Super Relax

La bicicletta. Per lavoro. Per svago. Per sport. Per celia.


Gli o le smartband? Suona più naturale al femminile, ma credo il maschile sia la forma esatta.
In ogni caso, ne ho avuti due: il primo, Mi Smart Band 6: dovrebbe essere la sesta iterazione, perché la precedente, quasi indistinguibile, non aveva il saturimetro.

Mi ha accompagnato, all'inizio con soddisfazione, nelle prime uscite per diletto in bicicletta: GPS per tracciare i percorsi, velocità, lunghezza di salite e discese, battiti cardiaci, risoluzione sufficiente per le notifiche del telefonino ecc., insomma il necessario per viaggiare informati. Questi sono i pro: dei contro ne parlerò a breve, avendo molti punti in comune con l'altro modello.

Poi, ho avuto, per brevissimo tempo un Mi Band 4C: una versione di fascia molto bassa, roba da una dozzina di euro con le offerte. Pro? Nessuno, a parte il costo, ma non me ne faccio niente, alla luce di quel che è successo poco dopo l'acquisto.

Entrambi i dispositivi vanno incontro a fragilità che ne compromettono l'utilizzo, anche irrimediabilmente, dopo poco o pochissimo tempo.

Lo schermo OLED del modello più lussuoso, il 6, ha iniziato ad affievolirsi già dopo circa sei mesi, diventando poi progressivamente illeggibile alla luce del sole (cosa già difficile da nuovo, anche la luminosità massima è decisamente fioca) nel corso dei mesi successivi, fino a renderne difficile l'utilizzo anche nel buio completo. Attenzione: all'epoca mi informai, non era un problema del mio esemplare, dalle numerose lamentele sembrava fosse proprio la norma per quel pannello. Il cinturino si spezzò dopo qualche tempo, ma potremmo definirlo come un problema minore, vista l'economicità dei rimpiazzi. In ogni caso, sicuramente un altro fastidio.

Per il 4C, tutto è andato storto dopo poche settimane: anche questo sembra essere un problema universale, si è spaccata la cassa all'altezza dell'attacco USB. Per chi, fortunatamente, non avesse mai avuto a che fare con questo modello, la ricarica avviene in un modo abbastanza bizzarro: parte del cinturino si sfila dall'orologio, rivelando una protuberanza da inserire in un qualsiasi ingresso USB, per la ricarica. Tempo un paio di ricariche e si è spaccato tutto, irrimediabilmente.

Oltre alle rispettive fragilità, un altro contro in comune sono le relative app, ne parlo al plurale perché sono differenti per i due modelli. Più funzionale quella del 6, molto spartana quella del 4C, entrambe poco promettenti dal lato privacy. Difficile capire dove finiscano i dati raccolti, facile immaginare cosa se ne facciano. Ho provato, così, a collegare il Mi Band 6 a Gadgetbridge, app open disponibile su F-Droid.

Niente da fare. Ho buttato tutto, perché non sapevo cosa farmene. Non so quanto siano affidabili i modelli successivi, posso immaginare non siano stati fatti grandi passi avanti lato privacy.


Non era proprio un orologio, era uno smartband Xiaomi, marca che mi ha dato solo delusioni con questi aggeggi, esperienze di cui parlerò in un altro momento.

Un sabato mattina, inforco la bici e vado a esplorare una viuzza secondaria, che credo di aver capito asfaltata fino a un certo punto, appena prima di diventare un percorso che è meglio fare a piedi. Mi ci avventuro, alla fine c'è anche una salitella breve ma intensa e, come previsto, con uno strettissimo tornante l'asfalto lascia il passo alla zona off limits. Mi avvio a rifare la strada al contrario, precisazione: non sono molto bravo coi tornanti stretti in discesa. Sono pessimo, tanto che alcuni preferisco farli scendendo alla bici, perché la sicurezza non è mai troppa.

Quella volta, invece, no: era una delle mie prime uscite e, da perfetto inesperto, non conoscevo i miei limiti, ero ancora pericolosamente spavaldo. Fatto sta che azzardo questo tornante e, non chiedetemene il come e il perché, riesco a cadere sulle spalle, in discesa. Caduta attutita dallo zaino, giro sempre con uno zainetto più o meno imbottito di rosa; nessun danno, neanche alla bici, riparto.

