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from Il Problema della Musica

Nel 1980 andai al Vigorelli a vedere i Kiss. Come opening c'era questa band di sconosciuti, si chiamavano Iron Maiden e Paul Di'Anno era il loro vocalist. Il pubblico non fischiò per far sloggiare la band di apertura, come spesso accade, tutt'altro. Furono un pugno allo stomaco. Uscimmo da lì con la sensazione di aver sentito qualcosa di nuovo, destinato a durare nel tempo. Il giorno dopo mi precipitai ad acquistare il loro primo album.

Che la terra ti sia lieve, Paul 🥺

https://www.ondarock.it/news/morto-paul-dianno-iron-maiden.htm

 
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from Testudo Blues

Crepitìo radio

Qualcuno si schiarisce la voce

Bentornati all’ascolto, mascalzoni e sicofanti. Una splendida giornata di sole splende sulla città isolata di Testudo, e il vostro umile centauro Danny Catenaccio è ancora qui, vivo e vegeto. Vi starete chiedendo come ho fatto a sopravvivere al maledetto pasticcio in cui mi ero cacciato e la risposta è semplice: ho trovato un buon amico, che a sua volta aveva dei buoni amici. Nessuno sopravvive da solo, in questo mondo crudele, ficcatevelo bene in testa. Non posso raccontarvi ogni cosa nei dettagli, ma sappiate che, qualche giorno fa, il signor Ranucci si è visto recapitar, da uno dei suoi musicisti jazz, una piccola scheda di memoria che conteneva un video in cui sua moglie affermava di volerlo morto. La scheda era infilata in una busta con un biglietto che diceva: “dai suoi amici Bronco e Catenaccio.” E così la nostra condanna a morte è stata revocata. Quanto alla moglie del nostro amico, beh, una gang di adolescenti l’ha catturata mentre cercava di fuggire da Fast-food Lawn e ci ha chiesto cosa volessimo farcene. Bronco ha detto di avere un’idea. L’avrebbe fatta arruolare nel Branco, una comunità di banditi che vive nell’estrema periferia di Testudo. Il leader di questa comunità, un temibile bandito chiamato “il Coyote”, è molto rispettato nel sottobosco criminale della città. In questo modo, la signora Ranucci avrebbe avuto una nuova vita e forse non sarebbe finita ammazzata per opera di suo marito. A quel punto Bronco mi ha chiesto di accompagnarla dal Coyote e io ho – contro ogni dettame del buon senso – accettato. Lo so, mettermi in viaggio con la donna dei miei sogni, che suo marito vuole uccidere per colpa mia, non sembra esattamente una buona idea. Ma al cuor non si comanda. Pensate che finirò nei guai? Beh, è proprio ciò che mi è appena successo. Per colpa del mio inguaribile spirito romantico, mi sono ficcato in un guaio grande come l’intera città di Testudo. Ma questa è un’altra avventura e ve la racconterò un’altra volta. Chiudo la trasmissione di oggi con un consiglio di pubblica utilità: occhio ai predoni travestiti da gentiluomini che negli ultimi tempi infestano i quartieri alti. Questa città diventa ogni giorno più pericolosa, ma in qualche modo troviamo sempre il modo di andare avanti. Alla prossima avventura, cari i miei mascalzoni.

 
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from Il Problema della Musica

Si inizia alle 16, caricando l'auto. Si finisce all'1.30 della notte, scaricando l'auto. In tutto due ore di musica, in mezzo i montaggi, le discussioni (anche con il gestore), le risate, il soundcheck, la cena di gruppo, le facce, il concerto, i piccoli problemi tecnici, quelli che cantano con te e quelli che ballano con te, lo smontaggio e il ritorno. Vale la pena tutto questo sbatti? Si. Perchè lo spettatore contento che a fine serata ti ringrazia, è stato bene, e questo è fare musica, cultura è anche regalare due ore di pensieri leggeri in tempi pesanti. Perchè la coppia attempata li davanti, che non si è persa neanche una nota, che andava a tempo, che pensavi “sono qui per mangiare, ora scappano” e invece no, è un regalo incredibile. Me la vivo tutta, la serata, in ogni suo aspetto, perchè a questo desideravo arrivare, per questo ho lavorato e lavoro e studio e mi sbatto, per quelle due ore in cui sei su un palco, e ti senti scorrere il sangue nelle vene, mentre l'amplificatore pompa le note, e tu vibri con loro. E il giorno dopo sei pronto per la prossima, e conti il tempo che ti separa dal ricominciare. Well Done!

 
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from videogeco


Cantonate corali prese nel corso, principalmente, degli anni Novanta: quei malintesi, più o meno colossali, sui nomi di mosse, personaggi e tutto il resto.

Dico anni Novanta sostanzialmente per l'introduzione del “sonoro” negli arcade, per essere più precisi i campionamenti vocali, principalmente nei picchiaduro: quei mondi alternativi, proprio come gli anime, dove la gente sente il bisogno di anticipare vocalmente le proprie mosse. L'audio in questione era quel che era: lo spazio a disposizione era ancora poco, pochissimo, non lo si poteva sprecare in vocalizzi cristallini. Sulla qualità dei cassoni pure, spesso, non ci si poteva fare affidamento: casse bucate o spompate, collegate fisicamente con saldature traballanti; poi, c'era la questione culturale.

L'inglese non era ancora arrivato: certo, ancora oggi è ben lungi da essere una seconda lingua in Italia, ma l'orecchio a certe sonorità ormai l'abbiamo svezzato, dopo anni di film e serie e, appunto, videogiochi non doppiati o doppiati così malamente da far preferire una qualsiasi altra lingua. E il giapponese? Peggio ancora, ovviamente: pure i manga ancora non erano arrivati, o stavano arrivando, degli anime conoscevamo i fantasiosi doppiaggi italiani e di certe parole e del loro suono non avevamo neanche idea. “Tutta roba cinese, diranno CIN CIUN CIAN”. Noi sapevamo sin dagli albori che fossero giapponesi, ma questo è il sentore comune odierno: se hanno gli occhi a mandorla, sono tutti cinesi. Sto divagando.

Successivamente, l'audio è migliorato, grazie a chip più efficaci e supporti più capaci (Max 330 Mega Pro-Gear Spec, The 100 mega shock!). Pure la nostra comprensione era migliorata, scolarizzata nel tempo; c'erano pure le riviste coi nomi delle mosse, ormai.

Prima dei cartuccioni e delle riviste c'era, comunque, Strit Faier 2: una ricca opportunità di storpiare tutto, non ce la lasciammo sfuggire. Un personaggio alla volta (a parte Ryu e Ken, praticamente sovrapponibili), nomi propri e mosse immaginate, quello che ricordo: mi riservo di aggiornare questo articolo, e quelli analoghi, in futuro, in caso di rigurgiti di memoria. Cerco di riportare le pronunce come si scrivono in italiano, non aspettatevi l'alfabeto fonetico internazionale, alla forma esatta segue la dizione imperfetta; in grassetto, la versione più diffusa

Ryu e Ken: Riù, Rìu, Rèiu, Ràiu. Con Ken non si poteva sbagliare. – Hadoken: aduche, adoche, aduchen, auche, palla di fuoco. – Shoryuken: 'o riuchen, oriuuuche, 'o riucheee, . “'O riuchen” in napoletano, quindi 'o è l'articolo. Il riuchen, in pratica. – Tatsumaki senpukyaku: attattasplughe, 'o ttatta splughen, 'o ttatta, il vortice, la giostra (rarissimo). 'O ttatta era per i frettolosi.

