È questo il modo in cui finisce il mondo
È questo il modo in cui finisce il mondo
È questo il modo in cui finisce il mondo
Non già con uno schianto ma con un lamento.
(Thomas Stearns Eliot – Gli uomini vuoti)
Karl Marx si sbagliava di grosso: il capitalismo non morirà sotto i colpi della classe operaia e non avverrà nemmeno nei tempi che lui aveva teorizzato. Su questo non paiono esserci molti dubbi, ma pensare che la dittatura del proletariato, i soviet e tutto il resto possano rimpiazzare i meccanismi liberisti appare ancora forse più utopistico.
La lotta di classe si è conclusa con la vittoria schiacciante del capitale sulla forza lavoro, di quelle in cui non si fanno prigionieri: la guerra fredda si è trasformata in una debacle per il proletariato; persino i vari conflitti sociali nazionali in Europa degli anni ‘60 e ‘70 sono finiti con il sale gettato sulle macerie di chi proponeva – con tempi e modi che dipendevano dalla sensibilità di ciascuno – un modello economico e sociale differente rispetto a quello che nasceva da rivoluzione industriale e colonialismo. Quello che è venuto dopo è stata una gigantesca macelleria sociale mascherata da sviluppo eeconomico infiocchettato dai dogmi neo-liberisti; come se non bastasse tutto il processo è stato legittimato da quella gigantesca truffa chiamata “sinistra social-democratica”.
La vittoria è stata perentoria e inequivocabile, come detto, e ha lasciato un’eredità pesantissima: ovvero, la convinzione che il modello diventato egemonico manterrà il proprio status nei secoli dei secoli. Siamo addirittura arrivati a “la fine della storia”, come celebrato da Fukuyama affettando con l’accetta moltissimi “ma” e “però” a livello globale. Queste avversative, che di solito introducono considerazioni post coloniali, sono state completamente tenute fuori dal discorso e si è andati avanti come si era sempre fatto, ovvero glorificando i fasti del passato imperiale dei vari stati-nazione europei, reale traino della rivoluzione industriale.
L’immutabilità del capitalismo è diventata una convinzione talmente radicata nella società nella quale viviamo che ci siamo limitati a registrare, impotenti, la costante degradazione della classe operaia verso condizioni sociali già osservate negli opifici di Manchester un secolo e mezzo orsono. Quel che è più preoccupante, tuttavia, è che questi processi non sembrano spinti dalla forza e dalla violenza degli accumulatori di capitali, ma piuttosto azionati dall’ inerzia. Le classi subalterne si sono ritrovate a scannarsi tra loro, dividendosi le briciole e hanno perso di vista l’obiettivo della propria rabbia.
Qualche utopista ha deciso di indicare la retta via utilizzando il motto “il tuo nemico non arriva col barcone, ma con la limousine”. Questo slogan, però, non è stato portato avanti dalle masse ma è stato sventolato da diverse nicchie di (più o meno) intellettuali di qualsiasi estrazione sociale ed è stato mostrato alle proprie irrilevanti bolle sociali di riferimento.
Karl Marx si sbagliava, dicevo. Tuttavia, quello che intendevo con l’incipit di questa riflessione non era sull’oggetto – il capitalismo collasserà, ah se collasserà, e anche in tempi brevi – bensì sulle modalità con le quali lo farà. E, anzi, sta già collassando nella maniera più ingiusta e deludente possibile. Non sarà, infatti, la paura dell’estinzione della specie umana a trasformare radicalmente la nostra società globale, ma sarà la voglia di comprare Karim Benzema, Sergej Milinkovic Savic e compagnia cantante.
Il calcio – ma più in generale gli sport con diffusione di massa – è il palcoscenico perfetto per capire cosa sia e come funzioni il capitalismo. In breve: l’accumulazione di capitali garantisce successi sempre maggiori permettendo la moltiplicazione degli introiti; questa spirale assicura che pochi ammassino ricchezze sempre maggiori a discapito dei molti, da quali vengono estratte (con varie forme e modi) tutte le ricchezze necessarie a tenere in piedi il sistema, ricevendo in cambio, appunto, briciole.
