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from AtAbi

Vorrei condividere con Voi alcune mie letture, spero siano di Vostro interesse. Per questo ho deciso di iniziare un blog intitolato 'Note a margine'.

 
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from manuel

Questo testo è il risultato di una sfida che ho fatto con degli amici. L'obiettivo era di scrivere una storia lunga 3.600 caratteri partendo da un'immagine. Buona lettura!

Mattias fece schizzare la mano sopra la testa e volse lo sguardo dietro di sé. L'omone, che per poco non lo scaraventò per terra, proseguì indifferente la sua strada.

Perché ogni giorno doveva essere la solita storia? Digrignò i denti e strinse la mano libera alla bretella. Inveire contro di lui sarebbe stato inutile, controproducente.

Sulla spalla destra, Ossuto gli diede un calcetto sul collo e fece un cenno verso l'altra parte. Sì, i pacchi non si sarebbero consegnati da soli.

Le vie del mercato erano intasate dalla mandria di gente. La luce calda del sole faticava ad affacciarsi su di loro a causa dei grandi edifici scuri e opprimenti costruiti attorno alla piazza. Sembravano lucciole vagare nel buio.

Mattias dovette reprimere diverse volte l'impulsi di sbraitare contro quegli adulti maleducati e presuntuosi. Se fossero stati più bassi di lui…

Scattò in mezzo a due uomini alti e snelli, sfiorandoli come fosse il vento. Ossuto emise un grido terrorizzato, tenendo strette le sue piccole mani sul soprabito stropicciato.

Ripeté le movenze precise e snodate per evitare il contatto, sia visivo che tattile, con altre cinque persone. Ignorò le loro imprecazioni mentre scompariva nello spazio stretto tra due bancarelle. Brontoloni senza cervello. Ecco cosa siete.

«Ehilà!» annunciò tra un respiro e l’altro.

Mattias sbirciò lo spazio minuto dietro al tavolo di legno su cui giacevano gingilli e cianfrusaglie ammassati come cumuli di terra. Aguzzò per bene lo sguardo: gioielli di dubbia qualità, ingranaggi malandati e stoviglie arrugginita. Roba di poco valore, oggetti che solo gli sprovveduti e i creduloni comprerebbero.

«Arrivo!» disse una voce possente.

Un teschio con una corona di tasselli e dagli occhi color dell’alba sbucò da sotto il telo rosso porpora. Pareva infastidito, quasi stizzito.

Mattias fece scivolare Ossuto a terra e posò con cura la sacca, l’ultima cosa che voleva era danneggiare gli altri pacchi. Estrasse un oggetto coperto da un involucro di carta sottile e glielo porse. Le braccia gli tremavano dalla paura, non voleva incrociare quei puntini infuocati.

L'essere fece lievitare il pacco verso di sé. Lo fece girare su sé stesso in diverse direzioni: avanti, destra e sinistra. Lo guardò per un istante, poi annuì soddisfatto.

«È perfetto» sancì contento la testa. «Grazie, giovanotto. Anche a te, fratello d'ossa. In futuro saprò chi chiamare se avrò bisogno di fare una consegna.»

Mattias dilatò le labbra un sorriso tirato. Prese Ossuto, alzò i tacchi e corse dritto dove era spuntato qualche momento prima. Con sua sorpresa, la marea di persone era aumentata e camminare in mezzo alla strada pareva impossibile.

«Reggiti forte!»

Si buttò nella mischia e strinse i denti. Spintoni, gomitate e piedi molesti misero a dura prova il suo corpo. Il vociare confuso e assordante delle persone attorno martellarono i suoi timpani senza alcuna pietà. Orientarsi nella penombra e nel frastuono imperterrito pareva un'impresa.

Scorse uno spiraglio alla sua destra, un faro di speranza. Fece un respiro profondo e cominciò a sgomitare e spintonare tutti quanti, senza guardarsi indietro. Scrollava le arrabbiature e gli insulti dei presenti di dosso. Si sentiva un cavaliere privo di scudo sotto un cielo pieno di frecce. Il pacco doveva arrivare a destinazione.

Sgusciò via, stremato e vittorioso. Mattias si fermò per un momento, i polmoni stavano andando a fuoco e il cuore non la smetteva di galoppare. Inspirò ed espirò per tre volte, il battere ritmico e opprimente si acquietò man mano che lo faceva.

Un ultimo pacco. Sospirò. Ancora uno e per oggi abbiamo dato abbastanza.

 
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from Storieparole

Facciamo che sono un pirata! Oggi, tornando dal lavoro, ho visto un bambino – avrà avuto 6 o 7 anni o giù di lì – che, una mano stretta tra le dita del papà, reggeva con l’altra una confezione di Pringles sfondata e ci guardava attraverso mentre camminava per strada, tutto contento. Chissà cosa vedeva, in quell’improvvisato cannocchiale? E di colpo mi sono ritrovata a pensare a quando, il Topolino arrotolato tra le dita, anch’io giocavo a osservare il mondo da un cannocchiale che trasformava il cortile di casa in un oceano dalle onde impetuose, la ghiaietta in banchi di pesci dei più strani e colorati, mentre dicevo a mia sorella ”Facciamo che siamo pirati!”, cercando di distoglierla da quelle sue noiosissime Barbie bionde-belle-ricche. Quanto spesso lei restava sulla riva, o cercava di convincere anche me a rimanere, offrendomi – oh, quale generosità! – di essere la cameriera del suo formoso alter ego rosa shocking! Ma io ero già salpata, vento in poppa e viso teso verso nuove avventure! Ero il capitano dei pirati, avevo tesori da trovare, nuove terre da scoprire, pescecani e nemici armati fino ai denti da sconfiggere.