A qualche chilometro da casa, controllo l'orario, o è quel che tento di fare: ohibò, che fine ha fatto lo smartband, quello che vedo è un nudo polso! Intuisco si sia slacciato nella caduta, non ho voglia di tornare indietro e rifare la salita, ci tornerò la settimana prossima.

È quello che faccio e, effettivamente, ritrovo l'aggeggio nell'erba, ignaro di tutto, che ancora monitorava l'attività... una pedalata durata una settimana, come no! Lo ripulisco dall'umidità e dal terriccio, lo rimetto al polso e torno a casa, abbastanza di buonumore.


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Siamo a Valle Marina, una delle frazioni di Monte San Biagio. Una zona di campagna, senza attrazioni particolari ma dove è molto piacevole pedalare, affrontando pendenze poco impegnative (generalmente), circondati da una natura non eccessivamente antropizzata, con pochi agglomerati veri e propri di abitazioni che cedono presto il passo alle singole abitazioni.

Che si provenga da Fondi, Terracina o Monte San Biagio, l’accesso principale è sempre lo stesso: l’incrocio che dalla SS 7 Appia immette in via Macchioni, all’altezza del cimitero di Monte San Biagio. Volendo, da Terracina è possibile accedere sia da via Epitaffio, strada non asfaltata, che da via di Mezzo, 500 metri più avanti. Provenendo da Fondi, è possibile evitare la maggior parte del tratto sulla statale seguendo due percorsi: il primo, consiste nella sequenza via San Magno, via Rene, via Provinciale San Magno, viale Europa e, infine, 2,7 km di statale, fino a via Macchioni.
L’altra strada passa per le vie parallele ai binari: via della Ferrovia, via Sotto Ferrovia, via Parallela della Stazione e, infine, via Bufalari per immettersi sulla SS 7, tornare indietro di circa 300 metri e poi inserirsi in via Macchioni.
Ahinoi, questa opzione prevede possibili incontri con cani, mi è capitato di imbattermi in due maremmani: uno tranquillo e disinteressato, l’altro scappato da una recinzione e molto aggressivo, che ha tentato di aggredirmi nonostante fosse presente il proprietario, che cercava di calmarlo senza alcun risultato.

Il tratto iniziale, via Macchioni, è sostanzialmente pianeggiante, con qualche salita e discesa di lieve entità. Arrivati alla rotonda, per avvicinarci alla destinazione di oggi dobbiamo girare a sinistra, oltrepassare il ponticello della ferrovia, girare ancora a sinistra e procedere fino all’incrocio con via Chivi e seguire questa strada fino a raggiungere, appunto, via Epitaffio.

La torre dell’epitaffio è la nostra meta; vi troviamo una piccola area di ristoro con un paio di tavoli e una panchina, a pochi metri da una stradina nel bosco che fa parte della via Francigena.

Cosa portarsi dietro:
– Borraccia;
– Crema solare, si pedala lontani dall’ombra per buona parte del percorso;
– Coccodrilli o orsetti gommosi per un pizzico di dolcezza ma, prima ancora, spizzichi di carboidrati e zuccheri.

Terreno e altimetria:
Il breve tratto che ci interessa non è adatto alle bici da strada: almeno una gravel, meglio una MTB. Si pedala sulla ghiaia per buona parte del tempo, ma alcuni tratti sono abbastanza critici per la presenza di ciottoli di dimensioni importanti, uniti alla velocità sostenuta offerta gratuitamente dalle discesine pepate.
Molto facile cadere, se non si è abbastanza padroni del mezzo: solo per puro caso non son caduto più volte e, quando qualcosa mi ha detto che sarei rovinato a terra di sicuro, mi son fermato bruscamente per mettere i piedi a terra, la qual cosa è avvenuta contemporaneamente a un salto di catena.
Col senno di poi, ho rifatto quelle parti, al ritorno, spingendo a mano la bicicletta. Non sono un esperto e non ho voluto fare l’eroe.

