Falso-Pepe

Sabato sera, Sergio Ramos ha affrontato il Real Madrid da avversario per la terza volta in carriera, dopo quasi vent’anni dalle prime due nella stagione 2004/05. Il denominatore comune tra queste partite è stata la maglia che Ramos ha indossato: quella biancorossa del Real Siviglia, squadra della sua città di origine, nonché quella che lo ha accolto e lo ha fatto diventare calciatore; la stessa con la quale ha deciso di concludere la sua carriera.

Nell’arco temporale intercorso tra le sfide del 2004/05 e quella della settima scorsa, ci sono state due stagioni in chiaroscuro al Paris Saint Germain e, soprattutto, 16 con le merengues, squadra di cui Sergio Ramos è diventato capitano, leggenda e simbolo. Oltre agli innumerevoli trofei a cui la sua immagine è immediatamente associata, infatti, rimane nell’immaginario collettivo la sua capacità di guidare la squadra caricandosela sulle spalle quando il talento non bastava più e bisognava ricorrere ai miracoli. Le reti segnate nei minuti di recupero e nel periodo supplementare delle due finali di Champions vinte con l’Atletico nel 2014 e nel 2016 rendono bene la figura del calciatore, leader di quella squadra in cui i calciatori carismatici non mancavano.

Ora che gli anni migliori della carriera di Ramos sono alle spalle, il Real ha fisiologicamente deciso di affidarsi a facce nuove per allungare un ciclo che non sembra potersi arrestare tanto facilmente. Il suo vecchio capitano, invece, ha deciso di chiudere il cerchio nel punto esatto in cui era partito, rendendo omaggio alla sua città e alla memoria di Antonio Puerta, con cui Ramos aveva condiviso lo spogliatoio nelle prime due stagioni da professionista.

“Hai presente l’effetto che fa quando tiri un pomodoro maturo sul muro?”

Onestamente non avevo mai pensato di utilizzare questa metafora per descrivere uno dei gol più belli che mi sia mai capitato di vedere dal vivo. Eppure istintivamente, senza pensarci più di tanto, quest’immagine era quella che mi sembrava più adeguata per descrivere la palla che andava a concludere la propria traiettoria sulla rete di porta, più o meno in corrispondenza dell’incrocio dei pali, e cadeva a terra, come se qualcuno avesse aumentato la forza di gravità in corrispondenza della sfera proprio in quell’istante. D’altronde come altro si può descrivere una palla che viene colpita in maniera così secca e potente e che durante tutto il suo volo non ruota mai? Se avessi avuto nozioni di fisica avrei potuto utilizzare un riferimento alla quantità di moto, o a qualcosa di simile, ma non le ho, e quindi il pomodoro maturo che si schianta su un muro e precipita sul posto è l’analogia più utile.

Se avessi deciso di descrivere semplicemente i fatti, invece, le parole che avrei utilizzato per raccontare la rete sarebbero state più o meno queste: “c’era una palla in uscita da un calcio d’angolo; proveniva dal rinvio di pugno del portiere, oppure da una ribattuta di testa di un difensore, fatto sta che era partita alta e stava scendendo, piuttosto morbida, nei pressi della lunetta dell’area di rigore. A quel punto un ragazzo si è coordinato per la rovesciata e l’ha colpita perfettamente, mandandola sotto l’incrocio dei pali”.

Questa descrizione, però, sarebbe stata allo stesso tempo precisa e totalmente inutile, dato che nel momento preciso in cui questa sequenza si è conclusa, questi eventi scarni e asciutti hanno smesso di essere fatti e hanno cominciato a diventare immediatamente qualcos’altro, alterati dai meccanismi mentali che hanno costruito la percezione di chi ha assistito all’evento. Il campionato Amatori della UISP non ha telecamere che riprendono le partite della propria lega e quindi niente di ciò che avviene in campo può essere riprodotto. Ogni azione di gioco si esaurisce esattamente nel momento in cui è compiuta.