E. Honda: Onda, Enzuccio Onda, Enzuccio. La prima è la versione quasi universalmente accettata, le seguenti solo per gli amici più stretti. – Sumo headbutt: la capata. – Hundred hand slap: mille mani, cento mani. Si esagerava parecchio. – Esclamazione di vittoria: iu gui.

Blanka – Electric thunder: la corrente, la scossa. – Rolling attack: la rotella, la ruota.

Guile: Guile, Gail, Giule, Giuilie. Per di più, a ciascuno di questi nomi poteva essere aggiunto il grado, solitamente colonnello o sergente, più raramente capitano. – Sonic boom: aleppu. – Somersault strike: la parabola. – Flying buster chop: lo spezzaschiena.

Chun-Li: Ciunlì, Cianlì. – Spinning bird kick: spinni-bor-chi, qua ci si avvicinava. – Lightning kicks: mille calci, qua erano mille e basta.

Zangief: qua nulla da aggiungere, pronunciato esattamente come si scrive, per tutti. Sono di quell'avviso e mi batto per questa causa, non esiste alcun Zenghiv, non esistono pronunce americaneggianti. Era usato pochissimo, i vocalizzi erano grugniti e sulle prese non ci si impegnava troppo.

Dhalsim: Dalsìm, Dalamascin, l'indiano. – Yoga fire: ioga fai. – Yoga flame: **ioga fei”. Cambiava una vocale. Citazione speciale per lo “scivoletto”, non è una mossa speciale ma avrete capito di cosa si tratti.

Balrog: Balròg, Barlòg. Nessuna menzione particolare per le mosse: anche quando divenne selezionabile dalla CE in poi, non fu mai molto amato dalle mie parti e, comunque, erano sostanzialmente grugniti.

Vega. Vale quanto scritto per Balrog.

M. Bison: Bison, Baison. – Psycho crusher: la torpedine, saico, saico crascia.

#Arcade #SalaGiochi #StreetFighter2 #Capcom #Videogiochi #anno1991

 
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from la tana di Belzebu

lo stato di diritto mi scazza...

Qualcuno dovrebbe spiegare in modo esaustivo ed efficace come funaiona per davvero la demoscrazia alla nostra classe dirigente, in quanto mi pare che l'episodio ultimo riguardante la deportazione di persone, colpevoli sino a quel punto meramente di nulla, se non quella di essere clandestini, una condizione quella di clandestino sulla quale ci sarebbe da discutere e ne discuteremo, dicevamo qualcuno dovrebbe fa capire alla nostra classe dirigente che la democrazia non è il volere di una maggioranza e fine, la democrazia è un processo attraverso il quale si applicano principi di maggioranza, certo, ma non estemporanei perché altrimenti basterebbe una maggioranza, anche relativa, per decidere di passare ad una dittatura, e "boom" ecco la morte della democrazia per sindrome autoimmune. La magistratura è un potere dello stato che tutela lo stato anche da se stesso, mi lancio nel dire soprattutto da se stesso, per fortuna, e impedisce che una maggioranza perpetri un atto contro la dignità della persona o di minoranze più deboli. Cara madre, donna, cristiana Giorgia, non è che perché hai la maggioranza alle urne puoi fare il cazzo che vuoi, e non è nemmeno pensabile che tu possa dichiarare seriamente che i poteri dello stato devono dare alla tua maggioranza una mano. Che cosa significa ? La magistratura serve la nazione, il paese e lo stato, tutelandolo da derive anticostituzionali che spostano il centro di interesse dalla "persona" ad altro: interessei economici, interessi di classe o fanatismi politici come in questo caso. ship Quindi facci il favore, dato che il piglio dell'argomento dovrebbe essere nelle tue corde, rispetta la nazione e i suoi principi, la sua costituzione, gira la prua di sta nave e riporta le persone dove queste hanno deciso di stare. E finiamola li con ste cazzate, che se il viaggio di ritorno costa come quello di andata ai buttato nel cesso mezzo milione di euro e i miei figli si portano la carta igienica a scuola, e mia zia per una controllo di ruotine al seno deve aspettare un anno e mezzo...

 
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from Testudo Blues

Qui il consueto riepilogo della storia

I suoni di Fast-Food Lawn filtravano nella bottega dello zio Archiebold attraverso le pareti di lamiera, assumendo una consistenza metallica. All’improvviso, la quiete fu interrotta da un colpo. Una manata contro la saracinesca abbassata. “Preparatevi. Ranucci è capace di tutto. Per quanto ne sappiamo, là fuori potrebbe esserci un’orda di artificieri pronta a far esplodere l’intero quartiere.” Il pessimismo fatto persona, forse avrei dovuto lavorare come titolista in un giornale. A dire il vero, non credevo che la resa dei conti sarebbe arrivata così presto. Al momento eravamo solo in tre, nel retrobottega: il vostro umile centauro Danny Catenaccio, un novantenne con un fucile a canne mozze e un idiota con due semiautomatiche. Il detective Bronco era uscito a cercare rinforzi, ma non avevamo più avuto notizie da lui. Mi sono avvicinato alla saracinesca per guardare attraverso la minuscola fessura che faceva da spioncino. E per poco non mi è venuto un colpo. Là davanti, invece di un predone del deserto armato fino ai denti, c’era la donna più bella della città di Testudo: una visione paradisiaca, una Venere vestita di pelliccia, la mia donna dei sogni, nonché la moglie del signor Ranucci. “Che diavolo ci fai qui?” Le ho gridato attraverso la saracinesca. “Sono qui per offrirvi un lavoro.” Alla sua risposta, il decrepito zio Archiebold è scoppiato in una fragorosa risata. “Balle!” Ha detto, attraverso i suoi denti marci. “Sei qui per ammazzare il mio nipotino!” “Se fossi qui per uccidervi sarei venuta da sola? E avrei portato con me un milione di corazze?” Come al solito, la menzione del denaro è bastata per far abbandonare ogni cautela al mio ex-socio Johhny Rumble. “Falla entrare,” mi ha sussurrato, gattonando fuori dalla sua copertura – un tavolo di metallo rovesciato su un fianco, dove lo zio Archibold era solito tagliare la sua preziosa mercanzia con sostanze di infima qualità. “Sentiamo cosa ha da dire.” Io scuoto la testa e carico il mio fucile da caccia, avvicinandolo alla saracinesca per farle sentire lo scatto. “Vattene, prima che ti faccia saltare la testa.”

