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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Per la prima volta mi servo di questo blog per mettere in ordine fatti puramente miei personali, senza pretesa di estrapolarne ramificazioni sistemiche.

Ieri con l'associazione ludica cui partecipo abbiamo svolto qui a Milano (o meglio, nel verde sobborgo di Cologno Monzese) la quinta LudiCon, una due giorni di partite a giochi di società auto-organizzata e autogestita, e per la prima volta ci abbiamo pure inserito una conferenza divulgativa di game design (quando sarà disponibile in streaming, inserirò qui il link). Ne sono uscito assai soddisfatto, giacché nel corso della convention mi sono goduto quattro appaganti partite ad altrettanti giochi di ruolo:

  • Il quarto collaudo di Sogni di Luce e Tenebra, un mio pacchetto di regole aggiuntivo per Archipelago, grazie al quale giocare le atmosfere dei romanzi dark fantasy di Tanith Lee. Finalmente il nucleo centrale del pacchetto è pronto e funzionante e posso pensare di espanderlo un po' e predisporne la pubblicazione.
  • Una partita a Dawn of the Orcs in lingua inglese, perché facilitava il gioco una coppia italo-yankee, al termine della quale abbiamo dissezionato assieme tutto il potenziale lasciato inespresso da un design approssimativo e poco sistematico... e dopodiché la cosa è spontaneamente escalata in uno scambio di considerazioni sulla didattica e la letteratura di genere.
  • Poche settimane dopo essermi rigiocato il mio amato Lady Balckbird dal ciclo dei Tales from the Wild Blue Yonder, finalmente ho provato il gioco prequel Lord Scurlock... e ho recitato un androide elettroplasmico in lite di eredità con la sorella strega e il fratello pirata dei cieli. È stato estremamente appagante infilare tutto il mio autismo nel povero robot “socialmente inetto” in mezzo alle cospirazioni da “umani normali”.
  • In totale improvvisata, ho rispolverato Microfiction (la casa editrice ha chiuso ma è ancora reperibile qui), un titolo di cui sono stato playtester e conosco come le mie tasche ma non proponevo da tempo, e ne abbiamo ricavato una miniserie sword & sorcery all'insegna del trash, con ampie ed estese parodie (se non proprio satire?) di quella cinemtografia pop anni Ottanta che piace fin troppo ai millenial conservatori.

E alle quattro partite, aggiungiamo infinite chiacchiere inerenti lo stato del design del medium GDR ad oggi; la possibilità di tassonomizzare i giochi di ruolo fra giochi OSR e “giochi non OSR e quindi per persone finocchie” (spoiler: fa ridere perché la sottocultura OSR è spaccata fra uomini GenX reazionari e donne transgenere neurodivergenti); le disfunzioni di un'accademia che si finge progressista come specchio per allodole per nascondere la sua piena adesione al capitalismo; la discreta qualità hardware della Nintendo Switch 1 Lite; la socializzazione con una conoscente (via via sempre più amica) che condivide con me neurodivergenza e gusti ludici; gli aggiornamenti sui casi della vita di persone che non incrociavo da anni (menzione speciale alla conoscente che ha iniziato la terapia ormonale per la transizione di genere ed è raggiante di “seconda pubertà” estrogenica <3 ).

E qui viene il momento bello, il momento in cui ho fatto un bilancio. Durante questa convention, ho riso come un matto davanti alle affettuose imitazioni caricaturali che un conoscente (via via sempre più un amico) fa dei miei manierismi più astrusi, per poi abbracciarmi; persone nuove mi hanno definito estremamente interessante, grazie alle riflessioni e ai contenuti che ho portato nella conversazione; ho partecipato a ragionamenti sofisticati di analisi del design, dissezionando regolamenti e l'interazione fra le loro parti mobili, proprio come da novellino vedevo fare agli “anziani”; e soprattutto, durante l'ultima cena mi sono seduto spalla a spalla con un pischello del 2004 che si è trovato ad assimiliare aneddoti e ritualità condivise da tutta la comitiva, risalenti, in alcuni casi, addirittura a 15 anni fa... e in alcuni di questi aneddoti appariva pure il me ventenne appena entrato nel giro.

Insomma, la cosa più bella che mi porto a casa da queste giornate è la sensazione di volere molto bene al me stesso ventenne, che per dieci anni ha abitato l'ambiente ludico con tante gaffe, tanti incespichi, tanti buchi nell'acqua, tante fasi alterne, ma sempre con umiltà, curiosità e propositività (e questo voglio riconoscermelo): ho seminato bene per dieci anni, e ora mi porto a casa un bel raccolto, a distanza di un mese e mezzo circa dal mio trentesimo compleanno, un trentesimo compleanno che mi vedrà dotato di contratto indeterminato e casa di proprietà, in un territorio che amo e dove sto cercando di seminare bene, ieri come oggi. Se ripenso al me stesso timido e impacciato e spesso insicuro del tardo 2015-inizio 2016, non posso che essere fiero di lui e della strada che ha fatto, negli hobby culturali come nella militanza sociale (che poi per me si intrecciano assieme nella Controcultura con la maiuscola, e formano un tutt'uno).

Per altro, proprio in quegli anni tre mie canzoni del cuore erano, in ordine di pubblicazione, “It's Time” (Imagine Dragons), “Wake Me Up” (Aloe Blacc) e “Top of the World” (Greek Fire): tre canzoni scoperte in quanto colonne sonore ufficiali o ufficiose di film e cartoni animati del periodo, in particolare La leggenda di Korra e Noi siamo infinito; tre canzoni che parlano della transizione da una fase a un'altra, della malinconia di abbandonare ciò che è noto e confortevole, dell'energia positivamente strafottente di gettarsi nelle nuove sfide, dell'irrequietezza languorosa di barcamenarsi in un equilibrio nuovo, della determinazione di non abbandonare né il passato che ci ha dato forma né i sogni prescelti come bussola del proprio futuro... tre canzoni che inserii in una playlist per il mio partner di fine università (nonché mia prima relazione romantica), il quale mi pronosticò un bel futuro, una volta diventato wiser and older (citando “Wake Me Up”). Ora che i primi capelli grigi mi sono arrivati, e sono stato definito “un saggio della montagna” e “un ottimo cartomante”, mi permetto di riconoscermi che un pezzo del viaggio bello denso di cose l'ho completato con successo, arricchendo la comunità attorno a me, e posso iniziare la nuova fase citando un'altra canzone del cuore di dieci anni fa: “Go ahead and tell everybody I'm the man. Yes, I am.”

 
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from Warp

Ciao Livello Segreto, buondì. In queste torride giornate abbiamo pensato bene di tirar fuori un argomento in grado di sollazzare al meglio i nostri freschi cervelli: come gestire i contenuti fatti in AI nel nostro angolo di Fediverso.

Aldilà di quella che è stata poi la decisione presa ci tengo a sottolineare come sia estremamente felice e soddisfatto di questo thread: https://livellosegreto.it/@ed/114879077658852032

Non tanto per la posizione delle risposte (beh, un po' sì a dirla tutta), ma soprattutto per il fatto che fossero motivate e con spunti interessantissimi.

Però sì, dai, va detto che si gongola un po' quando in occasioni come queste ci si rende conto che forse un posto popolato da persone con idee e ideali simili siamo riusciti tutt3 insieme a tirarlo in piedi.

Andiamo al sodo.

I contenuti generati con AI non sono in linea con i valori attorno a cui è nato Livello Segreto e vi invitiamo a non postarli.

Questo non significa che chi li pubblica verrà bannato per direttissima, ma che: 1. si scoraggiano le persone a pubblicare qualcosa di simile (lo spazio sul server non è infinito e preferiamo che venga usato per cose umane che da AI) 2. se proprio dovete pubblicare qualcosa di simile (per far passare un punto o per mostrare qualcosa) usate il CW. 3. ci riserviamo di richiedere la rimozione di eventuali contenuti simili qualora lo ritenessimo sensato (lato admin/mod, ma anche lato comunitario: i report funzionano e vi invitiamo nuovamente ad usarli)

I discorsi sull'AI vanno benissimo – anche senza CW –, ma vi chiediamo di usare gli hashtag #ai e #ia così da permettere a chi volesse di silenziarli preventivamente.

È tutto, ora possiamo tornare a parlare di quanto sia bello fare il bagno in un laghetto fresco (o almeno pensarci così da avere un po' di frescura nel cervello).