Eppure per decretare che quel gol aveva qualcosa di magico e speciale non serviva alcun replay al rallenty, né tantomeno un’inquadratura fissa sulla palla come in quelle clip che si fanno per aumentare lo stupore di chi guarda un passaggio di De Bruyne o un lancio di Szoboszlai.

Si è capito immediatamente che quella rete era speciale semplicemente perché le facce e gli sguardi di chi aveva avuto la fortuna di vedere il sangue di San Gennaro squagliarsi in diretta erano diversi da quelli di chi non aveva avuto la stessa sorte. E si badi bene che quest’ultima categoria raccoglie più persone di quanto non si immagini. Può capitare che chi sta sugli spalti di una partita del genere, infatti, si distragga di frequente. D’altronde c’è da cantare, saltellare, accendere torce, stappare delle birre e non tutti i momenti in campo sono catturati dall’attenzione dei presenti.

Le differenze tra il calcio dei campioni e quello degli amatori sono evidenti nel livello tecnico di chi gioca e nella possibilità di estendere una partita per molte più ore rispetto ai 90 minuti di gioco, ma certamente non nella capacità di emozionare chi lo guarda. Come sosteneva Galeano, la capacità del calcio di diventare liturgia risiede proprio in questa sua specialità: il più bello dei gesti atletici può accadere in una partita di qualsiasi livello. In un certo senso, telecamere e trofei hanno più a che fare con il marketing del calcio che con la sua bellezza e la sua capacità di emozionare.

Personalmente ho avuto la fortuna di guardare quel piccolo segmento di partita e di poterlo commentare con un amico che aveva avuto la stessa sorte. Immediatamente ci siamo voltati e ci siamo scambiati lo sguardo che restituiva la certezza di essere sullo stesso piano e di poter scambiare le nostre emozioni da pari. Questa persona, però, era un compagno di squadra dell’autore del gol e quindi aveva da offrirmi un’altra prospettiva, figlia di una conoscenza diretta personale, oltre che tecnica.

“Eh, Marco ce li ha sti colpi”, mi ha detto subito dopo, commentando la rete, come a testimoniare l’abilità – seppure in potenza – di Marco di fare le stesse cose di Cristiano Ronaldo o Carlo Parola, quelli che poi diventano immortali perché vanno a finire sulla copertina degli album Panini o nelle sigle di apertura dei programmi sulla Champions League. La differenza tra il gol di Marco e quello di Ronaldo è nel palcoscenico, non nella capacità di colpire chi guarda. E, infatti, in quella semplice frase del mio amico c’è tutta la potenza di quello che scriveva Galeano. Anche su un piccolo impianto sportivo di provincia, il giovedì sera, esiste qualcuno in grado di realizzare un gol così emozionale. Una rete capace di toglierti il fiato per un secondo e rimanerti impressa nella mente per molto tempo può essere segnata in qualsiasi contesto, anche se non esistono replay per solidificarla nelle memoria. Il bello è tutto qua: per raccontare queste reti non hai bisogno di uno stadio da 60mila persone né di videocamere ad alta definizione o video in slow motion; quello di cui hai bisogno è semplicemente aver visto Marco che si coordina per una rovesciata che va a finire in rete proprio come fa un pomodoro lanciato sul muro.

Dalla stagione 2003/04 sono passati esattamente 20 anni. Due decenni fa, infatti, ebba la sua consacrazione l’Arsenal degli invincibili di Arsenal Wenger, la formazione feticcio per gli appassionati di calcio di qualsiasi fede. La filastrocca iniziava con Lehman e Campbell, passava da Viera e Gilberto Silva, menzionava Ljungberg e Pires per arrivare al climax finale di Bergkamp e Thierry Henry. Su ognuno dei nomi citati sono stati scritti libri a decine.

Quella stagione meravigliosa e da record, oltre a essere memorabile, ha rappresentato la celebrazione dell’anti-eroe: la squadra buffa e un po’ sfigata che giocava bene ma alla fine non vinceva mai era arrivata al titolo, giocando senza poter essere battuta. Diventarono gli invincibili, appunto. Tutta l’epica costruita dalla sublime penna di Nick Hornby, abitante del nord di Londra e grande tifoso Gunners, venne smontata in una stagione.