Potenziali imprevisti, pericoli e cani aggressivi:
Niente di particolare da segnalare, oltre alle difficoltà già descritte.
Non incontrerete gruppi di ciclisti, probabilmente non ne incontrerete neanche uno, se non dopo esser tornati sulla SS 7; in ogni caso, non si è in mezzo al nulla e ci sono case abitate lungo tutto il tragitto.
Cani aggressivi non ne ho mai incontrati, anzi: fate attenzione a eventuali gatti e cani di piccola sdraiati in mezzo alla strada, intenti a godersi la tranquillità del posto.

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È una domenica sera e mi capita una consegna fuori dal centro, in una tranquilla zona di campagna attraversata da una strada principale su cui si affacciano traverse che portano a casette sparse, poggiate ai piedi della montagna. Non so se avete presente: sono quei viottoli, spesso in forte pendenza, altrettanto spesso non asfaltati, ma ricoperti di pietre irregolari, da cui spuntano polvere e vegetazione, e cemento malament posato. È proprio uno di quei viottoli e qualcosa mi dice di scendere dalla bici e spingerla fin su, per non sforzarmi troppo e non far ondeggiare troppo il contenuto dello zaino.

E in queste traverse, a mancare non sono neanche i cani, spesso di piccola taglia. Non mancano, decisamente: ne sbucano cinque o sei, per 25 kg complessivi, e mi circondano, facendo il baccano infernale che i cani di piccola taglia sanno fare. Una strana processione, con me che spingo una bici al centro e questi cani che mi odiano, sulla fiducia, a corrermi attorno, abbaiando come al più grave dei pericoli. Escono i proprietari allertati, mi vedono e cercano di richiamarli: al solito, questi cani da guardia in miniatura hanno la testa dura come il cemento della salita, richiamarli non ha alcun effetto. ANZI.

C'è anche la cliente, che mi vede arrivare con una bicicletta “muscolare” (una volta era una bicicletta e basta, oggi bisogna specificare) e si dichiara, più volte, sconvolta del fatto che l'impero dei panini e della frittura mi abbia mandato fin lì, nel buio, pedalando. La rassicuro, dicendo che non è mica la consegna più lontana che mi sia capitata; lei ancora sconvolta, ritira l'ordine e entra in casa per uscirne dopo poco. Penso sia andata a prendere qualche spicciolo per la mancia, invece chiede soltanto “allora c'è tutto?” Sì, c'è tutto e me ne vado.

Si ripete la scena di prima, coi cani urlanti che mi vorticano attorno, è la mia ultima consegna del giorno.
Il mattino dopo, trovo la bicicletta con una ruota tutta sgonfia, ho evidentemente bucato su quella salita o lungo la strada del ritorno. Si scoprirà essere una spina di dimensioni ridicole, lunga appena abbastanza da forare il copertone e aggredire la camera d'aria.


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È stato così ribattezzato, non ufficialmente, il passo Le Crocette, nel territorio di Campodimele, raggiungibile principalmente da Lenola e Fondi, sempre in provincia di Latina, in onore di Marco Pantani, idolo del ciclismo italiano (e non solo) di fine anni Novanta, la cui esistenza è terminata in maniera tragica, lasciando ancora molti interrogativi. Non è questa la sede per parlare di quegli anni particolarmente bui del ciclismo, sia a livello di atleti che dello sport in sé.
La salita gli è stata dedicata perché, per diversi anni e in via ufficiosa, se ne era parlato come di uno dei suoi percorsi di allenamento, durante le sue permanenze in Centro Italia: quella che appariva come una specie di leggenda, sembra sia stata poi confermata, in un’intervista, da Stefano Garzelli, all’epoca suo compagno di squadra e oggi direttore sportivo.