Chissà quand’è che ci hanno rubato la magia. Non saprei dire in quale momento la sgangherata eppure potentissima formula magica del facciamo che ha smesso di funzionare, né chi ha gettato un incantesimo sulle nostre giornate, rendendole grigie e insipide e piatte, cercando di convincerci che nella vita dei grandi non c’è spazio per la fantasia, la meraviglia, la gioia. Eppure a volte è sufficiente incrociare lungo una strada polverosa e arroventata dal sole di fine giugno un bimbetto che guarda il mondo attraverso un cannocchiale fatto di cartone per ricordarsi che la vita è meravigliosa e piena di possibilità, che anche se non ci sono più né cortile né pirati nessuno può portarci via la gioia e la fantasia, perché sono dentro di noi e non importa quanto in profondità siano finite, sommerse da bollette e responsabilità e altre noiosissime cose da grandi: sono lì. E spetta solo a noi lasciare che tornino alla luce, come il più prezioso dei forzieri dei pirati.

 
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from Warp

Hey Livello Segreto (ma anche più in generale il Fediverso), sediamoci un attimo e facciamo quattro chiacchiere insieme.

L'argomento è Livello Segreto, il suo presente e il suo futuro, ma essendo inseriti in un contesto fortemente sociale come il Fediverso la cosa può interessare anche al di là delle singole utenze qui sopra.

Per prima cosa, parliamo di CW. Se ci penso dal punto di vista della moderazione, quello del Content Warning è probabilmente il concetto più difficile da far passare. Chi lo tratta come censura, chi lo vede come una limitazione delle proprie libertà e chi come qualcosa di inutile in un contesto di protocollo Activity Pub. La verità – come a volte accade – è ben più semplice di qualunque ricamo che si possa fare su questo argomento ed è qualcosa che abbiamo ripetuto allo sfinimento.

Il Content Warning è rispetto nei confronti delle altre persone. È evitare di entrare in un bar e trovare la tele accesa sulle notizie di cronaca nera. È aprire il proprio feed di notizie e non venire bombardati da... notizie sui bombardamenti. È affrontare argomenti lasciando alle persone la scelta di affrontarli quando si sentono di farlo.

Si torna sempre lì: Livello Segreto è una festicciola fatta da amic* a cui state partecipando con un bicchiere in mano. Va bene che i Social ci hanno alienato, ma dal vivo dubito che a persone sconosciute che stan parlando di quanto son belli i prati vi accodiate parlando di quel che sta facendo Trump.

Volete farlo? Va benissimo! Ma prima usate il CW e sondate il terreno e lasciate che siano le persone a scegliere se affrontare l'argomento. Su cosa uso il CW? Su tutto ciò che A TUO AVVISO può urtare la sensibilità altrui (è in primis un esercizio di empatia) e sicuramente per “NSFW, SPOILER, GUERRA, POLITICA” (come recitano le regole).

Ah ma quindi intendi che non devo usarlo per tutto ciò che non è videogiochi, musica, manga... ? Okay, questo è il secondo punto. La descrizione di Livello Segreto recita: “Livello Segreto è un'oasi social incentrata sul rispetto e la libertà. La comunità è nata per parlare di videogiochi, fumetti, musica, diritti, underground, controcultura, arte. LS è uno spazio senza pubblicità, annunci commerciali e gossip. Più che un'istanza generalista, è un'istanza nata intorno agli interessi e ai valori della sua comunità. Frequentatela e scopritela!” Il fatto che LS sia nato per parlare di alcune cose non ne limita l'utilizzo solo a determinati argomenti (non è mai stato così e mai lo sarà). Il punto di Livello Segreto – alla nascita così come ora – è dare alle persone un LUOGO diverso dove poter parlare e dove potersi interfacciare, ma senza per questo limitare gli argomenti di conversazione. Si torna sempre all'esempio della festa o del gruppo di amici: gioco a DnD con persone con cui parlo tranquillamente di film, politica, società, futuro... quel che ci interessa non è il contenuto – fino a un certo punto –, ma il modo di porsi.

Vogliamo dire che Livello Segreto è un'istanza generalista? Diciamolo. Ha senso farlo su internet dove anche decenni fa quando si usavano forum “settoriali” si parlava comunque della qualunque? No, non davvero. Ma se servisse a qualche persona per capire se Livello Segreto è il suo posto o meno allora... la risposta è questa e spero che la spiegazione sia soddisfacente.

Iniziative e contenuti futuri. Livello Segreto non ha alle spalle un'azienda o una struttura che produce contenuti (o che paga persone per produrre contenuti). Non esistono gli influencer, detta brutta e schietta. Significa sì che siamo in un posto un po' più libero, ma significa anche che dobbiamo essere noi (inteso in senso lato come utenza del Fediverso) a stimolarci vicendevolmente con contenuti interessanti e di qualità. Proviamo a vivere questa sfera social online invece che approcciarci con la stessa filosofia con cui “subiamo” altri social (perché di fatto portati a comportarci in tal modo). Un paio di esempi? Ecco qui: https://livellosegreto.it/@Micolcosta/114732565646758695 https://livellosegreto.it/@cretinodicrescenzago/114731559957535194 Qualche idea per stimolare un po' la nostra creatività collettiva c'è, spero che con un po' di tempo si riesca a imbastire e portare presto sui vostri schermi (allo stesso modo se avete qualche idea... scriveteci!).

Un'ultima cosa. Internet è ormai irrimediabilmente (o quasi?) contaminato da contenuti prodotti da AI. Abbiamo aggiunto tra le regole di Livello Segreto quella di NON pubblicare contenuti generati da intelligenze artificiali.

Dubbi, domande o perplessità: scriveteci. Ed & Kenobit

 
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from Signor Uscita

Vi sarà capitato di avere delle idee, dei pensieri o dei progetti. E vi sarà capitato che questi non trovino abbastanza spazio, o non abbiate e energie per approfondirli. Per completarli.

Ecco questo è quello che mi succede con lo scrivere. Ho delle idee che mi ronzano e che ritornano più volte. Sotto la doccia, mentre lavoro, mentre cucino. Vorrei produrre qualcosa, scriverci o anche solo parlare con qualcuno.

Si tratterebbe di rilasciare la pressione, è come liberarsi di un peso. Solo che, non lo faccio mai.

Intendo dunque scrivere e non completare i post. Per vedere cosa succede.

[...]

