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Inktober 2025 – Però per scritto – 8/10 – Reckless

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

8/10 – Reckless

Su internet se ne parlava sempre di più. All'inizio erano alcuni post qua e là, prontamente sommersi da commenti in disaccordo, ma col passare del tempo le voci che davano Ph0tonP0wer come “finito” si facevano sempre più insistenti, i commenti solidali col famoso streamer diminuivano di volta in volta, e ormai iniziava a crederci perfino lui.

Anzi, a dire il vero, le cose non stavano andando bene da anni. La piattaforma è in crisi, si diceva. Ormai, nessuno fa più successo. Gli investitori stessi non ci credono più. E poi, alla fine, chi diamine ha il tempo di guardare tutte quelle ore di live stream su internet? Ma in cuor suo, Ph0tonP0wer sapeva benissimo che quelli erano soltanto parte del motivo. Se così fosse, il successo di tutti quanti starebbe scemando, e invece pareva che il declino fosse principalmente suo. Nuovi canali lo stavano raggiungendo in quanto a popolarità, streamer più giovani, sicuramente spinti da chissà quale raccomandazione, e sicuramente anche qualche ragazza che si è guadagnata la popolarità a suon di “lavoretti”, per così dire. E allora, piano piano, il top streamer mondiale stava vedendo il suo successo svanire, e con esso naturalmente anche la fonte economica che finanziava il suo stile di vita fatto di eccessi e divertimento.

C'era bisogno di qualcosa di nuovo. Qualcosa che avrebbe scosso il suo pubblico, qualcosa che l'avrebbe fatto tornare sul “trono” del live stream globale. Si, ma cosa? Una collaborazione? Nah, non avrebbe funzionato: non sopportava nessuno dei creator che conosceva, ed era abbastanza convinto che il sentimento fosse corrisposto. Certo, se fosse stato una ragazza formosa, avrebbe aperto un profilo su quell'altro sito o avrebbe iniziato a fare stream in vasca da bagno. Le ragazze hanno tutti i vantaggi, si trovò a pensare.

Ci voleva qualcosa che nessuno aveva mai fatto. Qualcosa di estremo. Decise di chiamare il suo agente. Se vuoi sfondare devi affidarti ai professionisti, si ripeteva da sempre, e infatti con lui andò proprio così. Da essere uno streamer qualunque, una goccia nel mare di sfigati, all'essere il top mondiale in meno di 5 anni era un risultato incredibile, ma Ph0tonP0wer sapeva benissimo che buona parte del suo successo dipendeva dal marketing e dalle idee che provenivano dalla sua agenzia, a cui si affidava da sempre.

La call non durò molto, ma l'idea era geniale: uno stream interamente trasmesso dall'auto sportiva di Ph0tonP0wer, e ogni 10 iscrizioni al canale lo streamer avrebbe schiacciato il piede sull'acceleratore per 10 secondi.

L'agenzia iniziò dunque la sua campagna di promozione: post ovunque, stories, addirittura l'annuncio arrivò anche su qualche notiziario in TV. “Cos'altro s'inventaranno?” si chiese qualcuno. “La mamma degli stupidi è sempre incinta.” affermò qualcun altro. “Questi influencer fanno danni incalcolabili alla psiche dei nostri bambini” dissero in TV.

Sta di fatto che la gente ne parlava. Si parlava di nuovo della Piattaforma, della content creation, degli streamer, e soprattutto si parlava di Ph0tonP0wer.

Dopo settimane di hype, annunci, scambio di opinioni, venne finalmente il giorno. Con rinnovata fiducia, lo streamer entrò nella sua auto fiammante, accese l'apparecchiatura, e premette su Start Live.

Solita introduzione di rito: sorriso d'ordinanza, tono di voce alto e impostato, saluto a chi si è già collegato, reminder di iscriversi e attivare la campanella delle notifiche.

Pronti? Si parte!

Le prime iscrizioni non tardarono ad arrivare. Questi sono i momenti in cui si vede l'amore della propria community, pensò lo streamer. Alla decima iscrizione, scattò l'alert, e Ph0tonP0wer non tradì la promessa: piede in fondo, sorriso di chi è sicuro delle proprie abilità, e via! La chat era letteralmente impazzita. Come ai tempi d'oro, quando era al top. Macché top, si trovò a pensare: non sono mai stato al top come adesso! Adesso sì che il mondo si ricorderà di me!

Ancora iscrizioni, ancora soldi, ancora alert, e ancora piede sull'acceleratore. La risata dello streamer ben rappresentava l'esaltazione che stava vivendo in quel momento. Senza più remore, senza più dubbi, questa era la cosa giusta da fare, questo era ciò che il pubblico voleva!

La Piattaforma registrò un record di presenze nel suo stream quel giorno, proprio nel momento in cui la trasmissione si interruppe improvvisamente, per poi non riprendere mai più.

 
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Inktober 2025 – Però per scritto – 7/10 – Starfish

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

7/10 – Starfish

Il piccolo Timmy era il bambino più sfortunato del mondo. O per lo meno, è così che si sarebbe dichiarato a tutti coloro che glielo avessero chiesto. Le vacanze stavano per finire, e lui non aveva trovato nemmeno un tesoro. Neanche l'ombra, eppure aveva cercato in lungo e in largo. Gli altri bambini della spiaggia erano naturalmente stati più fortunati: chi aveva trovato un braccialetto, chi un vecchio camioncino di plastica, chi un secchiello rosso, e addirittura c'era chi aveva trovato una macchinina perfettamente funzionante.

Timmy niente. Ma certo: d'altronde, era il bambino più sfortunato di tutti. Quel giorno decise di tentare il tutto per tutto: i suoi genitori si erano addormentati sotto l'ombrellone, e c'era un'insenatura a sinistra della spiaggia, poco lontano, dove non era ancora andato. Il posto non gli piaceva più di tanto, c'era una specie di grotta da cui gli altri vacanzieri si tenevano alla larga per qualche ragione, probabilmente perché era buia e fredda e non prometteva niente di buono. Il posto perfetto per un tesoro! Maledicendosi per non averci pensato prima (chissà quante volte avrebbe potuto vantarsi del suo tesoro con gli amici del mare!), Timmy si allontanò velocemente dall'ombrellone, facendo attenzione a non svegliare i suoi genitori, e corse in direzione della grotta.

Se la ricordava bene: fredda, buia, e rocciosa. Niente spiaggia calda qua, e anche l'acqua sul fondo era decisamente gelida. Però Timmy lo sapeva benissimo: è nei posti più inospitali che si celano i tesori migliori, i suoi eroi della TV e dei videogiochi non avevano mai paura a cacciarsi nei labirinti più spaventosi, e ne uscivano sempre vittoriosi e con qualcosa di scintillante in più. Facendo attenzione a non scivolare, il piccolo Timmy si armò di coraggio e entrò nella grotta.

Pochi metri dopo, la luce del sole non era già più sufficiente per capire dove si potesse andare, ma dalle pareti poco più avanti arrivava una debole luce azzurra. Sarà sicuramente un cristallo luminoso preziosissimo, pensò Timmy, e con rinnovata fiducia fece ancora qualche passo.

Non erano cristalli.

Decine e decine di stelle marine adornavano le pareti della caverna, e ciascuna emetteva quella luce, qui decisamente più evidente, una luce fredda ma comunque confortante in tutto quel buio. Maledizione, pensò Timmy, questo non è un tesoro! Decise comunque che in ogni caso sarebbe stato qualcosa di interessante da mostrare agli amici, e allungò la mano verso una delle stelle marine. All'inizio non si accorse di niente, ma dopo poco divenne evidente che l'intensità della luce aumentava via via che le sue dita si facevano più vicine, come se quegli strani molluschi si concentrassero per identificare cosa si stesse avvicinando.

Non appena l'indice del piccolo Timmy toccò la superficie di una delle stelle marine, un silenzioso lampo di luce attraversò la caverna, e il piccolo Timmy perse i sensi.

Quando riaprì gli occhi, si rese conto di trovarsi su una sorta di tavolo metallico, freddo e umido. Una gelida luce bianca, emessa da un faro su quello che doveva essere il soffitto della stanza dove si trovava, lo investiva completamente, e rendeva difficile abituare la vista e scorgere tutti i dettagli. Riusciva a sentire solo un insopportabile fischio, e una sorta di borbottio provenire dal fondo della stanza. Provò a sollevare la testa per capire di più dove si trovasse, ma era impossibile: qualcuno lo aveva bloccato al tavolo, testa mani e piedi. Eppure non sentiva alcuna sorta di legaccio, o manette. Come se una forza nascosta lo tenesse fermo.

Il piccolo Timmy voleva naturalmente urlare, dimenarsi, scappare, ma riusciva a muovere soltanto gli occhi. Muto e immobile, non potè che assistere all'avvicinarsi di una figura dal lato del tavolo dove si trovavano i suoi piedi. Aveva la pelle come quella di un delfino, o forse di una foca (Timmy non poteva esserne certo, aveva visto questi animali soltanto in TV), di statura bassa, forse perfino più basso di Timmy, e con una testa perfettamente sferica. Dove Timmy si sarebbe aspettato di vedere gli occhi, non vi era nulla, ma poco più in basso si poteva scorgere una sorta di piccola fessura, da cui affiorava un corpo molliccio di colore giallo. La figura sollevò quello che poteva essere un braccio, seppur somigliasse di più a un tentacolo che si divideva in tre verso l'estremità. In quella sorta di mano teneva una specie di cubo perfettamente liscio, color acciaio. Lo posò sulla fronte di Timmy. Era gelido, e emanava una specie di debole vibrazione.