Non immaginate nemmeno quanto sia difficile minacciare di morte la donna per cui avete una cotta, vero? Beh, allora non siete cresciuti nei quartieri bassi di Testudo, dove anche le ragazze più carine possono rivelarsi spietate assassine. “Voi due mi piacete, dico sul serio. Non… non certo in quel senso, però mi piace il vostro stile. È per questo che sono venuta qui. Voglio proporvi di eliminare mio marito una volta per tutte. Io erediterò il suo impero e voi lavorerete per me.” “Avanti, l’hai sentita! È sincera.” Un milione di corazze e un lavoro per la donna più ricca di Testudo. Ce n’era a sufficienza per mandare fuori di testa il vecchio Johnny Rumble. “Apri quella diavolo di saracinesca, Catenaccio!” La cosa che mi turbava di più era il fatto che sembrasse davvero sincera. Insieme al terribile pensiero che uccidere il vecchio Ranucci fosse l’unico modo per sfuggire alla sua furia assassina. Ed è stato proprio in quel momento che ho avuto una delle migliori idee che il mio cervello a scolapasta potesse partorire. “Dimmi un po’, Zio Archie, ce l’hai ancora quella telecamera davanti all’ingresso?” “Per tutte le sanguisughe mutanti del lago Michigan, certo che ce l’ho ancora!” Lo zio Archiebold aveva novant’anni, ma sapeva ancora come mandare avanti un’attività in un quartiere pericoloso come quello. Anzi, due attività. Un negozio di copertura e una rivendita di droga. “Un vero gioiellino, corazzata e a prova di esplosione, collegata a un sistema d’allarme che potrebbe svegliare il sindaco Carter in persona. È l’unico modo per evitare che quei dannati teppisti cerchino di entrare ogni notte. Vuoi sapere cosa ho fatto all’ultimo ladruncolo che mi ha scassinato la serranda?” “Non ora,” gli ho detto, tagliando corto. “Puoi caricare il video su una scheda di memoria?” “Ma certo! Ne ho comprata una cassa da un predone che le aveva rubat… ehm… che le aveva acquistate all’ingrosso.” Girando di nuovo la testa verso la serranda, mi rivolsi alla moglie di Ranucci. “Hai sentito, tesoro? Ti venderò a tuo marito, per fargli capire che sono dalla sua parte. Mi dispiace da morire, credimi, ma è così che deve finire questa storia. Ti conviene cominciare a fuggire, perché nessuno si salva dalla furia di Ranucci.” “Maledetto,” ringhiò la donna dei miei sogni dall’altra parte della saracinesca. “Io mi fidavo di te. Ma questa città rende tutti dei bastardi.” Un colpo di mano sul metallo, come un ultimo saluto, e la moglie di Ranucci scomparve per sempre dalla mia vita. Ma le visite, per quel giorno, non erano ancora finite.

***

Stavo ancora pensando a come recapitare la scheda di memoria al signor Ranucci, quando un altro genere di colpo si infranse contro la saracinesca della bottega. Un colpo di fucile. “Vieni fuori, vigliacco!” La voce roca e sgraziata appartiene a un tizio che ho incontrato poco tempo prima. Un tizio con l’aspetto di un bufalo. “Sì, vieni fuori. Devo ancora ringraziarti per avermi azzoppato.” Il commento proviene da una voce identica alla prima, che probabilmente appartiene al suo fratello gemello, sforacchiato dalla pistola del mio amico Bronco. Un altro colpo di fucile apre una breccia nella saracinesca. Il buco piuttosto piccolo, ma riesco a intravedere la brutta faccia di uno dei due tizi. Sparo un colpo di avvertimento, ma i pallettoni del mio fucile non riescono a oltrepassare il metallo del serramento e non sono così fortunato da centrare il foro. Ricarico in fretta, ma il gemello è già pronto ad aprire di nuovo il fuoco. Il suo fucile anticarro oltrepassa il ferro come se fosse burro. Il buco nella saracinesca si allarga ancora. E il fratello ci infila dentro una granata. “Bomba!” Grido, vedendo scivolare l’ordigno all’interno del retrobottega, mentre comincio a correre verso l’uscita sul retro – una pesante porta tagliafuoco. “Tutti fuori!” Dice lo zio Archie, spingendo sul maniglione antipanico della porta d’acciaio e precipitandosi fuori con l’agilità di un ventenne. Johnny lo segue a ruota e io vengo sbalzato all’esterno dal fragore dell’esplosione. La bottega dello zio Archiebold è stata sventrata dalla bomba. Assieme al legno marcio e alla lamiera di cui era composta, probabilmente, sono andate perdute anche diverse migliaia di corazze sotto forma di droghe illegali. E la scheda di memoria? Spero davvero che lo zio Archiebold non l’abbia lasciata da qualche parte là dentro, dopo averci copiato il filmato che poteva salvarci la vita. Sempre se riuscirò a sopravvivere, s’intende. Sono stordito dall’esplosione. Mi fischiano le orecchie. Ho la vista annebbiata. Sento lo zio Archie e il suo amato nipote dire qualcosa, ma le parole mi arrivano ovattate. Delle mani mi toccano, si infilano nelle tasche del mio giubbino di pelle. Sento qualcuno che comincia a correre. Mi stanno derubando? Se hanno preso la chiave della mia PodeRossa, tornerò come fantasma per divorarli, lo giuro. Volto la testa verso la baracca in macerie e vedo, in mezzo al fumo e alle fiamme, emergere due forme scure. I gemelli-bufalo. Uno di loro solleva verso di me il suo fucile e si prepara a portare a termine la missione. La mia unica speranza è che il detective Bronco mi salvi di nuovo da quell’uomo, come ha già fatto una volta. Ma non succederà mai. Anche lui mi ha abbandonato, fingendo di andare a cercare rinforzi per salvarsi la vita. Faccio un respiro profondo e mi preparo a morire. Non pensavo che sarebbe finita così, giustiziato da uno sgherro qualunque nel bel mezzo di Fast-Food Lawn. Ma in fin dei conti tutta la mia vita è stata volgare e banale. Perché mai sarei dovuto morire da eroe? Chiudo gli occhi. Quanto ci vorrà, prima che sia tutto finito?

***

Sento delle voci di bambini. Sembra che si stiano divertendo. Il paradiso è un posto strano, mi dico. Ci rifletto ancora un momento. Con i miei trascorsi, come diavolo ho fatto a finire in paradiso? Forse dovrei aprire gli occhi e scoprire se queste grida appartengono a tanti angioletti o a un esercito di giovani diavoli. Mi faccio coraggio e sollevo le palpebre. Sono decisamente dei diavoli. La scena che mi si presenta davanti è davvero assurda. Un fiume di ragazzini ha assalito i due sgherri di Ranucci. Ci sono adolescenti e bambini che saltano da tutte le parti, urlando a squarciagola e ridendo di gusto. Due di loro stanno litigando per il fucile dell’uomo-bufalo, che devono avergli strappato dalle mani. Una piccola squadra sta legando strette le due guardie del corpo con delle funi da pesca. Nel mezzo di questa follia collettiva, riconosco il mio salvatore che avanza col petto gonfio d’orgoglio, maestoso come la statua di un santo e ugualmente pronto a ricevere la mia adorazione. “Bronco,” gli dico, quando è abbastanza vicino da potermi sentire. “Come diavolo ci sei riuscito?” “Per fare l’investigatore privato, devi avere qualche contatto con le gang di strada, no? Le baby-gang di Fast-Food Lawn sono facili da corrompere. A proposito, hai un debito con loro: cinquecento hamburger sintetici e duemila corazze di mancia.” “La mia vita vale così poco?” Gli domando. “No, ma loro non lo sanno,” ribatte Bronco, ridacchiando. “In ogni caso, Ranucci tornerà a cercarci. Siamo spacciati. È un vero peccato, ero quasi riuscito a guadagnarmi il suo perdono. C’era un video che poteva salvarmi, ma credo che sia andato distrutto. Dobbiamo andarcene di qui. Forse troveremo un modo per fuggire da Testudo.” Infilo in tasca la mano per controllare se il mio portafoglio è davvero sparito, e le mie dita urtano un piccolo oggetto di plastica. Una scheda di memoria.