 
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from Nonsolobotte

Non-recensione libraria: “Il Super Senso”

Le recensioni sono una cosa seria, non come quelle che si trovano un tanto al chilo sui social brutti, del tipo “Mi dai gratis il tuo libro e io scrivo che è meraviglioso, così magari tu vendi qualche copia e qualche aspirante autore dà a me altri libri gratis”. No. Qualsiasi cosa siano quelle cose lì, non sono recensioni. Le recensioni sono una cosa seria, dicevo, dunque questa è una non-recensione. Non perché l’autore o la casa editrice mi abbiano dato gratis il libro – regolarmente pagato con denaro sonante dalla qui presente – ma perché quella che segue è solo la mia impressione a termine della lettura.

“Il Super Senso” è il secondo libro della trilogia, ideata da Paolo Borzacchiello, che ha per protagonista Leonard Want (cognome non casuale, come nessuna delle parole usate da lui o da Borzacchiello, che poi è lo stesso. O forse no), profiler linguistico comportamentale, che in questa nuova avventura si trova a fronteggiare il Presidente degli Stati Uniti e una giovane, timida donna incinta e con pensieri suicidi. Ritroviamo qui Lisa-Dio-Jessica Fletcher, Evelin, sempre bella come un angelo e letale come un demone, l’affascinante Lucifer e anche personaggi meno insoliti, come il pupillo e collaboratore e l’amata figlia ormai prossima alla maggior età. Lettura interessante, ricca di spunti condivisibili e degni di approfondimento personale, eppure non mi ha avvinta quanto il precedente. Sarà che sono refrattaria per indole ai sequel, sarà che ho trovato la storia più confusionaria, o magari sarà per quel paio di refusi – davvero, ne ho trovati due o tre al massimo – che mi hanno indispettita. In un altro libro sarebbero stati tollerati, ma qui, no. Da Want – e da Borzacchiello – mi aspetto l’eccellenza lessicale, stilistica e formale. Sicché, libro bello ma non eccelso nella sua trama. Discorso a parte gli insegnamenti disseminati con maestria tra le pagine, con l’ormai consueto sistema dei tre caratteri differenti (normale, corsivo e grassetto) per i tre diversi cervelli: questi sì sempre all’altezza. Ad ogni modo, la lettura mi ha lasciato il desiderio di tuffarmi nel terzo e ultimo capitolo della trilogia, quindi direi che lo scopo dell’autore può dirsi comunque raggiunto.

Titolo: Il Super Senso Autore: Paolo Borzacchiello Editore: Mondadori Anno di edizione: 2020 ISBN: 9788804730019

 
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from kipple


In senso figurato, ovvio, e metto in chiaro un paio di cose: non sto scrivendo questo per affibbiarmi una qualche primogenitura o la tessera numero 0 di un club esclusivo, è solo per dire che non lo sono più nel senso che la parola ha acquisito, ora che è più facile esserlo alla luce del sole, senza doversi scambiare gesti da carbonari. Avrei voluto poter attingere a una platea più ampia di possibili amicizie, all'epoca. Non era nulla di cui vantarsi, meglio tenere un profilo basso perché non si poteva essere sicuri degli interlocutori. Nerd non era un complimento, no no.
Quando per videogiocare dovevi pagare nelle sale giochi, considerate luoghi di perdizione per individui irrecuperabili, oppure avere qualche amico abbastanza ricco da potersi permettere una console o un qualche modello Commodore, prima che i prezzi diventassero più popolari.

Quando non potevi sfogliare una rivista di videogiochi in presenza di qualcuno più grande di te, figuriamoci andare in giro coi manga sotto gli occhi indagatori e giudicanti di un passante qualunque.

Quando le cose te le dovevi andare a cercare col lanternino, non le trovavi con un tasto magico.

Quando sul nastro trasportatore del supermercato rovesciavi una valanga di libri “sconvenienti”: Clive Barker, Stephen King, fantascienza a caso. Una volta, però, ho trovato una cassiera che era dalla nostra parte.

Quando, qualche anno dopo, uscire dalla proiezione di un anime era più disdicevole che farsi vedere alla biglietteria di una sala vietata ai minori. Quando Guerre Stellari e X-Files, quando l'aeromodellismo...

Quando si era una minoranza, insomma, quando noi eravamo piccoli e gli altri erano grandi, poi siamo cresciuti. Quelli più grandi di noi, ovviamente, ci sono ancora, ma siamo diventati abbastanza da comprenderci a vicenda, almeno all'interno delle nostre passioni. Quei figli ora sono diventati padri, insomma; io no, sono solo diventato più vecchio e anche questo va bene così.

Quando arriva la vita vera, che è come schiantarsi contro un muro, certe cose cambiano. Quando non trovi un lavoro o ne trovi uno da schiavo, quando i genitori invecchiano, si ammalano e peggio, quando il mondo che va a rotoli non sembra essere lontano come prima, quando capisci di riuscire appena a tenerti appena a galla nel presente e l'unica certezza del futuro è che non ne hai uno, ti passa la voglia di perderti in un videogioco, cadere tra le pagine di un libro. Seguire una serie diventa sempre meno attraente, anche la musica non suona più come prima e astrarsi dalle miserie quotidiane diventa impossibile, difficilissimo nel più paradisiaco degli scenari.

E così, proprio ora che potrei confondermi tra la nuova folla, con la diluizione della definizione di nerd a livelli omeopatici, so per certo di non far parte più della categoria. Non ho più la capacità di dedicarmi totalmente a certi argomenti, vivisezionarli, capirli profondamente, viverli, goderne. Non ricordo le storie, tantomeno i particolari, non ricordo i nomi; non ho la curiosità, il tempo libero (dalle preoccupazioni) da dedicare alla scoperta e alla riscoperta, sono fuori tempo massimo per i videogiochi moderni, i libri sono diventati noiosi dopo averne letti così tanti, l'estetica video contemporanea solitamente mi allontana, l'all you can eat del sistema abbonamento mi dà solo la nausea e non capisco come faccia la gente a guardare 300 serie tv 300 film giocare a 300 videogiochi da 300 ore nel solo mese di febbraio, che è ancora di 28 giorni salvo bisestili, come lo era quando ero nerd io, quando era brutto sentirsi apostrofare così.

