L'ultimo compleanno che Victoria festeggiò fu il settimo. Aveva un ricordo vago di come era la cucina, grande e sempre in disordine, le sue pareti bianche ingiallite e i mobili in legno con le ante e i cassetti color rosso porpora. Il tavolo era l'unico a non essere fatto in legno, una lastra rettangolare di marmo scuro come una giornata tempestosa. Suo padre la riprendeva con la telecamera a soffiare sulla candela a forma di sette e sua madre, accanto a lei, che fingeva di aiutarla avvicinando le labbra come se stesse baciando l'aria. Il gusto di quella torta al cioccolato con un pizzico di zucchero a velo era inimitabile, le sue papille gustative erano in estasi. La mamma si era superata, pensò assaporando la prima fetta.
Suo padre commentò negativamente la torta, ma usò un tono ironico, ovviamente scherzava. «Non avevo mai mangiato una torta così disgustosa come questa!»
Lei e sua madre scoppiarono in una fragorosa risata. Mentre rideva, sua madre gli diede un pugno su un braccio, con quel gesto dimostrava il suo amore, quando facevano così la piccola si preoccupava pensando che gli stesse facendo del male. I suoi genitori le ricordavano, ogni volta, che non era un così, era un “gioco” che si facevano da quando erano fidanzati.
Era l'otto settembre duemilaotto, un giorno come tanti altri, se non uno dei più importanti dal punto di vista di ogni bambino, dopo Natale ovviamente. Passava la mattina a scuola ad imparare, il pomeriggio a fare i compiti e a leggere qualche libro o a guardare la televisione (anche se sua madre gliela lasciava guardare solo un'ora al giorno). Una vita normale insomma.
Lei, come ogni abitante del pianeta, non poteva immaginare quello che sarebbe accaduto il ventidue gennaio del duemilanove.
Era in viaggio con la sua famiglia, stava andando a trovare la nonna paterna con i suoi genitori. Suo padre le chiese se voleva contare e dire il colore delle auto che viaggiavano sulle altre corsie. Victoria rispose in modo pacato dicendogli di “No”, preferendo ascoltare la musica sul suo iPod. Quella risposta non passò inosservato alla madre, con un’occhiata severa folgorò la bambina.
«Papà, ci ho ripensato. Lo voglio fare!»
Sua madre le sorrise mostrandole un pollice all’insù, Victoria ricambiò e lo interpretò come un monito per la prossima “richiesta”: doveva accettarla senza pensarci due volte.
Lo definivano un “gioco da macchina”. Solo lui e sua moglie sapevano che era un modo per mettere alla prova la sua attenzione e concentrazione. La settimana prima, la maestra di lingue lo convocò a scuola, mostrò a loro le ultime verifiche che aveva fatto. Quasi impeccabili, se non per alcune doppie in parole dove non c’erano, altri vocali messe in posti di altre vocali e parole illeggibili. Li aveva chiamati “errori di distrazione”, il tono che usava la maestra di mezz’età era molto preoccupante, il problema si estendeva anche nelle altre materie. Il suo consiglio fu di farle dei piccoli giochi per allenare la sua attenzione e controllare sempre i suoi compiti per farle migliorare la sua calligrafia. Dopo quel colloquio, i suoi genitori cominciarono a mettere in atto i suoi consigli, a partire dalla calligrafia che mostrò, fin da subito, un netto cambiamento. Mentre il suo livello di attenzione rimase invariato, la maestra aveva sottolineato il fatto che questa capacità doveva essere allenata con costanza e i miglioramenti si sarebbero manifestati con l’avanzare delle settimane. Erano passati solo sei giorni, Victoria sembrava a mostrare lievi miglioramenti e i suoi genitori decisero di continuare su quella strada.
Victoria guardava fuori dal finestrino e teneva conto dei colori e delle macchine che passavano. I suoi genitori facevano da giudici. Se la cavava bene, Victoria contò undici macchine, molte delle quali avevano gli stessi colori. Da lì in poi, il gioco si trasformò in una sfida personale, voleva vedere a quanto arrivava prima di fare un altro errore, i suoi genitori non ci pensavano proprio a fermarla.
