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from Il Taccuino

Presenze

Presenze, foto digitale. Licensed under CC BY-NC-ND vedi su Pixelfed


Aspetterò un altro inverno per amarti quando meno ferma la mia mano scorrerà sulla parete e la memoria delle cose a me più care, già sbiadite, offuscherà ogni mio risveglio. Con gli occhi cercherò il tuo sguardo e il tuo respiro, come un fresco alito sul volto, il tuo nome chiamerò tra le consunte cose ma la mia voce, come di fantasma risuonerà dalla terra, un bisbiglio tra la polvere. Attenderò ogni giorno quell'inverno, dovessi pure consumare la mia vita e il tempo, quest'inganno, che ci separa.

 
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from memorie


Oggi si chiamano action figure: è un oggi relativo, come lo ieri che poi, calcolatrice e calendario alla mano, son passati alcuni decenni. Poco dopo quella visione, potenzialmente pirata, del film, ci fu l’esplosione del merchandising anche dalle nostre parti. Ogni settimana, il sabato pomeriggio (andavamo a Napoli dalla nonna, ricordate?), scendevo con mio padre e andavamo a fare un giro nel mercatino del Borgo di S. Antonio abate, a poche centinaia di metri dal Ponte di Casanova. Dalla zona, non dal ponte.

Era tendenzialmente buio, come lo sono le strette strade di Napoli, fiancheggiate da palazzoni che si oppongono al sole; la pavimentazione, di basolato consunto e irregolare, è perennemente umidiccia per i numerosi fruttivendoli e la catena quasi ininterrotta di pescherie. La struttura di questi negozietti è tipica: spazio interno di 10 metri quadri, se tutto va bene, e un ettaro di bancarelle fuori. Tra un fruttivendolo, una pescheria, un negozio di casalinghi e le bancarelle dei fuochi (anche a luglio inoltrato), negozietti, ovviamente in miniatura, di giocattoli.

Ogni sabato, scendevamo, mio padre mi teneva per mano e, al ritorno, nell’altra mano, quella libera all’andata, c’era un nuovo eroe di Guerre Stellari. Tutti li ho avuti. “Oggi varrebbero una fortuna, nelle scatole ancora sigillate”. Troppo tardi, la scatola praticamente non sopravviveva all’uscita dal negozio.

Tutti mi piacevano: buoni, cattivi, Jawas. Ewoks no, mai avuti. D’altronde, come tutti sappiamo, gli unici tre film di Guerre Stellari sono due e mezzo, in realtà: la storia finisce e si completa un fotogramma prima della comparsa di quelle creature demoniache. Qualche volta, la mattina, mia mamma me ne faceva trovare una sotto il cuscino, e subito era un grande risveglio. La stessa mamma che spiaccica le pizze in faccia al primogenito.

Il mio preferito, però, era il candido Stormtrooper. Non saprei il perché, probabilmente una questione puramente estetica. Sapevo benissimo che stavano dalla parte sbagliata della storia, soldatini anonimi mandati allo sbaraglio, con la mira e le capacità che tutti conosciamo. Un pomeriggio, mi portarono da uno specialista per una qualche visita: probabilmente, al momento di entrare lo lasciai su una delle poltroncine della sala di attesa e, all’uscita, non c’era più. Fu una tragedia.

Rosse. Le poltroncine erano rosse.

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_015-2024.jpg

Era più dei pelo sotto al naso era più di un maglione costoso era più di una copertina inglese e stava tra le dita e stava tra le labbra sapeva di vita puzzava di rabbia.

Ma da bambino quell'acre velo da sposa non bianca mi pizzicava gli occhi e mi faceva tossire, e mi dicevano vai fuori.

Con le dita ingiallite sul terrazzo di casa guardo la pioggia e sono ancora fuori perché agli altri pizzicano gli occhi e tossiscono.

E sono pieno di peli in viso indosso maglioni da sposo in una copertina di un disco inglese, senza più rabbia né gusto.

 
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from Kenobit

XMPP E LA LIBERTÀ DI FARCI I CAZZI NOSTRI

Nella mia avventura per liberarmi da Google e in generale da tutto il software non libero che utilizzo, sono arrivato al tema della messaggistica istantanea. Esiste un servizio di messaggistica come WhatsApp e Telegram, ma che a loro differenza è rispettoso dei miei dati, della mia riservatezza e del mio diritto di sapere cosa anima il software installato sul mio telefono? Ci sono varie risposte interessanti, ma quella che mi piace di più è XMPP.

XMPP è un protocollo rodatissimo, con una lunga storia, che come il Fediverso ha una struttura decentralizzata. In pratica, laddove WhatsApp ha dei server centrali, controllati dall'azienda proprietaria (in questo caso META), XMPP è una rete di tanti piccoli e grandi server. Tutti i server possono comunicare tra di loro e chiunque può crearne uno. Il risultato è un servizio che offre le stesse feature di WhatsApp e Telegram, ma con la trasparenza del software libero. XMPP è un servizio creato dalla collettività, per la collettività, che non raccoglie dati personali e ci lascia il pieno controllo della cifratura dei nostri messaggi. Se volete scoprirlo più nel dettaglio, questo video racconta bene la storia di XMPP e include anche una splendida spiegazione del concetto di decentralizzazione. Se sapete l'inglese e avete venti minuti, ve lo consiglio di cuore.

In Italia c'è XMPP-IT, una bellissima comunità con un suo server. Nello spirito della decentralizzazione, io e FDA ne abbiamo fondato un altro, aperto a chiunque voglia usarlo. Abbiamo scelto un nome evocativo...

logo cazzi nostri

Il nostro server racchiude la sua dichiarazione di intenti nel nome. Vogliamo parlare con le nostre persone care e farci i fatti nostri, senza che qualche azienda distopica si arricchisca alle spese della nostra riservatezza. Si chiama: cazzinostri.kenobit.it

Volete iniziare a usarlo anche voi? Vi aspettiamo a braccia aperte. Farlo è molto semplice! Come spesso succede con il free software, troverete client e programmi per usare XMPP su tutte le piattaforme, da quelle desktop (Windows, MacOS e GNU/Linux) a quelle mobile (Android e iOS). Volendo, potete persino usarlo da web.