Nei pensieri del bambino comparve un messaggio. “Non fare parola con nessuno di ciò che hai visto. Torna dai tuoi simili. Non toccare le stelle marine.”

Timmy aprì gli occhi. Si doveva essere addormentato sulla spiaggia, sicuramente. Ancora il sole del pomeriggio era alto nel cielo. Le vacanze non erano finite, c'era ancora tempo per divertirsi. Se solo avesse trovato un tesoro da mostrare ai suoi amici!

 
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Inktober 2025 – Però per scritto – 6/10 – Pierce

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

6/10 – Pierce

Le luci sulla plancia non lasciavano spazio ai dubbi. Nemico a ore sei.

Bruce tirò verso di sé la cloche del motore con un movimento rapido, e con l'altra mano avviò una manovra di cabrata. L'aveva fatto mille volte all'accademia, una contromisura classica quando c'è un nemico in coda. Il motore del suo caccia diminuì conseguentemente la velocità, e i flap puntarono verso il cielo, con meccanica precisione. Guardandosi intorno, Bruce cercò di avvistare l'aereo nemico che risultava dal suo radar, e con la coda dell'occhio riuscì a vederlo uscire da una nuvola appena sotto di lui. Il briefing della missione ne segnalava la probabile presenza in zona, e ormai ne era certo: era stato scoperto.

L'addestramento dell'accademia permise a Bruce di identificarlo rapidamente: era un caccia di ultima generazione, modello SK-190, due motori a reazione, adatto al decollo da pista o da portaerei, 16 missili a tracciamento termico, cannone rotante a 6 canne. Un mostro di agilità e maneggevolezza, armato fino ai denti. Un vero osso duro, nelle mani di un pilota esperto.

Bruce strinse i denti, e riposizionò la barra di comando in posizione neutra, pronto a forzare il motore in una virata a sinistra. Come da manuale, aumentò lievemente il gas, e tornò a controllare la strumentazione. Il nemico sembrava essersi lievemente allontanato, ma Bruce ne era certo: ci sarebbe voluto altro per seminarlo.

Dopo pochi secondi, infatti, lo vide nuovamente apparire sul radar. Nemico a ore 6. Si accese un'altra luce sulla strumentazione, quella luce che nessun pilota vuole mai vedere. L'allarme di lock-on. Bruce allungò la mano verso la bottoniera sulla sua sinistra, e premette il tasto che comanda le contromisure. Contemporaneamente, iniziò la virata, e il suo caccia lasciò dietro di sé una nuvola di piccoli bengala, un'ottima contromisura per le testate a tracciamento termico.

Non sarebbe stato abbastanza, Bruce ne era certo. Riportò ancora una volta in orizzontale il suo caccia, e spinse in avanti la cloche del gas. Gli SK-190 erano agili, è vero, ma il suo aereo era più moderno, più potente. E soprattutto, aveva un motore supersonico.

Più veloce, pensò Bruce, più veloce, devi andare più veloce!

L'aereo prese a vibrare, e la velocità divenne l'unico pensiero di Bruce. Chiuse gli occhi, e spinse ancora più in avanti la cloche.

Il boato arrivò all'improvviso, quando meno se l'aspettava. Un tonfo secco, forte, e poi il silenzio. Durante l'allenamento ne aveva sentito parlare, ma non aveva idea che squarciare il muro del suono sarebbe stato così. Riaprendo gli occhi, venne colpito dalla luce che sembrava emanare dappertutto, non più soltanto dal sole all'orizzonte, ma dalle nuvole stesse. Istintivamente, guardò il radar per controllare la posizione del nemico. Nessuna spia, nessun allarme. Tutto tranquillo. Ce l'hai fatta un'altra volta, pensò, dandosi una metaforica pacca sulla spalla. Hai vinto anche stavolta.

Riportò in posizione neutrale la cloche, e puntò il suo caccia verso le montagne a est, come da piano. Poco contava per Bruce, ormai, che le montagne non ci fossero più, così come il radar, la cloche, l'aereo. Tutto era luce, ormai.

 
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Inktober 2025 – Però per scritto – 5/10 – Deer

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

5/10 – Deer

La foresta non gli era mai piaciuta, a voler essere onesti. Ogni volta che ne parlava, veniva preso in giro e sminuito: questo è il tuo posto, gli dicevano. Qui sei al sicuro. Qui c'è tutto quello che ti serve.

Di notte, era ancora peggio. Ogni rumore, ogni ombra sembrava una minaccia. Il caldo conforto del sole lasciava il passo al vento freddo, che portava con sé suoni spaventosi e misteriosi. Ogni volta, al tramonto, provava a farsi coraggio. Provava a ripetersi ciò che da sempre gli dicevano gli amici e i parenti. Non devo aver paura, andrà tutto bene, sono al sicuro.

Al sicuro. Ma quando mai era stato veramente al sicuro? Quando mai, in un mondo come questo, fatto di prede e predatori, si è veramente al sicuro?

Quella notte non fece eccezione. Tramontato il sole, come sempre, non riusciva a dormire. Si ritrovò a vagare per i sentieri della foresta, quei sentieri che solo lui conosceva, calcati dai suoi passi chissà quante volte. Eppure, non riusciva a trovarli rassicuranti, perché anche lì c'erano le tanto odiate ombre, anche lì la luna proiettava ombre e riflessi attraverso le foglie degli alberi che gli facevano vedere forme irreali, personificazioni dei suoi peggiori incubi, minacce. Minacce ovunque.

Anche quella notte, provò a scappare. Ma non si scappa dal buio, non si scappa dall'ignoto, non si scappa dalla paura, perché la paura vive dentro di noi, ed è sempre un passo avanti.

E quella notte, sentì un rumore nuovo. I suoi passi l'avevano portato in una zona diversa, lontana dai soliti posti. Non riconosceva i tronchi degli alberi qui, c'erano radure che non gli risultavano familiari, e le foglie fremevano sotto l'influenza del vento in modo ancora più sinistro.

Non avrebbe saputo descrivere in che modo quel rumore fosse diverso dal solito. Era come lo spezzarsi di un legnetto, ma più deciso, più violento, non goffo ma bensì determinato, di certo non accidentale. Le sue orecchie erano ben allenate, dopo innumerevoli notti trascorse a catalogare ogni suono, per associarlo a chi o cosa l'avesse causato. Un rumore così non l'aveva proprio mai sentito. Uno simile, si, certo. Ma così, no. Se c'era qualcosa di cui si fidava, era sé stesso, e i suoi sensi. Quando devi sopravvivere ogni giorno, è importante affidarsi a sé stessi.

Si fermò all'istante, e con gli occhi scandì ancora più attentamente l'area in cui si trovava. Tronchi d'albero a perdita d'occhio. Saranno stati almeno tanti quante stelle c'erano nel cielo. Ogni albero recava con sé i suoi rami, la cui forma contorta rendeva impossibile contarli. Ogni ramo, innumerevoli foglie. Ciascuna con la propria voce, ciascuna che sussurrava un messaggio di morte. Vicino alle radici dei tronchi più vicini scorse alcuni vermi, ragni, formiche, e un paio di topi. Ma nessun topo avrebbe potuto fare quel suono. Un uccello, forse? Qualche gufo, il cui canto lo spaventava sempre? Ma non c'erano gufi in questa parte della foresta. Dove diamine era capitato, che nemmeno quei maledetti osavano venire qui?

Scelse allora di affidarsi nuovamente all'udito. Se qualcuno, o qualcosa, aveva fatto quel suono, allora l'avrebbe fatto di nuovo. Aspettò, fermo e immobile, ancora qualche attimo. Ogni muscolo del suo corpo lo implorava di non tradire la regola: mai fermarsi. Se stai fermo, sei un bersaglio. Eppure, quella notte scelse di provare a capire, scelse di affrontare la sua paura, e restò fermo, in ascolto, totalmente concentrato. Passò qualche secondo, o forse addirittura un paio di minuti. A lui sembrarono ore, addirittura giorni interminabili, laggiù nella foresta che proprio quella volta scelse di restare in silenzio, come se anche le foglie e i topi volessero stare in ascolto.

Quando all'improvviso, lo sentì di nuovo. Più vicino. I suoi arti dunque presero il sopravvento sulla determinazione, e lo portarono di scatto lontano da lì, via, via da quella maledetta radura. Corse come il vento stesso, senza sapere dove, senza una meta, ma lontano. Corse fino all'alba, quando il sole graziò di nuovo le sue corna maestose, di cui non si sentiva degno, e che gli ricordavano ogni giorno di quanto fosse vigliacco. Non seppe mai l'origine di quel suono, ma quel che importava era che un'altra notte era passata.

 
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Inktober 2025 – Però per scritto – 4/10 – Murky

L'Inktober ( https://inktober.com/ ) è un'iniziativa che ricorre ogni anno: 31 prompt per realizzare altrettante illustrazioni, così da stimolare la creatività e non soccombere all'apatia. K&S quest'anno partecipano congiuntamente. K, da brava illustratrice, posterà i propri disegni sui propri social. S, da totale inetto per quanto riguarda disegno e grafica, parteciperà realizzando brevi raccontini. Si, siamo al corrente che esiste anche un'iniziativa analoga per chi preferisce creare racconti. Ma siamo anticonformisti, che ci volete fare.