«Dodici grigia» diceva con la sua voce squillante e determinata. «Tredici marrone. Quattordici nera. Quindici e sedici gialle!» enfatizzò appena le vide.
«Brava, continua così!» le dicevano i suoi genitori ad ogni risposta giusta.
Continuò a parlare per una decina di minuti, prima di fermarsi e a chiudere gli occhi. Sua madre fu la prima ad accorgersene e la lasciò cadere nel mondo dei sogni.
Poi un brusco silenzio e il mondo cadde in un oblio nero.
Il rumore della pioggia incessante svegliò la bambina.
«Mamma?» la chiamò strofinandosi gli occhi. «Papà?»
Non ricevette alcuna risposta.
Li chiamò di nuovo, ancora nessuna risposta.
Si tolse la cintura e diede un’occhiata ai due sedili anteriori. I sedili erano vuoti, neanche una loro traccia. Guardò tutti finestrini, fuori c’era il nulla, nessuno sembrava essere nei paraggi, era l’unica in macchina…
Le lacrime cominciavano a formarsi quando nella sua mente si materializzò uno strano pensiero.
“Mamma e papà mi hanno abbandonato?”
Gli occhi le diventarono lucidi.
“Mamma?”
Tratteneva le lacrime, ma la verità era davanti ai suoi occhi.
“P-papà?”
Ciò che i suoi occhi vedevano era la verità.
Scoppiò a piangere, la verità la feriva nell’animo.
Ascoltando il suono continuo della pioggia, la piccola riuscì a calmarsi, poi strofinò uno dei finestrini della macchina: il cielo era grigio pieno di nuvole scure, la pioggia non sembrava interessata a fermarsi.
Passò un'ora dal suo risveglio e Victoria non riusciva a trovare il coraggio di uscire dalla monovolume blu scuro di suo padre. Avrebbe voluto lanciarsi fuori dalla macchina e andarsene da quello che sembrava un incubo divenuto realtà, ma i suoi timori e le sue emozioni la bloccavano. Per non rimanere ferma a guardare il nulla e sperare che accadesse un miracolo, rovistò il baule dove vi erano le tre valige della famiglia, solo alla vista di quella dei suoi genitori le fece scendere qualche lacrima, li avrebbe voluti abbracciare con tutte le sue forze. Tra le valige vide l'ombrello blu acceso della madre, ora aveva un oggetto per uscire dall'auto e non inzupparsi tutta d'acqua. Balzò nei posti inferiori, dove era stata dall'inizio di questo viaggio, e tirò la maniglia. Le innumerevoli gocce battevano sull'asfalto freddo, prima di uscire dalla macchina aprì il piccolo ombrello e, con una spinta, saltò fuori.
Atterrò a piedi uniti. Si guardò attorno, nient'altro che l'asfalto riusciva a vedere. Niente auto, solo i guardrails e i blocchi di cemento che dividevano l'autostrada.
Era una bambina di sette anni, sotto la pioggia e in mezzo alla strada.
Alzò il suo sguardo e guardò l'interno dell'ombrello: non era più blu accesso, ma grigio come strada e il cielo. Si voltò verso la macchina, anche lei aveva perso il suo colore. Senza accorgersene una goccia le cadde sulla punta del naso, prontamente si toccò con l'indice destro e poi lo guardò: la punta era diventata grigia e non sentiva nessuna sensazione di bagnato come se non fosse mai entrata in contatto. Stesso discorso valeva anche per la punta del naso.
Si allontanò dalla macchina, spinta dalla curiosità di perlustrare le strade vuote alla ricerca di un segno che la convincesse di non essere rimasta da sola in tutto il mondo. Stava esagerando, forse la sua immaginazione le stava giocando un brutto scherzo, ma i pensieri che le passavano nella testa erano tanti e per lo più confusi, aggrovigliati in un gigantesco nodo.