COME CREARE UN ACCOUNT

Creare un account XMPP è facile e non richiede nemmeno un numero di telefono. Avrete un nome utente, una password e niente più. Se avete un po' di pratica, il procedimento è semplicissimo: scegliete un'app per la vostra piattaforma preferita e create un account, specificando kenobit.cazzinostri.it come server (o XMPP-IT, o qualsiasi altro server vi aggradi). Non sono necessarie email di conferma e altri fastidi. Ovviamente, la password ve la dovete segnare!

Se invece è la prima volta che vi avventurate fuori dal software proprietario, vi propongo questa guida passo passo.

Cominceremo dal client web, che trovate su: https://blabla.kenobit.it/

client web

Vi basterà cliccare su Crea account e inserire i vostri dati. Il vostro nome utente sarà qualcosa di simile:

nomeutente@nome.istanza.it

Nel caso del nostro esempio, abbiamo malatesta@cazzinostri.kenobit.it.

Immaginate il vostro nome utente come se fosse un indirizzo email, anche perché il funzionamento è lo stesso. A sinistra della chiocciola c'è il vostro nome utente, a destra il server sul quale è ospitato il vostro account. Esattamente come gandalf@hotmail.it può inviare una mail a saruman@alice.it, il vostro account XMPP potrà parlare con tutti gli account di tutti i server del mondo.

Dopo averlo fatto, potrete iniziare a chattare usando il client web, ma vi consiglio di installare un buon client dedicato sul vostro computer e sul vostro telefono. Qualunque sia il vostro client, vi basterà inserire il vostro nome utente completo (come per esempio malatesta@cazzinostri.kenobit.it) e la vostra password. Su Android, consiglio l'eccellente Conversations, che potete scaricare gratuitamente da F-Droid. Se lo scaricate da Google Play Store, invece, costa 5 euro.

Su PC consiglio Gajim, tanto su GNU/Linux quanto su Windows.

Mi trovate come kenobit@cazzinostri.kenobit.it. Venite a fare due chiacchiere! E ovviamente, se vi fa piacere, invitate le vostre persone care. Il server sarà sempre gratuito e aperto a chiunque!

 
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from highway-to-shell

Questa notizia mi ha sconvolto.

Non sono assolutamente in grado di stimare il danno enorme che le mafie provocano al nostro paese in termini di morti dirette e indirette ed in termini economici. Senza mafia, camorra e 'ndrangheta il cosiddetto belpaese sarebbe veramente un paese bello in cui vivere. Invece dobbiamo fare i conti con il traffico di droga, di rifiuti, l'inquinamento ambientale, l'usura, la corruzione e con il più subdolo di tutti i mali che è la penetrazione delle mafie nell'imprenditoria con il fine ultimo del riciclaggio del denaro sporco.

A parole lo Stato combatto le mafie ma poi ogni tanto a qualche rappresentante delle istituzioni scappa la verità...in questo articolo appare evidente che le mafie vengono si combattute, ma con lo stesso impegno con cui si combattono 4 anarchici che ogni tanto vanno a tirare sassi contro i cantieri tav o che creano qualche disordine in centro il Sabato pomeriggio.

Pg Musti, massima attenzione a mafie, anarchici e antagonisti *

Sono lontano dal simpatizzare per i centri sociali ma metterli sullo stesso piano della Mafia fa capire perché non ci liberemo mai della criminalità organizzata.

#mafia #ingiustizia #italia

 
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from memorie


Erano questi giorni, i primi di settembre, ma di decine di anni fa. È un rito che ancora si perpetua, probabilmente, ma non ho più l'età per viverlo, nè una discendenza con cui condividerlo. Gli acquisti scolastici per il nuovo anno (scolastico) Si tornava dalla villeggiatura, all'epoca si chiamava così, se la potevano permettere anche i moderatamente poveri per un motivo molto semplice: era l'unica concessione al superfluo dell'anno. Superfluo può sembrare un parolone, specie alla luce della sensibilità più moderna al diritto a staccare dal lavoro e dalla monotonia ossessionante del quotidiano, ma difficilemente, nel corso della storia, qualcuno sarà morto per mancanza di villeggiatura. Specie in quei periodi, che oggi considereremmo stati di povertà, senza dubbio.
In famiglia ce la siamo permessa giusto per sei anni, e per tutti quei sei anni, nella seconda metà di agosto il tempo iniziava a mostrare qualche nuvola in più. A rinfrescare. E in questo clima più accettabile, ricordo di tempi passati, poco dopo esser tornati alla normalità, iniziavano i preparativi per il nuovo anno scolastico. Per me, era un clima di festa.

Mi è sempre piaciuto andare a scuola. L'asilo no, ci sono stato un giorno solo e ho deciso che non avrei voluto starci un'ora in più, fortunatamente sono stato accontentato. Mi è sempre piaciuta la cartoleria intesa come local, mi è sempre piaciuto l'odore della cartoleria: un misto di carta, plastica e DAS (la pasta per modellare, non so quanto sia stato utile precisarlo).

Mi piaceva andare in giro per cartolerie e supermercati (ieri meno forniti di oggi, ma erano tappe del pellegrinaggio comunque) con la sensazione di poter spendere qualsiasi cifra, e invece erano cifre in linea con quelle di una famiglia del Sud, classe operaia, negli anni Ottanta. Poco, molto poco.

Confezioni risparmio di penne Corvina, all'epoca avrei preferito le Bic, ma costavano di più (oggi scrivo pochissimo, ma Corvina e simili mi piacciono molto, o sono stato fortunato trovandone di economiche molto scorrevoli); matite e gomme; squadrette, riga, righello e compasso, nel caso quelli dell'anno precedente fossero andati distrutti; quaderni e quadernoni; il diario; le copertine di plastica per i libri. Lo zainetto, almeno fino alle elementari, perché poi per le medie ne comprammo uno e quello è rimasto, ce l'ho ancora. E ancora lo uso, nonostante sia praticamente distrutto.

E dopo una settimana o due, iniziava la scuola, e io ero contento. Era un nuovo anno, era un altro passo nel futuro, quando potevo ancora sperare nel futuro.

Poi, quel futuro, è arrivato, umiliando anni di attesa.

 
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from Il Taccuino

arrivabene_heccehomo

(A. Arrivabene, ecce-homo, olio su tavola. 41 x 37 cm, 2019)


Nella compassione ho intuito il seme dell'infelicità -

soffrire è volervi amare al di sopra delle mie possibilità.

 
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from la tana di Belzebu

A sto giro, provoco io...