Dubbi, domande o perplessità: scriveteci. Ed & Kenobit

 
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from Super Relax


Sono tornato da poco da un'uscita infrasettimanale in super relax, di quelle che mi si addicono e che vorrei moltiplicare.
Un'uscita con poche decine di metri di dislivello, al passo spedito di noi ciclisti di poche pretese alle prese con pianure deserte: 25 km/h di media e ci sembra di volare, tutta la velocità in più è in eccesso.

Il giorno non è ancora rovente, siamo sui 28°, non soffia più che un venticello esile, ma la brezza artificiale della pedalata è gradevole; mezzi a motore pochi e ben distanziati tra loro. Gli unici suoni, per lunghi tratti, sono quelli della bicicletta, a cui ci si abitua dopo poche uscite, e quelli che non smettono mai di rapire gli amanti della natura: il canto degli uccelli, le cicale quasi impossibili da vedere, solitamente, ma impossibili da ignorare.

E si va, sciolti e tranquilli, fino a cadere in una sorta di leggera beatitudine, la mente è finalmente libera dalle ossessioni e dalle preoccupazioni del quotidiano, i pedali sembrano non offrire resistenza, ci si sente come cullati da un pianeta fatto su misura, temporaneamente in un mondo simile al nostro ma mondato dai pesi, dalle brutture e dalla necessità della vita.

Certo, temporaneamente, ma meglio che mai.

 
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from khulewampe

di khule wampe

Anacronistico potrebbe sembrare l'unica parola adatta. Eppure.

Se fossi qui, a scrivere questo post, per una necessità estrinseca, ebbene allora potrebbe apparire tutto alquanto anacronistico.

Ma la spinta è intrinseca: voglio scrivere. Per farlo, ho bisogno di spazio.

Come moltə di noi, da queste parti, probabilmente abbiamo già avuto per motivi simili un blog in passato e poi per motivi tra noi simili lo abbiamo chiuso oppure abbandonato. Ci può stare, è comprensibile.

Dai 140 caratteri del fu Twitter ai succinti post di Facebook, le cose sono cambiate ancora di più. Instagram è passato da puro album fotografico a editorialismo con carosello fotografico/slide (forma che ho usato io stesso). Il passaggio maggiore, a mio avviso, lo hanno fatto le storie quando da luogo effimero sono diventate surrogato della televisione, dove ogni profilo è un canale.

In tutto ciò, l'obsolescenza programmata di post (in fondo, a causa degli algoritmi) e delle stesse storie (durano solo 24 ore per il pubblico) non permettono di instaurare una conversazione ampia, ma solo dei dibattiti one-to-one, individuali.

Bisogna prendere atto di queste modalità di comunicazione.

D'altra parte, è perfettamente normale sentire la necessità di occupare uno spazio dove algoritmi, obsolescenza programmata e limiti strutturali vengono meno. Dove la forma, lo spazio e il tempo delle cose sono non-decisi a priori. Dove posso rendere pubblico un racconto, una riflessione, una recensione (di un libro, di un album, di un film, di un'opera qualsiasi), lasciando fluidità nel formato di scrittura.

Per farlo, ho bisogno di spazio.

Per questo mi tuffo in un anacronismo, forse; a leggere saranno meno persone, forse. Ma la verità è che il mio rapporto con Internet ha subìto un degrado costante negli anni e ha perso gran parte della promettente qualità dell'adolescenza. Qualità che, francamente, speravamo sfociasse in una libertà maggiore, anziché un controllo maggiore.

Se devo riconciliarmi con Internet, allora io ho bisogno di un blog. Niente lezioni di vita, niente nostalgia dei bei tempi. Solo, per me, una riconnessione con la connessione per antonomasia.

A chi leggerà i prossimi post dico solo questo: grazie per il vostro prezioso e irreversibile tempo di lettura e, se vorrete, di scrittura.

 
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from kipple


La fortuna non esiste, è un modo che non mi appartiene di riferirsi al caso benigno. Un tiro di dadi favorevole, un'azione meccanica da cui scaturisce un risultato casuale. I dadi hanno deciso che non avessi idoli di alcun tipo, risparmiandomi parecchie delusioni. L'idolo, specie finché è ancora in vita, può far sempre in tempo a tradirsi (e tradirti).

Mio padre mi voleva bene, molto; anch'io gli volevo bene, molto, ma erano quei sentimenti che non si incontrano, si sfiorano, cercano di avvicinarsi e poi sfuggono vicendevolmente, camminano paralleli come due rette geometriche, separati da infiniti punti, infinite rette.

Era un uomo del Sud, degli anni Quaranta, nato, cresciuto e vissuto in determinati quartieri, con la scolarizzazione di uno che ha iniziato a lavorare poco più che bambino. Un'identità facile da inquadrare, ampiamente rappresentata. Io, invece, nella mia famiglia sono sempre stato un corpo estraneo. Non c'era nessun motivo, nessuna possibilità per cui tra noi le cose potessero funzionare più di tanto, la frattura si allargava con gli anni. Non c'era dialogo, non essendoci nulla su cui poter dialogare. Non c'era neanche voglia e possibilità di confronto e discussione, essendo le posizioni di partenza così distanti, inconciliabili, irremovibili. Non c'era nulla da mercanteggiare.

Come tutti, ha commesso degli errori, ma un paio almeno così grandi da negarmi la vita che avrei voluto. Non ha mai voluto investire niente su di me: lo so che è un'immagine brutta quanto il concetto stesso, ma viviamo nel capitalismo e determinate cose funzionano in un determinato modo. Ancora, non ha voluto lasciare Napoli e provincia, landa marcescente, quando ne avevamo la possibilità. Scelte che mi hanno fatto sentire privato della speranza e del futuro, probabilmente operate nel nome della famiglia in senso ampio, quando avrebbe dovuto limitarsi alla sua, di famiglia.

Nonostante tutto ci volevamo bene, però, alla nostra maniera e nelle sue ultime settimane ci siamo riavvicinati per quanto possibile, perché certe situazioni fanno riflettere sulle priorità e l'importanza delle cose.

Certi elementi di cultura popolare erano le uniche cose che avessero il potere di avvicinare, temporaneamente, fugacemente quelle rette. I fumetti del trio EsseGesse (Il Grande Blek, Il Comandante Mark, Capitan Miki), Tex, le storie esotiche di Sergio Toppi, Corto Maltese. I western di Sergio Leone, Il mio nome è Nessuno. Certi episodi, probabilmente produzioni mitteleuropee, che passavano in RAI, narrazioni più o meno fiabesche di cavalieri e nobili in boschi scuri, inghiottiti dalla nebbia. La domenica mattina, era quella la programmazione, mentre mia mamma faceva le faccende di casa, andavo a piazzarmi sul lettone e le guardavamo insieme, poi ci si preparava per uscire. Ero ancora abbastanza piccolo da uscire con loro, la domenica mattina.

Il legame più forte e duraturo di tutti, però, è stato Stephen King. Tutto è iniziato in un supermercato in provincia di Arezzo, quindi sullo scaffare dei libri di un qualche punto Coop. La chiamata dei tre: questo è il libro che mi cattura, sarà stata la copertina, il titolo, quello stile grafico che poi sarebbe diventato familiare.

Copertina di un libro con una sorta di tramono e quattro soggetti umani, un pistolero, due soggetti maschili di età differenti e una donna su una sedia a rotelle. A grandi lettere, il testo Stephen King e La chiamata dei tre.

Non sapevo si trattasse del secondo della serie, non era importante. Poi mi procurai il primo e tutti quelli usciti successivamente. Probabilmente, l'unica cosa che abbia mai atteso con relativa impazienza, in ambito intrattenimento, era il nuovo libro della serie. Comunque, visto che c'ero, mi appassionai alle storie di Stephen King, ai suoi mondi, alla sua narrazione, recuperando praticamente tutti i suoi libri fino a una certa data, su quelli recenti non sono ferrato. Anche mio padre ne divenne un avido lettore e vederlo con quei libri in mano, anche prima che li leggessi io, era un modo per sentirsi più vicini. Almeno per me, non so lui cosa provasse a parti invertite.