Ogni giorno verrà pubblicato qui un racconto, ispirato dalla parola del giorno.

4/10 – Murky

“Così è deciso, la seduta è tolta!”

Con un tonfo del suo bastone, il Grande Castoro concluse il suo discorso, e lasciò ammutolita l'assemblea. La situazione era grave, certo, ma nessuno si aspettava che quella sarebbe stata la soluzione che sarebbe stata adottata.

Dopo così tanti anni, abbandonare l'ansa del fiume per spostarsi a nord, dover ricostruire tutte quante le tane, e chi si sarebbe occupato dei piccoli della tribù, quelli appena nati, che ancora neanche avevano rosicchiati i primi legnetti?

In fondo, però, le alternative non erano molte.

Qualcuno, a dire il vero, già si era insospettito quando, tante lune prima, vennero avvistati numerosi gruppi di uomini, molto più numerosi del solito, soprattutto considerando che il fiume scorreva molto lontano dalle loro chiassose città. Tuttavia, nessuno della tribù se ne preoccupò più di tanto. Saranno campeggiatori, dissero.

Poi arrivarono con le loro grandi macchine di metallo, col loro fumo e col loro assordante rumore. Iniziarono a scavare, spaccare, riempire, e infine portarono lui: il tubo.

Il tubo era grigio, freddo e sporco. Molto più grande del più grande tronco che qualsiasi castoro avesse mai rosicchiato, e dal suo interno ben presto iniziò a sgorgare un tipo di acqua che nessuno della tribù aveva mai visto. Aveva uno strano odore pungente, e un colore violaceo che rendeva le acque del fiume melmose e dense.

E dire che i più forti della tribù ci avevano provato a tapparlo! Ma il tubo era troppo grande, il flusso troppo potente, e soprattutto chi si avvicinava a quelle acque melmose perdeva istantaneamente le forze, e doveva stare a riposo nella tana per almeno due o tre giorni prima di tornare in salute.

Non c'era scelta, gli anziani concordavano tutti, bisognava fare come aveva deciso il Grande Castoro: abbandonare l'ansa del fiume per spostarsi a nord, lontano dal tubo, e ricostruire una vita, una casa, un posto dove la tribù poteva continuare a esistere.

“Ma... ma Grande Castoro, cosa succederà se gli uomini costruiranno un altro tubo anche a nord?”

La voce apparteneva alla giovane Lucinda, una di quelle castorine sempre con la testa tra le nuvole, più dedite a sognare che a rosicchiare il legno.

Tutti quanti i castori dell'assemblea si voltarono, sgomenti, a fissare la giovane. Che arroganza, contraddire il Grande Castoro! Ma il Grande Castoro non tardò a rispondere.

“Giovane Lucinda, quel che dici ahimé è realistico, ma cos'altro possiamo fare? In fondo, il fiume è grande, e potremo spostarci di nuovo. Hai per caso un'altra opzione in mente?”

“Beh... potremmo chiedere aiuto alle altre tribù. Anche loro dovranno affrontare i problemi causati dal tubo, in un modo o in altro!”

“Ma le altre tribù non hanno mai collaborato con noi! Anche quando abbiamo costruito la Grande Diga, nessuno volle prenderne parte, neanche i serpenti, eppure da allora hanno potuto badare più facilmente alle loro uova senza preoccuparsi della corrente del fiume.”

“Lasciate fare a me, Grande Castoro! Parlerò alle altre tribù, e troveremo una soluzione!”

L'assemblea dunque si sciolse per davvero, tra lo scuotere delle teste dei castori più anziani, e lo sguardo incuriosito del Grande Castoro. Che fosse davvero giunto il momento di lasciare che i giovani decidessero le sorti della tribù?

La giovane Lucinda raccolse dunque qualche provvista, e si mise in viaggio poco dopo, fronte alta illuminata dal sole, e coda ben piantata a terra, segno di determinazione e convinzione.

Passarono i giorni, e con ogni tramonto gli anziani si convincevano sempre di più dell'assurdità della proposta. “Questi giovani d'oggi, pensano di saper fare tutto! Figuriamoci, le tribù hanno sempre pensato soltanto a sé stesse, abbiamo sempre fatto bene a fidarci del Grande Castoro e basta!”

Al sorgere del sole del trentesimo giorno, però, Lucinda fece ritorno all'ansa del fiume. Non sembrava più tanto giovane, recava addosso i segni di un arduo viaggio, qualche graffio, il pelo tutto arruffato, ma lo sguardo ancora più fermo e ambizioso.

Lucinda convocò il Grande Castoro, e illustrò il piano maturato nel corso di lunghi giorni e interminabili riunioni con le altre tribù del fiume.

In confronto, il progetto della grande diga sembrava un gioco da ragazzi. Qua si parlava di pietre, tronchi, una struttura ambiziosa e mai realizzata prima di allora.

Gli aironi avrebbero fatto da guardia dall'alto. I tassi avrebbero portato le pietre. I serpenti avrebbero spaventato qualsiasi umano si fosse avvicinato. I castori avrebbero rosicchiato il legno, e i più anziani avrebbero diretto i lavori.

“Ma come faremo a portare le pietre e il legno alla bocca del tubo? Il fango è tossico, ci avvelenerà!” chiese il Grande Castoro.

“A quello penseranno i rospi! A loro la fanghiglia del tubo non crea nessun problema!”

“Ma... ma allora, i rospi non avrebbero bisogno di tappare il tubo! Perché mai hanno accettato di aiutarci?”

“Grande Castoro, non tutte le tribù sono come noi. I rospi sono un po' viscidi e mollicci, ma hanno un gran cuore. A loro piace l'ansa del fiume, per il paesaggio e il clima, certamente, ma soprattutto perché ci siamo tutti quanti noi. Non vogliono vederci scappare, e per questo hanno acconsentito ad aiutarci.”

Il Grande Castoro sorrise, e capì che ormai i tempi erano davvero cambiati. Se le tribù del fiume avessero voluto continuare a sopravvivere, avrebbero dovuto iniziare davvero ad ascoltare i giovani, aprirsi a nuove idee, collaborare, e non scappare di fronte alle difficoltà.

Si dette dunque il via ai lavori. Chi fosse capitato di lì per caso, nonostante il cattivo odore emanato dal tubo avrebbe scorto uno spettacolo unico: i possenti tassi che trasportavano le pietre, i rospi che ascoltavano attenti le istruzioni dei castori anziani, gli aironi in volo in formazione, e una struttura di sassi e legno che piano piano cresceva e andava a tappare il tubo.

Ci volle qualche settimana, ma alla fine il tubo venne tappato e le acque tornarono a sgorgare limpide e pulite lungo l'ansa del fiume.

Gli uomini se ne accorsero, naturalmente, e inviarono le loro macchine di metallo a rimuovere il blocco. Ma le tribù ormai erano diventate esperte, e tapparono nuovamente il tubo in minor tempo: i rospi avevano appreso la tecnica, e non avevano più bisogno di tante istruzioni. I castori avevano affilato ancora di più i loro denti, e riuscivano a rosicchiare il legno ancora più velocemente. Gli aironi avevano perfezionato i turni di guardia, e niente sfuggiva al loro sguardo. I serpenti erano riusciti a scoprire metodi per sbucare all'improvviso e spaventare anche il più temerario degli uomini.

Ogni volta che gli uomini rimuovevano il blocco, il tubo veniva di nuovo tappato, finché un giorno gli uomini non vennerò più. Nessuna macchina venne a rimuovere il blocco, e di lì a poco risultò evidente che il tubo non conteneva più la fanghiglia puzzolente, come se fosse stato in qualche modo dismesso. Gli uomini se n'erano andati, e le tribù dell'ansa del fiume erano restate lì dove si erano stabilite. Tutte insieme.

 
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from ordinariafollia

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Solo un'altra legge di questa dimensione che per noi dispone attrazione o repulsione.

Così che faccia a faccia siamo uniti che tra i nostri corpi non passa d'aria un filo, così che nuca a nuca siam distanti che l'uno tiene l'altra in sospensione contro la gravita contro la ragione.

Solo un'altra legge di questa condizione al pari di quella che straccia i nostri corpi giorno dopo giorno.

Ma io t'amo nudo nella pioggia e scalzo e tu ami me sotto al sole con l'ombrello aperto.

 
Continua...

from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Suppergiù 6 anni fa, nella primavera del 2019, venne pubblicata su Nintendo Switch la conversione rimasterizzata di Final Fantasy X, originariamente uscito per PlayStation 2 nel lontano 2001. Il mio partner di allora era ed è un grande estimatore di tutto ciò che è videogioco di ruolo giapponese, mi invitò caldamente a procurarmi il gioco e farne il mio primo Final Fantasy, e io seguii il consiglio. Avviai il software a mente sgombra e senza aspettative, e fui accolto da questo filmato introduttivo.