è di recente risoluzione un caso di cronaca nera agostiana, notizia che è partita promettente subito e poi man mano sempre più pigramente perso slancio su giornali, telegionarli e web, mi riferisco al caso di Sharon Verzeni, usccisa per strada di notte a Terno d'Isola comune in provincia di Bergamo tra il 29 e 30 luglio. Il caso sembrava promettente, una giovane donna usccisa nella notte, un convivente, un caso che sembrava emergere torbidamente da quella nuova incettabile mediocrità demonizzata ed osteggiata in maniera ideologica da una certa corrente di pensiero, la normale vita di una coppia dove con la parola "normale" si intende quanto di più sbagliato ci sia a questo mondo. Subito le speculazioni sul fidanzato ingnaro che la compagna uscisse la notte per passeggiare, in quanto da quanto emerso avrebbe voluto camminare per coadiuvare la dieta, i giornalisti quasi indispettiti dal fatto che con il passare delle ore e poi dei giorni il fidanzato, mediocre operaio figlio del patriarcato, non venisse promosso al livello di sospettato n° 1, di come gli elementi le deposizioni e le relative verifiche di investigazione scinetifica lo vedesso estraneo all'evento... Silenzio, salvo una slavata e svogliata passata di tanto in tanto sui telegiornali, qualche collegamento con la famiglia, ricordo un patetico intervento del padre di Sharon, da casa propria senza nemmeno una maglietta addosso... I giornalisti al lavoro nel ridicolizzare persone di provincia che qualcosa da nascondere di morboso lo hanno sicuro. Poi, ad un certo punto la botta di vita, la vicina di casa, non meglio indentificata, che propone una presunta crisi tra i due findanzati, ed ecco il ritorno di fiamma prendere vita, ci sono speranze per il demone del patriarcato sin li invocato ma non ancora pervenuto... Ed invece no, è solo la voglia di apparire di una vicina di provincia, che magari imboccata, non lo sapremo mai, ha trovato cinque minuti di inutile celebrità. Poi la svolta, l'uomo in bicicletta allontanatosi dal luogo del delitto e intercettato dalle telecamere in zona, e vai è un uomo, un amante, un maniaco, un pazzo ? Si! lo è, ma !? Accidenti... Il profile è sbagliato, è un ragazzo immigrato con il sogno di diventare cantante che abbiamo abbracciato ed amato a X-Factor, "nuoooooo" e adesso ? Come facciamo ? "Figlio sano del patriarcato ?" No, non ce la possiamo spendere... "Ehhh si!" mi sa che a sto giro non ce la possiamo spendere... Perché se non ci speculiamo noi, ci speculano i fascioni della Lega o di FDI con il "negro" impazzito... E allore che si fa ? Niente si soprassede nel silenzio generale, ed invece ci sarebbe tanto da dire su quanto è malata questa società che arriva ad esasperare un comportamento come quello di Moussa Sangare che divorato da chi sa quale disperazione d'anima, esce nella notte con in testa un delirante desiderio di morte, nessuno si accorge di nessuno, perché siamo maschere, dietro la maschera del ragazzo immigrato che vuole fare il cantante c'era qualcosa di più, che nessuno, nessuno ha visto, perché nesusno si è mai preso la briga di guardarci. Forse non si sarebbe visto nulla o forse si, non possiamo saperlo. Sappiamo che Sharon e le sue camminate innocenti per un sogno piccolo di dimagrire un po' non ci sono più, uccise di un sogno grande bello fiabesco di un "matto" di fare il cantante che ci hanno venduto tra uno spot della pasta e quello di un'auto elettrica. La nostra società vive un brutto momento, perché è una società che non si occupa delle persone, del loro malessere, la cosa più grave è che le risorse per farlo oggi ci sono, ma curare le persone è un investimento che generalmente non arricchisce di soldi nessuno, ed ogni altra forma di ricchezza oggi è considerata spazzatura.

 
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from ordinariafollia

opinioni.

Nuvole passeggere si ammassano nel cielo fino ad oscurare il sole, satelliti artificiali di riflessa arroganza...

e par non se ne possa fare senza.

Per quanto possa farti male non è quello pensi che ti farà volare quando non avrai più ali a cui poterti attaccare.

 
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from Racconti spontanei che attraversano l'autore

Ripudio l’arte in ogni sua forma; mi distrae dalla mediocrità che mi sono costruito con tremenda fatica, lottando costantemente il naturale slancio di espormi, aprirmi, liberarmi. Ripudio i maestri che sono tanti, forse troppi, venditori di sogni borghesi per borghesi annoiati; la ricchezza in ogni sua forma è il più grande male. Che la temperatura terrestre salga fino alla temperatura con cui brucia la carta e il silicio. Tornare infine al pane caldo, la frutta scaldata dal sole e nuotare in acque termali durante rigidi inverni e niente da rappresentare, niente ontologia e ancora maestri, spettri, che possiate sparire che qua c’è una vita fatta di ozio, l’ozio rende liberi e smettere di sapere che ora è, in quale giorno della settimana siamo, il mese dell’anno, quanti anni sono passati, l’arte non salva, l’arte rende tristi e fa crogiolare nella tristezza; tenetevela voi la tristezza, figli di ricchi proprietari terrieri che qua c’è da coltivare terra cattiva, serve ottimismo per far piovere e per scavare pozzi, servono abbracci così lunghi da far sincronizzare i battiti, e cantare solo per il buon raccolto. Non c’è niente da capire, basta il fiume che si immerge nel mare e non c’è niente da ascoltare, bastano gli uccelli nelle foreste; c’è un irrazionale a cui cedere. Questo pensava B., molto più spesso di quanto avrebbe voluto, gli ritornava alla mente come torna un crampo sempre lì nella spalla destra dopo aver alzato il braccio destro ad un'angolazione insolita. Ma come per i crampi, dopo i primi dolori lancinanti, un mattino, dopo qualche giorno, inaspettatamente spariscono, e la vita di B. procedeva come sempre, con i tormenti quotidiani e la felicità, che risulta sempre banale e inefficace. L’ardore che lo aveva colto ora era sparito, il suo piano per la sua salvezza era sfumato anch’esso e si ritrovava ancora senza risposte e una linea chiara da seguire. La madre di B. non era più la stessa, cambiò e passò alla fase di vecchia madre sola, con bisogno di compagnia e una collezione di sogni non suoi mai realizzati. Fumava così tanto che la casa era completamente invasa di cenere e veniva distribuita omogeneamente nel pavimento da un ventilatore perennemente acceso. Ovviamente nessuno dei due avrebbe mai pulito quella casa che per chiunque fosse entrato sarebbe stata più simile ad un incubo che ad una casa abitata. Ma questo è il destino delle case abitate da persone né vive né morte che almeno nella morte vermi e piante iniziano il percorso della rinascita e dell’accumulo di terra su terra e infine una dolce collina.