 
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from Klaus

casa

Quando arrivai davanti alla porta di casa, che affiancava quella del laboratorio di mio padre, sapevo che a quell'ora non li avrei trovati lì, ma controllai comunque l'integrità del meccanismo anti intrusione che il vecchio aveva installato. Proseguii verso il fiume, poco distante, e li vidi di fronte della lapide di mio fratello Karl. I miei genitori, in piedi, si sorreggevano a vicenda, tenendosi la mano, in silenzio. Solo il vento tra me foglie si permetteva di disturbare quel momento così intimo, tale che anche io, loro figlio, attesi qualche istante prima di giungere al loro fianco. Erano passati un paio d'anni ormai dalla morte di mio fratello, ma le interiora si contorcevano ancora come fosse accaduto il giorno prima. Ci sedemmo lì davanti, sulla panchina che era stata ricavata da un tronco, ed ognuno di noi si raccolse a suo modo; io vagai per i ricordi d'infanzia, ricordando poi l'avventura appena trascorsa.

Mio padre fu il primo ad alzarsi. Poco dopo tornammo a casa, e durante il breve tragitto ci furono solo sospiri, nessuna domanda, e solo dopo aver varcato la porta di casa, mi abbracciarono, felici di non aver perso un altro figlio. Mia madre, Gaia, si mise ai fornelli, sapeva come conquistarmi il palato e, durante i preparativi, volle sapere se mi sarei fermato solo per pranzo, ben felice dopo la mia risposta di apprendere che mi sarei trattenuto per qualche giorno. “Vado a preparare la tua camera” mi disse, come se non sapessi che in realtà era sempre pronta, pulita, e con le lenzuola fresche. Ma facevo finta di niente tutte le volte. La porta nel piccolo salotto dava direttamente sul laboratorio di papà.

Lab

Cedric era un maestro nell'arte della lavorazione del legno, un inventore, e veniva spesso commissionato da persone di ogni rango e ceto sociale per semplicemente aggiustare una sedia, per costruire qualche marchingegno, o per creare meraviglie tecnologiche. “Non aver paura di osare” diceva, “Dagli sbagli nascono le cose migliori”. Attraversai la porta del laboratorio e fui pervaso dall'odore del legno, dal calore della piccola forgia in fondo alla stanza, e meravigliato dai tanti progetti appesi alle pareti. Tutto era molto ordinato, ogni cassetto aveva inciso cosa avrebbe dovuto contenere, gli scaffali ben organizzati e gli attrezzi appesi mai a caso. Al momento mio padre era di spalle nei pressi della fornace, intento a lavorare proprio uno dei rami che avevo visto pochi giorni prima nella foresta, al fine di scaldarne le venature per poterlo modellare con più facilità. Interruppe quello che stava facendo solo un istante, quando sentì la porta chiudersi, ma non si voltò, “Ciao ragazzo” disse e proseguì nelle sue faccende. Era un brav'uomo, un buon padre, un tempo ricolmo di gioia e calore per i suoi figli, ma la ferita era ancora aperta, e il tempo che tanto ci aspetti risolva ogni male, non bastava. Ricordando le parole del curatore, chiesi a mio padre se potessi usare alcuni dei suoi attrezzi e materiali per occuparmi del mio vecchio passatempo, “costruire avventure”, così lo chiamavo da bambino. Mio padre interruppe le sue faccende, si voltò, e sorrise.

 
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from la tana di Belzebu

Di Social, di Woke, di emancipazione ed altre schiocchezze

Da un po' non mi accuccio nella mia tana, ma effettivamente tempo e risorse fisiche a parte è anche la voglia che manca, perché se è anche vero che di tanto in tanto la mia irriducibile voglia di confronto si palesa feroce alle porte del mio animo è altresì vero che questa viene regolarmente frustrata dell'iniquità degli argomenti che mi capita di leggere e sentire a suffragio di parabiliche teorie sul costrume, sulla mentalità e sulla direzione del mondo. social_woke Sono tuttavia affascinato da sempre dal doppiopesismo naturalmente artificiale del pensiero comune, dilagante, ma si lo scrivo "main stream" che fissa nel muro dell'assoluto con chiodi di burro concetti che come quadri stanchi finiscono inevitabilmente per sfracellarsi al suolo, non abbiamo nemmeno più bisogno di stuzzicare troppo gli interlocutori ormai. E' divertente, è adorabile come la femminista media convinta posti un selfie di se stessa, in una situazione di vita quotidiana, per certi aspetti molto sensuale, con tutto il sacrosanto diritto di farlo e la benedizione del creato intero, ma poi lo rimuova per qualche motivo a noi ingnoto, messaggi privati ? Dai maschi cisgender arrapati destroidi femminicidi e stupratori (potenziali) ? Probabile, certamente non da orsi marsicani che si apprestano ad affrontare la stagione invernale e con i quali sarebbe quantomeno più sicuro relazionarsi. Oppure che so messaggi da moderatori illuminati che si stracciano le vesti per ribadire la genialità e la superba maestranza nell'arte della fotografia, chiedendo alla nostra protagonista come sia stato possibile realizzare un selfie così profondo e ben struttrato ? Chi l'avesse aiutata, presupponendo che da sola non sarebbe mai stata in grado ? "Ehhh Cattivone!", in quell'opera che cambierà per sempre il concetto stesso di autoritratto fotografico ? Per sentirsi rispondere che è bastato impostare il timer ed apoggiare il telefono sulla poltrona di fronte... Che dio ci risparmi poi dalle affinità intellettuali che avvicinano le persone sulla scorta di condivisti gusti per gli scacchi su capi di abbilgliamento differenti e collocati nei rispettivi armadi... Traduzione raffinata di cose antiche come il mondo. Dicevo è divertente, come quando si partecipi ad un evento tradizionale, patriarcale ed antico, anche se questo viene "ripulito" dalle umane cafonate appartenenti ad una cultura di serie B, utile solo a generare morte e frustrazione, divertente, ma anche interessante, come il "Lui" maschio eterosessuale diventi "tenero", docile, "innamorato", cessando di colpo il suo essere naturale, manlevato dalla responsabilità morale di crimini indicibili ed appartenenti al solo universo "maschile" ma con le dovute manleve per gli amici. Amici degli amici e pregiudzio a gogò per tutto il resto. Se non hai il lascia passare dal treno non scendi buon viaggio! E mentre sul mondo piovono bombe, i cercapersone esplodono e noi tutti guardiamo ammirati ad operazioni "speciali", a prove generali di invasione, con avvenimenti che dovrebbero portarci ad una consapevolezza di come le cose si stiano accartocciando, molti si lanciano in ulteriori e rinvigorite polemice politicamente corrette, con Gramellini che dal coporate banking di cui fa parte ci dice che la frase "viva la gnocca..." è sessista, una sorta di violenza verbale nei confronti delle donne, ree solo di essere le depositarie della gnocca. Sarà para sessista anche "grazie al cazzo" ? Oppure "sti cazzi" ? E se dico a qualcuno un bel "che cazzo vuoi!" ?. Beh di cazzi e fighe in bocca ne abbiamo tantissimi alcuni solo lessicali per altri... beati loro... Utenti lasciano i social scrivendo malinconici epitaffi sul loro sentirsi fuori dalla comunità, e li capisco e hanno ragione, perché anche mostrare e dimostrare di adottare uno stile di vita non social, privo della tossicità che questo comporta, ha una contradizzione in termini se poi per non avere un social blu, criticabile giustamente e legittimimaente si costruisce un social giallo che inevitabilmente con il tempo al crescere di frequentezioni si ammalerà di quella "sana" mediocrità umana, non siamo tutti Gramsci, ce lo dobbiamo dire, dobbiamo essere onestamente feroci con noi stessi se vogliamo spremere anche una sola goccia di onestà sempre da noi stessi. In un vecchio e bellissimo film il diavolo raccontava di quanto la vanità fosse il suo peccato preferito, ed è così che funziona, l'apprezzamento, le lusinghe come la pizza piacciono a tutti, non banalizziamoci raccontando qualcosa che sappiamo e fingendo stupore... Perché se continueremo a stupirci di stupide ovvietà non potremmo mai davvero comprendere quanto le cose possano essere "belle" al di là della presunta banalità