Poi, un giorno, in rete si inizia a parlare di Stranger Things: non me ne importa nulla di essere sempre sul pezzo, quindi lasciai perdere per qualche tempo, poi mi procurai la serie. Sì, sappiamo tutti che è una serie furba, facilona, derivativa, eccetera. Come i film di Tarantino, non sarebbe esistita senza aver potuto attingere a una mole considerevole di materiale precedente, non sarebbe esistita senza la musica e l'estetica degli anni Ottanta, non sarebbe esistita, in primo luogo, senza le migliaia di pagine di Stephen King. Anche le migliaia di pagine di Stephen King vengono da altre decine di migliaia di pagine.
Faccio in modo che mio padre possa vederla, un altro modo per sentirsi più vicini. La apprezza e molto, non avevo dubbi. È lui il primo a vedere la stagione successiva, appena disponibile.

Esce la terza stagione, la divora e poi mi fa “quando escono le altre puntate?”. Non ho modo di saperlo con precisione, lui stava ancora relativamente bene (per quanto possa stare bene una persona che ha ricevuto quel tipo di condanna a morte) e quindi posso dirgli, senza che mi si bagnino gli occhi, che la vedrà appena uscita. Non la vedrà mai, la malattia non gliene ha dato il tempo. Non l'avrebbe vista comunque, perché il cortisone, tra le decine di medicinali che doveva assumere, gli aveva ormai opacizzato la vista, non penso distinguesse più che ombre.

Non ho voluto vedere le puntate successive, son rimasto anch'io allo stesso punto. Non le vedrò mai. E, sapete una cosa? Mi ero ripromesso di leggere l'ultimo libro, La Torre Nera, proprio come il titolo della saga, solo quando sarebbe stato meglio. Avrei voluto leggere quella conclusione col cuore più leggero, conservarla come una bottiglia pregiata per le grandi occasioni, ma la morte è arrivata prima e ho deciso così. Non lo leggerò mai.

 
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from ordinariafollia

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Fa rima con cuore oppure rispetto fa riva con tavolo oppure con tetto fa rima con casa al mare ma la parola non la voglio trovare.

Mille cagnare duemila bestemmie per me sono pregi, per te son difetti finché non ci portano vino e spaghetti.

Fa rima con potere oppure dovere ma puzza come il buco del sedere fa rima con essere oppure con dare ma sta parola non la voglio cercare.

Per me oggi è nero, per te è sempre bianco allora mille cagnare settanta volte sette bestemmie finché io lo sopporto e tu non sei stanco.

Fa rima con capisci tutto tu fa rima con c'era una volta e or non c'è più fa rima con Achille vestito da sposa ma non è importante, pa'... adesso riposa.

 
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from Signor Uscita

Penso capiti a tutti di affezionarsi a qualcosa. Può capitare di affezionarsi anche alla propria identità.

Non ho in generale una buona memoria, ma ricordo con chiarezza il momento in cui scelsi il mio primo “nickname” per la mia prima email. Parliamo di un’epoca ben diversa quando i computer andavano a pedali e non si trovavano molti altri utenti online.

Mi ci affezionai. Solo recentemente mi son reso conto quanto possa essere liberatorio e rinvigorente cambiare nome, anche solo temporaneamente. Offre una visione da un altra prospettiva, un altro angolo.

È l’equivalente di quel signor Marco Rossi che per gli amici si fa chiamare Franco (storia vera).

[…]

 
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from Ore liete


Delle mie esperienze con lo skatebobard, in estate e lontano da casa, ne ho parlato qui. Del tennis, invece, ne scrivo adesso e anticipo che racchetta e skateboard trovano un punto di contatto nel punto di contatto tra il mio coccige e una superficie più o meno piatta, ma indiscutibilmente solida: sì, sono caduto, anche stavolta pesantemente, con una racchetta in mano mentre stavamo in villeggiatura e questo è il succo di questo articolo, che continuo per chi fosse ancora interessato.

Stavolta, la casa era a Castello del Matese, località in cui abbiamo villeggiato una sola volta, e quell'anno avevamo la compagnia dei miei zii dalla Toscana. Noi salivamo di poco, loro scendevano di parecchio e ci incontravamo in questo piccolo paese tra Piedimonte (Matese) e San Gregorio (Matese). Il Matese è un'area geografica, fatta di monti e valli, a cavallo tra la Campania e il Molise e i nomi di molte località incorporano questa dicitura, subentrata quasi sempre a “d'Alife”. Piedimonte è in collina, 300 metri più su c'è Castello e salendo per altri 300 metri, circa, si arriva a San Gregorio. Ci eravamo fermati nel mezzo, quell'anno.

Vista dall'alto di un borgo di montagna, con un castello visibile al centro, edificato su un rilievo pianeggiante posto tra più alti monti boscosi

La casetta affittata dai miei zii era più moderna, per quanto potesse esserlo in un paesino di montagna più di trenta anni fa. Ricordo gli infissi in alluminio, almeno: la nostra, di sicuro, non ce li aveva. Era una tipica casetta da borgo, di quelle non vissute dai proprietari e che quindi sono rifinite un po' sì e un po' no, più no che sì. Muri intonacati senza troppa convinzione, pavimenti decisamente antichi, bagno al piano di sopra a cui si accedeva, se non ricordo male, passando da un balcone. Gli elementi della abitazioni tendono a diventare a incastro, in certe situazioni. E la scala che portava al piano di sopra: una dei protagonisti del racconto, che era di gradini di cemento grezzo, probabilmente neanche troppo regolari in alzata e pedata, come se servissero a ostacolare l'avanzata di eventuali aggressori dal piano basso che volessero conquistare il bagno (senza doccia e senza vasca, ci lavavamo in una capiente tinozza) o le stanze da letto. Ah, dimenticavo: da una porticina a piano terra, fatta di una intelaiatura approssimativa di legno, vetro e spifferi, si accedeva a un orticello interno, incastrato nello spazio lasciato dalle case incastrate tra loro. I proprietari ci chiesero di evitarlo, possibilmente, cosa che facemmo. Chissà, forse vi passeggiava un fantasma, fatto sta che quella stanza era molto più tetra del resto della casa.

Con noi, c'erano i nostri due uccellini, una canarina e un verdone, che ci portavamo sempre dietro in villeggiatura, mica potevamo lasciarli a casa. Ogni estate, caricavamo la 127, quella col motore da 900 cm³ e tre porte, ci entravamo in quattro più la gabbia e partivamo. Inconcepibile, attualmente: senza un 3.000 diesel, da tre tonnellate, non si fanno fare neanche le scuole dell'obbligo ai figli, neanche se per arrivarci basta attraversare la strada.

Ma la racchetta? Eccola. Per qualche motivo, come se poi potessi giocarci da solo, come se la 127 non fosse già abbastanza stracolma del necessario (tra cui noi e i nostri uccellini), mi ero portato dietro questo racchettone dei tempi di Nicola Pietrangeli, bastava impugnarlo e ci si sentiva subito un po' Fantozzi. Una notte, dalla stanza tetra arrivarono dei rumori. Sarà stata la semioscurità che l'avvolgeva anche nelle ore di sole, saranno state quelle scale quasi medievali, quell'ambiente colpiva la fantasia (fertile) di un ragazzetto. E questa fantasia era sollecitata nelle ore di luce, ma quella notte, svegliatomi di soprassalto e solo parzialmente, avevo immaginato una cosa molto più terrena e pratica di un fantasma che si divertisse a turbare il sonno dei giusti: poteva essere un gatto, entrato da spiragli che solo loro conoscono e possono praticare, venuto a mangiarsi i nostri uccellini!

Passai da uno stato di sonno profondo a uno di dormiveglia, accesi una luce e afferrai il racchettone, pesante di suo come se fosse stato di pietra, non so in quale ordine, per poi lanciarmi per le scale, brandendolo come mazza chiodata, scivolando su uno dei gradini, battendo (ancora) il coccige al suolo con frastuono sismico, fermandomi un paio di gradini più in basso, abbastanza naturalmente anestetizzato da non sentire subito il dolore, ma abbastanza sveglio da capire che il nemico era stato messo in fuga prima di poter fare danni. In realtà, non sapemmo mai se davvero ci avesse fatto visita un gatto, quella notte. Anche quell'anno, la gabbia tornò a casa intatta, coi suoi occupanti illesi, in un giorno di inizio settembre.

La racchetta la usai come tale una sola volta, ci giocai con mia cugina su un campetto affittato per un'ora. In realtà, non potrei affermare con certezza di averci giocato, di sicuro i nostri vicini di campo passarono un'oretta d'inferno: noi lanciavamo costantemente e involontariamente le nostre palline nel loro campo di gioco e loro, gentilmente, ce le rimandavano per tutto il tempo, senza un fiato o una smorfia.