 
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from memorie


Riciclo uno scritto molto vecchio.

Tornando verso casa da C., percorro a ritroso via N. S. e non è altro che un viaggio nel tempo, quasi ordinato in maniera discendente. Quasi, perchè certe stazioni sono messe alla rinfusa. La strada è sempre scassata: una sequela di buche, alcune rammendate a suon di toppe di colori sbagliati. Asfalto cicatrizzato male. Chiara metafora della vita, solo che nessuno ha il buon senso o la pietà di ricoprirti d'asfalto: qualche legge ingiusta lo proibisce e la gente le rispetta sempre, quelle ingiuste.

C'è un fruttivendolo, tanti anni fa apparteneva a tale A., il fratello di M.: il nostro barista storico. Una volta ci facemmo dare una grossa anguria sull'orlo della decomposizione: dovevamo farla esplodere per studiare gli effetti speciali del nostro film di zombi. Quello iniziato nel '96 e abbandonato pochi anni fa. Prendemmo la poderosa anguria e ce ne andammo sullo svincolo, allora in costruzione, della superstrada fuori paese. All'epoca avevo ancora l'auto e i capelli sulla sommità del capo. La imbottimmo di petardi e liquido infiammabile (l'anguria, non l'auto) e poi ci piazzammo lontano, telecamera con zoom al massimo come se a esplodere fosse stato un missile nucleare in un vecchio silo abbandonato alla fine della guerra fredda. Quel filmato è andato perso, quella telecamera venduta perchè mi servivano i soldi per pagare una rata di Equitalia prima dell'avvento di Equitalia. Il nastro (era su mini-dv) non so che fine abbia fatto, ma i fotogrammi ce li abbiamo ancora tutti stampati in testa.

Segue il minimarket, era di F. e ci lavorava il mio amico A.: che tarantelle, in quel minimarket. Era uno di quei periodi in cui me ne vado da lavoro perchè litigo col titolare, la mattina spesso andavo a perderci il tempo (e sì, anche a farci qualche spicciolo coi cd masterizzati). La signora che voleva la mortadella tagliata “a ditalini” e noi a mascherare la risata come potevamo. Le ragazzette che uscivano da scuola e venivano a farsi un panino, chiedevano qualcosa a caso di leggero e l'amico mio proponeva “Ciccioli e ricotta?” Poi, F. steso lungo lungo sotto il bancone, per non farsi vedere da un tizio a cui doveva dei soldi. Lui, F., alto quasi due metri, massiccio, col camice bianco sul pavimento marrone: roba da far invidia a un camaleonte con la mimetica. Il piano era di starsene buttato lì sotto finchè il creditore non se ne andava. Io dovevo fare il vago, dire che era uscito per un'emergenza. Tutto molto credibile, una salumeria abbandonata al primo che passava. Inutile dire che la cosa finì in farsa. Il tizio va a controllare il bancone, scorgendo un energumeno che finge una morte apparente. – F., e che ci fai qua a terra? – Uè, ciao... sto controllando un neon.

Poi, il parco dove abitava un mio vecchio amico delle medie, G.: l'unico più piccoletto di me in classe, il che è tutto dire. All'epoca ero alto quanto Shirley Temple prima che iniziasse a far propaganda per Roosevelt e tenevo dei ciottoli in tasca per non spiccare il volo dopo aver starnutito. Aveva l'Atari 2600, all'epoca. Sessioni multiplayer furiose e infinite di Pacman, la console che brillava di luce propria per il calore generato e dovevamo giocarci vestiti da vulcanologi. Comunque. Una volta stavamo giù, lui annaffiava le aiuole. Passa un'idiota in macchina e ci spruzza col getto del lava cristalli. Ride, l'idioda. Ride col finestrino aperto. L'amico mio, direzionando sapientemente la canna dell'acqua, pulisce l'interno della macchina, con lui dentro. Ridi in faccia a questa canna, ora.

A seguire, alla fine di una lunga traversa senza uscita, abitava L., un'amica mia delle superiori. Sì, a un osservatore acuto sembrerà impossibile, ma ho avuto paio di amiche anche io. Una volta siam stati pure a giocare a biliardino da R., e quasi un quarto di secolo fa, dalle mie parti, sicuramente le presenze femminili in sala giochi avevano un sapore alieno. Poi hanno risolto chiudendo le sale. Comunque ora sarà sposata, avrà figli.

Qualche centinaio di metri dopo, l'uscita posteriore della scuola dove ho fatto le elementari, dalle monache di merda. Il cancello che dava sul cortile, avrebbero potuto farci giocare ma no: serviva solo a farci le foto ogni anni. Cinque anni di monache possono trasformare il più pio dei devoti nel gestore della pagina ufficiale di Satana su FB.

A un paio di traverse, la casa del mio amico G., detto P.: lui meriterebbe un capitolo a parte. Ricordiamo solo le sessioni di Nintendo 64 nello scantinato, con un tasso di umidità amazzonico. La cucina con le ante dei mobili legate con lo spago, altrimenti la mamma buttava dal balcone i pacchi di lenticchie e legumi vari. True story. Quella stessa mamma che voleva farci mangiare la mozzarella alle 5 del mattino, mentre giocavamo a Resident Evil: The Umbrella Chronicles, su Wii.