Fra lo struggimento del sottofondo di pianoforte, la malinconia dei personaggi a bivacco in mezzo alle macerie, e l'unica linea di dialogo fuori campo al termine della clip, questo prologo incapsula egregiamente il nucleo tematico centrale che avrei esperito nelle successive ore di gioco: una storia di miseria e lutto, di flebili speranze, di rivolta contro la tradizione e l'aspettativa, di conoscenze perdute e recuperate dagli interstizi, di sguardi estranei e stranieri che proprio in quanto tali riescono a proclamare che il re è nudo, di un'epoca che finisce per lasciare spazio a un futuro gravido di incertezza. E tutto ciò sta già in quella battuta solitaria al termine della cinematica:

Listen to my story. This...may be our last chance.

Di sicuro, FF X è un'opera meno apertamente eversiva di quanto sarebbe stato Persona 5 nel 2016, ma era decisamente schierata in senso iconoclasta e libertario (e nel suo piccolo anche antirazzista), e non fu un caso se un annetto dopo, nei miei primissimi giorni da insegnante durante la DAD, feci analizzare da una classe proprio questa stessa cinematica, come caso studio di ritmo narrativo.

Saltiamo avanti di 4 anni, al momento in cui nel mondo primario il re si è denudato senza che alcuno osasse stupirsi: il momento in cui il regime sionista ha avviato in via definitiva il genocidio del popolo palestinese gazawo, protetto e foraggiato da questa schifo che chiamiamo Occidente democratico. In quei giorni dell'autunno 2023 io stavo aspettando con gioia che una compagnia di attoru gazawu giungesse in Italia grazie al supporto dell'APS Scighera (realtà davvero virtuosa a Milano Est), e già nei primi giorni di massacro nella Striscia è giunta la notizia che uno degli attori, Abraham Saidam, era stato ucciso dalle bombe israeliane; pochi giorni dopo, il mio coinquilino libanese ci ha informati che la sua amica giornalista Christina Assi era stata gravemente mutilata dal fuoco israeliano deliberato contro la sua troupe, che esibiva i suoi pass stampa ben al di là del confine nazionale. Già allora, per la prima volta nella mia vita di bianco benestante nel Nord globale, ho avuto la decenza di capire che queste stragi erano anche le mie stragi, che è doveroso sputare sulla “bandiera bianca e azzurra con la stella, perché là sotto c'è sepolta mia sorella” (parafrasando i Malasuerte Fi Sud, che lo dicevano già nel '21), e ho composto una lunga poesia in solidarietà alla Palestina resistente e a chi le è solidale. Non l'ho mai pubblicata, né credo oserò mai farlo, perché la fiammella di ottimismo nella strofa finale mi sembra trionfia e buonista, dopo due anni di strage e di rapina nell'impunità generale. E soprattutto, credo che nessun verso di supporto proveniente da una bocca bianca possa valere una lettera dell'ultima poesia del professor Rifaʿat al-ʿAriʿīr, ucciso dai macellai sionisti non molti giorni dopo Abraham Saidam:

If I must die, you must live to tell my story, to sell my things to buy a piece of cloth and some strings, (make it white with a long tail) so that a child, somewhere in Gaza while looking heaven in the eye awaiting his dad who left in a blaze— and bid no one farewell not even to his flesh not even to himself— sees the kite, my kite you made, flying up above and thinks for a moment an angel is there bringing back love If I must die let it bring hope let it be a tale.

L'arte mi (ci) aveva preparato alla vita, e davanti a vite indigene spezzate dallo stragismo fascista, in quel momento, sapevamo solo ascoltare le loro storie postume, quando ormai era troppo tardi.

Saltiamo avanti ancora di 2 anni: la soluzione finale in Palestina procede implacabile come lo fu quella contro i popoli indigeni del Nord America, fra le mattanze nella Striscia di Gaza e lo stato di polizia in Cisgiordania, il tempo è sempre più scarso, e sempre meno voci sopravvivono per difendere sé stesse. Ma forse qualcosa si è finalmente mosso, nell'Occidente putrescente, e il 22 settembre scorso abbiamo saputo far soffiare un minimo alito di autunno caldo contro le guglie di vetro e cemento dei grandi oligarchi: per qualche ora abbiamo osato bloccare tutto e dissanguare i protafogli dei nostri padroni, e per qualche minuto abbiamo osato, timidamente, spaccare tutto e rifilare qualche livido a chi di “mestiere” spacca la testa ai dannati della Terra per conto dei nostri padroni. E l'abbiamo fatto non meramente per il nostro interesse di inferiori entro la casta dominante degli Occidentali, ma perché non un solo chiodo vada a vantaggio del regime di Tel Aviv: se “ogni colpo sparato sul nemico sionista in Italia colpisce chi comanda”, allora ogni colpo sottratto al nemico sionista prolunga una vita palestinese.

Ma non ci possiamo fermare qui.

Lu compagnu della Global Sumud Flotilla stanno letteralmente portando avanti una mossa kamimaze non violenta: o il regime sionista lascia che la Flotilla attracchi a Gaza, e allora l'embargo si spezza per tutti e tutte, o dovrà ammazzare in un colpo solo molte più vite bianche (quelle che contano...) di quante i suoi propagandisti potranno giustificare, gli stessi propagandisti che a suo tempo ebbero un bel daffare per screditare i sacrifici individuali di Rachel Corrie e di Vittorio “Vik” Arrigoni. Ma questa scommessa funziona solo se, qui in Occidente, chi ha capito che il re è nudo ha il coraggio di insorgere ancora e ancora, e bloccare tutto finché chi comanda non avrà la tremarella a continuare a foraggiare il regime sionista. E in questa battaglia, Final Fantasy X, per come io l'ho esperito, è il racconto paradigmatico che ci fornisce una necessaria lettura mitica dello scontro storico: ogni persona fra noi può essere un Tidus, pronto a puntare il dito contro il marciume del mondo (che come l'immaginaria Spira del gioco, del resto, sprofonda in una spirale di necrocrazia); ogni persona può essere una Yuna e farsi pastore della protesta, sia brandendo in prima linea una bandiera di libertà, sia dispensando cure premurose a chi soffre per lacrimogeni e manganellate; ogni persona può emanciparsi dalla schiavitù mentale del pregiudizio introiettato, come Wakka, od offrire alla lotta la propria prospettiva unica determinata dal proprio margine, come Rikku. La cosa importante è non cedere alla falsa pacificazione che il nostro padronato ci propone, in tutto identica alla falsa pacificazione del ciclo di Sin propugnata dal culto di Yevon: il tempo è scaduto, Gaza è rasa al suolo, e noi non vogliamo una tregua di facciata. Vogliamo il disarmo dei sionisti, e poi di tutti i despoti. Noi vogliamo tutto.

Per cui, consapevoli che le storie di chi resiste ci servono disperatamente per fortificarci, per organizzare la nostra resistenza solidale e complice e per proteggere chi di noi cadesse in lotta (penso alla macchina repressiva che qui a Milano si è accanita contro i nostri “cuccioli del Settembre”), non ci limiteremo a leggerle e apprezzarle: dobbiamo farle nostre e riprodurle, e spezzare la spirale. È questa la dignità del sumud palestinese, è questo “restare umani”.

Che gli aquiloni volino e alti e accompagnino il trapasso dei nostri morti. Intanto, noi che viviamo, bloccheremo tutto.

 
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from I pensieri di Dado

Ho iniziato da molto poco a scoprire il vero potenziale del Fediverso, il mio primo contatto con quest'ultio è stato più o meno così:

scopro Mastodon  

“Massì dai perchè no, proviamolo”  

creo un account su livellosegreto

passano mesi e mesi senza che io abbia mai postato nulla

Una sera qualunque di un settembre 2025 qualunque mi torna in mente il mio account e penso:

“Ma io avevo un account Mastodon, vediamo se esiste ancora”

crecando Mastodon sul browser per effettuare l'accesso, trovo per puro caso la pagina wikipedia del Fediverso, dove sono elencati tutti i servizi.

Decido di aprire la pagina wikipedia, nella quale sono stato a leggere vita morte e miracoli del Fediverso per un'oretta buona

Risultato: in una sera ho creato nuovi account su Pixelfed, Lemmy, PeerTube, Friendica e riattivato quello di Mastodon.

 
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from Ore liete


Sì, in quei tempi agosto era ancora il mese delle ferie, il mese delle serrande abbassate in città, delle strade deserte e delle fabbriche chiuse. Non tutti potevano permettersi il mese intero, a non tutti era concesso (ne ho accennato lateralmente qui), ma un paio di settimane sì, quelle erano più o meno per tutti.

Probabilmente, non avrete voglia di cliccare sul link, riassumo: dopo due settimane, restavamo in villeggiatura senza mio padre, che doveva lavorare, e senza macchina per spostarci.

Agosto era ancora il mese della fine dell'estate, in quei tempi del riscaldamento globale non si parlava perché le avvisaglie sembravano ancora evanescenti; oggi non se ne parla abbastanza, ma non è questo il posto. E dopo ferragosto, in montagna, il tempo iniziava a cambiare, la piacevole frescura lasciava il passo, la sera, a un freddolino pungente, da mettere un giubbottino. Il cielo, solitamente limpido, diventava più tendente al grigio e più minaccioso, ma di una minaccia lieve, di pioggia improvvisa di montagna, spesso il cambiamento avveniva al tramonto.
Così era il tempo in quei giorni, in quegli anni. Il clima era come ce lo si aspettava, probabilmente i nubifragi non erano la norma al Nord e al Sud non si stava a maniche corte fino a novembre.

