore è quindi quasi sempre un esercizio prospettico tra ciò che c'è e ciò che ci potrebbe essere. Quasi sempre può rivelarsi un esercizio interessante.

Prospettive sempre nuove

E quindi, cosa saranno stati i Social, in un doppio senso, cioè nell'ipotesi di un futuro (o più di uno) di altro tipo oppure nell'ipotesi di ciò che è stato già?

Saranno stati i social a distruggere lo spazio pubblico?

È curioso che siano delle reti definite sociali ad aver contribuito ad alterare e spesso a distruggere l'elemento che sta alla base delle società contemporanee, ovvero lo spazio pubblico. Questo è avvenuto per motivi e con modalità diverse, ma in generale è derivato da alcune caratteristiche comuni di tutte le grandi piattaforme:

  • si tratta, a tutti gli effetti, di piattaforme private, nelle quali è sempre stato molto semplice parlare ai propri “amici” e “follower”, il che ha consentito (e spesso spinto) gli utenti a creare delle echo chamber che hanno rafforzato le proprie idee, privilegiando quelle meno compatibili con una conversazione civile
  • d'altra parte, la spinta verso il profitto pubblicitario ha reso conveniente esacerbare alcuni comportamenti e interessi negli utenti, sommando all'aspetto tecnico (le piattaforme sono strutturate per bolle progressive), quello dei contenuti “suggeriti”
  • i primi due punti si sono saldati, poi, con la necessità di mantenere alta la retention degli utenti, cioè il fatto che questi continuassero a usare sempre le loro app, proponendogli contenuti sempre nuovi e sempre più “interessanti”
  • la spinta enorme sulla mancanza di frizione (e dunque di conoscenza) nei processi di onboarding di persone nuove ha dato l'impressione che non fosse necessario apprendere alcunché, creando una sorta di continuità psicologica tra il proprio ambiente privato/intimo e la rete

Di fatto, oggi lo scopo per il quale si usano social come Facebook, Twitter, Instagram o TikTok non è più quello originario, o almeno non è più quello che ha spinto un'intera generazione, a fine anni 2000, a entrare in questo mondo.

L'idea originale era di connettersi e interagire con cerchie di persone, più o meno conosciute, in uno spazio online condiviso: il caso d'uso più diffuso, a cavallo tra anni zero e anni dieci, era quello di rintracciare vecchi amici o mantenersi in contatto con persone lontane, magari incontrate una sola volta: quello che è riuscito a farlo meglio, in quel periodo, è stato Facebook, ovviamente, che è diventato in un certo momento una rappresentazione 1:1 della società.

Per la sua architettura e per quello che era all'epoca, il social ha favorito il proliferare delle echo chambers e ha contribuito ad aumentare una percezione di finta privacy: questa sensazione ha favorito negli utenti la percezione che tutto il web fosse una sorta di spazio privato esteso, cancellando o ottundendo la sensazione di essere in uno spazio pubblico. Ovviamente questo era anche favorito dalla pervasività della connessione internet (sono gli stessi anni in cui cominciano a diffondersi gli smartphone) e a una generale sensazione di anonimato, da sempre uno delle principali caratteristiche della comunicazione online.

In breve, per un periodo piuttosto lungo, ben lungi dal rappresentare un altro luogo della realtà, i social hanno cominciato a rappresentare un layer sopra la realtà materiale nel quale succedevano cose, una vera e propria realtà aumentata che ha però eroso lo spazio pubblico. Il punto è che lo spazio pubblico, essendo fatto di discorsi e significanti, è sempre uno spazio virtuale, pertanto se i discorsi e i significanti egemonici si spostano sui social, e i social diventano spazi privati, alla lunga è la società intera che ne risente.

E quindi, hanno stati i social?