Non saprei di cosa parlare, dove parlarne, con chi e come sostenere una discussione. Però, ora basta così: questi pensieri sono deragliati da un pezzo, non so dove andare a parare e la sintesi complessiva dei miei pensieri si riassume sempre in contenuti di scarsa rilevanza.

 
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from kipple


O di svitare qualcosa di ostinato in genere, ma nella realtà domestica il barattolo è il caso più comune.

Solitamente, si tratta di conserve, sottoli e sottaceti industriali, coi tappi avvitati da macchine che compensano la mancanza di cuore con una forza esuberante; solitamente, a occuparsene è la persona più forte in casa: statisticamente e per comodità, facciamo che sia il padre di famiglia. Questo padre che, sicuramente, agli occhi dei figli è pure l'essere umano più forte del mondo. È l'ultima risorsa, quando tutti gli altri muscoli in casa hanno fallito, ma il tempo passa. Eccome se passa. vola.
Prima o poi, la persona più forte della famiglia e, di conseguenza, del mondo, vi chiederà di aprire quel barattolo. E quel barattolo, che per tutti gli altri sembra un corpo unico, alla fine lo aprite e con uno sforzo relativamente leggero. “Tutto qui?”

Sono arrivato a questo punto di svolta ormai parecchi anni fa, ormai un numero a due cifre. La sensazione fu galvanizzante: il testimone era stato passato, ero il re della foresta, il più forte in quel microcosmo che è la casa. Era solo l'euforia iniziale, trasformatasi ben presto in tristezza, giusto il tempo di rendersi davvero conto della situazione.

Era iniziato il declino di quello che, nel bene e nel male, era il punto di riferimento. La persona che per anni si era presa cura di me, sempre nel bene e nel male, da quel momento in poi avrebbe avuto bisogno di qualcuno che se ne prendesse cura. Magari si fosse trattato, da lì in poi, solo di aprire barattoli. Quando mi son sentito dire “aiutami ad alzarmi dalla sedia, non ce la faccio, voglio andare a riposarmi un poco”, ho capito che anche io stavo iniziando a morire.

Faccio volontariato in un posto, nonostante la mia età sono tra i più giovani del gruppo. Mi chiedono di avvitare e svitare cose, operazioni che loro fanno con le pinze, a me bastano ancora solo le mani; quell'irrigatore, che per loro è a fine corsa, nelle mie mani fa ancora una decina di giri. Quando mi è (ri)capitato la prima volta, però, non ho provato nessuna euforia, nessun brivido di forza. Mi sono solo intristito e ho fatto in modo che non se ne accorgesse nessuno.

 
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from Ore liete


Per un anno siamo stati in villeggiatura a Lettopalena, un ridente (si dice sempre così) paesino abruzzese in provincia di Chieti, oggi circa 300 abitanti e qualcuno in più, ma non tanti, nei primissimi anni Novanta. Del paesino, però, avrò modo di parlarne qualche altra volta.

Venivamo da tre anni consecutivi di villeggiatura al Matese (San Gregorio – Castello – San Gregorio) e avevamo deciso di cambiare un poco aria, all'epoca si spulciavano le inserzioni su pubblicazioni come Fieracittà e Bric à Brac; non so che fine abbiano fatto, il primo avrà chiuso i battenti di sicuro. Troviamo questa inserzione, c'eravamo con i tempi e le date e anche il prezzo sembrava interessate. Quanto pagavamo per quelle casette? Solitamente, tra 350.000 e 450.000 lire, per un mese o una ventina di giorni. La ventina di giorni sarebbero, in realtà, nominalmente due settimane, ma i proprietari ci dicevano puntualmente che non ci sarebbero stati problemi a restare qualche giorno in più del dovuto.

E andiamo in Abruzzo, troviamo il paesino, raggiungiamo la casa a suon di indicazioni dei passanti. Due livelli e un'ampia cantina, un lato della casa affacciava direttamente su uno dei monti della Maiella, 2.500 metri di altezza circa, una cosa che non smetterà mai di stupire gente che, come noi, veniva dal livello del mare. Ogni mattina era una meraviglia.
Ora, la cosa che mi meraviglia abbastanza di queste situazioni è la fiducia che certe persone ripongono negli estranei, gente che viene da un'altra regione, impossibile da rintracciare: li avevamo contattati sul telefono fisso, all'epoca telefono e basta, non è che ci fossero alternative, e tanto bastava. Si erano fatti trovare in casa il giorno dell'appuntamento e quello fu il nostro unico contatto visivo, fisico.

Le case da villeggiatura, solitamente, sono semivuote, arredate il minimo possibile, con sedie, tavoli, qualche mobile e basta: questa no, era una vera e propria seconda casa, un posto dove poter abitare tranquillamente. Mobili pieni di cose, elettrodomestici, scaffali e mensole coi libri (ne approfittai per leggere, un paio di volte, Harold e Moude), tutto quello che si troverebbe in una casa di dimensioni generosi. E sotto c'era la cantina, l'ho già detto. Piena di cose anch'essa, con conserve, damigiane di vino e olio, una videocamera Super 8. Tutta roba, come quella in casa, che avremmo potuto prendere in prestito a tempo indefinito, cosa che, ovviamente, non facemmo.

Praticamente, questa brava gente, onesta e ingenua (nel senso più benevolo del termine, se ci fate caso le persone così e quelle buone in generale pensano che anche gli altri si comportino come loro, a differenza delle carogne che... pensano che anche gli altri siano come loro), si era fatta vedere per lasciarci le chiavi e farsi pagare quanto pattuito telefonicamente, per poi scomparire per sempre dalla nostra vita. Le chiavi le avremmo lasciate al vicino quando avremmo deciso di lasciare la casa, loro non sarebbero tornati a breve.

Io, invece, torno alla cantina e a qualcosa in essa contenuto, il titolo lo annunciava: uno skateboard. Era di quelli col corpo in plastica, piccolo e abbastanza stretto da non poterci poggiare del tutto i piedi sopra senza lasciarli sporgere ed era la cosa che mi pareva più interessante tra quelle presenti. Assieme alla Super 8 che, però, non aveva la pellicola su cui registrare e poi, comunque, non avrei avuto modo di sviluppare e vedere. La casa si trovava ai margini di un piazzale di forma approssimativamente ovale, usato come parcheggio, da cui partivano alcune stradine che portavano a una strada più esterna, diciamo concentrica. Queste stradine erano lunghe una decina di metri al massimo, ma in discesa. Una discesa particolarmente ripida.