Come anticipato, il passo è raggiungibile anche da Lenola, passando per via Pozzavelli e Camposerianni: si inizia con una breve discesa per proseguire, poi, con una salita costante, con alcuni tratti abbastanza impegnativi, con pendenze a due cifre che fanno capolino per diversi metri.
Non è questo, però, il versante che ci interessa, se non facendolo in discesa: ci torneremo dopo.
La salita che interessa ai ciclisti che vogliano sentirsi partecipi, in qualche modo, della sua leggenda, inizia nel territorio di Fondi, più precisamente in zona Querce.
Si parte dal centro di Fondi, da via Arnale Rosso per poi immettersi in via Querce; inizio alternativo in via Vetrine, con immissione in via Querce all’altezza dell’incrocio di via Valle Rocco. Dopo 500 metri abbondanti, sulla sinistra appare la Chiesa di S. Antonio e, proseguendo a destra inizia la salita, moderata ma con qualche strappetto, fino all’incrocio tra via dell’Ape regina e la SP 154, in località Camposerianni, dove inizia il segmento di Strava.

La strada provinciale si presenta subito con decisione: un doppio tornante molto stretto, con pendenze attorno al 15% circa, ci introduce a quelle che saranno le pendenze tipiche della salita.
Siamo subito nella natura e nel silenzio (a dire il vero, ci eravamo già da un po’): a farci compagnia, i suoni della natura, il passaggio di altri ciclisti o podisti, qualche rara automobile; è possibile anche non incontrarne nessuna durante tutto il percorso, ma non bisogna mai distrarsi, specie percorrendo il tragitto in discesa, inebriati dalla velocità e dal sibilo del vento.
Si alternano tratti di strada esposta da un lato al sole a altri in cui l’ombra la farà da padrona, proiettata dagli alberi a entrambi i lati della strada.
Lungo l’asfalto, i tifosi hanno lasciato con le bombolette testimonianze del loro affetto per il Pirata, con delle scritte che inneggiano al suo ricordo.
Si prosegue lungo una strada povera di curve, per la maggior parte piuttosto aperte, a parte un altro paio di tornanti a U: ancora una volta, da percorrere con cautela in discesa.
Ed è proprio all’altezza dell’ultimo tornante, a 4 km dall’inizio della salita e 600 metri all’arrivo, sulla destra appare un cartello ligneo con varie indicazioni, tra cui a destra la strada sterrata che porta alla foresta di S. Arcangelo e, al suo interno, l’orto botanico, raggiungibile dopo un tratto di circa 3 km, a piedi o in mountain bike/gravel.
L’arrivo è quasi in vista, ci aspetta un ultimo tratto piuttosto intenso e ci siamo. Ad accoglierci, posata tra due alberi sempreverdi di alto fusto, la stele dedicata a Pantani (inaugurata in presenza della madre), con incisi la sua firma e la sua figura stilizzata. Nelle immediate vicinanze, sulla destra, oltrepassando una sbarra è possibile inoltrarsi in un percorso sassoso, aperto a coloro che vogliano percorrerlo a piedi o in mountain bike, conoscendo i sentieri. Da evitare, nel caso non si sia pratici della zona.

Poco distanti, una cornice per i selfie e un cartello che illustra la storia della salita, nei pressi di un incrocio che ci permette di proseguire in varie direzioni.
Partiamo da quella meno utile, per così dire: accedendo alla stradina più a destra, si percorre una strada che finisce, dopo circa 1,5 km, in una proprietà privata, quindi di scarsissima rilevanza.

La via intermedia, SP 99, funge da collegamento a via Civita Farnese, SR 82. Una bella discesa, da affrontare con cautela per i sette tornanti, più o meno aperti, che la contraddistinguono. Giunti all’incrocio con Taverna, si può proseguire verso Pico o girare a destra, in direzione Campodimele o Itri.
Scegliendo la strada a sinistra, procedendo praticamente dritti, ci si imbatte prima in un’area attrezzata per i picnic, con tavoli, braci e una rastrelliera per le biciclette. L’area verde, ahimè, non è accessibile ai disabili e a chi abbia problemi rilevanti di deambulazione: è vero, si tratta di una zona in pendenza tra alberi e rocce, ma mancano, in ogni caso, sia una rampa che una semplice successione di gradini degni di tal nome.
Proseguendo ancora dritto, si giunge fino a Lenola: nella traccia allegata, ho seguito la strada per Campodimele-Taverna, ma il modo più rapido è semplicemente quello di proseguire per Camposerianni, SP 154.
A una breve, ma intensa, salita iniziale, segue una lunga discesa (attenzione a non lasciarsi andare troppo, ci sono dei piccoli centri abitati in corrispondenza di un restringimento della carreggiata) che passa anche per loc. Madonna del Latte. Rampa finale e si è nel territorio di Lenola, di cui allego qualche foto del Santuario di Madonna del Colle e qualche panorama.