Difficile rispondere in maniera netta su quale sia stata la responsabilità dei social network nel processo a cui stiamo assistendo tutt'ora. Nei fatti, molte analisi finora si sono concentrate nel leggere il dato psicologico e sociologico del fenomeno, proponendo volta per volta cause diverse o identificando colpevoli specifici (es. “gli algoritmi”). In realtà, ciò che credo sia mancata è un'analisi organologica: interpretare, cioè, gli strumenti tecnici (e, in questo caso, i social) come se fossero organi esterni al nostro corpo ma che svolgono per noi una funzione di ampliamento di specifiche facoltà: non soltanto un binocolo estende la nostra vista, o un computer estende la nostra capacità di calcolo, ma sono dei veri e propri organi, che funzionano in un dato modo e interagiscono con il resto del nostro corpo, spesso modificandolo – più o meno come i polmoni influenzano il cuore o l'intestino influenza il fegato. Bernard Stiegler ha dedicato a questo concetto un'ampia trattazione nel corso della sua opera, che sarebbe forse venuto il momento di riscoprire, per adattarla allo studio delle piattaforme digitali.

Conducendo un'analisi organologica, infatti, sarebbe facile notare come i social network si siano costituiti come una propaggine della nostra interazione privata con i gruppi umani, contribuendo a estendere oltre ogni limite precedente la nostra sfera privata. L'assenza di una reale moderazione dei contenuti o di regole condivise e di etichetta stringenti (che erano invece presenti in altre esperienze online precedenti) oltre che l'enorme facilità di accesso garantita dalle nuove piattaforme, ha contribuito a rendere questi nuovi organi di comunicazione sempre più rilevanti, al punto da risultare in una vera e propria interfaccia obbligata, attraverso la quale si esperiva la realtà.

Tutto ciò sta progressivamente morendo e cambiando, non tanto perché i social non esistano più, ma perché stanno perdendo la loro centralità, in favore di piattaforme che rendono quasi del tutto superfluo il concetto di relazione (come TikTok) oppure nelle quali le attività primarie non sono quelle dello scambio di contenuti delle proprie vite private (come i videogame e, per certi versi, le esperienze di metaverso, ma di certo non il Metaverse di Zuckerberg). Di questo, però è il caso di parlare in un altro post, che comparirà più avanti.

Cosa succederà in futuro? I fili e le tendenze del tempo a venire sono qui, toccherà seguirli per fare ipotesi e provare a ragionare retrospettivamente su ciò che potrebbe essere stato. Di nuovo, al futuro anteriore. Ma ne riparleremo a breve.

Qualche riflessione destrutturata dopo un mesetto su #Mastodon e #LivelloSegreto.

  1. Mastodon è un sistema, per molti versi, diverso da Twitter e da tutto ciò a cui siamo abituati in fatto di social network: non è un'unica struttura centralizzata dove “trovi tutti / puoi fare tutto”. Mastodon è composto di istanze, che poi sono server singoli, e non di un'unica infrastruttura centrale: per chi c'è dentro è facile capirlo, ma per chi sta fuori (e io ero tra questi) è tutto molto strano. Spesso e volentieri si fa il paragone con l'email ma, sul serio, chi diavolo sa davvero come funziona l'email? Non so se ci sia un paragone più efficace, ma io mi riferisco più spesso alle piattaforme di blogging di una volta: potevo essere sleepingcreep su Splinder e Federico su blogspot, avevo account diversi che però potevano essere connessi tra loro con un link o seguiti simultaneamente con un feed. è un paragone da smanettone e da vecchiaccio? Sì, ma purtroppo non ne ho di più efficaci. Se volete, è come le linee della metropolitana di una grande città: ogni stazione ha una sua vita e persino una sua linea, ma in linea di principio puoi muoverti da una linea all'altra e raggiungere qualsiasi punto – solo che su Mastodon lo fai alla velocità della fibra.