Questo è il vero spirito del tennis, non fare i milioni e pagarci ben misere tasse in un paradiso fiscale, azzardando un italiano da dizionario tascabile.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Premessa linguistica: in questo articolo userò le parole “froci-”, “ricchion-”, “invertit-” e affini come insulti riappropriati, cioè termini derogatori che io ribalto in termini di auto-elogio, per rimarcare la mia anormalità di persona non eterosessuale rispetto a una “normalità” che rifiuto in quanto malsana. In questo senso, si tratta dell'adattamento italiano del vocabolo inglese queer, che ha dietro lo stesso identico etimo.

Un lunedì mattina come tanti

Da quando mi sono trasferito dalla Brianza a Milano (o dovrei dire “da quando sono emigrato”? A volte me lo chiedo), ho iniziato a fare attività sociale e politica, e nelle ultime tre settimane circa ho contribuito con il mio pezzettino a far succedere un progetto cui tenevo tantissimo: la Marciona di Milano, ovverosia il corteo dell'orgoglio ricchione auto-organizzato dai gruppi politici froci di sinistra, in opposizione aperta a un Pride comunale che ormai è diventato un mega-evento turistico di pubblicità per grandi aziende, totalmente svuotato del suo significato politico di anniversario dei Moti di Stonewall del '69.

Nota storica breve: sì i Pride commemorano un tumulto in cui persone frocie newyorkesi (per lo più transgenere e per lo più afroamericane e latinoamericane) riempirono di botte la polizia e pretesero la decriminalizzazione delle identità queer (represse in quanto malattie mentali e crimini contro il decoro), nel quadro più ampio del movimento del '68, e collegandosi direttamente alle mobilitazioni contro la Guerra del Vietnam e a quelle per la desegregazione della popolazione nera. Di fatto, queste manifestazioni sono un po' il corteo del Primo Maggio specifico per noi ricchioni, e se non lo sapevate, è ulteriore indice che troppi Pride moderni fanno pena.

Non starò qui a commentare l'esito della Marciona (quello spetta a tutta la rete usando il nostro blog... appena lo rimettiamo in sesto), bensì ne farò una lente di analisi per un fatto curiosissimo che mi è successo stamane. Alcuni mesi fa, su consiglio di una mia amica (ricchiona anche lei) che si interessa di scienze sociali, mi sono iscritto alla newsletter «Ciclostyle», in cui l'antropologa culturale Carolina Boldoni e il giornalista/formatore Enrico Di Palma commentano fatti vari ed eventuali attraverso le rispettive lenti di analisi, e nel numero di stamane Boldoni ha dato una restituzione del campeggio di formazione antropologica che ha tenuto nei giorni scorsi. Raccomando di sfogliare la newsletter qui e poi tornare qua per sentirmi fare il puntacazzista comunistone.

Gioire perché la montagna ha partorito un topolino

A quanto pare, Boldoni considera un successo il suo antropocamp (ovviamente indicato con anglicismo) perché 8 partecipanti hanno imparato a fare vita comunitaria attraverso la condivisione del lavoro domestico, ivi compreso quello in cucina, e grazie alla buona fede reciproca necessaria per costruire legami di condivisione senza filtri e senza pressioni. 8 partecipanti che mi aspetto avere circa la mia età e il mio status sociale di “alto proletario-piccolo borghese” (considerando l'utenza cui si rivolge il progetto Ciclostyle), e che hanno scelto di pagarsi una vacanza didattica organizzata apposta per imparare... che non sono persone asociali in toto, bensì gli mancava l'educazione affettiva minima per saper selezionare le proprie frequentazioni e costruire legami autentici.

Confesso che questa newsletter mi ha dato la stessa sensazione di quando parlo di giochi di ruolo e vedo la gente in estasi perché per anni ha giocato unicamente a Dungeons & Dragons o qualche sua derivazione e ha appena scoperto che esistono GDR

  • Di ambientazione non high fantasy e/o
  • Meno complessi meccanicamente di un wargame vecchio stampo e/o
  • Che non richiedono 3 ore di preparazione preliminare per ogni ora di gioco effettivo

In casi simili, la mia reazione di pancia sarebbe sempre di sottoporre queste persone a una terapia d'urto per allargare i loro schemi preconcetti da 0 a 1000 – ad esempio proponendo loro un gioco monosessione totalmente dialogico e di ambientazione realistica contemporanea (tipo Alice è scomparsa); tendenzialmente poi mi trattengo, ma ne parlerò in un altro momento.

Al momento, mi interessa evidenziare che la clientela di Boldoni (e, presumo, Di Palma?) è come il giocatore di ruolo insoddisfatto medio: gente che per anni si è torturata a scegliere un'opzione sbagliata per sé, credendo che non ci fosse una vera scelta bensì un'unica strada possibile, ha appena fatto un passettino per capire meglio la vastità del mondo, e ora suona la fanfara del trionfo come se avesse raggiunto il Nirvana. Non so mai se provare pietà per gli anni che queste persone hanno sprecato e che non riavranno mai indietro, o piuttosto schernirle per la sicumera con cui sopravvalutano il proprio primo passo in un percorso che sarà lungo e complesso e richiederà tanta umiltà e curiosità. O ancora, se indirizzare un po' di disprezzo verso chi capitalizza sull'ignoranza altrui, abbandonando la deontologia dell'insegnante ed entrando nel linguaggio disfunzionale del guru.

Abbiamo svenduto l'educazione affettiva

Io non conosco personalmente Boldoni (né Di Palma), non ero al suo antropocamp, e non posso certo giudicare lo sforzo organizzativo messo nel progetto né l'impatto concreto sulle vite delle 8 persone partecipanti. Però conosco benissimo la sensazione di essere “sbagliato” per la comunità circostante e incapace di inserirvisi, considerando che sono un uomo autistico e bisessuale cresciuto nella provincia lombarda in piena epoca leghista, senza uno straccio di supporto terapeutico specifico per le neurodivergenze né una rete amicale realmente progressista e attenta alle questioni femministe-finocchie (anzi, avevamo dentro un paio di trumpisti). Se non sono esploso malamente per l'intreccio fra le mie due marginalità, e tutto lo stress conseguente, è perché dai 17 anni in poi ho cercato col lanternino persone e contesti sociali che potessero essere affini al mio carattere e ai miei interessi, e mi sono preso l'accollo di scremare i (tanti) buchi nell'acqua dalle (tante) situazioni fertili: da lì è scaturita la mia passione per il gioco di ruolo e il paio di anni a fare partite “matte e disperatissime”, sia di persona sia in videoconferenza, con tante persone straordinarie che mi hanno offerto uno spazio sicuro per esprimere me stesso, rendermi vulnerabile, e imparare con errori e tentativi a compensare i miei deficit di intelligenza sociale. Ricorderò sempre il mio primo lavoretto come traduttore per Dreamlord Games, il cui direttore scelse di dare fiducia allo sbarbatello logorroico che apriva sempre discussioni tecniche sul forum ufficioso di Fate, o quella partita a Dungeon World che iniziò con me collassato per lo stress universitario e uno dei miei compagni di gioco pronto a tirarmi su di morale. O la demo di Lady Blackbird in cui conobbi la coppia, allora appena andata a convivere, che adesso ha un figliolo adorabile; o il playtest al bellissimo gioco di edu-intrattenimento Stonewall 1969, in cui imparai la storia dei Moti di Stonewall e la definizione di lotta di classe auto-organizzata.

E tornando circolarmente al punto di impartenza, è grazie a quei bellissimi anni di educazione affettiva mediata dall'hobby ludico, se a 27 anni mi sono trasferito a Milano e, come primissima cosa, ho mappato le realtà politiche che ancora cercano di portare avanti progetti di sinistra, in una città che da praticamente un decennio sta venendo massacrata per trasformarla in un luna park per milionari, e mi sono buttato a capfitto dentro quel marasma di militanza. Ho partecipato a picchetti, cortei, cene sociali, mostre d'arte e cabaret gratuiti, alla pulizia di centri sociali e alla preparazione di collette alimentari, ho composto e declamato comunicati pubblici in manifestazione e partecipato a dibattiti aperti... E soprattutto, ho stretto connessioni autentiche. Compagni e compagne con cui volevo inizialmente mantenere un rapporto puramente politico (“per non dare troppa confidenza”) sono ormai amici e amiche che considero di famiglia; persone che rispettavo mi hanno deluso allorché le ho messe davanti a una prova dei fatti, e ho saputo rivalutarle senza stracciarmi le vesti; persone di cui diffidavo hanno dimostrato più serietà e apertura di quanto pensassi, e ora sono solo contento di lottare al loro fianco; militanti che potrebbero essere i miei genitori mi raccontano volentieri, con la commozione in volto, degli amici di un tempo stroncati dai fascisti e dall'eroina; militanti che potrebbero essere mie sorelle e miei fratelli minori si interfacciano con me da pari a pari; DJ veterani della scena musicale underground mi salutano calorosamente ogni volta che ci becchiamo in manifestazione ... altre persone della rete Marciona mi invitano agli hacklab e io contraccambio invitandole alle convention di GDR (di nuovo, il cerchio si chiude e tutto sta insieme).