Nel caso vogliate scegliere la via più lunga, all’incrocio di passo Le Crocette potete seguire la freccia per Campodimele, proseguire in direzione Taverna e poi sempre dritti, fino all’incrocio, sulla sinistra, con l’indicazione per Lenola (diversamente, raggiungerete Pico).
In loc. Taverna inconterete un distributore di benzina, ma a noi ciclisti i motori a scoppio interessano poco: più interessanti i punti di ristoro, tra cui la trattoria/bar/b&b La Taverna, il ristorante Lo Stuzzichino, il bar/trattoria La Clessidra e la fontanella.

Cosa portarsi dietro:
– Una o più borracce, non ci sono fontanelle in zona;
– Crema solare, si pedala lontani dall’ombra per buona parte del percorso;
– Coccodrilli o orsetti gommosi per un pizzico di dolcezza ma, prima ancora, spizzichi di carboidrati e zuccheri.

Fontanelle:
Ahimé, nessuna dopo l’inizio della salita, dopo aver lasciato loc. Querce. La prima disponibile è quella di cui ho parlato, in loc. Taverna, sulla strada che porta a Campodimele, di sicuro non immediatamente raggiungibile per fare rifornimento.

Terreno e altimetria:
Come anticipato, ai due tornanti abbastanza impegnativi seguono pendenze impegnative ma umane, 7-8% con qualche strappetto attorno al 10% qua e là. Secondo Strava, il segmento in questione è lungo 4,59 km, il guadagno altimetrico è di 372 metri e la pendenza media è dell’8,1%.
L’asfalto è liscio e non presenta buche/crepe, anzi la parte iniziale è stata rifatta in tempi relativamente brevi e presenta un manto ancora molto compatto, visto il traffico in prevalenza di ciclisti.

Potenziali imprevisti, pericoli e cani aggressivi:
Mai incontrati di randagi, c’è qualche cane di piccola-media taglia in zona Querce, nelle villette che precedono la salita. Abbaiano, al massimo.
Vi capiterà di sicuro di incontrare un numero variabile di ciclisti, quasi sicuramente diversi nei giorni festivi: in caso di imprevisti, dovreste poter contare su qualche anima pia.

Variazioni del percorso:
Non ve ne sono, sostanzialmente: se vi interessa la salita Pantani, dovete accedere dalle Querce e proseguire fino in cima.

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Nella zona in cui sono nato, per il commerciante di biciclette/meccanico si usa, a sproposito, il termine ciclista: il malinteso scatta sicuro, all'esterno della mia bolla che fu. Il ciclista è quello che pedala, meglio se a livello professionale o amatoriale avanzato: sono alcuni anni che vado in bici, pochissimi purtroppo, e fatico a definirmi tale, mi sembra una definizione al di sopra del mio essere.

Torno, quindi, al generico negozio di biciclette e alla figura che lo gestisce, spesso sia venditore che meccanico. Dovrebbe essercene almeno uno in ogni centro abitato di una certa grandezza, ma non è detto; vivo in una zona che offre molte possibilità ai ciclisti (per nulla sfruttate dall'amministrazione), quindi di negozi ce ne sono ben sei, che divido a metà tra popolari e di lusso.

Non intendo fare alcuna discriminazione, è un dato di fatto: ci sono negozi da centinaia di metri quadri, lindi e pinti, con sfilze di Pinarello in vetrina, e officine piccole e buie, con gli odori imperanti di grasso e ferro. Avevo un amico alle superiori che collaborava nel negozietto di famiglia, della seconda categoria. Non l'ho più visto e anche il negozio è chiuso, chissà da quanto tempo. Sono attività solitamente gestite da gente pratica, più sostanza che forma, persone che ti riparano una bicicletta scassata a martellate, sapienti ma pur sempre martellate. E la bici torna ad andare.