 
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from Klaus

Uno sguardo del nostro avversario fulminò prima Leo e poi me, strinse con le sue mani possenti l'ascia e mi si scagliò contro ed io feci lo stesso, impugnando la mia spada a due mani. L'impatto fu violento tra le nostre armi, ed il suono forte e impetuoso di lame che si scontrano echeggiò nella caverna. Il mio compagno si avventò sul nostro nemico, applicando alla lettera gli insegnamenti di Gor, “fiancheggiando”, quasi fosse la mia immagine riflessa in uno specchio, il barbaro che con tanta tenacia e forza ci stava tenendo testa. Ad un tratto, con un colpo incredibilmente potente scagliò lontano Leo, facendolo cadere rovinosamente a terra, e girando in un attimo l'arma, facendola roteare, mi colpì con altrettanta forza, gridando come un folle e scoprendo un punto debole nella mi difesa, ferendomi ad una gamba e subito dopo ad una spalla. Mi accasciai a terra, devastato dalla potenza di quei colpi, reggendomi in ginocchio aiutandomi con la spada. Era pronto a sferrare un altro attacco, quando Leo, ripreso, lo colpi alle spalle con due fendenti rapidi, innescando una giravolta dell'energumeno che lo attaccò a sua volta facendo roteare l'ascia e colpendolo in pieno petto, ferendo Leo in modo grave. Il barbaro si stava avvicinando al mio amico per il colpo di grazia, con passo lento questa volta, sicuro che ormai lo scontro lo avrebbe visto come vincitore. Mi guardai attorno, affannato, cercando sostegno in qualcuno o qualcosa e strappai dalle mani di uno dei miei precedenti nemici una balestra; la impugnai rapidamente e inserii il dardo, mirai quasi alla cieca e scoccai. Non sapevo se avevo colpito quella montagna, ma subito ricaricai e di nuovo feci partire il colpo, rendendomi conto che lo avevo preso con entrambi i tiri, uno alla schiena, bersaglio enorme, e l'altro alla testa, trafitta. L'uomo cadde con tutto il suo peso in avanti causando un tonfo che fece tremare il terreno. Non c'era tempo da perdere, Leo stava morendo dissanguato, e quando avvicinandomi lo vidi da vicino, per un istante crebbi che oramai nulla avrebbe potuto salvarlo. Lo strinsi a me forte, sperando quasi di donargli parte della mia vita, quando lo sguardo, colmo di lacrime, mi cadde su una bisaccia di uno dei criminali e subito cominciai a ravanare in tutte quelle che trovavo, ed infine, per volontà degli dei o per fortuna, trovai quello che cercavo e che fortunatamente uno dei caduti non aveva fatto in tempo ad usare, una pozione curativa. La raccolsi con cautela, dopo essermi strofinato le mani bagnate di sangue sui pantaloni, e ne feci scivolare il contenuto tra le labbra di Leo. Rimasi scosso nel vedere come il liquido andava a ricostruire tessuti e membra , andando quasi alla ricerca di ogni brandello, illuminando la ferita di una luce cremisi che mi ipnotizzò. Una volta rinvenuto, non ci curammo dei cadaveri lì attorno, anzi, pensai che sarebbero serviti come monito, e raccolte le nostre cose ci immergemmo nuovamente per risalire all'ingresso della grotta nella foresta. Avevamo perso la cognizione del tempo ed era quasi notte, decidemmo quindi di riposare per recuperare le forze; Leo, visibilmente in condizioni migliori delle mie, procurò la cena, un coniglio selvatico che soddisfò a pieno il nostro appetito. Poi si mise di guardia. Quella notte, ferito, affaticato, al chiaro di funghi magici che illuminavano la foresta come fossero stelle nel cielo, ringraziai gli dei per aver trovato un amico come Leo, per avermi donato qualcuno che avrei potuto chiamare un' altra volta “fratello”.

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Di ritorno verso il forte, incontrammo qualche taglialegna, intento a brontolare per quanto fosse faticoso quel lavoro, e alle porte che avevamo varcato qualche giorno prima, fummo accolti dal comandante, che volle sincerarsi subito della situazione e delle nostre condizioni, invitandoci a far visita dai curatori per poi concederci qualche giorno di licenza. Sapevo benissimo cosa fare, sarei andato a trovare la mia famiglia, giù al fiume.

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from Il Problema della Musica

Se portate 15 persone a cena, 100 euro. Se portate 25 persone a cena, 200 euro. Se portate 35 persone a cena, 300 euro.

Un caso, come tanti altri (non è mica l'unico). Hanno trovato una nuova modalità per riempire il locale, senza nemmeno sbattersi più di tanto. Non sarebbe compito del Musicista portare gente, ma dovrebbe essere il locale che investe (nella musica o in altro) per offrire un servizio in più alla propria clientela e attirare gente.

Il problema della musica: “scusa, ma qual'è il tuo vero lavoro?”

Solo una passione smisurata ti fa andare avanti.

 
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from 513023

IL GIOCO DEL CALCIO

“After years of waiting nothing came as your life flashed before your eyes you realize I'm a reasonable man get off, get off get off my case”

Se me lo chiedi non so nemmeno perché mi trovo qui, a notte fonda in una città che non è la mia, stretto sul sedile posteriore di questa calda e asfissiante Peugeot 106 bianca, in mezzo a ‘sta gente più giovane di me di almeno dieci anni, bicchiere grande di cartone in mano e cannuccia, la testa che a ogni sobbalzo sbatte contro la lamiera del tettuccio ormai privo di tappezzeria e poi rimbalza sul vetro del lunotto laterale che, naturalmente, non si può aprire.