Dove voglio arrivare? Al fatto che io, già da ragazzo, ho saputo individuare un'idea approssimativa di chi volevo essere e l'ho perseguita e affinata col tempo; e ho avuto la fortuna di sentirmi a casa nella Controcultura, quella con la maiuscola, dove consideriamo un valore la libera autoespressione e la condivisione di saperi senza creare poteri (per citare la buon'anima del compagno Primo Moroni). Di conseguenza, ho imparato organicamente a costruire legami autentici, prendendo esempio da persone che già avevano fatto quel percorso e mi hanno guidato e consigliato, e ora sono in condizione di guidare e consigliare io chi è più giovane di me. Tutto questo, senza pagare guru che mi facciano dei workshop sul senso vero dell'esistenza. Davvero ci sta bene che le storie come la mia siano l'anomalia? Davvero vogliamo che la norma sia, invece, dover assumere un/-a guru per imparare a vivere in comunità e darsi una progettualità?

Agire l'utopia

Giusto perché le cose seguono spesso uno schema (sì sono anche neopagano, ma ne parliamo dopo), nelle ore intercorse fra la Marciona e la lettura di «Ciclostyle» avevo proseguito la mia lettura di «Un'Ambigua Utopia», bellissima fanzine di critica culturale marx/z/iana (sic!) curata fra '77 e '82 da un collettivo di nerd sinistri della prima generazione che militavano nell'Avanguardia Operia e leggevano fantascienza, i quali l'hanno riavviata a partire dal '20 come progetto della pensione. Ebbene, come da titolo la rivista si poneva e si pone il problema di uscire dalla concezione consolatoria e prescrittiva dell'utopia e passare a una concezione pragmatica di agire l'utopia nel qui e ora, e proprio iersera ho letto l'editoriale del numero 6 (Marzo/Aprile 1979), in cui la redazione fece il punto proprio su questa dialettica in ottica di problematizzazione aperta, in particolare domandandosi se possa esistere un'utopia di sinistra o se invece il concetto stesso di utopia non si colleghi intrinsecamente all'automiglioramente individuale capitalista e all'ottimizzazione della macchina statale.

Non ho potuto non collegare fra loro quell'editoriale, la newsletter, la Marciona, e il festival con corteo finale che «Un'Ambigua Utopia» organizzò a Milano nel '78 (rendicontato nel numero 4). Da un lato, c'è un capitalismo ormai così pervasivo che per tante persone della mia età vivere atomizzate ed esistere per lavorare è la norma ineluttabile, l'affiliazione politica (se c'è) non va oltre i meme, portare avanti hobby propri e viverli come fortemente identitari è inconcepibile, e non può mancare la caccia alla relazione sentimentale (rigorosamente monogamica) come status symbol di adultità. Dall'altro lato, ci siamo ieri come oggi noi teste calde antagoniste, che ci ostiniamo a scendere in piazza agghindate da marx/z/iane e da raver, a bordo di risciò sgangherati decorati con artistici cartelli in cartone, esibendo fiere il quadricolore palestinese e la bandiera dell'orgoglio finocchio (rigorosamente la versione nuova, però), e prima durante e dopo queste manifestazioni di dissenso e di disordine costruiamo altre socialità, altre culture, altre prospettive.

Cantavano cinquant'anni fa i cori di Lotta Continua:

La scuola dei padroni non funziona più ma solo come base rossa; la cultura dei borghesi non ci frega più, l'abbiamo messa nella fossa.

Canta oggi Carenza503, rapper torinese con cui ho l'onore di militare:

Sogno con te solo di stare bene. Sembra banale ma è radicale: la forma più pura dell'anarchia che ci potesse mai capitare.

Mi pare che la sostanza sia sempre quella. Non abbiamo, al momento, le condizioni materiali per ribaltare il sistema, ma abbiamo le possibilità di costruire delle alternative interstiziali, e il dovere morale di tirarci dentro più persone che possiamo, senza farle intortare da una falsa alternativa erogata dal capitalismo. Perché l'utopia non verrà domani: l'utopia è oggi, giorno dopo giorno, in ogni istante di vita degna e autentica che riusciamo a mettere insieme, costruendolo assieme. E questa, per me, è la base vera del socialismo libertario.

Per il comunismo e per la frocità, riprendiamoci la città.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Io e il Mondo di Tenebra

Per essere un nerdacchione zillenial, sono un po' atipico: giocare di ruolo al tavolo e dal vivo mi piace tantissimo, ma il mio imprinting ludico è stato praticamente subito con quelli che io chiamo i “GDR d'essai per zecche finocchie”, partendo da Dungeon World e poi escalando sempre più verso Trollbabe, Archipelago, e i LARP di gangster inetti che dissanguano in macchina o di famiglie che esplodono per i non-detti. Rispetto alla media ho giocato poco a Dungeons & Dragons (spizzichi e bocconi di 3.5 e di 5), ma ancora meno al Mondo di Tenebra: un'unica partita atroce a Vampire: The Masquerade quando avevo 18 anni, ovviamente storpiato in un Grand Theft Auto: Vampire City nel quale una banda di ganster vampiri compivano atti di vandalismo aleatorio grazie ai POTERI MAGGGICI. Era da almeno 10 anni, però, che volevo rifarmi la bocca con i miei amici di buon gusto presibbene o con Vampire e Werewolf, o con Mage e Demon, ma alla fin fine la nuova occasione è arrivata adesso, grazie a un diverso amico di buon gusto (molto più recente!) che mi ha proposto una sua hack di Mage: The Awakening.

Logo di *Mage: The Awakening*

Giocare a meccaniche coperte

Non intendo parlare troppo della regole “parametriche”, perché il mio amico (persona dai molti nomi, io fra i vari uso Shaggy) ha fatto un lavoro egregio di sfrondamento e razionalizzazione delle meccaniche, ed è giusto che lo commenti lui un domani. Mi sento solo di esporre che ha ottimizzato la struttura del Nuovo Mondo di Tenebra prendendo spunto dal filone di design che da The Pool ha prodotto direttamente The Shadow of Yesterday e Fate, è deviato indirettamente sui Powered by the Apocalypse e si è ricongiunto a sé stesso nei Forged in the Dark. In sostanza, risoluzione a obiettivi, sistema misto di statistiche fisse e tratti, risorse spendibili per intervenire sull'alea e ricaricabili tramite impiego di spunti narrativi; tutto liscio come l'olio. Ciò che mi ha affascinato, è che Shaggy ci tiene molto a coltivare la dimensione di “orrore personale” che dovrebbe rappresentare il cuore dell'esperienza Mondo di Tenebra, pertanto abbiamo giocato in modalità 1-a-1 e, soprattutto, a informazioni coperte: io ho iniziato il gioco creando unicamente il lato umano del mio personaggio, il comune mortale immerso in una vita mondana, e la partita introduttiva si è imperniata sul Risveglio delle facoltà magiche del protagonista (l'awakening del titolo), andando così a costituire sia un tutorial graduale delle regole sia, nella diegesi, l'esposizione del personaggio principale a un mistero numinoso e perturbante, mistero che è tale anche per me giocatore, che non conosco la cosmologia e metafisica alla base di questo mondo immaginario. Come Shaggy mi ha candidamente esplicitato, questa modalità ha senso solo alla primissima partita a Mage di una persona, perché poi la discrasia di informazioni note fra personaggio fittizio e giocatore reale la renderebbe una noia mortale senza alcun pathos, ma per parte mia l'essere un'esperienza una tantum non la rende meno degna del mio tempo; anzi, penso si tratti del primo caso in cui mi sto godendo un GDR “tradizionale” a informazioni così cospicuamente asimmetriche, perché la diegesi in cui stiamo giocando e la sua parametrizzazione si prestano molto bene allo scopo. È stato emozionante aggiungere di botto alla mia scheda personaggio le prime statistiche magiche, non sapere ancora come funzionino, e farci i primissimi esperimenti per raccapezzarmi: empatia a mille con lo sbigottimento e la curiosità del mio buon protagonista, e piena percezione del senso di ascesi gnostica che Shaggy mi ha pronosticato.