Poi c'è l'altra categoria, quella dei negozi di lusso e, avendo vissuto l'epoca dei negozi di videogiochi, non fatico a trovare diverse similitudini: sono dei negozi felici, come le pasticcerie, i negozi di bomboniere eccetera. Posti dove si va per occasioni belle, potendo spendere per beni slegati dalla pura sopravvivenza, roba di cui potenzialmente potremmo fare a meno. Dico potenzialmente perché non sempre è vero e non si può vivere sempre e spòp dell'indispensabile.

Un buon venditore di videogiochi/ciclist... pardon, venditore di bici/meccanico sa che deve instaurare un certo rapporto coi clienti, quasi di amicizia. Devono sentirsi a proprio agio, poter discutere degli acquisti fatti e di quelli non fatti, delle ultime novità, del settore, delle tendenze. Anche se ne capiscono poco o nulla. Anche quando non hanno nulla da comprare e vanno lì solo per perder tempo. Il commerciante intelligente non li scaccia: discute amabilmente, sa che torneranno, per spendere.

Ho sempre voluto una bici, ma questa è storia per un altro articolo, quindi riassumo: dopo un trasloco in un'altra regione, ne ho comprata una economica, ho iniziato a fare il rider (purtroppo) e, dopo aver stretto la cinghia TANTO, per qualche anno, ho finalmente preso una bicicletta costosa per i miei standard. Costa comunque meno del più economico cambio elettronico, o di una coppia importante di ruote in carbonio. Una bicicletta del genere va oltre gli intenti dei negozi più popolari, così sono entrato per la prima volta in un negozio di lusso.

Ci son tornato, poi, nel corso dei mesi per alcuni upgrade, per la manutenzione e sì, anche io perché in quel momento non avevo nulla di meglio da fare. Sono entrato in contatto con la fauna locale: anche persone alle prese con una semplice camera d'aria da sostituire sulla bici usata per andare a lavoro, ma il grosso è costituito dagli amatori evoluti e disposti a spendere.
Attenzione: dico disposti a spendere perché non è detto che siano necessariamente dei ricconi dal budget illimitato, per quanto una buona fetta sia costituita da quelli che devono aver per forza l'ultimo modello disponibile. C'è anche gente che non ha vizi particolari o altre spese, gira in una Fiat Uno Fire con l'impianto a gas, ma dirotta tutto sulla bicicletta.
L'amatore evoluto, comunque, si identifica immediatamente perché viene in negozio vestito come per la Milano-Sanremo, anche solo per chiedere qualcosa o comprare un portaborraccia. Esce da casa coi calzettoni aerodinamici e la fascia cardio.

Poi c'è l'insospettabile. È una persona che non identificheresti mai come ciclista, viene in negozio coi vestiti da lavoro, probabilmente dopo aver smontato un lavandino o tinteggiato una parete. È bello che ci sia questa categoria. A prima vista, pensi siano venuti per chiedere di cambiare le pastiglie dei freni rim o una catena arrugginita, poi iniziano a parlare e sanno tutto dell'ambiente.
Discussioni su cuscinetti in ceramica e ruote a profilo alto si intrecciano con l'esito dell'ultima grande tappa di montagna del Tour, il podio della Parigi-Roubaix, le ultime regole introdotte dall'UCI. Parlano dell'andamento della stagione agonistica, tutte le specialità, e dei campioni stranieri, con pronunce ruspanti: Pogascià, Everpul, gli eroi del momento.
C'è il signore anziano, capelli bianchi e pancia importante, che aspetta che montino sulla sua mountain bike un nuovo pacco pignoni, proprio quella lì sul banco da lavoro, quella tanto bella e tanto prevedibilmente costosa da far girare la testa. Nel frattempo parla, e scopri che quel signore con la pancia importante ha pure una stradale in carbonio. Gli insospettabili sono i più affascinanti e pericolosi, non indossano uniformi, sono ossi duri. Chiunque potrebbe essere un insospettabile.