E in questo clima più plumbeo, e in un clima di vacanze che si avviano alla conclusione, sia per i villeggianti che per gli abitanti, restavamo per buona parte della settimana in tre: mia mamma e la sua prole. Non potevamo gironzolare in macchina, facevamo quel che una buona camminata permetteva di fare. Ce ne andavamo alla villetta comunale a raccogliere i ciclamini, per portarli a casa e metterli in un bicchiere, ma duravano pochissimo. Non li raccoglierei, oggi. Gironzolavamo per la strada che costeggiva il centro abitato, raccogliendo le more buonissime, oppure il rosmarino che cresceva anch'esso spontaneo ai margini. Lo raccoglievamo, più che altro, per mio padre: a noi non interessava granché, lui invece era un appassionato, quando c'era lui in giro non mancavano i canovacci abbondantemente ricoperti dai ramoscelli di rosmarino da seccare. Quando era secco, finiva in questi barattoli di vetro riciclati e sembrava dovesse durare in eterno, perché non ne facevamo un grande uso.

E queste erano tra le cose che facevamo, camminavamo, raccoglievamo, giocavamo sulle giostrine, ci dirigevamo a casa quando non eravamo coperti abbastanza da resistere alla frescura del giorno che invecchia, qualche volta accendevamo anche il caminetto, aspettavamo il fine settimana per essere di nuovo tutti e quattro.

Era tutto così semplice, era tutto bellissimo.

 
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from Flusso Inverso

La scatola del gioco

Schedina * Console: Game Boy * Anno: 1990 * Sviluppatore: Nintendo * Genere: Platform * Quanto ci ho giocato al primo giro: 1 ora e un quarto

Lo spunto è di quelli irresistibili: Alice e Jim sono due bambini che vivono in una città in cui in cielo ci sono le nuvolette, i grattacieli sono matite (giuro: Wikipedia dice che si chiama Pencilvania, spero sia vero) e ci si diverte tutto il giorno con i palloncini. Il problema è che Jim, ragazzo sveglio ma non troppo, decide di strafare e di mettere insieme un sacco di palloncini e di attaccarcisi... così comincia a svolazzare, e il vento se lo porta via. Tocca ad Alice andare a recuperare il fratello, a sua volta svolazzando per otto livelli, tenendo in mano due palloncini (ne bastavano due per divertirsi nel cielo, a quanto pare).

Basta la premessa per capire dove voglio andare a parare: Balloon Kid è semplicemente fantastico. Per quanto mi riguarda, rappresenta tutto ciò che amo in un platform: la relativa semplicità, la grafica tonda e vivace, la curva di apprendimento estremamente dolce. L'avrete capito anche dai miei post precedenti, probabilmente: non amo necessariamente la sfida, in un platform.

Un bel problema

È una cosa che ho realizzato da adulto: non mi hanno mai appassionato particolarmente i platform in cui è necessario azzeccare il salto con precisione millimetrica: bello Super Meat Boy, ma, come si dice, forse non è il mio. Al contrario, trovo delizioso e quasi terapeutico controllare questi piccoli personaggi in un mondo colorato e nel quale mi piacerebbe fare una passeggiata. Il mio gioco di Super Mario preferito è Super Mario Land 2: 6 Golden Coins, dopotutto: quello facile grazie al power-up della carota.

Balloon Kid ha molto di quel modo di pensare i platform (d'altronde credo condivida un pezzo importante di DNA). I controlli sono precisi ma non troppo, perché in fondo stiamo parlando di un platform in cui la protagonista può fare solo le seguenti cose: fluttuare per aria attaccata ai suoi palloncini, mollare i palloncini per affrontare brevissime sezioni a terra, gonfiare palloncini per risalire nel cielo verde dello schermo del primo Game Boy. Non risultano altre azioni: non si spara, non ci sono power-up, e non ci sono molti salti. Ci sono i palloncini e le nuvolette, e ostacoli come fulmini, uccellini e polpi che saltano fuori dall'acqua, mentre i livelli scorrono da destra verso sinistra ed Alice con loro.

Personalmente adoro i platform su Game Boy perché, con così pochi tasti a disposizione, gli sviluppatori non hanno modo di complicare (spesso inutilmente, ma dipende dai gusti) le cose. È l'essenza del gioco che deve funzionare bene: la fisica del salto, i tempi di risposta degli attacchi, la dinamica dell'accelerazione nella corsa. Balloon Kid, grazie al cielo, azzecca completamente l'unica sua grande meccanica: il fluttuare nel cielo. La prima metà del gioco ti permette di andare veloce, e poi, dal quinto livello in avanti, il gioco ti richiede di essere preciso. Di dosare la pressione del tasto A (con il quale Alice muove teneramente le braccia) e di passare indenne attraverso ostacoli sempre più complessi – ma non troppo. Ci sono anche le boss fight: tre botte in testa ai cattivi, e via.

Pencilvania!

Il gioco è mediamente facile e si finisce in un'ora, un'ora e un quarto. Ma stiamo parlando di un'oretta in cui ci è permesso indossare i panni di una bambina attaccata a dei palloncini, che attraversa un mondo di matite-grattacielo, templi, temporali a zone, montagne e oceani per salvare il suo fratellino, sfidando la sorte, il vento, la pioggia e gli uccellini. È un'ora gentile.

Se Balloon Kid ha un pregio è quello di ricordare a chi gioca che non serve sempre spingere, correre, ottimizzare: a volte basta restare sospesi il tempo giusto, fidarsi della brezza e tenere stretti i propri due palloncini.

Tags: #GameBoy #Nintendo #retrogaming #BalloonKid

 
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from Flusso Inverso

Questi sono stati i primi due articoli pubblicati sulla versione originale di Flusso Inverso, questo mio viaggio attraverso la prima library del Game Boy originale (ma pure Color, dai!). Li ripropongo qui per completezza, in attesa di pubblicare i nuovi pezzi che ho scritto su Balloon Kid e altri

Trip World e il privilegio dei sogni gentili

Schedina * Titolo: Trip World * Piattaforma: Game Boy * Anno di uscita: 1992 (Giappone), 1993 (Europa) * Sviluppatore: Sunsoft * Publisher: Sunsoft * Genere: Platform * Quanto ci ho giocato al primo giro: 2 ore

Mi sono avvicinato a Trip World scegliendolo a caso dalla lista di titoli emulabili dalla mia Anbernic. Non avevo idea di cosa fosse, ma devo dire che il delizioso filmato di apertura mi ha convinto a dargli una possibilità. A onor del vero, ancor prima di premere start ero pronto a cercare informazioni relative al gioco su Google, ma ho voluto evitare: se rigiocare questi vecchi giochi è un antidoto contro il caos, allora bisogna fare alla vecchia maniera. Premendo start, appunto, e non consultando uno smartphone.

E se decidiamo di iniziare giocare, scopriamo che Trip World è un gioco di Sunsoft, un team di sviluppo che mi è capitato varie volte di incrociare da bambino, perché avevo il gioco di Batman e uno di Daffy Duck – vado a memoria, senza controllare online. Erano tutti graficamente deliziosi, specie su un hardware limitato come il Game Boy, e Trip World non fa eccezione — anzi, spicca.”

Dal punto di vista visivo Trip World è proprio un bel gioco. Gli sprite del protagonista e delle creaturine “nemiche” sono ricchi di piccoli dettagli e di grande espressività, mentre gli sfondi sono particolareggiati e riescono a raccontare un piccolo mondo anche senza l’utilizzo di alcun testo. Nessuno parla, in Trip World: zero linee di dialogo, a parlare è solo quello che viene rappresentato a schermo. Il sonoro, poi, è splendido.

Trip World è un gioco estremamente semplice, almeno da un punto di vista concettuale: è un classico platform dell’era Game Boy, con tutti gli elementi che conosciamo. Cinque livelli (o “mondi”, come li chiama il gioco), scorrimento orizzontale, mascotte dolce e che vorresti immediatamente abbracciare, tanti salti, abilità di combattimento limitatissime, alcuni power-up che si possono raccogliere in giro e qualche enigma ambientale.

La cosa particolare, che ha reso Trip World una specie di piccolo cult (l’ho scoperto dopo averlo terminato, quando ero troppo curioso di capire quanto fosse conosciuto), è che il 90% dei nemici (ma perché poi, se non ti attaccano?) del gioco non ti attacca direttamente. Al massimo ti ostacolano leggermente spingendoti via.

È un approccio insolito, ed è insolito che non sia una gimmick roboante da comunicato stampa: non te lo dice nessuno, all’interno del gioco, lo noti e basta. Complice il fatto che il protagonista può, almeno inizialmente, solo sferrare un calcio con quelle sue piccole, adorabili gambette corte, ci si accorge presto che queste creaturine… si fanno gli affari propri. Al giocatore la scelta: li picchio o me ne vado per la mia strada?

Dimenticavo! Il protagonista può anche trasformarsi in un simpatico pesce, per superare le sezioni acquatiche (volendo si trasforma anche sulla terraferma, ma… non serve a niente!), e in una specie di forma adatta al volo, che nella mia sessione non ho mai utilizzato.

Il gioco è tutto qui. Dura meno di un’oretta, forse un po’ di più se si vogliono scoprire tutti i segreti. Si può riassumere in poche parole: platform bello da vedere e da sentire, e rilassante da giocare. Allora perché parlarne?