E siamo arrivati alla fine della camminata, all'angolo c'è una pizzeria. La cosa sicura è che c'è sempre pizzeria: è sulla gestione che regna il caos. Anni fa, quando addirittura uscivo di casa, a volte al sabato andavamo in quella pizzeria a fare gli idioti e, praticamente, ogni due o tre settimane c'era una gestione diversa. Ora è da qualche anno che si son stabilizzati. O, semplicemente, neanche si curano più di cambiare le insegne. Una volta in particolare, tanti anni fa, c'eravamo praticamente tutti ed eravamo i soli avventori del locale (il fatto che fossimo gli unici clienti forse spiegava certe cose). Quante stupidaggini e quante risate... roba da vomitare quel che avevamo mangiato, ma tra le lacrime. Quella sera è come la foto ne “Gli Intoccabili”. Nessuno di noi è stato sparato o ha incastrato Al Capone, ma tante cose sono successe da allora. Chi ha fatto carriera nell'Esercito su al Nord, chi lavora fuori. Chi è finito nell'abbraccio da filo spinato della tossicodipendenza, uscendone in qualche modo. Chi è sposato, ha un paio di figli. Chi ha mostrato quell'anima nera che grava sugli italiani, quasi tutti. E tutti loro, in misura variabile, abbindolati dalla stupidità del populismo. E il qui presente, che scrisse questa cosa una domenica sera, con un peso sullo stomaco che metterebbe in crisi una gru a granchio.

 
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from memorie


Siamo nel Meridione, in un'importante città, che ho amato come Woody Allen ama New York. Ho smesso di farlo, prima che potesse trasformarsi in necrofilia, perché quella città è morta. Le case, i palazzi, i monumenti sono ancora in piedi, le ossa reggono ancora: è il suo cuore che non batte più, il tanto celebrato, sopravvalutato cuore dei suoi abitanti. Loro sono finiti da un pezzo; nulla più li distingue da una qualsiasi comunità arida, tenuta in piedi dall'odio e dalla necessità di addossare la propria inciviltà e i propri fallimenti a chi sta peggio: in qualche modo, qualcuno che sta peggio lo si trova sempre. Lasciamo stare questi morti viventi e passiamo ai morti veri, allo zio Peppino, “la buonanima”, come aggiungono i vecchi ogniqualvolta si parli di chi non c'è più.

Zio Peppino viveva, con la moglie, in una casa poggiata, letteralmente, sulle pareti di una chiesa abbandonata, in uno dei quartieri storicamente più esecrati di quella città; di quella casa parleremo tra poco, dobbiamo prima occuparci di come accedervi. C'era una specie di tunnel in salita, lastricato di mattoni il cui colore non penso sia stato mai identificato da essere vivente: era tutto buio, una sequenza di decine di gradini perché la casa iniziava praticamente dove iniziava la cupola della chiesa. In cima a questo tunnel, un neon singhiozzante illuminava a tratti la porta. Varcata quella, eccoci in casa: la casa era letteralmente in bianco e nero, la ricordo esattamente così; unico accenno di colore, il rosso dell'etichetta di una cola “sfiatata” (messa sistematicamente a sgasare, perché quelle bollicine in casa non erano gradite) in cucina. L'altra, unica bevanda disponibile, era lo zucchero con qualche goccio di caffè dentro. Quando eravamo ospiti, l'unica salvezza era nel rifiutare qualsiasi liquido ci venisse offerto.

Ora, prima di parlare dei singoli ambienti, sappiate che quell'abitazione non obbediva a geometrie euclidee, era un concetto escheriano: locali uno dentro l'altro, coi soffitti di diverse altezze. La cucina, che ha già fatto capolino in questa storia, era una grotta dalle pareti nude, non rifinite, rese verticali grossolanamente, probabilmente a picconate. Un mobiletto pensile, una specie di tavolino, un fornelletto a gas di quelli che chiamavamo “bibigas”, questo era l'arredamento; agli antipodi della coca sfiatata, poggiata sul tavolino, solo una tendina a nascondere lavabo e gabinetto. Di fronte alla cucina, salendo tre scalini, si trovava una specie di spazio trapezoidale, con una finestra fissa su una vista di cui, probabilmente, nessuno ha mai goduto. Poi tante piante, anch'esse in bianco e nero come tutto il resto della casa, e una Singer, perché la moglie dello zio Peppino faceva la sarta. Cucina/bagno e trapezio erano divisi da un quadrato di pavimento di due metri per due, oltrepassato il quale iniziava il dominio di zio Peppino.

Era un locale che faceva paura. L'unica luce arrivava dall'ingresso, la fine dello stanzone finiva nel nero, nell'abisso, non si vedevano le pareti. Il soffitto era altissimo, almeno dieci metri: non sto scherzando, ricordate la storia della casa appoggiata alla chiesa? Bene, il soffitto di quella stanza era probabilmente allineato alla cima della cupola. Un lampadario, impiccato a una catena di una lunghezza mai vista in un'abitazione comune, finiva quasi col toccare il tavolo, un grosso tavolo, da dieci posti almeno. Alla sinistra del tavolo, il letto matrimoniale e, a destra di questo, un mobiletto sovrastato da una folla di santi in cupole di vetro, da quelli piccini da una decina di centimetri a certi colossi, praticamente in scala 1:3. Tutto in bianco e nero, compreso lo zio.

Quando entravamo, generalmente i lottatori non erano ancora sul ring: zio Peppino stava agli antipodi del televisore, a capotavola: ci accoglieva, saluti di rito, solite chiacchiere di circostanza, poi si faceva l'ora del catch. Sì, era ancora catch, sarebbe diventato wrestling e conosciuto come tale solo anni dopo. Lo zio deve essere stato, indubbiamente, il primo spettatore di quegli incontri, trasmessi da oscure reti private. Divorava ogni incontro, conosceva i lottatori, ci spiegava le mosse e le tecniche, la distanza dal televisore si riduceva all'aumentare dell'intensità dello scontro: zio Peppino scalava di posto, una sedia alla volta, fino a finire con la faccia nel vetro, la sua cronaca sovrastava quella dei cronisti, non stava guardando un incontro, era lì, su quel ring, stava combattendo.

Divenne famoso nel parentado, contagiò tutti. Il sabato andavamo a vedere il catch da zio Peppino, nonostante il tunnel scavato tra i mattoni, la coca sfiatata e il caffè nello zucchero.

Il catch iniziò a diffondersi, passò su reti maggiori, si trasformò in wrestling e lo zio ancora lì, con la faccia appiccicata al televisore solo perché non poteva andare oltre, teletrasportandosi fisicamente. Poi morì lui, morì sua moglie; quella casa impossibile tornò nelle mani della curia.

Sono sicuro che non abbia messo una statua di Antonio Inoki tra le cupole di vetro, con san Gennaro e la Madonna, solo perché non sia mai riuscito a procurarsene una.

 
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from Kaijudol, sognare è legale

Scritto di più di 10 anni fa. Personaggio che sarebbe dovuto diventare un Hollow in un forum gdr a tema Bleach.