La storia con Lei è finita soltanto qualche mese fa, poco prima dell’estate. Così un bel giorno, ritornando in patria, ho preso il bus che dall’aeroporto mi ha riportato a casa sua – casa nostra– e lei non mi ha nemmeno aperto la porta. O meglio, la porta l’ha aperta ma non mi ha fatto entrare, dicendomi che non potevo, che non dovevo, occhi gonfi ma decisi a lasciarmi lì interdetto, sbigottito e incredulo, mentre dentro c’è qualcuno fra le sue lenzuola – le nostre – al posto mio. Sembra durare un’eternità, mi crolla il mondo addosso al rallentatore mentre cerco di capire perché, ma il perché lo so già. Diciamo che cerco di capire perché adesso, perché in questo modo, perché non prima. Durante il mio viaggio di ritorno non ho fatto altro che pensare a noi, a come le cose si sarebbero aggiustate, a quanto ti amo, a quanto sei l’unica persona di cui mi importa, a quanto vorrei potere entrare in questa casa e chiederti di vivere tutta la vita insieme. Invece sono qui e piango e piangi e sento che tutto sta finendo. Mi viene da vomitare.

Fatto sta che finisce davvero e non mi resta altro da fare se non trovare un modo per smettere di pensarci, di odiarla, di dimenticarla. Ma si può odiare ciò che si è amato tanto follemente, così da un momento all’altro? Non lo so, faccio un esperimento: decido di provare ad amare qualcosa che ho sempre odiato. Il calcio. Sì, il gioco del calcio. Comincerò a tifare per una squadra, mi lascerò travolgere da questa passione, ma non soltanto, no: non sarò un tifoso qualsiasi, e non terrò nemmeno alla squadra di calcio della mia città, tiferò invece per la squadra rivale. E lo farò come si deve. Sarò profondamente onesto e devoto, ci crederò con tutto me stesso. Comincio così a seguire tutte le partite –le poche rimaste alla fine del campionato- a imparare i nomi dei calciatori e la storia di ciascuno di loro. Il gioco lo conosco, ne conosco le basi, non sono del tutto ignorante in materia, anzi a dire il vero il gioco in sé un tempo mi piaceva pure, poi ha cominciato a starmi sul cazzo perché mi stavano sul cazzo gli altri ragazzini che lo praticavano. Così faccio e per dirla in breve, termina il torneo nazionale e incomincia l’estate. E con essa un altro campionato: quello internazionale. E prendo a frequentare questo bar della piazza principale in città praticamente sempre da solo. Questo perché durante gli anni vissuti fuori le amicizie si sono rarefatte; certo alcuni amici restano ma in un modo o nell’altro si allontanano geograficamente, e questa è l’estate in cui siamo tutti lontani. Al bar però c’è una nuova ragazza, bellissima, occhi accesi, sulle braccia tatuaggi floreali dai colori tenui che si amalgamano benissimo con la sua pelle chiara. Ogni sera quindi occupo da solo lo stesso tavolo e ordino sempre lo stesso drink, due, tre, numero imprecisato di volte fino alla fine della partita, e guardo il calcio con gli occhi di un innamorato ma il calcio non ricambia e inizio a sospettare che questo amore probabilmente non durerà. Forse non sono fatto per amare uno sport, forse sono fatto per amare una persona, per essere amato a mia volta. E arriva lei, la ragazza del bar, che mi chiede se ne prendo ancora uno e io dico sì e lei portandomelo mi sorride, e io ricambio. Finisce la partita, sono pressapoco ubriaco, mi nutro soltanto di snack e noccioline da settimane d’altronde; mi alzo e cerco di non cadere mentre mi avvicino al banco per pagare ma lei mi sorride ancora e mi dice che stasera io non pago. Le chiedo, ricambiando ancora una volta il sorriso, se faccio davvero così pena e mi risponde di non pensarci. Allora le domando se le va di vederci quando smonta da lavoro, mi dice forse, le scrivo il mio numero sopra il blocchetto delle comande e cerco di ritornare a casa, barcollante. Nel cuore della notte squilla il telefono, un numero che non ho in rubrica, con la bocca impastata dall’alcol rispondo: è lei. Mi chiede dove abito e mi dice fatti trovare giù che andiamo a fare un giro insieme e indosso di corsa una maglietta pulita e scendo inciampando per le scale e lei è già lì che mi aspetta dentro l’auto porta aperta salgo e parte fra le luci della notte – della strada e delle stelle – con l’odore dell’asfalto che col caldo sale e pervade le narici e ci porta dritti ad un locale sulla spiaggia fra il vociare della folla e la musica la inseguo e bevo a farle compagnia e lei mi si racconta mentre il mondo la saluta mi presenta a tutti, nessuno escluso: questo è il mio ragazzo. Non so se mi sento ancora ragazzo dico; quindi, mi prende per la mano e mi porta in riva al mare a fare l’amore sotto la luna.

L’estate e il campionato volgono al termine, le ho raccontato tutti i dettagli di questa mia neonata, folle fissazione per il calcio, lei mi ha detto del suo ex, quello che l’ha tatuata, che sono rimasti in buoni rapporti e che lui è il capo degli ultras della mia nuova -a quanto pare- squadra del cuore e che se ho voglia e non mi infastidisce possiamo andare a trovarlo per la prima che giocheremo in casa. Volentieri.

Così giungemmo alla città avversaria, un sabato di fine agosto, giorno prima della fatidica partita. Prima tappa la sua casa universitaria dove mi presenta le coinquiline che mi subissano immediatamente di domande d’ogni tipo. Stasera andiamo prima a fare aperitivo e poi a ballare, mi invita poi una di queste come a sondare il terreno delle mie intenzioni con lei -con loro- e di che pasta sono fatto. Non batto ciglio, sorrido e faccio cenno di sì. Ma prima, dice Lei, passiamo dallo studio che ti presento lui. Il tempo di sistemare le mie cose nella sua camera e siamo fuori, noi tre, diretti al suo studio, le altre ci raggiungeranno dopo cena, dicono. Quando arriviamo lì lui sta lavorando, lo vediamo attraverso la parete a vetro. Sotto gli aghi una ragazza mezza nuda e che non è la sua prima volta si nota da come affronta con aria calma e rilassata le sollecitazioni dell’elettrodermografo e di tutti i nostri sguardi. Lui concentratissimo, ha fatto soltanto un cenno a Lei quando ci ha visto entrare. Cerco di immaginarli insieme, lanciando sguardi all’una e all’altro, proiettandoli mentalmente in un passato in cui dicevano di amarsi. Non ce li vedo, come d’altronde non vedo futuro per noi due; è come se le nostre vite si fossero incrociate per un brevissimo momento in cui a entrambi stiamo bene, come se stando insieme avessimo trovato una sorta di equilibrio che ci tenga vivi. Dopo lavoro lui si presenta, completamente diverso nell’atteggiamento ora spavaldo e quasi sfidante, in particolare nei miei confronti. Non fa altro che cercare di infastidirmi e infastidirla, e insiste perché lasciamo lì la nostra auto e andiamo in giro tutti insieme, con la sua. Pertanto, ci stipiamo come sardine in quella macchina minuscola, lui e la ragazza mezza nuda davanti, noi tre dietro, Lei nel mezzo. Un viaggio da un girone all’altro dell’inferno, dove raccattiamo piano piano anche tutte le altre: per ogni tappa qualcosa da bere e una nuova frecciatina, ma poi pian piano qualcosa cambia e lui mi prende quasi a cuore e l’intravedo, fra le sovrastrutture della personalità, fra una steccata al biliardo e una palpata ai culi della sua e della “mia” lei, nella calca in discoteca, che cerca di stimolare in me qualcosa, prepotente eppure fragile, come Swayze fa in Point Break. Ci ritroviamo fuori dal club per fumare una sigaretta e mi racconta tutto ciò che ci aspetterà domani, allo stadio. Come di quella volta in cui riuscirono a portare in curva il motorino rubato al capo della tifoseria avversaria e a buttarlo giù, in fiamme, dal secondo anello, senza pensare di subirne le conseguenze. Mi tranquillizza dicendomi che nessuno si farà male e dandomi una pacca sulla spalla mi fa che ha bisogno di tirarsi un poco su: che domani ci divertiamo! Si appressa l’alba ormai e decidiamo di andar via, la musica si è esaurita e così anche le nostre forze. Esausti entriamo in quella 106, bicchieri con cannucce in mano, residui della notte appena trascorsa. Lui è ancora su di giri, dopo tutta la C che si è tirato, noi cerchiamo di convincerlo a gran voce che è l’ora di tornare a casa e dopo un po’ , finalmente, ci riusciamo.