Perché Trip World, con la sua estetica dolcemente psichedelica, ha la rara capacità di isolare chi ci gioca dal mondo esterno. È un piccolo mondo che sembra vivere per conto proprio, slegato quanto basta dalle dinamiche classiche del videogioco anni ’90 per dimostrare originalità senza tuttavia risultare alieno al giocatore.

È un gioco semplice nella migliore accezione del termine, che si concede il lusso di provare a far sognare, almeno per un paio d’ore, chi decide di mettersi a giocare. Lo fa, oltretutto, con i pochissimi mezzi a disposizione concessi dall’hardware del Game Boy.

Una persona che stimo molto mi disse che “è un privilegio avere sogni educati”. Non so bene perché, ma nel giocare a Trip World ho pensato che avesse proprio ragione.

Una birra con Felix The Cat

Schedina * Console: Game Boy * Anno: 1993 * Sviluppatore: Hudson Soft * Genere: Platform * Quanto ci ho giocato al primo giro: 1 ora e mezza

Nel far partire il gioco di Felix The Cat per il Game Boy mi sono reso conto di non sapere nulla di Felix, il personaggio. O meglio: lo riconoscerei tra mille perché ha un design bellissimo, tondo ed espressivo, ma non so esattamente in cosa consista il suo cartone animato.

La cosa è strana, perché io adoro i cartoni animati, specie quelli della prima metà del ‘900. Eppure, pur avendone visti tanti, non ho quasi mai incrociato sul mio cammino il buon (?) Felix. Sono andato a cercare su YouTube qualche spezzone e credo francamente che sarà la mia prossima ossessione per le settimane a venire. Ho già adocchiato un video di mezz’ora che parla dei 100 anni di evoluzione del personaggio.

Però, insomma, anche non sapendo nulla di Felix devo dire che il suo gioco per Game Boy è assolutamente comprensibile: Felix è un gatto antropomorfo e l’antagonista del gioco rapisce la sua fidanzatina Kitty. A lui toccherà attraversare sei mondi, suddivisi in un paio di livelli ciascuno, per salvarla.

Tecnicamente non c’è moltissimo da dire su un gioco come questo (sospetto che in questo viaggio nella library del Game Boy mi capiterà spesso di ripetere variazioni di questo paragrafo, ma tant’è). Si salta sulle piattaforme e si colpiscono nemici, partendo da sinistra e andando verso destra. Lo spin che il gioco offre alla classica formula del platform anni ’90 è che, raccogliendo la valuta del gioco (le monete con la faccia triste di Felix), il nostro protagonista potrà accedere a diversi power-up, che si accumuleranno uno dopo l’altro.

Questi power-up fanno sì che Felix acquisisca due vantaggi rispetto alla sua forma base: in primo luogo, potrà sopportare più colpi nemici (che lo faranno regredire al power-up precedente e non perdere immediatamente una vita). Inoltre, questi power-up gli permetteranno di diventare… un sacco di cose a seconda del contesto, come una specie di bolide e un tank, consentendogli di sparare dei colpi forti ma imprecisi, come da tradizione dei platform.

Ci sono poi dei livelli maggiormente accostabili agli sparatutto a scorrimento orizzontale dell’epoca piuttosto che ai puri platform, secondo me i più riusciti – specie il livello acquatico e quello spaziale, che sono davvero deliziosi.

Mi rendo conto che non sia esattamente un resoconto entusiasmante, eppure mi sono divertito tantissimo a giocare a Felix The Cat. La grafica è una delle più belle che abbia visto su Game Boy e riesce a trasmettere perfettamente la sensazione di stare giocando a un cartone animato, al netto delle limitazioni tecniche degli 8-bit e della monocromia. Le musiche, semplici e allegre, sono pronte a essere fischiettate. La fisica del salto funziona molto bene per il tipo di gioco immaginato dagli sviluppatori, e la difficoltà tarata verso il basso rende il gioco una buffa scampagnata in un mondo pieno di cose tonde.

Come in anni recenti ci ha insegnato Cuphead, infatti, l’estetica visiva e sonora da cartone animato dei primi del ‘900 funziona meravigliosamente se applicata ai platform e agli shooter a scorrimento. Non c’è un elemento in Felix che sembri fuori posto, non c’è un fondale che non sia immediatamente riconoscibile (e adorabile, per quel che mi riguarda). Ogni animazione riesce a far sorridere e a catapultarti in un mondo colorato e pieno di avventure bislacche.

È un gran gioco, quindi? Probabilmente, per gli standard con cui abbiamo stabilito che andrebbero recensiti i videogiochi, no: è estremamente semplice, e si finisce in un’oretta o poco più. Il senso di inferiorità degli appassionati di videogiochi rispetto ad altre forme d’arte dovrebbe relegarlo a un “carino, ma nulla più”.

Eppure non riesco a non amare questo Felix The Cat. È una questione di sensibilità personale, probabilmente, e di mia riluttanza verso gli standard di cui sopra – quelli per i quali tutto deve essere profondo, coinvolgente, entusiasmante. Felix non è profondo, non è coinvolgente, e non è nemmeno entusiasmante. È simpatico e intraprendente, quello sì.

Il punto, in fondo, è questo: Felix fa quel che può. Nello specifico corre, salta, spara e prova a salvare Kitty. Se si ha voglia di accompagnarlo, però, si scopre che è come prendere qualcosa da bere con un amico che vedi ogni tanto – non troppo spesso, magari.

A volte non serve altro, per stare bene.

Tags: #GameBoy #Retrogaming

 
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from kipple


Mio padre, alle medie, mi disse che mi avrebbe comprato il motorino, al compimento dei quattordici anni, così ci sarei potuto andare a scuola. Non era l'indirizzo scolastico che avrei voluto scegliere, non era neanche tra i primi dieci, ma la sede era abbastanza lontana.

Ho iniziato le superiori a tredici anni, i mesi passavano, io fantasticavo sul motorino, sul suo colore. Nello specifico, la promessa era quella di una Vespa, in quel periodo ne era uscito un restyling che aveva portato le marce a tre, ma la questione tecnica non mi interessava particolarmente: tre marce, quattro, volevo solo andarmene in giro sulla mia Vespa rossa; intanto, i mesi passavano e la Vespa sembrava allontanarsi sempre più. La promessa della Vespa era un tentativo (poco nascosto, ma riuscito), di tenermi lontano dalla bicicletta che avevo sempre chiesto.

Gli anni delle superiori passavano, “tanto a diciotto anni prendi la patente e ti prendo la macchina”. Chissà quale sarebbe stata la progressione: la bisarca a ventuno e il tram a venticinque. Cosa mi aspetta al compimento dei cento anni? Il Millennium Falcon, almeno.

Non so guidare il motorino, credo, non ho motivo di credere diversamente, non ho mai avuto modo di provarci. Neanche la bisarca e l'aliante. Premetto di esser nato nella parte fortunata del mondo, tant'è che sto qui a scrivere sciocchezze per potenziali lettori in condizioni analoghe.

Non sto scappando da una guerra, sotto il fuoco incrociato dei proiettili di qualche guardia costiera e quello del razzismo di chi vuol trincerarsi nello status privilegiato, regalatogli dal caso. Nessuno mi sta bombardando nel nome di certe pretese contenute in un libro “sacro” di decine di secoli fa, tutte parole scritte dai suoi stessi antenati. Non sto morendo letteralmente di fame e l'acqua la posso prendere da uno dei rubinetti che ho in casa, oppure alle fontanelle pubbliche. Premesso ciò, sono nato e ho vissuto troppo a lungo in un posto orrendo (secondo i canoni di chi è nato nella parte fortunata del mondo), senza aver avuto il coraggio e l'intelligenza di fuggire quando ne avrei avuto la possibilità e la forza. Una cittadina di medie dimensioni, brutta come la fame, la stessa bruttezza che ne impregna troppi abitanti. Una di quelle terre di mezzo, per popolazione e dimensioni, sospesa tra paese e città, con tutti i difetti di entrambi e nessuno dei pregi. Il caos, il traffico e il cemento abusivo della città e l'aridità culturale di un paesotto in disfacimento, animato a morte da mentalità da età del bronzo.

Un posto così brutto, una quella bruttura che viene anche dall'assoluta mancanza di personalità, di un qualsiasi tratto riconoscibile nell'ambiente antropizzato (perché di quello naturale non c'è granché da dire, si tratterebbe di fantasticare su cose che non esistono). Una sensazione di squallore diffuso, ecco; neanche a dirlo, tutte le cittadine confinanti, pur soffrendo in diversa misura degli stessi problemi, erano sicuramente più piacevoli alla vista. Tutti posti in cui era più sensato, umano, trovare un posto dove fare una passeggiata, fermarsi a un bar, mangiare un gelato.

Il caso sfavorevole ha voluto, quindi, che nascessi nell'epicentro della bruttura. E che ci vivessi, perché i miei in quella bruttura ci sono andati a vivere intenzionalmente, è stata una scelta. Nessuno dei miei antenati è nativo del posto, valli a capire.