All'epoca, sullo skateboard ci sapevo andare: non sapevo fare nessun trick, ma ci stavo in equilibrio, potevo andarci in giro. Me la cavavo meglio coi pattini, non mi spiacerebbe reimparare ad andarci. Qual è la prima da fare, per uno che su uno skateboard sa giusto starci in equilibrio, spingersi e girare un po' qua e un po' là? Ovvio: prendere la rincorsa sul piazzale e lanciarsi lungo la più ripida di quelle discese, perché queste sono le cose che fanno i cuccioli di animali, da che mondo è mondo: le cose sceme e pericolose, non è mica un'invenzione di questi tempi moderni. Lo skateboard sguscia via come impazzito, tra il realizzare la cosa e battere pesantissimamente il coccige sull'asfalto è questione di centesimi di secondo per un cronometro, un tutt'uno per la concezione umana del tempo, sicuramente meno scientifica. Se gli alberi della Maiella fossero stati imbiancati, avremmo potuto vedere la neve venir giù dai loro rami, in risposta a quell'urto che si premurò di accompagnarmi, sotto forma di dolore sordo e persistente, per qualche giorno. Era un corpo ancora giovane, il mio, quindi pronto a reagire. Oggi avrebbero dovuto raccogliermi da terra, quindi non lo rifarei. E neanche quella volta lo rifeci, ma passato il dolore, eccomi di nuovo sullo skateboard azzurro. Solo per scorrazzare nel piazzale, però: quell'esperienza mi aveva insegnato qualcosa.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Da dove sono partito

Circa un anno fa, a cavallo fra primavera ed estate 2024, ero in uno stato costante di disregolazione emotiva causato dall'uso compulsivo di Instagram e Reddit (e in parte X), per cui scelsi di andare alla radice del problema e tagliare via i social network commerciali: basta accesso costante a un flusso perpetuo di informazioni miste, strutturato in una forma tale da farmele ingurgitare senza ragionarci sopra e mirato a scandalizzarmi e farmi polemizzare sul nulla. Il passo successivo fu spostarsi su (quel che resta de) l'internet libero, con un profilo Mastodon, questo blog qua, e la riscoperta di newsletter e feed RSS, nel tentativo di riprendere io il controllo dei flussi di informazioni che mi raggiungono: nel tentativo di responsabilizzarmi e controllare io a che informazioni accedo, quando e come. La cosa è escalata al punto che, a una certa, ho distrutto Windows 10 sul mio portatile e ci ho montato su Linux Mint. Oggi, in ogni caso, mi rendo conto che ho davvero ancora tanto da fare.

Cos'ho imparato sinora

Riprendendo alcuni dei passaggi più interessanti di Hacking del sé, la chiave di volta del mio percorso è che devo ancora accrescere la consapevolezza di me stesso e il mio autocontrollo. In particolare:

  • Ho imparato sulla mia pelle che davvero i mali del secolo sono la noia, la mancanza di focus, e la solitudine, perché pur essendomi sbarazzato degli spazi online più esplicitamente pensati per succhiarci via tempo ed energie (e preziosi dati monetizzabili), nondimeno non mi sono affatto liberato del doomscrolling: se ho davanti del tempo vuoto, più o meno lungo, o se voglio fare una pausa da un'attività, l'istinto automatico è ancora di tirar fuori il telefono per sfogliare e aggiornare all'infinito le cronologie di Mastodon, o le caselle e-mail, o i miei blog preferiti, o leggere e rileggere articoli di Wikipedia e TV Tropes che vanno a toccare sempre gli stessi pochi temi di mio interesse, magari più volte gli stessi fino a memorizzarne dei brani. Confesso di avere abbastaza schifo di questa mia incapacità di sganciarmi dal cellulare e dalla sua illusione di essere agganciato e partecipe ai fatti del mondo, e dedicare invece il mio spazio-tempo vuoto a un'attività continuativa, possibilmente analogica (ma su questo ci torneremo).
  • Ho imparato che il mio autocontrollo informatico diventa decisamente migliore se riesco a metter via il telefono (tendenzialmente in carica sul comodino) e a lavorare sul computer, perché la maggiore “ergonomicità” del lettore di feed RSS mi permette di isolare l'accesso alle notizie sul suo software dedicato, e immergermi meglio su ciò che effettivamente voglio fare, che sia un lavoro in cloud via browser o un lavoro locale con programmi locali. E ora che sono su Linux, non devo più sprecare le ore a tenere il computer accesso senza usarlo affinché installi gli abnormi aggiornamenti di Microsoft.
  • Ho imparato che compartimentare meglio gli ambienti del cyberspazio mi aiuta ad attenuare la “reperibilità 24/7”: seguendo uno spunto di Liberare il mio smartphone per liberare me stesso, sono riuscito a catalogare i miei strumenti informatici fra modalità lavorativa e modalità personale: le credenziali della piattaforma Google con cui lavoro sono state relegate a un profilo utente apposito sul cellulare, e a un browser dedicato sul computer (Chromium, contrapposto al Firefox per uso personale), e in tal modo sono io a cambiare nome utente o browser, in modo da decidere quando dedicarmi al lavoro e quando ai fatti miei. Certamente, resta il problema che su telefono non ho ancora saputo snellire e scremare le funzionalità “personali” in modo da non cadere in meccanismi di dipendenza (vedi sopra).
  • Ho imparato che la decentralizzazione dei cyberspazi e l'eliminazione degli algoritmi profilatori non bastano a rendere sano Internet: prevedibilmente, serve a monte un'etica-deontologia dello stare su Internet, e una consapevolezza di che spazio abiti e di come lo stai usando. In questi ultimi 6 mesi circa, ho usato Mastodon essenzialmente per sfogare i miei patemi personali e/o le mie filippiche a tema politico, non diversamente da come facevo su Instagram: a differenza che su Instagram, non credo di aver fatto stare male altre persone, ma sicuramente ho inquinato e degradato la qualità dei contenuti di uno spazio autogestito che è stato troppo gentile per dirmi di piantarla. Come si è detto in questo interessantissimo dibattito avviato dall'utente Xab, forse è il caso di uscire dal paradigma post-Facebook per cui i social network siano una “federazione di blog”, in cui ogni utente può raccontare quel che vuole senza badare all'effetto complessivo sullo scambio di informazioni, e tornare invece nel paradigma forum: ogni spazio online ha una funzione designata (come ogni profilo utente sul telefono, vedi sopra), ed è tuo dovere di utente immetterci dati coerenti con tale funzione. Come non si usa un foglio di testo come foglio di calcolo, analogamente non si parla di cavoli propri in un luogo di discussione tematica.
  • Ho imparato che saperti montare da solo Linux, armeggiare con un file epub e scrivere testi in Markdown non conta nulla come capacità informatica: le competenze digitali che ti permettono davvero di fare hacking sono altre e molto più avanzate, e bisogna avere l'umiltà di ammetterlo e decidere se si può e vuole impararle davvero con studio costante.
  • Ho imparato che acquisire solo capacità informatiche non conta granché, in un progetto generale di vita più consapevole/politicizzata/antagonista/come cavolo vogliamo chiamarla. Grazie al cielo il mondo fisico è ancora là fuori, e per fare davvero contropotere punk servono piuttosto capacità di agricoltura, di meccanica-elettricistica-idraulica, di cucito/sartoria e di cucina. Insomma, quelle competenze pratiche che non studiamo più a scuola per classisimo, ma che cinquant'anni fa erano patrimonio di tutta quella generazione capace di occupare case vuote in città e di mettere in piedi comuni in campagna.
  • Ho imparato che per me la militanza politica è fonte di gioia e soddisfazione costante, perché anche nel fallimento sento di stare agendo contro un sistema marcio, ma dall'altra parte è la cosa di cui più sono pratico, a fronte dei vari hobby di cui so poco e in modo settoriale.