Time: – 01:02:25

Knok.. Knok.. Knok..

Il suono sordo di legno contro legno rimbombò nel vuoto del dojio. Il bokudo di Watanuki e del suo sensei cozzarono più e più volte prima che il maestro, con una velocità senza eguali colpì l'allievo sulla spalla destra. Aveva perso nuovamente, non c'era allenamento dove non venisse sconfitto da Ryuken, un anziano signore sulla settantina, dai i capelli canutei, dall'aria innocua e gentile. Sembrava uno di quei vecchietti che si siedono sul bordo della strada ad osservare i cantieri, mentre in realta', il suo aspetto nascondeva uno dei più grandi maestri di kendo di tutto il Giappone o forse del mondo. Come si dice: mai giudicare un libro dalla copertina. Minamino mise la spada sul fianco e fece un profondo inchino al suo avversario, poi si allontano' continuando ad allenarsi da solo. Ripeté molte volte il kata, per renderlo più fluido e armonioso. Faceva sempre questo esercizio, alla fine della sessione di allenamenti, per sciogliere i muscoli e concentrarsi sugli errori compiuti nei combattimenti. Quando terminò l'ultimo movimento, era madido di sudore. Si guardò attorno e constatò di essere solo. Era sempre l'ultimo ad abbandonare gli allenamenti, nessuno sembrava prenderli con la stessa serietà. Fece un lungo respiro, per scacciare la stanchezza, poi raccolse la sua roba e si diresse verso gli spogliatoi.

Time: – 00:11:14

Una doccia calda aveva sciacquato via, oltre che il sudore, anche la fatica degli allenamenti. Ora Watanuki si sentiva soddisfatto, ma comunque il suo corpo anelava il dovuto riposo. Apri il suo armadietto di metallo grigio, il numero diciannove, per raccogliere la borsa con i libri scolastici e le scarpe, ma una strana sensazione si impossessò di lui, un formicolio alla base della nuca. Si sentiva osservato. Una sensazione spiacevole e ricorrente che provava da quando aveva iniziato l'università di giurisprudenza, lì aveva imparato a conviverci, ma che non aveva mai provato quel disagio nel suo dojo, figurarsi nello spogliatoio. Per lui quello era un luogo sacro, che sentiva profanato. Era in gabbia. Si sentiva tra le grinfie di qualcuno che non voleva lasciarlo andare. Era colpa sua, lo sapeva bene, aveva compiuto un solo errore, stupido e banale, l'errore di considerare Valentyne più del dovuto. Tutto era successo, un mese prima.

Time: – 841:12:53

Sentiva gli sguardi invidiosi dei compagni di corso, ci era abituato, ormai era una sensazione con la quale conviveva fin da quando era bambino. Watanuki se ne stava da solo, isolato dal resto dei compagni che bisbigliando, si prendevano gioco di lui. Ma lui non aveva nulla da spartire con “quelli”, frequentava l'università per studiare, per imparare qualcosa, non per fare amicizia. Come al solito non ci fece caso e si concentrò sulla lezione. Ma quel giorno la sensazione era più fastidiosa e intensa del solito. Una volta iniziata la lezione, quella fastidiosa senzazione spariva, ma mano che il professore parlava, l'attenzione che catalizzava si spostava sul docente e Minamino sentiva la pressione svanire. Non quel giorno, qualcuno continuava a fissarlo, lo sentiva, anche se non poteva vederlo, quel formicolio alla base della nuca non pareva lasciarlo in pace. Si osservo intorno per vedere da dove provenisse quella fonte così pesante e fastidiosa. Non fece fatica a trovarla. In uno degli ultimi banchi dell'aula c'era una ragazza, molto bella: occhi grandi e color nocciola, capelli lunghi e neri che si posavano dolcemente sulle spalle, un viso pulito e due guance dal colorito sano. Incrociarono gli sguardi e lei sorrise. Lui dopo averla osservata qualche momento distolse so sguardo con fare distaccato e continuo a seguire il professore.

La lezione fini. La ragazza si avvicino a Watanuki e si presento'. Si chiamava Valentyne, sua madre era giapponese, mentre il padre era un francese, profumava di ciliegia. Era la solita ragazza superficiale che pensa solo al suo aspetto fisico, vuota e priva di contenuti. Ma era bella. Ogni tanto si concedeva qualche scappatella con belle ragazze per allentare la tensione prima di un esame o un prova difficile. E cosi' fece. La sedusse e una sera la porto' in un love motel. Fu una splendida notte per entrambi. Ma quel magico momento termino con l'atto sessuale. Watanuki si lavò, poi si rivestì, ringraziò la ragazza e stava per andarsene, quando la giovane lo trattenne cominciando un discorso sulle coincidenze, il destino e l'amore. Minamino la liquidò dicendo che oltre al sesso non c'era stato nulla di più. La salutò e se ne andò. Per lui era finita li, ovviamente , per lei non lo era.

Time: – 6:34:10

Chiuse il suo armadietto dopo aver preso la borsa di scuola e riposto ordinatamente il suo equipaggiamento. Andò nuovamente verso lo specchio per pettinarsi prima di uscire e la vide. Oltre alla sua immagine riflessa c'era anche quella di una ragazza. La conosceva bene, ma non si aspettava di vederla nel dojo, anzi, si aspettava di non vederla mia più. Si era espresso con parole semplici e comprensibili anche da una mente limitata come la sua, ma evidentemente non erano giunte all'obbiettivo. Valentyne continuava a perseguitarlo. Messaggi, mail, lettere, chiamata nel cuore della notte, lo stava ossessionando. Maledì il giorno in cui decise di sedurla.

<> Disse voltandosi verso la ragazza, sarebbe stato l'ultimo sguardo che gli avrebbe rivolto.

<> Lo guardò con un aria innocente e pura.

Chiuse gli occhi e scosse la testa, quei discorsi gli erano del tutto indifferenti. Amore, quella parola era una sconosciuta nella sua vita e sarebbe restata tale. Non sopportava quelle persone, in realtà non sopportava le persone in generale, l'avrebbe liquidata per sempre, non voleva più averla tra i piedi. Distolse lo sguardo dalla ragazza, considerando il discorso chiuso, si sedette sulla panca e cominciò ad allacciarsi le scarpe, ma comunque rivolse ancora qualche parola a Valentyne:

<>

Si allacciò anche la seconda scarpa. Valentyne colse l'occasione e si gettò su di lui e lo abbraccio da dietro. Watanuki reagì velocemente e con una spinta la scostò violentemente. La ragazza caddè sul pavimento ma senza conseguenze dolorose. Minamino non riuscì nel intento di non rivolgerli più lo sguardo e lo vide. Un coltello. Valentine lo teneva nella mano tremante ed era sporco di sangue.