Seguono quelli che, legittimamente, chiedono interventi di routine per le bici operaie, non sapendo o fregandosene delle decine di migliaia di euro che li circondano. Il meccanico onesto non si tira indietro, sa che quella bicicletta appartiene a una persona che non può permettersi un SUV per andare a lavoro. Magari, potrebbe permettersi una macchinina, ma a che pro, pensa? Il crollo della dittatura dell'automobile dovrà pur iniziare da una crepa.

Per chiudere, e sicuramente avrò dimenticato qualcuno, ci sono io. Ci vado per una manutenzione, per comprare un accessorio, perché in quel momento non ho niente da fare e mi piace l'ambiente amichevole. Mi sento come in una specie di paese dei balocchi, con quei bolidi lucenti che mi affascinano, ma non ne sento alcun bisogno, in realtà: la mia bicicletta ideale ce l'ho già, è la mia bicicletta.


Articolo in collaborazione con Decidere stanca

Il collezionismo, in ogni ambito, è bello, per chi se lo può permettere e ha spazio. Se state leggendo questo articolo, difficilmente sarete collezionisti senza limiti di soldi e spazio.

Per il ciclista che ama girare per sport, allenamento o per il solo gusto di farlo, senza arrivare agli estremi delle categorie e dei terreni: la bicicletta da corsa non serve ed è possibile coprire qualsiasi percorso (ripeto, non estremo), con una gravel/endurance e una mountain bike front, monocorona col rapporto più leggero possibile.

La bici da corsa, ovviamente, è il mezzo migliore per percorrere grandi distanze, su asfalto, alla massima velocità possibile: considerate le sue caratteristiche estreme (geometria, rapportatura), sarà sfruttata al massimo da ciclisti allenati e flessibili.
Le stesse distanze, tuttavia, si possono percorrere tranquillamente con una gravel/endurance, in maniera più comoda, seppur sacrificando parte della velocità. Geometrie più rilassate che non impongono posture estreme, rapporti più leggeri per gambe meno potenti e cuori meno efficienti. Con la gravel, poi, sarà ancora più piacevole affrontare strade bianche, sterrati o, semplicemente, le strade scarsamente manutenute che si trovano in Italia, specialmente in determinate zone. La possibilità di montare gomme anche abbastanza ampie, poi, permette di togliersi qualche sfizio anche dove solitamente osano le mountain bike.
Ancora, sono mezzi decisamente adatti al cicloturismo, avendone la possibilità.

Certe possibilità, quindi, sono comuni ai due mondi, ma le mountain bike arrivano dove le gravel devono fermarsi, grazie alle ruote larghe, l'ammortizzazione e la possibilità di rapporti molto leggeri, per le salite più ardue e/o le gambe meno allenate.
Ho parlato di front perché sono le più adatte alla salita, non hanno la sospensione posteriore e meno c'è, meno si rompe, possono anche affrontare decentemente qualche discesa poco tecnica, senza megasalti, radici enormi e sassi aguzzi. A saperle guidare.
Volendo, potete sostituire la front con una full, meglio se con la sospensiore posteriore bloccabile. Proprio se pensate di dover affrontare qualche discesa in più.
Il monocorona è ancora per semplificare, i rapporti molto agili per potersi permettere diversi gradi di pendenza in più senza morire per lo sforzo e senza scendere a spingere (cosa degnissima, comunque).


Articolo in collaborazione con Decidere stanca

I professionisti della bici usano tutti i tubeless, tanto della manutenzione se ne occupano i meccanici. Se state leggendo, sicuramente saprete come è strutturato il sistema tubeless, ma riassumo ugualmente in grandi linee.