Qualche considerazione più ampia

Innanzitutto, dopo tre anni che gioco a LARP monosessione, sono abituatissimo alle schede di personaggio modulari in cui le varie parti si sbloccano col progredire della partita e forniscono nuove informazioni da portare in scena, giocando anche sulla discrasia fra ciò che io giocatore so, come decido che il mio personaggio lo vive, e cosa e come farò agire al personaggio. È però la prima volta che vedo questa dinamica applicata a un GDR cartaceo, e l'ho trovata così piacevole che spero qualche designer ci abbia pensato prima di Shaggy, auspicabilmente congegnando dei meccanismi di “temporizzazione” per cui lo sblocco delle nuove meccaniche sia drammaturgicamente sensato, e non totalmente arbitrario a discrezione del Narratore (del resto i buchi regolistici di discrezionalità, notoriamente, sono il fattore più frequente di instabilità nei giochi con Game Master). Così su due piedi non saprei certo pensare a esperienze ludiche in cui questa dinamica risulti automaticamente adatta, però non dubito che ne esistano, e di sicuro mi incuriosirebbe esperirne e metterle a confronto. In secondo luogo, mi ha parecchio sorpreso che sotto due diverse prospettive questa partita si ricolleghi a riflessioni sulla natura del GDR (o meglio, delle correnti interne al medium GDR) che ho letto di gusto di recente sul blog Taskerland scoperto grazie a quella benedizione che è Mastodon:

  • Questo articolo tratta di come i GDR, per ovvie ragioni storiche, siano quasi intrinsecamente radicati nell'immaginario delle narrative di genere, e questo rappresenti una soglia d'ingresso in più. La cosa mi tocca, perché nel comporre il mio personaggio di Mage ho cercato deliberatamente di mettere assieme un individuo lontano da me, terribilmente “Italiano medio”, quindi del tutto impreparato a livello di cultura pregressa ed immaginario ad esperire il sovrannaturale, laddove io ho come mio interesse assorbente la storia delle religioni e dell'occultismo. Lo sforzo deliberato di recitare una persona normale schiaffata in un contesto fantastico, e di farla agire senza sistematizzare il sovrannaturale in paradigmi di senso pregressi, è un esercizio stimolante.
  • A cavallo fra questo e quest'altro articolo, si tratteggia un gusto per il GDR caratteristico dell'Europa francofona alla fine del secolo scorso: il Jeux d'Ambience in cui i personaggi sono figure verisimili connotate essenzialmente dalla propria professione e status sociale, vengono posti davanti a una comunità (anche in senso lato) attraversata da tensioni, faide, complicazioni e quant'altro, e i giocatori devono fare interfacciare i personaggi con tale comunità anche nelle minuzie della vita quotiiana, tendenzialmente partecipando a un conflitto centrale di tipo giallistico. Una modalità ludica esemplata da Call of Cthulhu, non da un D&D allora irreperibile in Francia, e quindi ben antecedente l'esperienza ludica ricercata dal Mondo di Tenebra, ma ad essa accomunato da due fattori:
    • L'abitudine di nascondere ai giocatori tutte le regole di parametrizzazione, demandate unicamente al narratore, per introiettarli a giocare in modalità freeform. Che è diverso dall'emersione organica dei sistemi di regole, e secondo me meno interessante, ma presenta un'affinità concettuale di fondo.
    • La prospettiva narratologica da “romanzo borghese” in cui i personaggi giocati non sono eroi di romanzo d'avventura, più o meno fantastici e più o meno orientati alla sublimazione di fantasie di potere fanciullesche (dal pistolero spaziale al mago signore degli elementi), bensì figure umane realistiche e radicate nelle proprie comunità, che con i propri mezzi mondani affrontano (e neanche sempre) una minaccia latente paranormale. E se questa minaccia da esterna diventa interna, ecco emergere l'intimo orrore promesso dai giochi del Mondo di Tenebra.

Conclusioni per oggi

Voglio andare da qualche parte, con questi miei pensieri? Nah, solo renderli pubblici e sollevare riflessioni e domande a chi legge, come ho promesso nella dichiarazione d'intenti del blog. Forse ne terrò conto per i miei (pochi) progettini di design nel cassetto, forse orienterà le mie prossime partite alle convention, forse resteranno elucubrazioni per il piacere di farle. So solo che spero che Shaggy abbia presto disponibilità per continuare la partita, perché ho concluso stipulando il primo accordo magico del mio Mago con un essere spiritico. E voglio vedere cosa posso farne.

 
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La solita intro aneddotica

Io sono tremendamente fuori tempo su tutte le forme d'arte. Non sto quasi mai al passo con le novità del momento e baso la mia dieta mediatica sui pezzi da novanta del passato, spaziando dall'antichità profonda all'altro ieri. Rispetto ai videogiochi, sono estremamente affezionato all'epoca che va grossomodo dall'89 al 2000 (gli anni in cui o ancora non c'ero, o ero un marmocchio), e oggi ho terminato di giocare un pezzo da novanta di quella fase storica: Final Fantasy IV. Queste sono le mie opinioni da cretino qualunque, aspettatevi spoiler.

Final Fantasy IV

Con che spirito ho giocato

Con quello da smanettone filologo: ho giocato sul mio SNES Mini la prima edizione del '91 per Super Nintendo Entertainment System, ma ho applicato alla ROM originale per il mercato USA la patch Namingway Edition, che aggiorna la traduzione in accordo con le edizioni successive, restaura i contenuti tagliati dalla prima localizzazione, e debugga e ribilancia qua e là. Oltre che con quello da sentimentale: le mie partite a Final Fantasy X, X-2, XII: The Zodiac Age, XV e VII (sia primo atto dell'originale sia primo episodio del Remake) sono state importanti attività condivise con il mio ex partner dei tempi di fine università-inizio lavoro, e nei primi giorni o di questa avventura con FF IV volevo scrivere di mio pugno un manuale di istruzioni, così da proporre il gioco alla persona che tre mesi dopo, a fine partita, è ormai diventata la mia ex partner. In più, c'è stato uno iato di un mese e mezzo in cui non ho avuto la testa per giocare, siccome stavo comprando casa. Per cui, che dire, FF si conferma una serie che mi immalinconisce spesso.

Cosa ne penso del gioco

Darò considerazioni sparse e disorganiche, perché non ho minimamente le competenze ludologiche per costruire un discorso coeso:

  • È stato fondamentale avere con me una scansione del manuale originale della prima edizione, perché è chiaramente un gioco pensato per il supporto cartaceo separato: le informazioni interne dell'interfaccia abbondano, ma non bastano. E dato che io sto giocando una versione ribilanciata, c'è voluto anche il manuale separato della patch per tenere traccia degli effetti ricalibrati di magie ed equipaggiamenti. Per la serie, impegnativo come tradurre dall'Aramaico.
  • Il combattimento ATB con la “barra della stamina” che si carica in tempo reale spacca ancora dopo 34 anni: a mio gusto non c'è proprio paragone con il soporifero sistema coevo dei Dragon Quest, con immissione dei comandi in blocco per tutto il party. Mai un tempo morto, bensì un'alternanza piacevolissima fra pensare alla prossima mossa e godersi l'animazione corrispondente, più l'affanno piacevole di correre ai ripari se succede qualche guaio (tipo un personaggio mandato KO da un colpo a sorpresa).
  • La prima fase del gioco è un capolavoro drammaturgico, dall'inizio in medias res con l'assalto a Mysida fino alla liberazione di Rosa. Non c'è un passaggio fuori posto: il ritmo resta incalzante, i conflitti urgenti, i dialoghi ben scritti (nei limiti di una traduzione dal Giapponese all'Inglese con limiti di caratteri). La doppia strage al villaggio di Mist e nel castello di Damcyan ci lascia un magone atroce e la percezione di stare combattendo contro forze insormontabili, l'interludio notturno dedicato al duello fra Edward e l'uomo-pesce è di un lirismo sopraffino, l'assedio di Fabul ha una coreografia assolutamente esaltante (e siamo dieci anni prima de Il Signore degli Anelli: Le Due Torri)... il naufragio del vascello arriva come un ennesimo pugno nello stomaco, e allorché Cecil si ritrova totalmente solo sulla costa di Mysida non si può non fare nostro il suo dolore profondo, la sensazione che tutta la sua vita si è sbriciolata nell'arco di poche settimane e tutto ciò che gli resta sia buttarsi in mare... o mendicare il perdono dai suoi nemici. Ed ecco perché il pellegrinaggio sul monte Ordalia è forse il momento più toccante del gioco: perché davvero il nostro protagonista e avatar principale ha toccato il fondo, è solo e infelice e carico di peccati, e la sua redenzione è appesa all'aiuto di due ragazzini prodigi (per altro, Palom e Porom mio nuovo duo preferito di spalle comiche). I filmati di a parte in cui Kain e Golbez monitorano il viaggio di Cecil non fanno che accrescere la tensione, e il doppio scontro con Scarmiglione rende tanto più dolce e rassicurante la purificazione di Cecil nel sacrario.
  • Se il sacrificio di Palom e Porom contro Cagnazzo è un'ulteriore coltellata al cuore, soccorrere Yang e Cid e sbloccare finalmente l'aeronave ci porta a una simpatica (e necessaria) fase di “viaggio fra omaccioni”, con la libera esplorazione di un mondo vasto e misterioso (cfr. FF XV stesso); è stato estremamente liberatorio svolazzare per il pianeta, mappare bene le posizioni reciproche fra i vari reami... ed esplorare le zone nuove. In particolare, mi rivendico di essermi causato un game over cercando di esplorare anzitempo il castello di Eblan, e di aver trascorso ore a metter da parte soldini per comprare a Cid e Cecil delle corazze di mythril... salvo poi proseguire la trama e scoprire che il dungeon successivo si gioca il trucchetto del magnetismo. Ergo, altra caccia al mostro per comprare equipaggiamenti di legno e tessuto!
  • La battaglia della Torre di Zot è estremamente godibile, sia per l'esplicito ingresso nella vicenda del tema “Civiltà perduta tecnologicamente avanzata”, sia per il duello a colpi di Reflect contro le Tre Sorelle Magus (miei vecchie beneamante conoscenze da FF X)... sia soprattutto per il momento climatico, fra il sacrificio di Tellah e la liberazione di Rosa e la battaglia contro Barbariccia, splendido tutorial per imparare a usare Kain. Mi è rimasta particolarmente dentro la scena conclusiva della sequenza, con Rosa che teletrasporta la squadra in camera da letto di Cecil (<3) e, davanti al radiocontrollo dell'aeronave, commenta all'incirca “Will wonders ever end?”. Quanto vorrei poter ritrovare anche io quel senso del meraviglioso, che bene o male si è spento quando sono diventato adulto...
  • L'esplorazione del Sottomondo si apre col botto, fra la battaglia contro la bambola assassina della principessa Luca e Rydia adulta che arriva a spaccare il culo a Golbez, ma dopo il furto del terzo cristallo (e già lì, almeno dirci dove stavano primo e secondo...) entriamo in una fase, secondo me, piuttosto deboluccia, in cui il ritmo sostenuto collassa in favore di una dinamica da dungeon crawl ancora ancorata al design di inizio-metà decennio precedente (penso in particolare al ritmo di Phantasy Star I dell'87). Le missioni principali sono una raffica di assalti inconcludenti alla Torre di Babel, costellati da troppe occasioni in cui sembra, ma non è mai così, che Yang e Cid ci restino secchi; la missione secondaria di duellare con re Leviatano e regina Asura è deliziosa e il villaggio degli Eidolon è buffissimo, ma la labirinticità delle loro caverne è davvero snervante, e peggio ancora tocca fare due giri nella grotta delle Silfidi per completare la “guarigione” di Yang; Kain che ricade preda dell'ipnosi di Golbez è un filino telefonata o quantomeno mal coreografata. Quantomeno, reclutiamo il buon Edge, abile in tutto e maestro di nulla, ma motore narrativo del delizioso duello contro Rubicante. E non nego che è stato soddisfacentissimo sconfiggere Odin con precisione millimetrica, con un Thundaga di Rydia piantato sulla punta della spada proprio mentre iniziava l'animazione di attacco.
  • Nell'atto finale, si torna finalmente in carreggiata: particolarmente affascinante il design dei mostri lunari, prevedibile nel modo giusto e gustoso il momento “Cecil, sono vostro zio” del saggio Fusoya, appassionante il giusto il duello per domare Bahamut (in tal senso, un plauso ai libri informativi nella biblioteca degli Eidolon)... fottutamente epico l'assalto frontale al Gigante di Babil, sia per l'assalto coordinato aria-terra di tutti i “popoli liberi” sia per lo scontro 4 vs 5 con i Demoni Elementali (carucci che sono, a provarci), sia per la battaglia ufficialmente sci-fi contro la CPU dell'automa che già preconizza le atmosfere di FF VII. Da quel momento in poi, confesso di aver selvaggiamente dato la caccia ai mostri lunari per livellare la squadra, timoroso di affrontare l'ultimo dungeon sottoaddestrato, ma dopo aver potuto comprare i miei 99 pezzi di ogni oggetto curativo base ho gettato ogni indugio e sono entrato nella “Zona Zemus”... dove, in un paio di pomeriggi di gioco, ho aperto come angurie tutti i boss intermedi, raccattato tutte le armi speciali supreme, e sfidato Zeromus. Se è vero che, a questo punto, la rarefazione dei punti di salvataggio è perfida, è anche vero che non ho dovuto utilizzare troppo spesso i salvataggi rapidi tramite emulatore, e al terzo tentativo ho annientato Zeromus con tale scioltezza che ci sono rimasto male per quanto veloce sia stato lo scontro: è bastato assimilare bene il ritmo “stai sulla difensiva, attacca un po' di meno e guarisci un po' di più”! Certo, non è stato orrendamente facile come il triumvirato Sin-Seymour-Yu Yevon in FF X, in cui avevo sovralivellato terribilmente, tuttavia...

Cosa mi porto dietro, da questa partita?

Che in questo momento storico la profezia di Zeromus è corretta e “l'oscurità nel cuore umano” prevale su tutta la nostra Terra, pertanto c'è tanto bisogno di persone come Cecil; anzi, persone capaci di fare anche più di Cecil, e brandire assieme la spada oscura del Cavaliere Nero e la magia bianca del Paladino, in una prospettiva più taoista che strettamente manichea (perdonatemi, ma per me il simbolismo luce-tenebra sarà per sempre condizionato dal romanzo La mano sinistra del buio). Che quando organizzo cose belle e significative, nella loro piccolezza, assieme alle persone a me care, mi posso concedere di pensare a me stesso come a un cavaliere di Baron, o come un ninja di Eblan. Ma forse, dovendo proprio scegliere bene, io sono il gemello maschio di Rosa nella fisionomia di Tellah. Che se sento di stare collassando sotto un fardello troppo pesante, doloroso come l'incantesimo “Big Bang” di Zeromus, dovrei chiedere una mano alle persone cui tengo; posso legittimamente presumere che verranno a tirarmi su, come tutti i popoli della Terra guidati dal saggio Minwu. Che finché esisterò come individuo, il tema musicale di Final Fantasy per me sarà la colonna sonora della collaborazione e della speranza davanti alle avversità. Perché ne abbiamo tanto bisogno.

 
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from Super Relax


Intanto, non seguo sport di gente che diventa milionaria o milionaria ci nasce (per esempio, calcio nella prima categoria e automobili e motorette nella seconda). Come no, ma sai i milioni che ha Pogačar? Lo so, ma quelli che guadagnano quelle cifre saranno meno di dieci in tutto il mondo (e non un calciatore qualsiasi di serie A che, magari, resta in panchina per tutto il campionato). Poi ci sono quelli che guadagnano qualcosina in più, facciamo un centinaio, e tutti gli altri che si devono accontentare di qualcosa di simile a uno stipendio. A fine carriera, quindi prima dei quaranta anni, devono reinventarsi in qualche modo se vogliono continuare a mangiare. Anche i tifosi non hanno bisogno (speriamo ancora per molto) di abbonamenti per seguire le competizioni più importanti, se passano dalle tue parti puoi assistere senza pagare un biglietto, non ci sono tifoserie gestite da malavitosi e fasci in genere. Non ho mai sentito di scontri tra gli ultrà del ciclismo, con le coltellate in prossimità del traguardo e i capibastone invischiati nel traffico di droga.