Questo meccanismo genera, nemmeno a dirlo, enormi sperequazioni tra chi possiede i capitali e chi possiede la forza-lavoro (aka il danaro per sorreggere il sistema ottenuto tramite lo scambio/ricatto con la passione verso lo sport). Il sistema è ovviamente insostenibile, così come lo è il capitalismo nella sua interezza, perché consuma più risorse di quante ce ne siano a disposizione. Oltre a essere insostenibile, però, è anche molto resistente al cambiamento, dato che chi detiene le ricchezze possiede anche il potere politico reale di scegliere se modificarne o meno i meccanismi che lo regolano; pertanto gli stessi agenti che avrebbero la possibilità di riformare o rivoluzionare lo strumento (perdendo qualche rendita) preferiscono farlo affondare, rinunciando a tutto.
Marracash lo diceva meglio di qualsiasi saggio socio-economico cantando: ”riesco a immaginare più la fine del mondo, sì/ che la fine della differenza sociale”.
Tuttavia quest’estate abbiamo osservato collettivamente a un punto di svolta del giochino. Le potenze calcistiche operanti nella neo-liberalissima Europa hanno constatato l’arrivo di qualcuno più grande di loro, che, aiutato dalla ben visibile mano dei fondi sovrani d’investimento derivanti dalla vendita del petrolio, ha spazzato via qualsiasi convinzione riguardante l’egemonia economica in piedi fino a quel momento. Improvvisamente, nel mondo regolato da mere logiche di supremazia finanziaria, infatti, il pesce grosso si è ritrovato a scendere di un paio di livelli nella catena alimentare e ad assistere, impotente, a un’opera di colonialismo inversa. Sono stati i capitali sauditi a trattare le squadre europee come semplici supermercati da cui prendere calciatori a proprio piacimento, sbertucciando concetti quali tradizione, passione, storia con le quali cercavano di giustificare la propria superiorità morale.
Questo è stato possibile per la natura intrinseca dei possessori di suddetti capitali sconfinati: non più imprenditori spregiudicati e di successo, ma sovrani – neanche illuminati – detentori del monopolio dello sfruttamento delle risorse presenti all’interno dei confini dei territori su cui regnano. Il risultato è che i predicatori della concorrenza come stimolo verso il successo si sono trovati, all’improvviso, a competere ad armi impari con chi ha semplicemente approfittato della propria appartenenza alla dinastia giusta. Tutto d’un tratto si sono resi conto che la meritocrazia non esiste in condizioni di partenza diseguali. È stata una vera e propria catastrofe, sia economica che ideologica, per chi ha fatto del detto “faber est suae quisque fortunae” non solo il proprio motto, ma anche il proprio vessillo da sbattere in faccia a chi chiedeva un sistema economico e sociale più giusto.
Arrivati a questo punto, però, sorge spontanea una domanda: quanto ci vorrà prima che anche in Europa si invocherà l’aiuto statale per cercare di proteggere il proprio status egemonico? I sedicenti incrollabili difensori del laissez-faire (già piuttosto démodé) hanno già accettato di buon grado gli interventi di Macron e quelli di Boris Johnson quando c’era da difendere rispettivamente il prestigio del PSG o dei fat cats della Premier League. Ma, nemmeno loro – i Macron e i BoJo del caso intendo – hanno potuto niente quando i Benzema, Kante, Neymar di questo mondo si imbarcavano verso l’Arabia, dicendosi motivati dalle nuove frontiere del calcio internazionale, dai nuovi progetti tecnici sviluppati nel deserto e persino da ragioni religiose più o meno credibili.
Dunque, se un domani gli imperfetti meccanismi democratici attualmente in piedi dovessero essere considerati un legaccio alla produttività imprenditoriale e dunque combattuti frontalmente dai settori produttivi, veramente ci stupiremmo?
Sarebbe forse la prima volta che il benessere della collettività – e dunque le conquiste ottenute tramite decenni di lotte – venisse subordinato agli interessi degli industriali?
E ancora – questa volta in termini economicistici – che cosa succederebbe se il sistema democratico venisse tutto d’un tratto considerato un ostacolo alla massimizzazione del profitto privato?
Sarebbe probabilmente la prima storica biforcazione della storia tra liberismo e liberalismo – la cui sovrapposizione ha fatto le fortune della narrazione capital-illuminista sin dalla metà del diciannovesimo secolo.
Si arriverebbe, in questo modo, alla fine del capitalismo prevista da Karl Marx, ma per ragioni delle quali nel Capitale non c’è nemmeno il più piccolo accenno.