I vent’anni successivi, poi, non sono stati semplici per i Gunners. Sono seguite diverse stagioni a buon livello prima che il ciclo del demiurgo di quella squadra – Arsène Wenger – si chiudesse in maniera piuttosto ridicola. Dopo qualche anno di tribolazione, infine, si è arrivati ai giorni nostri, quelli in cui Mikel Arteta sembra aver riportato la squadra a poter lottare per il titolo. Nella stagione passata, infatti, l’Arsenal è arrivato a sfiorare la vittoria della Premier dopo averla a lungo guidata, prima che il Manchester City allungasse le mani sull’ennesimo titolo con un formidabile sprint finale. Nella stagione da poco iniziata, quella del ventesimo compleanno degli invincibili, Arsenal-Man City sembra essere ancora una volta la sfida per ottenere la Premier. Al momento è decisamente troppo presto per dire se i Gunners potranno replicare la vittoria di vent’anni fa (anche senza record!), ma l’Arsenal ha voglia quantomeno di provarci. Ieri, infatti, si è giocata la prima delle due sfide, a Londra, e se l’è portata a casa l’Arsenal, vincendo per 1-0 con merito, dimostrando di avere diverse cose da dire.

Quello vinto dal Napoli nella stagione 2002/23 è stato uno degli scudetti più dominati dell’epoca recente. La banda di mister Spalletti ha, infatti, incantato i propri tifosi e gli appassionati di calcio neutrali per un’intera annata sportiva, dimostrando che vittorie e bel gioco possono andare di pari passo. Contestualmente, K'varatskhelia, Lobotka, Kim Min-jae e Osimhen si sono affermati come i migliori in Europa nel loro ruolo, oltre che irraggiungibili in Italia. Questo scudetto è stato talmente magnifico da inebriare la gente di Napoli in un godimento che non sembrava potesse avere fine.

Poi, però, come una sveglia stridula nel pieno di un bel sogno, è arrivata l’estate e con essa la fine delle certezze. Kim ha scelto di continuare la propria carriera a Monaco di Baviera e, soprattutto, Spalletti e De Laurentis hanno deciso di interrompere il percorso che avevano intrapreso insieme. L’arrivo di Rudi Garcia, da qualche tempo lontano dall’élite calcistica europea, sulla panchina napoletana sembrava aver sancito il definitivo ridimensionamento degli azzurri.

E, infatti, questo inizio di campionato tiepido e nevrotico ha confermato gli scetticismi estivi. La squadra sembrava aver perso smalto e brillantezza, i suoi alfieri nervosi e insofferenti al nuovo corso. Quando, alla quinta di campionato, un pareggio senza gol a Bologna era stato annunciato dal presidente come il punto di svolta della stagione, tutto pareva apparecchiato per una stagione mediocre.

Improvvisamente, però, tutto è cambiato: sono arrivate le convincenti vittorie con l’Udinese e Lecce, entrambe con 4 reti all’attivo e con un calcio spensierato e divertente che sembrava la fotocopia di quello spallettiano. Tutto d’un tratto la squadra sembra aver ritrovato sé stessa, i suoi interpreti di nuovo felici sul campo da gioco. Adesso, forse possiamo dire che il Napoli ci ha messo alcune settimane per ritrovare la propria identità e tornare in sé; gli azzurri non sembrano voler mollare tanto facilmente lo scudetto che hanno sul petto.

L’esordio dell’Atletico Madrid nella Champions League 2023/24 non poteva catturare l’occhio più di così: gran bella prestazione in uno degli stadi più iconici d’Europa – l’Olimpico di Roma – contro la Lazio che ha trovato in pareggio soltanto in extremis, con un gran gol del suo portiere. Una vera e propria prima teatrale da ricordare in tutti i minimi dettagli: dalla performance degli artisti all’allestimento del palco, fino al geniale colpo di scena offerto dalla trama.