  2. Il punto è che non ti serve realmente capire la filosofia di base per usare fruttuosamente il sistema. Occorre piuttosto spiegare che – a prescindere da quale server scegli – puoi seguire più o meno chi vuoi, a patto che lo trovi.

  3. Questo ci porta a parlare del perché usare Mastodon: Twitter altri social network nel tempo si sono evoluti come strumenti di comunicazione a sé stanti, divenendo dei walled garden (ma anche walled-foresta-degli-orrori, per quanto mi riguarda) e replicando quelle meccaniche one-to-many tipiche della televisione. Sfruttando l'illusione dell'orizzontalità, in realtà tu hai account con milioni di follower che, però poi alla fine non puoi contattare: di nuovo, one-to-many con l'illusione del one-to-one. Mastodon, su questo, tende a rimanere uno strumento di interazione ovvero spinge maggiormente sul tasto del one-to-one, un po' perché lo eredita da Twitter (che è il social rimasto più one-to-one tra gli Over The Top), un po' perché l'architettura federata rende scomoda la creazione di fanbase gargantuesche.

  4. Scegliere l'istanza/server giusto è fondamentale, per evitare di risultare spaesati, specie all'inizio. Perciò, specie all'inizio, è importante evitare il più possibile di concentrarsi sulle istanze più popolari e partire da quelle più prossime ai propri interessi specifici: in Italia, Mastodon.uno, per esempio, è spesso presentata (complice una certa sciatteria da parte loro) come “L'Istanza Italiana” quando al massimo è “Una Istanza Italiana”. Ma al netto di posizioni personali sul gossip da nerd, credo che sia importante capire che è meglio per tutti trovare uno spazio piccolo nel quale si fanno i primi passi, per poi aprirsi al mondo. Un po' come a scuola: cominci a farti gli amici in classe, poi passi alle altre classi, poi agli altri istituti.

  5. Al netto di quale istanza scegli, malgrado la diaspora recente da Twitter, il sistema è ancora frequentato da una percentuale bassa di “casual users”, il che ti aiuta a entrare in conversazioni – ancora, per ora – civili e costruttive, in grado di farti scoprire topic e costruire connessioni interessanti, anche su istanze molto popolate. Per ora, ancora.

  6. Sono certo che il processo di onboarding verrà ripensato per renderlo più intuitivo. Questo non è necessariamente un bene (lo scrivo per i fanatici dello “user friendly a tutti i costi”), ma allo stesso tempo non è necessariamente un male (lo scrivo per i tecnoelitaristi di ogni risma). Il futuro di questa piattaforma e del #Fediverso dipenderà da come verrà gestito – e, su una piattaforma #FOSS come Mastodon, significa “come noi tutti (programmatori, utenti e owner di istanze) cercheremo di gestirlo.

  7. Comprendere il concetto di “social federato” può essere spiazzante per diverse ragioni: siamo abituati a pensare ai social come “un sito solo” e ai diversi social come ecosistemi separati: c'è quello per le foto, quello per i testi brevi, quello per i testi lunghi, e così via. Ma non comunicano tra loro. Questa cosa col Fediverso (di cui Mastodon è una parte) è la cosa più potente. #WriteFreely è una piattaforma di blogging, ma è integrabile in qualunque app del fediverso e i suoi contenuti possono essere visti nel feed di Mastodon o di #Pixelfed (che è un'alternativa a Instagram). Questa differenza che è potentissima verrà capita? non lo so, ma è la cosa dannatamente più interessante.

  8. Personalmente, questi trenta giorni di Mastodon e di Livello Segreto sono stati i più entusiasmanti su internet da molti anni – forse da quando ho aperto il mio primo blog su splinder. Ringrazio chi mi ha aperto questo mondo (il Dottor @Knef) e chi mi ci sta accompagnando. Andrà bene? Sostituiremo Twitter con qualcosa di più aperto e sano? Non lo so, e sinceramente chi se ne freg: per ora si balla al ritmo di una musica piacevolissima. 🔚