A parte un paio di eccezioni, nella mia cerchia di amicizia eravamo tutti morti di fame, l'unico modo per evadere temporaneamente era saltare su un autobus o camminare fino alla stazione e andarcene in un paese confinante. A Napoli, quando avevamo voglia di qualcosa di livello superiore, quando volevamo vivere la metropoli. Il treno ce lo concedevamo quando avevamo i soldi per il biglietto, per l'autobus ci affidavamo alla bontà del conducente o al caso, sperando che non salissero i controllori e ci facessero scendere. Non era un gran danno, potevamo aspettare il prossimo mezzo o camminare, avevamo la vitalità strabordante dei ragazzi, i piedi buoni e nessuna paura di usarli. Così riuscivamo a sfuggire, per qualche ora, alla desertificazione esistenziale che ci assediva, prima di finire di nuovo risucchiati dalla sua devastante attrazione gravitazionale.

Il motorino, però, era tutt'altra cosa. Quanto era potente il concetto “ora prendo il motorino e me ne vado a Napoli”. Non è una domanda, non sto chiedendo di quantificare: era potentissimo. Non si doveva dar conto a nessuno, autisti e controllori compresi, non si doveva aspettare, c'era solo da sfrecciare e vincere sul traffico. L'unico ostacolo erano i temuti vigili, perché c'era sempre qualcosa che non era in regola. Anche se quella cosa non c'era, l'essere in difetto era uno stato dell'anima, anche in quei tempi abbastanza laschi da non imporre neanche il casco. La fobia, a prescindere, del posto di blocco.

Questa libertà l'ho vissuta solo da passeggero, cosa che mi pone in un sistema di caste mi porrebbe un gradino più in basso. O una persona di serie B, con una più modesta metafora calcistica. Sì, inconsciamente si fa questa distinzione tra guidatore e passeggero, specie negli anni delle scuole.

Sia quel che sia, ogni occasione di scappare da certe realtà è un'occasione perduta. A piedi, in Vespa, in bisarca, perchè no? Anche in Millennium Falcon, dalla metà del sellino destinata al passeggero.

 
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from Note a margine

23 della psicologia dellle forme apparenti (aforismi apocrifi di Leonardo da Vinci)

Caro istante

Per iniziare, darti la grazia per dedicare il tuo tempo, mio stimato e disinteressato lettore. Scrivere é una faccenda personale, si scrive per mettere ordine quando le idee sono confuse o per condividere convinzioni o proclamare certezze.
Nel mio caso non ho certezze da difendere perché la mia formazione di scienza mi induce a cercare le soluzioni migliore seguendo prove ed errori. Non difenderei fino alla morte le mie convinzioni perché potrei essere in errore, per questo apprezzo le differenti opinioni, perché possono arricchire le mie conoscenze, farmi cambiare la visione delle cose e raggiungere nuove conclusioni.
Fino a qui sono arrivato, solo con l'aiuto di altri potrei fare progressi, non ho una opinione in proposito, solo una avvertenza: non farti ingannare lettore da chi promette una unica e vera risposta.
La veritá é che le cose cambiano continuamente e le premesse errate ingannano i sensi.
Non c'é una unica risposta perché nessuno si pone le stesse domande, siamo figli del caso, non scegliamo i nostri genitori anche se abbiamo la opzione di scegliere con chi condividere parte del nostro cammino in questa esistenza, rimaniamo mammiferi limitati dal nostro ciclo di obsolescenza programmata.
Siamo animali sociali, nemmeno abbiamo un nome, questo ci viene imposto dai nostri ancestri biologici alla nascita, abbiamo un cognome perché ci viene imposto come atto normativo dai tempi della societá borghese, per arruolarci nel libro paga salariale e poter contrarre prestiti e legami sociali di altra forma. Ci insegnano dalla nascita il nostro ruolo, diritti e doveri, socializzamo con il gioco prima di terminare intrappolati in relazioni sociali protocollari e formali.
Ti fanno credere che esiste un progresso solo perché abbiamo piú conoscenze ed innovazioni tecnologiche, ma le barbarie continuano ad esistere anche in questo secolo di civiltá occidentale. Ti fanno credere che esiste un progresso, una crescita continua, in realtá ogni sistema si crea, si trasforma e si distrugge per trasformarsi in qualcosa di differente fondato sunnuove premesse ed acquisizioni, a questo servono le guerre, a mantenere in moto la economia di chi é incapace di soluzionare i conflitti con la diplomazia. Non ti stupisca la ingiustizia, se é vero che la legge é da rispettare, non tutte le leggi sono giuste.
Solo da vecchio avrai la saggezza di cui avresti avuto bisogno per fare le scelte giuste quando eri giovane. Ci sono cose alla base di cui dimentichiamo la esistenza, come respirere, camminare, osservare ed ascoltare.
Ci perdiamo nei pensieri del dopo, ricordando quello che era prima, per questo non abbiamo percezione di adesso, distratti dai troppi pensieri.

 
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from kipple


Da tempo avevo deciso di scrivere, in maniera diffusa, del mio rapporto, una volta conflittuale, con Napoli e provincia, posti dove sono nato, vissuto per troppo tempo e dove ho iniziato a morire.

Avevo anche cominciato in una bozza, qui, ma ho capito presto che ne sarebbe scaturito un flusso di coscienza lunghissimo e sconclusionato, difficile da scrivere per me e difficile da leggere per chiunque. A che pro? Ho risolto quel rapporto conflittuale: Napoli, con relativa provincia, non meriterebbe più neanche un secondo della mia vita o un neurone del mio cervello, tuttavia le ferite aperte sono troppe e non è possibile cancellare a comando settori della memoria. Da quella bozza ricaverò qualche articoletto da pubblicare di tanto in tanto, immaginando eventuali lettori immedesimarsi o meno in quelle situazioni, ravvisarne o meno problemi analoghi in altre aree geografiche; riassumo, intanto: ci sono modi molto più produttivi per sprecare tempo.

Napoli è una città bellissima, paralizzata dalla vitalità straordinaria e incanalata male di parte della popolazione. Napoli non ha speranza e sopravvive senza spiegazione.

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_026-2025.jpg

Portami il caffè a letto se vuoi ma non donarmi il tuo cuore dammi retta, so bene che puoi ma tienilo che ti potrà servire se non altro per campare.

Scrivimi con le dita parole sulla schiena mentre io provo ad indovinare se il tuo amore è più grande del mare ma tienilo, in ogni caso almeno un bicchiere solo per te.

Portami il caffè a letto se vuoi ma non darmi tutto il tuo amore dammi retta, so bene che puoi ma tienilo che ti potrà servire se non altro per continuare a fare quello che ti pare.

 
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from Rob's cabinet of mboh?

O quella volta che un Cretino di Crescenzago, un ranocchio di vetro e una tigre di pezza, in bilico tra nostalgia e speranze, cercarono di ricreare l'humus adatto per giocare strani Giochi di Ruolo nel Fediverso e tirarono fuori un hashtag poco comprensibile ai più.

Se volete risparmiarvi i miei deliri e andare subito al sodo, ⬇ ⬇ Qui ⬇ ⬇ trovate il TL;DR di questo post.

In principio fu la Forgia

In un tempo remoto, almeno così si dice, alcune persone coraggiose decisero di ribellarsi alla tirannia dei draghi capitalisti e palazzinari dal gusto finto-medievale. Nella loro cerca salvifica decisero di edificare una Forgia che potesse fornire all'umanità gli strumenti per debellare i giochi brutti che per essere giocati necessitavano di un dozzilione di costosi supplementi, manco fossero le uscite di Esplorando il Corpo Umano senza neanche il modellino per futuri chirurghi e/o serial killer in omaggio.

L'umanità quindi si riunì, guardò alla Forgia e le sorrise amorevole.

Non rompeteci i coglioni, noi vogliamo D&D, la regola d'oro, le avventure pre-generate, i venti milioni di manuali che ripropongono sempre lo stesso gioco... E non provate a dire che un gioco senza GM, dadi e crescita numerica dei personaggi è un gioco di ruolo, luridi cani hippy! linea di un fumetto che partendo dalla citazione qui sopra punta verso l'immagine qui sottouna donna dall'espressione inquietante armata di torcia e forcone

angry mob” by hans s is licensed under CC BY-ND 2.0 .

(Nerd e geek in fondo sono sempre persone ragionevoli)

Principiò dunque a lapidarla e, quando le braccia indolenzite non le permisero più di dar seguito alla giusta indignazione, si disperse per tornare alle proprie case a giocare a D&D.

Dentro la Forgia calò un po' di mestizia – girarono perfino voci di danni cerebrali – ma questo non fermò i loro sforzi. Non tutto era perduto; un piccolo, minuscolo, gruppo tra coloro che evidentemente avevano scelto di non iscriversi a ingegneria non aveva mosso loro violenza e anzi sembrava perfino annuire alle loro parole. La speme non era ancora morta.

Poi successero altre cose, credo; non penso siano importanti al fine del racconto e poi me le sono dimenticate e come sarebbe a dire che siamo nel 2025, l'ultima volta che ho controllato era il 2012 e avevamo tutta quella storia del calendario Maya a preoccuparci e...

Abe Simpson seduto su un tronco che racconta una storia ai bambini attorno

“Dai nonno, raccontaci un'altra storia”
“Non vi abbasta mai” (cit)

La vera storia in breve

The Forge fu un forum rivoluzionario nato al cambio di millennio, dentro al quale si gettarono le basi per la maggior parte dei GdR indie moderni, in aperto contrasto col paradigma dominante di quelli che amiamo definire Giochi di Ruolo “tradizionali”.