Questo esordio è stato il biglietto da visita perfetto per una delle squadre più iconiche e più sfortunate dell’ultimo decennio nella regina delle competizione europea. Da quando il cholo Simeone si è insediato sulla panchina dei colchoneros, infatti, la squadra biancorossa ha ottenuto i risultati migliori della sua storia, arrivando per ben due volte in finale della prestigiosa coppa e perdendola, ancora più amaramente, contro gli odiati cugini del Real ai supplementari e ai rigori.

Il merito di questi exploit va sicuramente a Simeone – non a caso diventato l’allenatore con più presenze e più successi della storia del club – che è riuscito a far diventare il suo stile di gioco prediletto, fatto di tanta grinta e sudore, addirittura il marchio di fabbrica della squadra. Chiunque affrontasse l’Atletico sapeva di essere atteso da una battaglia campale, dove i valori tecnici erano forse anche secondari rispetto all’intensità riversata sul campo.

Negli ultimi anni il ciclo di Simeone sembrava essere arrivato agli sgoccioli, l’evoluzione tattica del modo di giocare a calcio sembrava avesse trovato le contromisure alla filosofia di calcio proposta dall’Atletico Madrid. Tuttavia la campagna trasferimenti di questa estate, mirata allo svecchiamento della rosa, sembra poter allungare il ciclo dell’Atletico, che ancora una volta ha dimostrato di voler dare battaglia sul campo in nome del suo allenatore.

Il vecchio stadio Ali Sami Yen accoglieva le squadre in trasferta con una scritta rossa su uno striscione giallo che recitava “Welcome to hell”. La cosa più preoccupante di questo monito non era tanto il suo tono minaccioso, quanto la consapevolezza che quelle parole fossero effettivamente una dichiarazione di intenti.

Tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio degli anni ‘10, infatti, andare a giocare contro il Galatasaray a Istanbul era un incubo: l’atmosfera creata dai tifosi di casa, combinata con l’esplosività in campo della squadra turca, dilatava il tempo, facendo sì che i 90 minuti di gioco diventassero interminabili per gli avversari del Gala. L’annata simbolo di quel periodo fu la stagione 1999/2000 quando i ragazzi di Fatih Terim arrivarono alla vittoria della Coppa Uefa dopo una cavalcata stupenda, fatta di partite epiche e rimonte straordinarie.

Da allora sono passati quasi 25 anni e moltissimo è cambiato. Per prima cosa, i giallorossi non giocano più le loro partite interne nello stesso impianto – l’Ali Sami Yen è stato demolito per far posto al famoso Gezi Park – e, soprattutto, il Galatasaray ha vissuto un periodo di crisi finanziaria terribile, al pari di tutta la società turca. Alla poco lungimirante gestione sportiva degli anni ‘10, infatti, è seguita la tremenda svalutazione finanziaria della lira turca della fine del decennio; la combinazione di questi due fattori ha reso il Gala l’ombra di quello che era.

Il ritorno in Champions League – martedì contro il København –, dunque, suona come la tromba che annuncia l’arrivo della cavalleria nei film western classici. Il cambio di rotta nella gestione sportiva, avvenuto negli ultimi anni, ha portato una vera e propria ventata di aria nuova e i vari Icardi – tornato a una seconda giovinezza – Ziyech, Mertens e Torreira sembrano avere tutte le intenzioni di rimanere nel calcio che conta, dove il Galatasaray è appena tornato.

Inter-Milan è una partita che nel mondo anglosassone definirebbero bigger than football e probabilmente avrebbero ragione. La stracittadina di Milano, infatti, ha una dimensione che trascende dal valore delle due squadre in campo e dall’importanza della posta in palio, nonostante questa sia stata spesso molto rilevante.

Secondo la tradizionale divisione sociale delle due squadre, infatti, la borghesia interista – i baùscia – è opposta alla classe operaia – i casciavit – milanista. Questa distinzione è ovviamente un retaggio del passato, risalente a prima che il calcio assumesse la sua contemporanea connotazione industriale, ma contribuisce a rendere l’idea di quanto l’appartenenza a una o all’altra squadra sia più simile a un’affiliazione religiosa che a una sportiva.