I miei propositi da qui in poi

Sono tutti questione di accrescere la mia autodisciplina:

  • Assumere un maggior controllo del mio telefono e spazzare via le fonti residue di distrazione. Basta applicazioni separate se non strettamente necessarie (tipo lo SPID): tutto il resto via browser, e vanno messi a regime i feed RSS sul telefono, come già lo sono su computer. Basta doomscrolling.
  • Di pari passo, meno telefono in mano e più lettura di testi lunghi quando sono fuori casa. Piuttosto, che mi guardino storto, ma da ora sì all'e-reader a tavola.
  • Di pari passo, più notizie in formato cartaceo, ovviamente di testate selezionate. Sono due settimane che riesco a leggere da cima a fondo «Internazionale», dopo anni che mi perdevo sempre per strada, forse riuscirò ad appaiarci un altro settimanale cartaceo (quale, non so). E magari, anche una bella riscoperta delle radio.
  • Nella mia vita reale, circoscrivere un po' di più e un po' meglio l'attività politica e dare più spazio ai miei hobby, prima di trasformarmi nel mio avversario naturale, cioè il sinistronzo con una copia de Il capitale su per il culo e zero vita culturale-ricreativa.
  • Saper smanettare poco e male coi computer non fa alcuna differenza tangibile nel mondo attorno a me. È ora di imparare cose pratiche vere, che siano competenze artigianali e/o lingue straniere. Voglio dire, un Egiziano mi ha detto che potrei diventare un discreto arabofono!

E niente, credo che questo sia tutto. Ci riaggiorniamo fra sei mesi, per valutare se e quanto ho assolto ai miei propositi.

 
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from Nonsolobotte

LA NOTTE DEI LUNGHI ARTIGLI

La notte dei lunghi artigli

Francis e Gustav vivono insieme. A volte si amano, a volte si tollerano a fatica, ma convivono ormai da anni e non saprebbero stare lontani l'uno dall'altro. Questo fino a quando compare Francesca... Donna, quindi biologicamente affine a Gustav che è un uomo (ah, dimenticavo di dire che Francis è un gatto!), arriva a sconvolgere il tranquillo ménage à deux. Così Francis decide che qull'appartamento non è abbastanza grande per tutti e tre e scompare. Inizia così la sua seconda vita, una vita fatta di mistero, intrighi felini e delitti.

Gran bel libro, sia per chi ama gli intrighi sia per chi ama i gatti. Se li amate entrambi, non potete proprio perdervelo!

Titolo: La notte dei lunghi artigli Autore: Pirinçci Akif Traduttore: Boschetti S. Editore: TEA Data di Pubblicazione: 1996 ISBN: 8830412147

(Nonsolobotte – 4 gennaio 2008)
 