“Deve avermi graffiato.” Pensò toccandosi le braccia, per poi salire fino al collo.

Sentì la parte sinistra del collo bagnata. Si osservò le mani e le vide grondanti di sangue. Istintivamente si portò le mani sulla ferita per tamponarla, ora cominciava a sentire il dolore, probabilemente a causa dell'adrenalina dovuta all'aggressione, non aveva sentito l'arma penetrargli nel collo.

<> Questo avrebbe voluto urlargli, ma dalla sua bocca uscì solo un gorgoglio e del sangue.

Man mano che il liquido vermiglio usciva dal suo corpo e sporcava i suoi vestiti puliti, sentiva le forze che lo abbandonava. Faticava a respirare causa del sangue nella bocca. Guardò verso la sua assalitrice. Lei si avvicinò piano piano, con il volto rigato di lacrime. Si accucciò verso di lui e gli sussurrò:

<>

Watanuki non riusciva più a muoversi ormai la sua vita stava finendo. Riusci solamente a formulare un pensiero, tra i dolori che lo assalivano:

<>

Time: – 00:00:01

Time: – 00:00:00

Time: + 00:00:01

Doveva essere morto e invece non lo era. Si trovava in un dojo, familiare ma i suoi ricordi erano così confusi, sentiva la testa pesante e i pensieri appannati. Fisicamente stava bene, si portò le mani al collo, come per controllare il suo stato. Tutto normale. Solo il petto gli doleva, appoggiò le mani su di esso e ci trovò un freddo pezzo di metallo. Una catena. Per giunta spezzata. Capiva sempre meno. Era in una situazione assurda, confuso e dolorante cominciò ad osservarsi in giro e finalmente lo vide. Il suo corpo, coricato per terra, in un lago di sangue. Era morto? Come mai si sentiva vivo? Cos'era quella catena? Troppe domande e nessuna risposta.

 
Continua...

from highway-to-shell

Il trauma da rientro dalle vacanze lo vivono tutti ma quelli che tornano a Torino dopo essere stati in Svizzera e Germania lo vivono un po' di più. Torino –> Losanna –> Berna –> Friburgo e poi Torino.

Non ci sono merde di cane sui marciapiedi. Ok, cani se ne vedono molti meno, ma evidentemente i padroni sono tutti estremamente educati. Tutto comunica una sensazione di pulizia, dai bagni pubblici alle panchine. Il centro città è popolato da pedoni, biciclette, monopattini e mezzi pubblici: LE AUTOMOBILI NON CI SONO.

Posso capire che in passato le amministrazioni che si sono succedute abbiano favorito il trasporto privato su quattro ruote trascurando tutto il resto: Torino era la città dell'auto e l'industria automobilistica dava da mangiare a decine di migliaia di famiglie. Ma adesso che Torino è la capitale del nulla qualche sforzo per pulire l'aria e rendere la città leggermente più vivibile si potrebbe pure fare.

In compenso gli italiani hanno un senso dell'umorismo molto sviluppato rispetto a svizzeri e tedeschi e si spiega facilmente il perché, basta pensare ad una delle scene più comiche della cinematografia mondiale, quella dove Fantozzi prende l'autobus al volo: all'estero non fa ridere, non la capiscono, perché gli autobus passano regolarmente e non sono mai strapieni. Gli italiani hanno sviluppato un forte senso dell'ironia per sopravvivere al proprio paese, peccato che a Torino ci siano i torinesi, i più tristi-riservati-mogi-seriosi-con-la-scopa-nel tra gli italiani.

#vacanze #automobili #torino

 
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from Racconti spontanei che attraversano l'autore