Ma a un semaforo, di ritorno sui viali, un’auto si affianca alla nostra e da quella, poche parole urlate fra gli affondi di un pedale vestono un guanto di sfida. Lui allora fa rombare il motore, quell’altro ancora di più, noi quattro invece ci guardiamo preoccupati ma non abbiamo neanche il tempo di aprire bocca che scatta il verde

Sotto il manto di stelle, l'asfalto è un mare nero, e motori, ruggenti, sfidano il silenzio della notte placida. Quali navi veloci guidate da remi, così le auto scattano, lanciate in una danza di fuoco e fiamme, ardenti come Etna. I due folli piloti, animo teso e sguardo fiero, si lanciano nell'agone sfidando il destino con mano sicura. Le gomme stridono, l'aria si carica di un tuono senza fine mentre le vetture sfrecciano, rapide come dardi. Un duello di sorpassi, destrezza e ardore Cloanto insegue Mnesteo, il suo bolide come un fulmine, Mnesteo non cede, la sua guida è pura arte. Cloanto con furore, tenta di riprendere il comando, ma il destino è già scritto, e il traguardo è ormai vicino.

E mentre la città dorme ignara del fragore delle passioni noi ci schiantiamo su di un’auto ferma che, come la nostra in maniera figurata, letteralmente va a puttane; e ciò che vedo, prima del buio pesto, è una colonna di fumo ergersi imponente dal cofano dell’auto nostra, fra lo stridore degli pneumatici che si squarciano sul selciato.

 
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from Klaus

Ci svegliammo alle prime luci. Una rapida colazione con bacche e miele, un sorso di infuso di erbe caldo e rimettemmo in bisaccia le nostre cose, pronti per proseguire verso la parte ignota, che mai avevamo affrontato, di quella foresta. Fu subito chiaro che il solo orientamento sarebbe stato cosa non di poco conto, l'attenzione al terreno difficile anche. La posizione del muschio sugli alberi e rocce, la posizione del sole quando visibile, aiutarono a darci una direzione; per quanto riguarda il terreno difficile, non ci fu altro modo che far leva sui nostri muscoli e atletica, ringraziando il consiglio del comandante di non indossare le nostre canoniche armature pesanti, ma di avvalerci di quelle più leggere ,“Farvi uccidere dal terreno, sarebbe da stupidi no?” ci disse con un sorriso prima di partire. Proseguendo, facendoci largo tra la vegetazione, cercavamo di stare in silenzio per non attirare su di noi attenzioni indesiderate, quando ad un tratto sentii un gemito provenire dalle mie spalle. Voltandomi vidi Leo a penzoloni, trattenuto alla gola da un serpente che gli si avvinghiava, proteso da un ramo. Impugnai ancor più salda la mia spada e mi avventai contro la creatura, colpendola sopra la testa di Leo, che cadde a terra col fiato strozzato. Nel momento in cui mi voltai per assicurarmi le sue condizioni, lo vidi imbracciare la sua arma e scagliarsi dietro di me, contro quello che sarebbe stato il vero problema della giornata. Un serpente gigante ci stava per attaccare, fauci spalancate e denti grossi come una lama di spada. Leo con la prontezza che lo aveva contraddistinto tra le reclute anni prima, intercettò il morso della bestia frapponendo il suo scudo, ma nulla poté contro il colpo di coda che lo scagliò a terra. Distratto dal mio compagno, l'immondo accusò il mio fendente, che lo colpì facendolo sanguinare copiosamente, a cui segui un secondo attacco in affondo. Da una parte Leo, dall'altra io, e nel mezzo quello che sarebbe diventata da li a poco la nostra prima tacca. Colpimmo duramente e con sincronia, tale che la creatura accusò i colpi e morì. Leo si accasciò a terra dolorante. La creatura, che ormai giaceva a suolo inerme, lo aveva ferito al fianco destro; non una ferita grave, ma in quel contesto, poteva esserlo, e seppur contro la sua volontà, decisi di utilizzare una delle fiale che mi erano state donate. Aprii la boccetta che conteneva un liquido denso e dal color rubino, l'odore era pungente, e la passai al mio compagno, che dispiaciuto per il dover appropriarsene così presto, la trangugiò d'un sorso. Il liquido divenne luminescente nel percorrere dapprima la gola, poi il petto e subito dopo dirigersi verso il costato, pulsando ad ogni respiro, ed infine giunto alla ferita, illuminarla e ricostituendola, facendo sospirare Leo. Di nuovo in marcia, percorremmo la foresta più attenti e cauti, per qualche ora, fino a quando non udimmo voci umane provenire da un'abitazione nascosta nella fitta vegetazione. Ci avvicinammo in silenzio, ringraziando ancora una volta di non indossare le nostre classiche rumorose armature, e giunti ad una finestra vidi due uomini darsi le ultime istruzioni sul raggiungere i propri compagni, già all'ingresso del tempio. “Quindi ce ne sono altri, ma quanti? E come raggiungerli?” pensai. La risposta fu subito ovvia, pedinare questi, trovare gli altri e l'ingresso del tempio, e in qualche modo, fermarli. Come due spettri, in silenzio e grazie al corso ranger del secondo anno di accademia, inseguimmo per un giorno intero le nostre “guide”, fino all'ingresso di una caverna, il cui interno era illuminato da una qualche fonte di luce.

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L'esterno della caverna non era ben visibile ma si capiva che non era sorvegliato e subito i due si intrufolarono senza esitare. Aspettammo qualche istante per avvicinarci, e arrivati anche noi all'ingresso che ora pareva da vicino maestoso e terrificante alla luce delle torce, ci rendemmo conto che il suo interno altro non era che una caverna con una pozza di d'acqua al centro. Guardai Leo e con un cenno di intesa, presi un bel respiro e ci gettammo in acqua, fredda e limpida, costellata di funghi luminescenti che ci guidavano verso l'uscita. Col fiato corto, e nella speranza che al nostro riemergere nessuno ci notasse, riaffiorammo piano, con da prima gli occhi, e una volta controllato rapidamente l'intorno, anche col capo, respirando nuovamente. Dovetti sgranare più volte gli occhi e strofinarmeli con le mani, per credere a quel che vedevo, le rovine di un tempio parzialmente emerso all'interno di una caverna gigantesca, illuminato da alcune feritoie nella roccia e dalle torce dei criminali.