Lo pneumatico, che sia tubeless o tubeless ready, è montato su un cerchio specifico, anch'esso per tubeless e/o tubeless ready. Non specifico le differenze tra i due tipi, non avendone le competenze: tuttavia, se siete degli amatori non troppo estremi, è probabile che disponiate di una bicicletta tubeless ready, ovvero col cerchio forato per i raggi, da ricoprire con del nastro apposito nel caso vogliate disfarvi della camera d'aria.
Quindi, sul cerchio specifico e nastrato, viene montato questo pneumatico, con la sua valvola specifica, con dentro del lattice che si occupa di sigillare le porosità della gomma e riparare automaticamente le forature più leggere.
Per maggiore sicurezza, si possono usare anche gli air-liner, comunemente “salsicciotti”, ovvero dei tubi di materiale leggero e poroso che permettono pedalare per una certa distanza (20-25 km) anche con gomme bucate totalmente sgonfie.
Ancora, in caso di forature troppo invadenti, è possibile inserire la classica camera d'aria all'interno dello pneumatico e proseguire.

Il beneficio principale di questo sistema è la possibilità di usare pressioni più basse, aumentando trazione e comodità. Nulla vieterebbe di abbassare la pressione anche montando le camere d'aria, a parte il fatto che si finirebbe col bucarle facilmente su rocce, gradini e asperità varie: data la maggior morbidezza del tutto, le gomme hanno vita facile nel pizzicare le camere d'aria sul cerchio, danneggiandole facilmente.

Contro: i tubeless tendono a sgonfiarsi fisiologicamente in una certa misura e la manutenzione richiesta è sicuramente maggiore e sporca. Il lattice deve essere cambiato periodicamente, così come il nastro, e la bici deve essere usata almeno una volta a settimana, affinché il liquido non si accumuli nel punto più basso, solidificando e vanificando, quindi, la sua azione riparatrice. La manutenzione è più sporca perché il lattice è appiccicoso e... sporca, appunto.
Problema relativo, quando della manutenzione se ne occupa il vostro meccanico; un po' meno, quando volete farlo voi.

Personalmente, ho da poco fatto montare i tubeless con gli air-liner e sono alquanto indeciso sul tenere o meno questa configurazione per sempre. Il mio negozio di bici è a un chilometro circa di distanza, quindi i problemi sono più psicologici che reali.
Tuttavia, credo che la strada più serena per chi non abbia meccanici nelle immediate vicinanze e faccia poche uscite mensili, sia quella della ruota classica, con una bella scorta di camere d'aria e gli attrezzi e la capacità di effettuare la sostituzione.


Perché mi fa star bene, psicologicamente di sicuro e il movimento è necessario.

Perché posso esplorare, allontanarmi, più di quanto non possa fare a piedi. Più lontano a parità di tempo, in meno tempo a parità di distanza.

Perché coinvolge tutti i sensi. La vista, perché non sono chiuso in un carro armato con le finestre, vedo tutto, anche il cielo, l'unico limite è l'orizzonte. L'udito, perché posso ascoltare i suoni della natura, senza barriere e filtri. Il tatto, perché stringendo il manubrio partecipo alle vicissitudini del terreno. L'olfatto: giro per campagne, colline e montagne, fatelo anche voi e non avrà bisogno di spiegare nulla. E il gusto? Questo mi manca, al momento, perché non posso fare uscite lunghe come vorrei, non ho bisogno di fermarmi in un bar, in una pasticceria. O in una taverna, un ristorantino, come fanno i cicloturisti, beati loro.

Perché sono libero di andare dove voglio e dove posso, coi tempi che posso e voglio.
Perché non inquino, non appesto l'aria che respiro e non l'appesto per gli altri, incolpevoli; sono io a produrre l'energia.

Perché l'unico limite vero è il mio corpo, ed è bello anche scoprire fin dove arriva questo limite e provare a spostarlo un po' più in là, un passettino alla volta.
Perché poi imparo a conoscere i miei limiti del momento e a rispettarli, capisco quando rallentare, so quando fermarmi.

Perché quando vado in bici, da solo, non devo dar retta a nessuno. Non devo dar retta ai valori del ciclocomputer, non ho record da stabilire, non ho velocità medie e massime da raggiungere, non ho distanze stabilite da percorrere.

Perché, fin quando è possibile (e faccio in modo che sia la regola più che l'eccezione), evito di rinchiudermi in quel carro armato con le finestre che ricopre le nostre città, si nutre di denaro e guerre e poi sputa calore, veleno e morte.

Perché no?