Cammina veloce, cammina, non c’è tempo da perdere, stai perdendo il volo, ti stanno chiamando dall’altoparlante rumoroso proprio te essere vivente, cadi adesso e cresci e crea una montagna umana di macerie umane. Essere vivente sei eccitante, dovrebbe essere sentito e non lo è, è un gioco portato al limite, è un gioco con troppe regole, ne servirebbe solo una, è solo biologia riproduttiva, è solo chiedersi perché sia così difficile stare da soli perché sia così bello odiare e non volere scendere a compromessi e smettere di mangiare piatti sofisticati e mangiare solo pesce appena pescato e mangiarlo mentre ancora si contorce e smettere di ascoltare musica che l’udito serve solo per avvertici dei pericoli, altri esseri umani che blaterano e non riescono che compiere l’azione del contraddirsi. I vetri sono decisamente troppo puliti per essere veri vetri ma è sicuramente la miopia che rende tutto più bello e non c’è sguardo esterno che trafigga, non c’è sguardo essere vivente, non c’è che il sogno. No, non sono io quello che si è perso il volo, non sono io che ha bisogno degli sconosciuti per sopravvivere vai rapido, vai rapido figlio di tempi dove la violenza era molto più tollerata e anzi era un valore tra i più importati. Sì è colpa di questa velocità se soffri, è colpa di una necessità morbosa di essere sempre più ricchi e potenti, quello che stupisce è quello che manca, non è stato ancora capito, però si continua a trovare nonostante questa estrema consolazione nella strada battuta, nel ruscello di acqua calda termale e nell’odio profondo e nella gioia dopo l’odio come un dolce unguento e odore di camomilla. Hai scelto di investire nella tua bellezza e ancora ora dico, cattivo investimento essere vivente, è facile quando hai poche lune alle spalle quando il movimento non è deciso ma come fai dopo come potrai salvare Venezia ma è questo credere nell’irrazionale che disarma e però lo lascio a voi, credo, almeno ora ma adorerò contraddirmi. E’ questo bisogno di voler dare, questo racconto cristiano che sembra non volersi mai fermare e muta e prende varie forme forse sì, sei tu pianeta terra, sei tu tempio, togliere serve per dare di più dopo perché per quanto mi piaccia l’idea con un valore prettamente legato alle storie a destini ridotti in frantumi, non ci sarà mai la fine del volere dare e non ricevere nulla e sarà nella sua rarità il potere ispiratrice ma anche farmi desistere dal pensare che è solo esclusivamente bisogno di non essere soli, non sarà facile e qua adorerò ancora di più contraddirmi. Cosa può essere un essere vivente che vale la pena essere raccontato, deve poter trasmettere qualcosa, deve poter ispirare suscitare emozioni, sono qui guardami, sono qui ti prego ascoltami, vite su vite ma è davvero possibile siano tutti così banali e pieni di errori che siano così tolleranti della noia e perché alla fine chi forse si è distinto e ha capito qualcosa si è ammazzato. Perché le vite straordinarie non hanno resistito un giorno di più, che sia solo lo smettere di voler tollerare che distingue gli straordinari dagli altri che l’unica cosa straordinaria è non farcela più, in fondo non ne vale più la pena, si sta combattendo per qualcosa senza valore, una volta compresa la vita finisce tutto il divertimento, è bello giocare quando le regole ancora sono poco chiare, quando si ride tutti insieme sui reciproci sbagli ma cosa accade quando le regole sono chiare e quando non si commettono più errori, c’è davvero qualcuno così ottuso stupido da continuare a giocare a questo solitario dove si vince tutte le volte, dove perdere è impossibile che dopo aezakmi sì magari si va avanti per un po’ ma poi basta. Sono gli errori che tengono vivi quindi, interessante, ma che accade quando gli errori sono troppo grandi come riuscirai a convivere con il senso di colpa come farai invece, molto bene, è lo spirito di sopravvivenza, è volere sopravvivere alla glaciazione e quindi nell’abbondanza e nella stagnazione non si può che pregare nella catastrofe più atroce così da sperare nuovamente nel benessere e volerlo rincorrere sarà la gioia più grande. “Sbaglia, sbaglia, sbaglia!” questo si ripeteva B. dopo aver riflettuto a lungo e per la prima volta si convinse. Era depresso B., lo capì da solo come quando si capisce che si ha la febbre alta, la testa è un enorme palla riempita di un materiale soffice al tatto come il cotone ma pensate come il piombo. Non sarebbe mai andato a farselo certificare che quella pratica psicanalitica, era solo una ridicola imitazione di un prete che vuole confessarti e assegnarti preghiere da recitare. “Avanti B. dimmi i tuoi peccati, confessati” disse il prete-psicologo-santone-attivista per l’ambiente “Beh ho peccato, sì padre molto” e così via e è colpa di troppe cose che non ti sono chiare maledetto che vuoi leggermi ma non puoi capirmi. Era depresso perché già in tenera età, raggiunti i sei anni, capì che i suoi genitori erano praticamente dei bambini suoi coetanei che era la paura a muoverli e il voler essere accettati. E da questa consapevolezza all’età di sei anni e non verso i quaranta come di solito accade accettò gli errori dei propri genitori, le loro fragilità e il peso che questo comportava. Fu la morte della madre di suo padre a farglielo capire, che lui si rinchiuse in un totale e assoluto isolamento che la sua forza era scomparsa, che poco dopo si uccise pure lui e non prima di essersi svelato. Doveva sbagliare, commettere un atto che andasse contro il suo intelletto, contro la razionalità che era convinto lo stava portando al suicidio; sì perché aveva capito troppo. Pensò a lungo su cosa fare e l’elenco diventava sempre più lungo. Si fermò per diverso tempo sull’omicidio, certamente questo fatto avrebbe portato B. in svariate situazioni a lui sconosciute tra cui il dover capire come farlo, magari informandosi sull’ampia documentazione fornitagli dalla cronaca nera, film, serie televisive, romanzi; era pieno di spunti a riguardo e questo gli fece capire quanto è così dentro di noi questo pensiero e che alcuni ne scrivono solo e ne partecipano all’atto immaginario, tanti invece non ne sono sufficientemente soddisfatti e devono praticare ciò che a lungo hanno studiato. E poi c’è il fatto in se, non è per nulla scontata come azione, deve necessariamente crearsi un rapporto con il soggetto, come quando si sceglie l’amante da corteggiare, l’amante da rapire dalla sua vita che procede, sì ma c’è quell’alone di dubbio, farò bene a fidarmi questa volta, sarà disposta a seguirmi nei miei pensieri folli ad accettare consensualmente di essere uccisa, sì questo è folle pensò B. davvero folle, pensarlo fu strano per lui si sentì perdere appigli come sbilanciato però in verità per B. il terreno era morbido soffice, un prato sopra della sabbia finissima, un miraggio e un ombra freschissima dopo una giornata torrida e un sole violento che brucia. B. andò a comprare le sigarette, l’uomo al bancone fu gentile e pretese di dargli indietro il resto “Ecco il resto” B. sentì una voce decisa raggiungere il timpano, va bene grazie uomo, vedo sei incisivo, vedo non ti sfugge nulla, vedo sei così attento ai bisogni dei tuoi affezionati clienti, sì affezionato a vederli morire uno dopo l’altro, eh poverino è caduto in depressione dopo la morte della madre, ma cosa dici era malato da tempo a causa di questo veleno che continui a vendere, eh ma me l’hanno dato in eredità, sì certo continua a ripetertelo, continua a ripeterlo mentre gli incubi delle scelte sbagliate della vita ti assalgono. “Grazie, arrivederci” rispose B., uscì fuori, tolse la plastica protettiva dalle sigarette tirando una piccola sporgenza di plastica sul lato corto del parallelepipedo, prese un sigaretta, chiese a un passante un accendino, si accese la sigaretta, fumò giusto un paio di tiri finché non lo colse il disgusto, buttò la sigaretta in uno di quei cestini per mozziconi di sigarette sempre così banalmente sporchi e in un cestino buttò tutto il pacchetto, tranne la plastica protettiva che aveva così profumatamente pagato.

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_014-2024.

Mi fa ridere, bestemmiare.

Trovare la soluzione di un mistero attraverso l’ironia a scorrimento orizzontale di pagine che nascondono interazioni nel fascino di personaggi ridicoli ed irripetibili.

Mi fa sudare. Annientare tutti i nemici che arrivano sempre in maggiore numero nell’irrefrenabile scorrimento verticale che affolla figure che devono scoppiare e sparire fino al boss, e poi si ricomincia.

Mi fa scordare.

Incastrare mattoncini infiniti che cadono incessabilmente dall’alto accelerando mentre il pavimento si alza se non viene spazzato da combinazioni di righe perfette.

In punta di dita videogames o la vita.

 
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