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Non ci fu il tempo per porsi troppe domande, o per gongolarsi nello stupore e meraviglia; i due briganti che avevamo pedinato si erano riuniti con il resto della loro banda e dalla nostra posizione potevamo vedere come si addentravano furtivi e veloci tra le rovine. Non avremmo mai avuto tempo di tornare ad avvisare i nostri superiori o di cercare rinforzi, dovevamo intervenire e fermarli prima che compissero qualche azione per la quale poi molti altri avrebbero pagato il prezzo. Uscimmo dall'acqua e di soppiatto raggiungemmo il gruppo al completo, sempre tenendoci nell'ombra. Erano otto uomini, tutti ben armati, che come voraci animali si avventavano su tutto ciò che di valore trovavano, da vasi d'oro, a scrigni colmi di pietre preziose, fino a che uno di loro non venne attaccato proprio da uno dei forzieri che stava tentando di aprire; enormi fauci fecero brandelli della carne del malcapitato, mentre gli altri tentavano di colpire l'essere mostruoso, noi ne approfittammo per sferrare il nostro attacco di sorpresa, scagliandoci come furie sul resto del gruppo che colto alla sprovvista si trovò del tutto impreparato. Due di loro caddero subito sotto i nostri colpi precisi, combattendo spalla a spalla avevamo pochi punti ciechi e la nostra tattica sembrava aver sorbito un ottimo risultato. Nel frattempo un altro di loro divenne pasto per il forziere animato, e noi subendo l'attacco di un paio di loro avevamo bisogno di allontanarci dall'essere per non rischiare di diventare i prossimi ad essere divorati; ci spostammo su una zona rialzata del tempio, e da lì vedemmo l'unico che poteva essere il capo della banda che stavamo assaltando, colpire con la propria ascia bipenne lo squartatore dei suoi uomini, squartandolo a metà. Si voltò e con sguardo ricolmo di rabbia gridò “Ora, tocca a voi!”. Era un uomo alto, senza armatura o altre protezioni, solo tatuaggi sul corpo a ricoprire la massa di muscoli che pulsavano. Non era la prima volta che affrontavamo qualcuno di quella stazza, ma eravamo stanchi dal combattimento e avevamo terminato le nostre pozioni, ma dovevamo portare a termine la missione e mai saremmo fuggiti, così incrociammo i nostri sguardi e con un cenno di intesa ci portammo al livello del nostro nemico, uno da un lato e uno dall'altro. Lo scontro finale stava per cominciare.

 
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from Racconti spontanei che attraversano l'autore

Fantine, vorrei dirti di aspettare, di sperare, un giorno l’umanità costruirà una macchina per prenderti e attraverso il non considerabile e il non percepibile, attraverso l’indecisione e gli infiniti modi per sbagliare, errare, infine salvarti e portarti nel presente ipotetico e prometterti che da quel momento in poi tutto sarà un dolce abbraccio, vapore oltre l’orizzonte, brezza fresca, ma non esisterà mai quel presente. Forse è presto per dirtelo, forse una speranza ancora rimane nel reciproco futuro, ma purtroppo ho smesso da tempo con la speranza. Vogliono sminuirci, mortificarci, siamo impermeabili, la nostra pace è idrorepellente di fronte al loro mare di odio e inadeguatezza. Gli esseri umani sono feroci e il destino, che è la somma di tutte le loro malvagità, non può che investirti, cara Fantine, non può che prenderti, ecco la malvagità sì può, oltre tutto e oltre ogni bene, essa muove e muoverà. Ho visto più dittatori malvagi, pieni di pregiudizio, superbia, altezzosità altalenante mista a ilare sfogo bagnato dal vino, come i direttori in teatri dove si professa l’arte che libera, tutto questo non è per noi, che in centri specializzati di ordigni, dove il senso di colpa è un masso sul fianco di una collina e basta un temporale, ne basta uno solo ancora, per staccarlo e distruggere il villaggio là a valle, un villaggio di buoni agricoltori, buoni a pestare i figli con rami duri di alberi duri. E tu Fantine lo sai bene, il mondo è così semplice ma loro hanno imboccato la strada sbagliata. E vorrei sussurrarti dolci parole, resuscitarti, rinascere insieme, spostare delicatamente i fili d’erba per i nuovi percorsi dimenticati, non far riconoscere il nostro passaggio, accarezzare le ali delle libellule e volare con loro e spingerci sempre più lontano e abbracciare, vogliamo solo un caldo abbraccio. Fantine, rimane così poco alla fine dell’umanità, non c’è che il sogno collettivo, noi siamo svegli, lucidi, pragmatici, l’umanità ha sbagliato tutto, e come sempre siamo solo noi ad averlo capito.

Domenico

 
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from Klaus

Varcato il portone ci fu qualche momento di silenzio tra me e il mio compagno, come se ognuno di noi volesse assaporare quei primi istanti di responsabilità, di consapevolezza dell'essere importanti e degni, e perché no, anche di preoccupazione. Il sentiero verso nord è una piccola strada poco trafficata, proprio per la sua destinazione finale, una foresta dove solo avventurieri, briganti o taglialegna si addentrano. La peculiarità di questa foresta, chiamata “Foresta di legnoferro”, è appunto che alcuni dei suoi alberi nascono sopra ad un giacimento di minerale ferroso, e per questo motivo i suoi rami sono estremamente resistenti e al contempo flessibili. C'è un' altro motivo per cui questo luogo è famoso, la presenza al suo interno, nella parte più remota e selvaggia, di un luogo un tempo di culto, ora in rovina, e soprannominato da coloro che lo hanno visto, e da qualche bardo che lo ha inserito nelle proprie ballate, il “Tempio sommerso”. Il primo giorno del nostro viaggio andava concludendosi, dopo aver lasciato il sentiero ed esserci addentrati nella parte esterna della foresta, quella che già in passato avevamo esplorato durante le nostre ronde. Qui ormai la zona era priva di pericoli, se non qualche cinghiale, che per la loro grazia non avremmo cacciato in quei momenti, non potendo poi riportare velocemente al forte la sua carne. Quella sera ci saremmo accontentati delle razioni da poco preparate, zuppa e del pane, per la quale sarebbe bastato un semplice fuocherello; senza fatica sulle spalle, la prima serata passò tranquilla, piacevole al chiaro delle stelle che senza le luci della caserma, brillavano ancor più, suscitando in noi qualche brivido al cospetto di così tanta vastità. Il sonno prese alla svelta il sopravvento, probabilmente dovuto alla stanchezza della passata nottataccia, e tranquilli del fatto che il glifo posizionato all' ingresso del nostro accampamento avrebbero dissuaso animali e mal intenzionati. Prima di chiudere gli occhi diedi un' ultima occhiata a Leo, e sorrisi nel vedere la sua mano destra sull'elsa della spada a fianco a lui.

Ingresso del forte di Nemis

Ingresso forte Nemis

ingresso fase 2

ingresso fase 3

ingresso fase 4

 
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