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from bianot

oddio

scrivo questo testo in differita (ho scritto questo testo in differita?) perché ho fatto scadere l’invito a Log, e, insomma, non so se questo già basti a raccontare o introdurre o a presentare – la testa di rapa che un po’ sono. ma non è tanto importante il come (in ritardo, cioè) ma il perché, si dice, e quindi intanto racconto questo, che ho avuto un grande desiderio di scrivere e raccontare quel che succede a scuola, e l’ho avuto proprio da quando sono a scuola. negli ultimi mesi faccio mentoring, parola che vuole dire proprio poco, mi fa pensare a quei termini vaghi come Animale, come diceva Derrida, che sono dei singolari-generali che raccolgono al loro interno tante cose e quindi forse troppe, cioè forse nessuna cosa, e però pure con l’aggravante del tecnicismo inglese che non son nemmeno sicura sia tanto tecnico, ma comunque, ecco, il mentoring è una via di mezzo fra l’aiuto compiti e l’orientamento e il sostegno a volte un po’ emotivo. io non so consolare le persone, mi ha detto a proposito (ragazza) proprio oggi, mentre leggevamo l’epopea di gilgameš. allora ci ho pensato un attimo (neanche io so consolare le persone, penso sempre, mi sento rigida senza garbo improvvisamente estranea e a volte quando arriva il loro dolore a me sembra di sentire quello, che è il loro dolore, e poi però un mio privilegio, o una distanza che si chiama fortuna, anche se anche io lo sento quel dolore, o lo so sentire, immaginare, e mi fa sentire un po’ in colpa, e mi lascia lì a orbitare). allora le ho chiesto, e tu (ragazza), che cosa ti fa sentire consolata – trovi che le altre persone ti sappiano consolare? e lei è rimasta in silenzio e ha detto: questo non lo so, non me lo sono mai chiesta, è una domanda con una risposta difficile. ma, quanto a me, diceva, io le persone però le abbraccio solo, e mi sembra poco, e questo lo so. io ho pensato che invece era tantissimo e gliel'ho detto, e anche detto, guarda, spesso basta quello spazio lì, che va da un braccio all’altro, lo spazio di due braccia?, in cui dirsi: ecco qui, ma certo, per questo dolore c’è spazio, vedi?, di questo dolore siamo capaci (capace è capax dal latino, quella parola che parla anche della bottiglia, e che ci dice che ha questa o quella capacità di contenere, capacità che spesso varia, direi proprio)). dicevo però, e ancora arrivo in ritardo, vi chiedo un po’ scusa, che questa cosa di scrivere mi è venuta soltanto a scuola – forse perché a scuola amavo scrivere e scrivevo tanti racconti, ed era facile e poi ho smesso, e scrivere è diventato solo un compito e un far vedere che so fare, o che dovrei saper fare, che so produrre una cosa sensata, forza, guarda, oh no, mi stanno guardando, mi stanno leggendo, e forse per questo il fatto che scrivo finisce ormai per significare che produrrò anche qualcosa di un po’ oscuro (metà colpa del fatto che sono involuta di mio, metà grazie al fatto che mi piace che le frasi prima che leggerle si possano suonare o insomma si muovano da sé e che somiglino quasi al verso, forse come quello che fanno gli animali – alcuni animali, specifichiamo quali, che sennò non vale: a me piacciono gli insetti, per esempio, e loro cantano parecchio, sarà questo?). e succede questo pianto e stridore di denti, dico un po' scherzando e un po' sul serio, perché nello scrivere per me c'è dentro anche tanto della vergogna, dell'esporsi quando non sempre si vuole, e così via. però l’altro giorno, uscita da scuola, volevo – avevo in testa che volevo scrivere qualcosa di più lungo, magari non proprio questo, sicuramente non proprio questo, e anche ieri dopo le nuove due ore in classe avevo in testa ancora una cosa del genere, o questa cosa che è un po' degenere, lo ammetto. e quindi, intanto, le ho messe per iscritto, e ora le metto qui. come si dice. piacere? dopo, comunque, vi racconto meglio.

 
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from Storieparole

La storia di oggi parla di un uomo dimenticato, un uomo sconosciuto ai più, che non venne creduto in vita e il cui nome è stato seppellito dalla polvere degli anni.

Max Gerlach venne al mondo in Germania nel 1885 – sono dunque trascorsi 140 anni dalla sua nascita – ma si trasferì ancora bambino negli Stati Uniti d'America, dove studiò, lavorò come meccanico e si arruolò nell'esercito, nel 1918. Se la sua storia vi pare fin qui comune a quella di milioni di altri individui, non siete troppo lontani dalla verità, ma Max era deciso a incarnare quel sogno americano di cui traboccano racconti e film: lui non voleva una vita ordinaria, lui voleva splendere.

Il lavoro di meccanico lo portò a incontrare le più diverse persone, appartenenti ai più disparati ambiti sociali e professionali, ed è proprio lavorando nella sua officina, dando nuova vita ad automobili acciaccate, che probabilmente gli venne l'idea di dare nuova vita anche a se stesso: iniziò facendosi chiamare Max von Gerlach, ammantando il proprio nome con un velo di europea nobiltà, e prese a parlare in modo raffinato e snob, usando spesso l'intercalare “old sport”.

Se a questo punto un'eco lontana ha iniziato a sussurrarvi nella mente non dovete stupirvi troppo: Max Gerlach fu tutt'altro che una persona comune e la sua storia, o perlomeno quella che da essa trasse con ogni probabilità ispirazione, è stata diffusa in tutto il mondo, venendo trasposta anche in due film di successo con attori di fama planetaria.

Max Gerlach

Ma forse qualche altro indizio vi guiderà verso la soluzione del mistero. Come dicevo poc'anzi, il lavoro di Max lo portò a entrare in contatto con le persone più diverse; tra queste, il boss mafioso Arnold “The Brain” Rothstein (anch'egli di chiara ascendenza germanofona), passato alla storia per lo scandalo delle scommesse esploso in seguito alle finali truccate del campionato di baseball del 1919. Tra le variegate conoscenze maturate da Gerlach spicca il nome di un celebre autore statunitense: Francis Scott Fitzgerald.

Lo scrittore non fece mai mistero di trarre ispirazione dalla sua vita per scrivere poi i propri romanzi: chiaramente riferito ai suoi anni da studente a Princeton è ad esempio “Di qua dal Paradiso” e certo non mancano spunti autobiografici in “Belli e dannati”; ha dunque senso supporre che anche “Il grande Gatsby”, la sua opera più celebre e di cui quest'anno ricorre il centenario della prima pubblicazione, immergesse le proprie radici nel terreno della realtà quotidiana.

A supporto di questa teoria, che vedrebbe lo sconosciuto e dimenticato Max Gerlach come ispiratore del personaggio di Jay Gatsby non ci sarebbero soltanto i numerosi “old sport” usati come intercalare dai due (Gatsby pronuncia questo “vecchio mio” ben 42 volte all'interno del romanzo, e la frase è stata ripresa anche nei film che hanno visto protagonisti Robert Redford prima e Leonardo Di Caprio poi): la reale “collaborazione” di Gerlach col mafioso ebreo Rothstein richiama da vicino quella romanzesca di Gatsby con Meyer Wolfsheim, anch'egli votato al crimine e dotato di cognome tedesco, e c'è poi la telefonata che lo stesso Max Gerlach fece a una trasmissione radiofonica, nel 1951, nel corso della quale si stava presentando una biografia di Fitzgerald, asserendo di essere lui il vero Jay Gatsby. Ma non venne creduto. Da tempo si identificava “Il grande Gatsby” con Robert Kerr, molto amico dell'autore, uomo di umili origini e capace di dare la scalata al successo proprio come il protagonista del romanzo: la “sparata” radiofonica di un meccanico immigrato, ormai vecchio e malconcio, non venne minimamente presa in considerazione.