Si diceva che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Tutto si sarebbe sistemato. Sua madre le diceva: “Un brutto periodo è come una porta chiusa a chiave, devi solo trovare la chiave per uscire e vivere un periodo bello. Devi farlo sempre, non pensare che accadrà una sola volta nella tua vita. Anche quando sembra impossibile tu ce la farai”.
Ripeteva quelle parole a voce bassa, era un'abitudine che sua madre voleva che perdesse. Lo faceva quando era stressata o nervosa, un tratto che l'accomunava a suo padre.
Perse di vista l'auto, ma non se ne rese conto. Ascoltava la pioggia che, progressivamente, smetteva di tamburellare sul fondo stradale. Camminava immersa nei suoi pensieri, la pioggia era il sottofondo perfetto per mantenere la calma. Ora doveva fare i conti con il fruscio che il leggero vento emetteva.
Chiuse l'ombrello e la vide. Una farfalla iridescente che volava all'altezza degli occhi. Vedeva tutti i colori sulle sue ali: azzurro, rosso, giallo, verde e molti altri. Il piccolo corpicino era di un colore blu spento.
«Ciao farfallina» disse contenta di incontrare qualcuno e provò a toccarla.
La farfalla si poggiò sulla punta grigia dell'indice. Con sua sorpresa, il dito tornò al colore originale. Poi si staccò, le ali battevano più velocemente rispetto a poco prima. Istintivamente, la piccola le corse dietro, la voleva acchiappare con le sue mani grandicelle.
In pochissimi battiti, la farfalla si allontanò di un paio di centinaia di metri creando un sostanzioso divario con la bambina, da lontano era un puntino scuro si sfondo chiaro, impossibile da non vedere. Victoria la rincorse con tutte le sue forze, senza distogliere lo sguardo sul puntino scuro davanti a lei.
Il divario sembrava non subire alcun cambiamento. La bambina correva affannosamente, acchiapparla era il suo obiettivo. Decise di andare oltre i suoi limiti, le sue gambe cominciarono a muoversi più velocemente.
La distanza tra l'insetto colorato e la settenne diminuì in maniera drastica. Victoria l'era dietro, le bastava un balzo e l'avrebbe acchiappata. Non poteva perdere la sua unica occasione di acchiapparla e non la sprecò.
Fece un salto in avanti e, con entrambe, le mani a mo' di barchetta e le unì appena avvertì la farfalla sulla sua pelle. E atterrò a piedi uniti.
Non aveva mai toccato una farfalla prima d'ora. In passato, quando andava al parco con in suoi genitori, appena i suoi occhi ne vedevano una, lei le andava incontro facendola scappare ancora prima di catturarla.
Aveva l'impressione di non averla presa, non sentiva nulla. C'era solo aria dentro le mani? Non aveva preso la farfalla? Era frutto della sua immaginazione?
Diede una sbirciata, facendo attenzione a non farla scappare. Portò le mani all'altezza degli occhi e aprì un piccolo foro dove guardare.
Niente, non c'era niente.
«Cavolo» esclamò delusa e lasciò cadere le braccia a peso morto.
Aprì e chiuse gli occhi... la farfalla era lì, di fronte a lei, le sue ali battevano a ritmo veloce per non perdere quota.
«Ma come...» disse perplessa. «Allora ti avevo preso!»
Un boato in cielo mise al corrente a tutti e due che sarebbe ricominciato a piovere. La farfalla volò verso sinistra e Victoria la seguì con lo sguardo. Oltre il guardrail, una casa molto recente decadente in mezzo a un grande campo di erba alta grigia attirò la sua attenzione, la farfalla era pronta di andarci. In quel momento, Victoria capì che essersi distratta a rincorrere lo strano insetto le ha fatto perdere l'unica fonte di riparo dalla pioggia.
«No, no, no! Ho perso l'ombrello!» esclamò andando nel panico. «Ho cercato di prenderti e ho lasciato l'ombrello chissà dove!»
Subito dopo La farfalla, si posizionò in direzione della casa, facendo avanti e indietro tentando di ottenere l'attenzione della bambina. Lo fece quattro volte, alla quinta Victoria la vide e notò che le stava cercando di dirle qualcosa.