Tuttavia, quello che rende speciale questa partita – oltre la sua capacità di tracciare una linea di demarcazione netta per la propria appartenenza cittadina – è che storicamente ha avuto enorme importanza sportiva; basti pensare che il primo campionato nazionale in cui le due squadre milanesi sono arrivate nei primi due posti è quello che si è giocato nella stagione 1950/51. E allora non c’è da stupirsi che gli echi delle sfide tra i nerazzurri di Helenio Herrera e i rossoneri di Nereo Rocco, che infiammavano Italia ed Europa negli anni ‘60, riverberino nelle sfide tra Lautaro e Leão della nostra contemporaneità. Poco importa, dunque, se siamo solo a Settembre e in palio non c’è il passaggio del turno di Champions o lo scudetto.

Da qualche tempo ho iniziato a collaborare con Takketto, scrivendo dei pezzi relativi al mondo del pallone a cadenza settimanale. È la prima volta, in tanti anni, che abbandono la mia confort zone – mi occupavo di ragionare esclusivamente sugli aspetti sociali e politici del mondo del pallone – per mettermi alla prova con un tipo di narrazione più lineare. Penso che sia una buona idea tenere insieme i vari pezzi qua sopra, come un vero a proprio log personale, appunto. In calce a ciascuno dei pezzi, metterò l'URL del profilo IG di Takketto dove i pezzi vengono pubblicati, e, se vi interessano, vi consiglio di andarli a vedere perché graficamente sono molto belli. Ecco a voi il primo

“Questo riguarda una questione personale”

Da quell’Italia-Macedonia del Nord del 24 Marzo 2022 a Macedonia del Nord-Italia del 9 Settembre 2023 saranno trascorsi – in termini cronologici – soltanto 18 mesi; in termini calcistici, invece, è passata un’eternità. La partita di Palermo ha segnato l’estremo dell’arco in cui la nazionale maschile di calcio italiana ha probabilmente toccato il punto più basso della sua storia, fallendo per la seconda volta consecutiva la qualificazione ai mondiali. L’altro estremo, invece, rappresenta la data della sua auspicata rinascita.

In mezzo è successo di tutto. Roberto Mancini ha dilapidato tutto il credito che aveva guadagnato trionfando all’Europeo. Lo ha fatto rimanendo alla guida tecnica della nazionale dopo la debacle con la Macedonia, e trasmettendo l’immagine di un selezionatore in confusione che, oltre ad aver smarrito l’intuito tecnico, ha anche imboccato una china scivolosa dal punto di vista della comunicazione. La scomparsa dell’amico e scudiero Luca Vialli è stata sicuramente un fattore che ha influito sulla deriva manciniana, che, tuttavia, poteva essere affrontata meglio se il tecnico di Jesi avesse deciso di rinunciare alla sua dimensione pubblica.

Nella “rivincita” di Skopje – che rinvicità non sarà perché la figuraccia di Palermo rimane inappellabile – ci sarà la prima assoluta dell’allenatore più diverso possibile dal Mancio: Luciano Spalletti. Il toscano arriva dalla stagione più esaltante della sua carriera e ha, immancabilmente, trasmesso il suo entusiasmo al depresso ambiente azzurro. Questo primo passo è stato una scarica di adrenalina necessaria alla selezione nazionale che si era totalmente smarrita tra convocazioni fantasiose, risultati sotto le aspettative e gioco molto noioso. All’allenatore campione d’Italia, però, questo non basterà: dovranno essere i risultati a restaurare il feeling perduto; la qualificazione all’europeo e, soprattutto, quella al mondiale non sono obiettivi che possono essere mancati, non di nuovo.

Lo trovate qui: https://www.instagram.com/p/Cww894KMwT0/?img_index=1

È questo il modo in cui finisce il mondo È questo il modo in cui finisce il mondo È questo il modo in cui finisce il mondo Non già con uno schianto ma con un lamento. (Thomas Stearns Eliot – Gli uomini vuoti)

Karl Marx si sbagliava di grosso: il capitalismo non morirà sotto i colpi della classe operaia e non avverrà nemmeno nei tempi che lui aveva teorizzato. Su questo non paiono esserci molti dubbi, ma pensare che la dittatura del proletariato, i soviet e tutto il resto possano rimpiazzare i meccanismi liberisti appare ancora forse più utopistico.