Questo fino a quando, parecchi anni dopo, un altro biografo di Fitzgerald, Matthew Bruccoli, non trovò tra alcuni appunti dell'autore una scritta di Max Gerlach che diceva “How are you and the family, old sport?” (“Come state tu e la famiglia, vecchio mio?”). Troppo tardi per dare all'anziano meccanico in pensione il giusto riconoscimento: era morto al Bellevue Hospital di New York nel 1958. Ma non troppo tardi per raccontare la sua storia.

Max Gerlach il grande Gatsby

 
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from Storieparole

Scrivere

Perché scrivere? Comunicare fa parte della natura umana, anzi: trasmettere le proprie conoscenze ai membri del branco e ai cuccioli, evitando loro rischi e pericoli, organizzando le battute di caccia o pianificando la difesa o l'espansione del proprio territorio, è caratteristica comune a tutti gli animali che si ritengono più evoluti. Ma comunicare non è scrivere. Quando, a Lascaux, circa 17500 anni fa, qualcuno disegnò cavalli, cervi, bisonti e lasciò il segno delle proprie mani sulle pareti delle grotte, certamente voleva comunicare qualcosa, forse ai posteri o forse al divino, ma per passare dai disegni alla scrittura è necessario attendere molto a lungo: attualmente il più antico testo scritto è, secondo molti studiosi, la tavoletta di Kish ritrovata appunto nell'antica città sumera di Kish, nell'attuale Iraq. Tavoletta di Kish

Si tratta, come da consolidata tradizione mesopotamica, di una tavoletta d'argilla, sulla quale sono stati incisi simboli proto-cuneiformi, ma la cui datazione è ancora oggetto di discussione, essendo stata scoperta in un'epoca in cui l'archeologia era ancora molto più basata sull'avventura e l'intraprendenza che non sulla scienza e la stratigrafia, e anche il suo significato è oggetto di speculazioni e diatribe. Io credo sia l'inizio della barzelletta: “Sapete cosa fanno un ittita, un egiziano e un sumero in una taverna?”

Pur tra i mille dubbi che ancora ammantano la nascita della scrittura, almeno la sua funzione pare certa: si scrive – e si scriveva – per fissare concetti e sapere, per tramandare, come dicevamo all'inizio, le proprie conoscenze, nel sacro come nella contabilità, nelle leggi come nella medicina. Non si sa con certezza neppure quando la scrittura, dono divino secondo svariate culture del passato, sia uscita da templi, palazzi e tribunali per andare ad abbracciare la cultura popolare, fissando con parole immutabili racconti che prima erano destinati a svanire insieme al suono delle voci. Nell'estate del 2018 un gruppo di archeologi impegnati in una campagna di scavi nel sito di Olimpia Antica ha scoperto una tavoletta di argilla su cui erano incisi i primi 13 versi dell'Odissea di Omero; datata come riconducibile all'epoca romana, attorno al III secolo dopo Cristo, potrebbe essere la più antica testimonianza scritta di un poema occidentale. Tavoletta omerica

Per arrivare ai romanzi, però, è necessario attendere ancora svariati secoli: il termine romanzo probabilmente deriva dal francese antico romanz, a sua volta proveniente dall'avverbio tardo latino romanice che significa “alla romana” e veniva usato per designare i cittadini di origine romana che parlavano, appunto, “romanice”, a differenza dei barbari. È solo nel XII secolo che in Francia la parola romanz assume anche un altro significato, andando a designare il discorso o il testo in lingua volgare, e più tardi ancora indicherà quelle opere letterarie che riprendevano i miti e le leggende del mondo classico. Come da questo si sia arrivati al surplus di scrittura e pubblicazioni che dominano il nostro vivere quotidiano, però, è un'altra storia...

 
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from basseaspettativepodcast

Il controllo dell'informazione (in senso buono)

Nell'ultima puntata ( https://open.spotify.com/episode/4xN1OprIN2gfsqVERnWJdE ) abbiamo parlato di misure applicabili contro il complottismo.

Una misura che ci sembra venga spesso presa sotto gamba è quella del controllo dell'informazione: non stiamo parlando del controllo centralizzato da parte di un ente o un governo, ma del controllo che possiamo applicare tutti noi quando stiamo per condividere un'informazione.

Più il titolo dell'articolo è eclatante, più l'emozione generata in noi è forte e più velocemente tenderemo a condividere un'informazione. Spesso senza controllarne la veridicità. È il meccanismo che rende virali notizie “che non lo erano”, ad esempio notizie vere, ma riportate in modo incorretto o distorto, oppure notizie false (“fake news”).

Gli studi dimostrano che la misinformazione, ad esempio un politico che cita delle statistiche in modo errato o distorto per giustificare una legge, ha un impatto più grande delle “fake news” che spesso sono relegate ad una frangia più estrema e numericamente ridotta della popolazione.

Quindi quello che possiamo fare nel nostro piccolo è controllare le notizie che condividiamo: è proprio vero che un nuovo studio conferma che mangiare cioccolata fa bene? Probabilmente i ricercatori scrivono qualcosa tipo “è stato riscontrato un miglioramento nel 51% dei soggetti testati, ma non è possibile stabilire un nesso causale”. Invece di condividere acriticamente, andiamo a leggere lo studio, facciamoci un'idea più chiara, forniamo un contesto al semplice link e al titolo “acchiappa click”, così che le persone che leggeranno la nostra condivisione potranno a loro volta fermarsi a riflettere.

Poi, certo, qualcuno potrebbe argomentare che in questo modo l'algoritmo potrà dare ancora più spazio alla fuffa che viene generata e ricondivisa alla velocità della luce, ma quello è un problema differente e andrebbe affrontato con strumenti diversi.

 
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