«Ti devo seguire?» chiese e la farfalla si allontanò verso la casa.
Tra le due si ricreò il divario di prima, più corto rispetto a prima. Victoria passò sotto il guardrail. La settenne si strusciò la felpa viola sull'asfalto, appena si rialzò incominciò a piovere.
La bambina si mise le braccia in testa e corse più veloce che poteva, per poco non cadde. Impiegò due minuti per arrivarci, la casa si rivelò grande, molto grande per essere una casa per una famiglia di due o tre persone, si guardò attorno e vide un grande arco circolare senza assi di legno che la chiudessero. Con le poche forze che le rimanevano, le sue gambe la portarono li dentro, dove la pioggia non la poteva scolorire. Mentre riprendeva fiato, la farfalla la raggiunse.
«Forse» cominciò mentre la farfallina atterrava sulle sue mani «qui saremo al sicuro finché non smetterà di piovere.»
Passarono un paio di minuti, la pioggia continuava a scendere e il terreno dei campi divenne incolore. Curiosando in giro, Victoria, assieme alla farfalla sulla sua spalla, scoprì di essere dentro ad una stiva, ciò spiegava le grandi dimensioni e la quantità spropositata di casse e oggetti coperti da un velo sporco. Si chiedeva quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che qualcuno ci mise piede qui dentro.
Dieci anni? Venti? Cento? Chi lo sa...
Rovistando, trovò uno specchio ancora in perfette condizioni dietro ad un velo sporco, ovviamente. Togliendolo alzò della polvere che la fece tossire.
«Non è la prima volta che lo faccio» si giustificò imitando una voce sicura e dal timbro eroica. L'alone di mistero della stiva era un'ambientazione carina per essere una cacciatrice di tesori, «ho esplorato numerose caverne nel deserto, ma mai una stiva piena di polvere.»
Ammirò il riflesso di sé stessa. Alcune ciocche dei capelli castani erano grigie. Neanche una goccia entrò in contatto col suo viso, ad eccezione della punta del naso che aveva prima di incontrare la farfalla misteriosa. La sua felpa viola era rovinata, le spalle e buona parte delle maniche avevano perso il colore, ora che guardò le maniche, si guardò immediatamente le mani: colorata del suo colore naturale.
Forse la farfalla le aveva annullato gli effetti della pioggia e non se n'è resa conto prima. Doveva provarlo su qualcos'altro per esserne sicura. Le venne subito l'idea. Prese una delle ciocche grigie e le porse alla farfalla sulla spalla di destra.
«Potresti riportarmeli al loro marrone naturale, per favore?» chiese gentilmente porgendoglieli.
Senza nemmeno toccarla, i capelli tornarono alla normalità. Il grigio svanì come se venisse inondato da uno tsunami color castano.
«Grazie!» e tornò a guardarsi allo specchio.
I jeans che indossava erano stati colpiti dalla pioggia perdendo l'azzurro chiaro d'origine. Le scarpe bianche non subirono grossi cambiamenti, rimasero quasi uguali da quando era partita con i suoi genitori.
Non ha mai smesso di pensare a loro, voleva averli vicini a lei.
La casa era il prossimo luogo che Victoria avrebbe visitato. La porta della stiva faceva da preludio ad un breve corridoio dritto dove la portò in mezzo all'entrata della casa, se fosse andata a sinistra si sarebbe trovata davanti l'ingresso, ma già vedendola chinandosi in avanti le fece già scartare l'idea, la trovava troppo noiosa per la sua esplorazione (stava ancora facendo finta di essere una cacciatrice di tesori).
Optò di andare a destra, un breve corridoio la portò in una stanza dalle pareti bianche e sporche di muffa, senza nessun tipo di arredamento e un odore di animale morto la fece andare subito via. Anche questa non era stata di suo gradimento.
«Spero che nelle altre zona della casa, non ci sia un tanfo del genere!» esclamò speranzosa.