La lotta di classe si è conclusa con la vittoria schiacciante del capitale sulla forza lavoro, di quelle in cui non si fanno prigionieri: la guerra fredda si è trasformata in una debacle per il proletariato; persino i vari conflitti sociali nazionali in Europa degli anni ‘60 e ‘70 sono finiti con il sale gettato sulle macerie di chi proponeva – con tempi e modi che dipendevano dalla sensibilità di ciascuno – un modello economico e sociale differente rispetto a quello che nasceva da rivoluzione industriale e colonialismo. Quello che è venuto dopo è stata una gigantesca macelleria sociale mascherata da sviluppo eeconomico infiocchettato dai dogmi neo-liberisti; come se non bastasse tutto il processo è stato legittimato da quella gigantesca truffa chiamata “sinistra social-democratica”.

La vittoria è stata perentoria e inequivocabile, come detto, e ha lasciato un’eredità pesantissima: ovvero, la convinzione che il modello diventato egemonico manterrà il proprio status nei secoli dei secoli. Siamo addirittura arrivati a “la fine della storia”, come celebrato da Fukuyama affettando con l’accetta moltissimi “ma” e “però” a livello globale. Queste avversative, che di solito introducono considerazioni post coloniali, sono state completamente tenute fuori dal discorso e si è andati avanti come si era sempre fatto, ovvero glorificando i fasti del passato imperiale dei vari stati-nazione europei, reale traino della rivoluzione industriale.

L’immutabilità del capitalismo è diventata una convinzione talmente radicata nella società nella quale viviamo che ci siamo limitati a registrare, impotenti, la costante degradazione della classe operaia verso condizioni sociali già osservate negli opifici di Manchester un secolo e mezzo orsono. Quel che è più preoccupante, tuttavia, è che questi processi non sembrano spinti dalla forza e dalla violenza degli accumulatori di capitali, ma piuttosto azionati dall’ inerzia. Le classi subalterne si sono ritrovate a scannarsi tra loro, dividendosi le briciole e hanno perso di vista l’obiettivo della propria rabbia.

Qualche utopista ha deciso di indicare la retta via utilizzando il motto “il tuo nemico non arriva col barcone, ma con la limousine”. Questo slogan, però, non è stato portato avanti dalle masse ma è stato sventolato da diverse nicchie di (più o meno) intellettuali di qualsiasi estrazione sociale ed è stato mostrato alle proprie irrilevanti bolle sociali di riferimento.

Karl Marx si sbagliava, dicevo. Tuttavia, quello che intendevo con l’incipit di questa riflessione non era sull’oggetto – il capitalismo collasserà, ah se collasserà, e anche in tempi brevi – bensì sulle modalità con le quali lo farà. E, anzi, sta già collassando nella maniera più ingiusta e deludente possibile. Non sarà, infatti, la paura dell’estinzione della specie umana a trasformare radicalmente la nostra società globale, ma sarà la voglia di comprare Karim Benzema, Sergej Milinkovic Savic e compagnia cantante.

Il calcio – ma più in generale gli sport con diffusione di massa – è il palcoscenico perfetto per capire cosa sia e come funzioni il capitalismo. In breve: l’accumulazione di capitali garantisce successi sempre maggiori permettendo la moltiplicazione degli introiti; questa spirale assicura che pochi ammassino ricchezze sempre maggiori a discapito dei molti, da quali vengono estratte (con varie forme e modi) tutte le ricchezze necessarie a tenere in piedi il sistema, ricevendo in cambio, appunto, briciole.