È uno sport che, teoricamente, posso fare anche io per i fatti miei, a 1/50 dell'intensità dei professionisti: ho una bicicletta (una gravel nello specifico), un abbigliamento sommario e le strade a disposizione. Le pendenze a doppia cifra diventano ben presto impegnative/infattibili, la velocità in pianura è quella che è e non posso fare centinaia di chilometri al giorno, ma in scala molto ridotta posso ricrearne un simulacro.

Ci vedo la libertà che non ho mai avuto, perché non hanno mai voluto comprarmi la bicicletta e di quella libertà ho avuto un surrogato televisivo quando ho iniziato a seguire il ciclismo, ai tempi di Bugno, Chiappucci, Indurain e Pantani. Libertà che mi son concesso in questa grigia mezza età, libertà di allontanarmi fisicamente da un punto di partenza che sento come una prigione, solo con la scarsa forza dei miei muscoli.

Il ciclismo su strada mi mostra panorami e luoghi, spesso bellissimi, che non avrò modo di vedere dal vivo. Mi piacciono le strade del Giro, perché l'Italia è un posto che può essere bellissimo, nonostante gli italiani; mi piacciono anche le strade del Tour, su quelle della Vuelta non posso esprimermi nettamente perché la copertura video è scarsa e il paesaggio spagnolo è particolare, quindi penso che, per forza di cose, ci sarà un discreto chilometraggio in zone semidesertiche.

Non tifo per nessuno: se mi piace uno sport, è lo sport in sé a piacermi, non perché sia trainato da Tizio o Caio. Se c'è un bell'attacco in salita, se una fuga va a buon fine, se vedo una discesa pennellata alla precisione... mi va bene tutto, non mi interessano i protagonisti.

 
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from AtAbi

Vorrei condividere con Voi alcune mie letture, spero siano di Vostro interesse. Per questo ho deciso di iniziare un blog intitolato 'Note a margine'.

 
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from manuel

Questo testo è il risultato di una sfida che ho fatto con degli amici. L'obiettivo era di scrivere una storia lunga 3.600 caratteri partendo da un'immagine. Buona lettura!

Mattias fece schizzare la mano sopra la testa e volse lo sguardo dietro di sé. L'omone, che per poco non lo scaraventò per terra, proseguì indifferente la sua strada.

Perché ogni giorno doveva essere la solita storia? Digrignò i denti e strinse la mano libera alla bretella. Inveire contro di lui sarebbe stato inutile, controproducente.

Sulla spalla destra, Ossuto gli diede un calcetto sul collo e fece un cenno verso l'altra parte. Sì, i pacchi non si sarebbero consegnati da soli.

Le vie del mercato erano intasate dalla mandria di gente. La luce calda del sole faticava ad affacciarsi su di loro a causa dei grandi edifici scuri e opprimenti costruiti attorno alla piazza. Sembravano lucciole vagare nel buio.

Mattias dovette reprimere diverse volte l'impulsi di sbraitare contro quegli adulti maleducati e presuntuosi. Se fossero stati più bassi di lui…

Scattò in mezzo a due uomini alti e snelli, sfiorandoli come fosse il vento. Ossuto emise un grido terrorizzato, tenendo strette le sue piccole mani sul soprabito stropicciato.

Ripeté le movenze precise e snodate per evitare il contatto, sia visivo che tattile, con altre cinque persone. Ignorò le loro imprecazioni mentre scompariva nello spazio stretto tra due bancarelle. Brontoloni senza cervello. Ecco cosa siete.

«Ehilà!» annunciò tra un respiro e l’altro.

Mattias sbirciò lo spazio minuto dietro al tavolo di legno su cui giacevano gingilli e cianfrusaglie ammassati come cumuli di terra. Aguzzò per bene lo sguardo: gioielli di dubbia qualità, ingranaggi malandati e stoviglie arrugginita. Roba di poco valore, oggetti che solo gli sprovveduti e i creduloni comprerebbero.

«Arrivo!» disse una voce possente.

Un teschio con una corona di tasselli e dagli occhi color dell’alba sbucò da sotto il telo rosso porpora. Pareva infastidito, quasi stizzito.

Mattias fece scivolare Ossuto a terra e posò con cura la sacca, l’ultima cosa che voleva era danneggiare gli altri pacchi. Estrasse un oggetto coperto da un involucro di carta sottile e glielo porse. Le braccia gli tremavano dalla paura, non voleva incrociare quei puntini infuocati.

L'essere fece lievitare il pacco verso di sé. Lo fece girare su sé stesso in diverse direzioni: avanti, destra e sinistra. Lo guardò per un istante, poi annuì soddisfatto.

«È perfetto» sancì contento la testa. «Grazie, giovanotto. Anche a te, fratello d'ossa. In futuro saprò chi chiamare se avrò bisogno di fare una consegna.»

Mattias dilatò le labbra un sorriso tirato. Prese Ossuto, alzò i tacchi e corse dritto dove era spuntato qualche momento prima. Con sua sorpresa, la marea di persone era aumentata e camminare in mezzo alla strada pareva impossibile.

«Reggiti forte!»

Si buttò nella mischia e strinse i denti. Spintoni, gomitate e piedi molesti misero a dura prova il suo corpo. Il vociare confuso e assordante delle persone attorno martellarono i suoi timpani senza alcuna pietà. Orientarsi nella penombra e nel frastuono imperterrito pareva un'impresa.

Scorse uno spiraglio alla sua destra, un faro di speranza. Fece un respiro profondo e cominciò a sgomitare e spintonare tutti quanti, senza guardarsi indietro. Scrollava le arrabbiature e gli insulti dei presenti di dosso. Si sentiva un cavaliere privo di scudo sotto un cielo pieno di frecce. Il pacco doveva arrivare a destinazione.

Sgusciò via, stremato e vittorioso. Mattias si fermò per un momento, i polmoni stavano andando a fuoco e il cuore non la smetteva di galoppare. Inspirò ed espirò per tre volte, il battere ritmico e opprimente si acquietò man mano che lo faceva.

Un ultimo pacco. Sospirò. Ancora uno e per oggi abbiamo dato abbastanza.

 
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from Storieparole

Facciamo che sono un pirata! Oggi, tornando dal lavoro, ho visto un bambino – avrà avuto 6 o 7 anni o giù di lì – che, una mano stretta tra le dita del papà, reggeva con l’altra una confezione di Pringles sfondata e ci guardava attraverso mentre camminava per strada, tutto contento. Chissà cosa vedeva, in quell’improvvisato cannocchiale? E di colpo mi sono ritrovata a pensare a quando, il Topolino arrotolato tra le dita, anch’io giocavo a osservare il mondo da un cannocchiale che trasformava il cortile di casa in un oceano dalle onde impetuose, la ghiaietta in banchi di pesci dei più strani e colorati, mentre dicevo a mia sorella ”Facciamo che siamo pirati!”, cercando di distoglierla da quelle sue noiosissime Barbie bionde-belle-ricche. Quanto spesso lei restava sulla riva, o cercava di convincere anche me a rimanere, offrendomi – oh, quale generosità! – di essere la cameriera del suo formoso alter ego rosa shocking! Ma io ero già salpata, vento in poppa e viso teso verso nuove avventure! Ero il capitano dei pirati, avevo tesori da trovare, nuove terre da scoprire, pescecani e nemici armati fino ai denti da sconfiggere.

Chissà quand’è che ci hanno rubato la magia. Non saprei dire in quale momento la sgangherata eppure potentissima formula magica del facciamo che ha smesso di funzionare, né chi ha gettato un incantesimo sulle nostre giornate, rendendole grigie e insipide e piatte, cercando di convincerci che nella vita dei grandi non c’è spazio per la fantasia, la meraviglia, la gioia. Eppure a volte è sufficiente incrociare lungo una strada polverosa e arroventata dal sole di fine giugno un bimbetto che guarda il mondo attraverso un cannocchiale fatto di cartone per ricordarsi che la vita è meravigliosa e piena di possibilità, che anche se non ci sono più né cortile né pirati nessuno può portarci via la gioia e la fantasia, perché sono dentro di noi e non importa quanto in profondità siano finite, sommerse da bollette e responsabilità e altre noiosissime cose da grandi: sono lì. E spetta solo a noi lasciare che tornino alla luce, come il più prezioso dei forzieri dei pirati.

 
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