Girò a destra. Una grande stanza dalle pareti ingiallite le si parò davanti, anche qui niente mobili e arredamento, l'odore di animale morto colpiva ancora le sue narici. Corse via e salì le scale dove la condussero al primo (e ultimo piano della casa), non le aveva notate quando giunse nell'atrio la prima volta.
Il primo piano era composto da un breve corridoio che faceva da ponte per quattro stanze, due sulla sinistra e due sulla destra. Le pareti erano sempre piene di crepe e di muffa, l'odore di animale morto non aiutava molto.
«Odio questa casa» si lamentò sottovoce.
Partì dalla prima stanza a destra. Spingendo la porta, Victoria si trovò davanti a sé un bagno puzzolente. Il lavandino, il bidet e la vasca da bagno erano pieni di insetti morti e sporchi di liquidi scuri. Del water non ce n'era traccia, solo due fori, uno sul pavimento e l’altro sul muro.
Passò alla successiva stando sempre su quel lato. Stanza dalle pareti sporche di muffa, quell'insopportabile odore, niente letti e mobili.
«BLEAH!» esclamò nauseata tappandosi il naso, purtroppo l’odore sgradevole aveva già penetrato le sue povere difese.
Si spostò nella stanza adiacente, era identica a quella che aveva appena visto, se non più grande. Probabilmente era la camera matrimoniale. Sì, era la camera matrimoniale. Il pavimento in legno aveva quattro piccoli cerchi chiari che formavano i quattro punti di un rettangolo, quattro gambe per sostenere una base in metallo con assi di legno che avrebbero sorretto il peso di un materasso.
Si spostò nella stanza accanto. Era più piccola rispetto alle ultime due e pieno di scope. Con quelle avrebbe potuto spazzate ogni millimetro per dieci volte!
«Il vecchio proprietario andava matto per le scope…» disse con forte perplessità la bambina alla sua piccola amica. «Gli adulti sono strani!»
Per la prima volta da quando si è poggiata sulla sua spalla, la farfalla brillò di verde acceso. Era il suo modo per dire “sono d’accordo”.
Tornò nella stalla, delusa da questa “esplorazione” e si sedette su una cassa chiusa davanti al grande arco in mattoni da dove si era riparata.
Pioveva ancora.
«Non può smettere di piovere?!» si lamentò Victoria a voce alta.
La farfalla brillò di un rosso intenso. Victoria capì subito il motivo di quel bagliore: la sua voce.
«Scusami! Non volevo spaventarti.»
Ora, emetteva un lieve bagliore bianco che aumentava ritmicamente d’intensità e fino a spegnersi, come se avesse finito di parlare.
«Mi capita di parlare e alzare la voce senza volerlo» ammise Victoria. «Ci sto lavorando. Starò molto attenta al volume, hai la mia parola.»
La farfalla si illuminò di nuovo, di blu questa volta.
«Quindi» cominciò insicura «siamo diventate amiche?»
L’aura blu passò al verde, più intenso rispetto a prima.
«Ti posso dare un nome? Stavo pensando di chiamarti… Fì! Ti piace?»
Con un battito d’ali, la piccola farfalla si staccò dalla spalla di Victoria, si portò all’altezza degli occhi ed emanò un bagliore giallo. Era felice, molto felice.
«Io sono Victoria» si presentò avvicinando l’indice sinistro a Fì, la quale si fermò sulla punta. Il bagliore giallo tornò al blu di prima.
«Appena finisce di piovere, ce ne andremo da qui. Ci deve essere qualcuno da qualche parte» disse sicura Victoria. «Fino d’allora, rimeremo qui ad aspettare. Non voglio diventare tutta grigia ed essere scambiata per uno zombie!»
Fì brillò di un lieve rosso. Aveva alzato di nuovo la voce.
«Perdonami, ma te l’ho già detto Fì, ci sto lavorando.»
Victoria porto il dito sulla spalla destra, guardò Fì balzare dal dito alla spalla. Dopodiché, si misero a osservare la pioggia cadere sulla terra prevalentemente grigia, in attesa di partire per il loro lungo viaggio.