Questo meccanismo genera, nemmeno a dirlo, enormi sperequazioni tra chi possiede i capitali e chi possiede la forza-lavoro (aka il danaro per sorreggere il sistema ottenuto tramite lo scambio/ricatto con la passione verso lo sport). Il sistema è ovviamente insostenibile, così come lo è il capitalismo nella sua interezza, perché consuma più risorse di quante ce ne siano a disposizione. Oltre a essere insostenibile, però, è anche molto resistente al cambiamento, dato che chi detiene le ricchezze possiede anche il potere politico reale di scegliere se modificarne o meno i meccanismi che lo regolano; pertanto gli stessi agenti che avrebbero la possibilità di riformare o rivoluzionare lo strumento (perdendo qualche rendita) preferiscono farlo affondare, rinunciando a tutto. Marracash lo diceva meglio di qualsiasi saggio socio-economico cantando: ”riesco a immaginare più la fine del mondo, sì/ che la fine della differenza sociale”.

Tuttavia quest’estate abbiamo osservato collettivamente a un punto di svolta del giochino. Le potenze calcistiche operanti nella neo-liberalissima Europa hanno constatato l’arrivo di qualcuno più grande di loro, che, aiutato dalla ben visibile mano dei fondi sovrani d’investimento derivanti dalla vendita del petrolio, ha spazzato via qualsiasi convinzione riguardante l’egemonia economica in piedi fino a quel momento. Improvvisamente, nel mondo regolato da mere logiche di supremazia finanziaria, infatti, il pesce grosso si è ritrovato a scendere di un paio di livelli nella catena alimentare e ad assistere, impotente, a un’opera di colonialismo inversa. Sono stati i capitali sauditi a trattare le squadre europee come semplici supermercati da cui prendere calciatori a proprio piacimento, sbertucciando concetti quali tradizione, passione, storia con le quali cercavano di giustificare la propria superiorità morale.

Questo è stato possibile per la natura intrinseca dei possessori di suddetti capitali sconfinati: non più imprenditori spregiudicati e di successo, ma sovrani – neanche illuminati – detentori del monopolio dello sfruttamento delle risorse presenti all’interno dei confini dei territori su cui regnano. Il risultato è che i predicatori della concorrenza come stimolo verso il successo si sono trovati, all’improvviso, a competere ad armi impari con chi ha semplicemente approfittato della propria appartenenza alla dinastia giusta. Tutto d’un tratto si sono resi conto che la meritocrazia non esiste in condizioni di partenza diseguali. È stata una vera e propria catastrofe, sia economica che ideologica, per chi ha fatto del detto “faber est suae quisque fortunae” non solo il proprio motto, ma anche il proprio vessillo da sbattere in faccia a chi chiedeva un sistema economico e sociale più giusto.

Arrivati a questo punto, però, sorge spontanea una domanda: quanto ci vorrà prima che anche in Europa si invocherà l’aiuto statale per cercare di proteggere il proprio status egemonico? I sedicenti incrollabili difensori del laissez-faire (già piuttosto démodé) hanno già accettato di buon grado gli interventi di Macron e quelli di Boris Johnson quando c’era da difendere rispettivamente il prestigio del PSG o dei fat cats della Premier League. Ma, nemmeno loro – i Macron e i BoJo del caso intendo – hanno potuto niente quando i Benzema, Kante, Neymar di questo mondo si imbarcavano verso l’Arabia, dicendosi motivati dalle nuove frontiere del calcio internazionale, dai nuovi progetti tecnici sviluppati nel deserto e persino da ragioni religiose più o meno credibili.

Dunque, se un domani gli imperfetti meccanismi democratici attualmente in piedi dovessero essere considerati un legaccio alla produttività imprenditoriale e dunque combattuti frontalmente dai settori produttivi, veramente ci stupiremmo? Sarebbe forse la prima volta che il benessere della collettività – e dunque le conquiste ottenute tramite decenni di lotte – venisse subordinato agli interessi degli industriali? E ancora – questa volta in termini economicistici – che cosa succederebbe se il sistema democratico venisse tutto d’un tratto considerato un ostacolo alla massimizzazione del profitto privato? Sarebbe probabilmente la prima storica biforcazione della storia tra liberismo e liberalismo – la cui sovrapposizione ha fatto le fortune della narrazione capital-illuminista sin dalla metà del diciannovesimo secolo. Si arriverebbe, in questo modo, alla fine del capitalismo prevista da Karl Marx, ma per ragioni delle quali nel Capitale non c’è nemmeno il più piccolo accenno.