A distanza di venticinque anni la maggior parte delle persone continua a giocare i giochi più mainstream, con il solo D&D che occupa la quasi totalità dello spazio all'interno di questo hobby; se però the Forge è nata è perché comunque, dispersa nel mare magnum di internet, c'era un po' gente a cui il mondo così com'era cominciava a star stretto e per farla breve da allora esiste una nicchia di strani giochi indipendenti che, pur rimanendo marginale, nel corso degli anni ha assunto sempre più peso. Essere una nicchia minoritaria all'interno di una nicchia solo un po' più grande però comporta dei problemi, in particolare riuscire a trovare altre persone della tua tribù con cui giocare. Un'impresa il più delle volte disperata, ma per fortuna internet è giunta in soccorso di chi non riusciva a trovare anime ludiche affini attorno a sé.

Nel più classico degli effetti domino, in Italia la rivoluzione messa in moto da The Forge portò alla creazione di un forum chiamato Gente Che Gioca, in cui si poteva discutere di quegli strani giochi che cominciarono ad arrivare anche qui da noi grazie a Narrattiva e ad altre case editrici indipendenti più piccole che si aggiunsero nel corso degli anni, ormai purtroppo per la maggior parte cadute come mosche.

Fu però quando Google provò a fare concorrenza a Facebook col suo google+ che le cose cambiarono notevolmente per il gioco online: le Communities tematiche e gli Hangouts che permettevano di fare chat video con più persone in contemporanea di quanto permettesse skype gratuitamente erano la combinazione perfetta per popolare di una nutrita comunità di giocatorɜ indie un social che veniva percepito da moltɜ come una città fantasma in quella che in realtà fu un'esagerata profezia auto-avverante. Nacque così la Community Gente Che G+ e finalmente in tantɜ cominciarono a giocare con altra gente dai gusti simili.

Back to the Future

o vedi che ti combinano dei pisquani con troppo tempo libero

Questo raffazzonato excursus nel passato più o meno spiega l'origine del cacofonico hashtag #GenteCheFediGioca – scusateci, ma almeno io a trovare dei nomi sono una pippa e morirò prima di chiedere aiuto a chatGPT 😅

Il perché l'abbiamo tirato fuori invece dipende da una conversazione su Livello Segreto con @cretinodicrescenzago e @lvl3GlassFrog, quando parlando di giochi che ci sarebbe piaciuto provare è nato l'insano proposito di riportare qui sul fediverso lo spirito di Gente Che G+. O morire provandoci (credo, in realtà non mi pare che alla fine si fosse accennato a un patto suicida ma sono anziano e potrei sbagliarmi).

Al momento abbiamo cominciato in piccolo tentando di organizzare qualche giocata inter nos direttamente su XMPP, ma OMEMO, severo dio della crittografia e della sincronizzazione, non ci è stato favorevole, scacciandoci con infamia e ignominia tra le braccia di un Discord ben felice di intrappolarci nel suo recinto proprietario.

Pazienza, non si può vincere tutte le battaglie; l'antico vaso andava portato in salvo, c'erano le cavallette, eravamo in crisi d'astinenza... non giudicateci por nuestra vida loca, l'importante era cominciare a giocare.

L'ambizione però è un po' più grande del ritrovarci giusto noi tre una volta la settimana o giù di lì: anche se non abbiamo ancora idea di come fare e quali piattaforme sarebbe meglio utilizzare, se fonderemo una band che raggiungerà il successo in breve tempo per poi bruciarsi quando cominceremo a drogarci pesantemente, idealmente ci piacerebbe trovare un modo per far incontrare chi vorrebbe giocare di ruolo ma ha gusti un po' diversi dal mainstream. Soprattutto vorremmo che sia nel fediverso, lontano da recinti proprietari in cui devi iscriverti a qualche canale anche solo per poter vedere che cosa si dice da quelle parti - sì, sto pensando principalmente alla piaga di Discord utilizzato come forum/wikipedia che è una cosa che ho sempre odiato e... ok, la smetto con le lamentele da vecchio.

Sì, ma quindi cosa giocate voi hippy abbraccia-alberi con le vostre sigarette allegre?

Come potete intuire, l'idea di fondo è appunto esplorare l'immenso mondo ludico che c'è oltre l'ingombrante montagna di D&D. Io e CretinoDiCrescenzago seguiamo il lato indie della Forza (qualsiasi cosa significhi), mentre GlassFrog ama particolarmente l'OSR.

Beninteso, questi sono i giochi che piacciono a noi tre ma chiaramente, se la cosa prendesse davvero piede, niente vi vieterebbe di proporre quel che più vi aggrada e giocarlo con altre persone interessate. Però ecco, diciamo che se finiste a giocare coi sottoscritti, è lecito che vi aspettiate di trovare qualcosa di molto più matto in culo di, che so, Vampiri.

Per inquadrarci meglio, ecco cosa abbiamo giocato nelle due one-shot che siamo riusciti a fare finora:

La Storia al Microscopio

Il primo incontro ci è servito prevalentemente a capire cosa provare e nel poco tempo rimasto abbiamo improvvisato una partita a Microscope di Ben Robbins, un gioco di ruolo frattale in cui raccontiamo la Storia (proprio nel senso di Historia, non di racconto) di un concetto che a inizio partita decideremo di esplorare, muovendoci nel corso della partita avanti e indietro nel tempo, zoomando come più ci aggrada tra Periodi, Eventi e Scene.

screenshot della partita a Microscope, con una serie concatenata di Periodi, Eventi e Scene

Nel caso dei vostri tre amichevoli pisquani del fediverso, le cronache riguardavano la caduta e la riunificazione di un impero accentratore

Non starò a parlarvi del gioco in dettaglio (magari vi ammorberò in futuro quando mi tornerà la voglia di riprendere a scrivere qualcosa su Log), ma già questo dovrebbe bastare a darvi un'idea di quanto strano sia.

A più di un anno di distanza dall'ultima partita (fatta sempre grazie a Livello Segreto con @janawhoopwhoop e @raxaes) c'è voluto un po' a perché riprendessi la mano, tant'è che alla fine siamo riusciti a fare giusto un giro completo del tavolo, ma alla fine l'importante è essere riusciti a far partire il tutto.

Fotogramma di Frankenstein Junior con Gene Wilder in primo piano con gli occhi spiritati

Ma allora... Si! Può! Fare!

i PisCani sbirri della Fede

Al secondo appuntamento GlassFrog ha facilitato Cani nella Vigna, gioco “giovanile” di Vincent Baker, l'autore del ben più celebre Apocalypse World.

illustrazione in bianco e nero di una fanciulla armata di revolver che si nasconde dietro delle botti da una figura minacciosa in controluce, anch'essa armata

Qui qualcunə ha voluto escalare la situazione

(illustrazione del manuale italiano di Claudia Cangini linkata direttamente dalla rete, che trovarne una è un'impresa)

Qui lascio che siano le parole di CretinoDiCrescenzago a descrivere il gioco in 500 caratteri:

Post by @cretinodicrescenzago@livellosegreto.it
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(mi sa che l'embedding dei toot pubblici silenziosi non li fa vedere direttamente, quindi vi tocca aprirlo)

Mettermi nei panni di una giovane sentinella della fede nel vecchio west è stata un'esperienza abbastanza straniante per quanto distante dalla realtà fosse, ma ammetto che più si ingranavamo e più il gioco mi ha preso.

È un peccato che il sistema dei conflitti utilizzato non sia stato più ripreso da altri giochi, che è decisamente interessante e non mi dispiacerebbe riaverci a che fare. Certo, richiede una quantità spropositata di dadi o tanto lavoro di annotazione dei risultati, ma per fortuna avevamo dalla nostra Tabletop Simulator e potevamo spammare dadi in quantità industriale... per una volta godiamoci uno dei pochi vantaggi di giocare online 😅

Uno sguardo nel futuro

Ovviamente abbiamo una lunga lista di giochi da provare quando riprenderemo a settembre.

Di alcuni, come Damn the Man, Save the Music! o House of Reeds ho già scritto qualcosa qui su Log; in futuro spero di aggiungerne altri (come quel Microfiction che spammo sempre), mentre altri ancora li lascerei descrivere direttamente a GlassFrog, che l'OSR non è proprio my cup of tea... 😅

In ogni caso sappiate che tra quel che il vitreo ranocchio vorrebbe giocare trovate Ultraviolet Grasslands, Vaults of Vaarn, We Deal in Lead o Cloud Empress.

Sì, ma alla fine che volete da me?

⬆ ⬆ No dai, non volevo saltare tutto, riportami all'inizio del post ⬆ ⬆

Ma niente; se ti piacciono i GdR pazzarielli che i Nerd Alpha perculano perché deviano dall'ortodossia D&Diana ma non hai con chi giocarli, se semplicemente odi D&D e vuoi fare piangere i Nerd Alpha, o se questo papello ha stuzzicato la tua curiosità e vuoi provare 'ste robe strane che citiamo, tieni d'occhio l'hashtag #GenteCheFediGioca, e incrocia le dita che se gli dei della forgia ci arridono magari riusciamo a dare vita a qualcosa di bello e far giocare un po' di gente qui sul fediverso :)

 
Continua...