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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Premessa linguistica: in questo articolo userò le parole “froci-”, “ricchion-”, “invertit-” e affini come insulti riappropriati, cioè termini derogatori che io ribalto in termini di auto-elogio, per rimarcare la mia anormalità di persona non eterosessuale rispetto a una “normalità” che rifiuto in quanto malsana. In questo senso, si tratta dell'adattamento italiano del vocabolo inglese queer, che ha dietro lo stesso identico etimo.

Un lunedì mattina come tanti

Da quando mi sono trasferito dalla Brianza a Milano (o dovrei dire “da quando sono emigrato”? A volte me lo chiedo), ho iniziato a fare attività sociale e politica, e nelle ultime tre settimane circa ho contribuito con il mio pezzettino a far succedere un progetto cui tenevo tantissimo: la Marciona di Milano, ovverosia il corteo dell'orgoglio ricchione auto-organizzato dai gruppi politici froci di sinistra, in opposizione aperta a un Pride comunale che ormai è diventato un mega-evento turistico di pubblicità per grandi aziende, totalmente svuotato del suo significato politico di anniversario dei Moti di Stonewall del '69.

Nota storica: sì i Pride commemorano un tumulto in cui persone frocie newyorkesi (per lo più transgenere e per lo più afroamericane e latinoamericane) riempirono di botte la polizia e pretesero la decriminalizzazione delle identità queer (represse in quanto malattie mentali e crimini contro il decoro), nel quadro più ampio del movimento del '68, e collegandosi direttamente alle mobilitazioni contro la Guerra del Vietnam e a quelle per la desegregazione della popolazione nera. Di fatto, queste manifestazioni sono un po' il corteo del Primo Maggio specifico per noi ricchioni, e se non lo sapevate, è ulteriore indice che troppi Pride moderni fanno pena.

Non starò qui a commentare l'esito della Marciona (quello spetta a tutta la rete usando il nostro blog... appena lo rimettiamo in sesto), bensì ne farò una lente di analisi per un fatto curiosissimo che mi è successo stamane. Alcuni mesi fa, su consiglio di una mia amica (ricchiona anche lei) che si interessa di scienze sociali, mi sono iscritto alla newsletter «Ciclostyle», in cui l'antropologa culturale Carolina Boldoni e il giornalista/formatore Enrico Di Palma commentano fatti vari ed eventuali attraverso le rispettive lenti di analisi, e nel numero di stamane Boldoni ha dato una restituzione del campeggio di formazione antropologica che ha tenuto nei giorni scorsi. Raccomando di sfogliare la newsletter qui e poi tornare qua per sentirmi fare il puntacazzista comunistone.

Gioire perché la montagna ha partorito un topolino

A quanto pare, Boldoni considera un successo il suo antropocamp (ovviamente indicato con anglicismo) perché 8 partecipanti hanno imparato a fare vita comunitaria attraverso la condivisione del lavoro domestico, ivi compreso quello in cucina, e grazie alla buona fede reciproca necessaria per costruire legami di condivisione senza filtri e senza pressioni. 8 partecipanti che mi aspetto avere circa la mia età e il mio status sociale di “alto proletario-piccolo borghese” (considerando l'utenza cui si rivolge il progetto Ciclostyle), e che hanno scelto di pagarsi una vacanza didattica organizzata apposta per imparare... che non sono persone asociali in toto, bensì gli mancava l'educazione affettiva minima per saper selezionare le proprie frequentazioni e costruire legami autentici.

Confesso che questa newsletter mi ha dato la stessa sensazione di quando parlo di giochi di ruolo e vedo la gente in estasi perché per anni ha giocato unicamente a Dungeons & Dragons o qualche sua derivazione e ha appena scoperto che esistono GDR

  • Di ambientazione non high fantasy e/o
  • Meno complessi meccanicamente di un wargame vecchio stampo e/o
  • Che non richiedono 3 ore di preparazione preliminare per ogni ora di gioco effettivo

In casi simili, la mia reazione di pancia sarebbe sempre di sottoporre queste persone a una terapia d'urto per allargare i loro schemi preconcetti da 0 a 1000 – ad esempio proponendo loro un gioco monosessione totalmente dialogico e di ambientazione realistica contemporanea (tipo Alice è scomparsa); tendenzialmente poi mi trattengo, ma ne parlerò in un altro momento.

Al momento, mi interessa evidenziare che la clientela di Boldoni (e, presumo, Di Palma?) è come il giocatore di ruolo insoddisfatto medio: gente che per anni si è torturata a scegliere un'opzione sbagliata per sé, credendo che non ci fosse una vera scelta bensì un'unica strada possibile, ha appena fatto un passettino per capire meglio la vastità del mondo, e ora suona la fanfara del trionfo come se avesse raggiunto il Nirvana. Non so mai se provare pietà per gli anni che queste persone hanno sprecato e che non riavranno mai indietro, o piuttosto schernirle per la sicumera con cui sopravvalutano il proprio primo passo in un percorso che sarà lungo e complesso e richiederà tanta umiltà e curiosità. O ancora, se indirizzare un po' di disprezzo verso chi capitalizza sull'ignoranza altrui, abbandonando la deontologia dell'insegnante ed entrando nel linguaggio disfunzionale del guru.

Abbiamo svenduto l'educazione affettiva

Io non conosco personalmente Boldoni (né Di Palma), non ero al suo antropocamp, e non posso certo giudicare lo sforzo organizzativo messo nel progetto né l'impatto concreto sulle vite delle 8 persone partecipanti. Però conosco benissimo la sensazione di essere “sbagliato” per la comunità circostante e incapace di inserirvisi, considerando che sono un uomo autistico e bisessuale cresciuto nella provincia lombarda in piena epoca leghista, senza uno straccio di supporto terapeutico specifico per le neurodivergenze né una rete amicale realmente progressista e attenta alle questioni femministe-finocchie (anzi, avevamo dentro un paio di trumpisti). Se non sono esploso malamente per l'intreccio fra le mie due marginalità, e tutto lo stress conseguente, è perché dai 17 anni in poi ho cercato col lanternino persone e contesti sociali che potessero essere affini al mio carattere e ai miei interessi, e mi sono preso l'accollo di scremare i (tanti) buchi nell'acqua dalle (tante) situazioni fertili: da lì è scaturita la mia passione per il gioco di ruolo e il paio di anni a fare partite “matte e disperatissime”, sia di persona sia in videoconferenza, con tante persone straordinarie che mi hanno offerto uno spazio sicuro per esprimere me stesso, rendermi vulnerabile, e imparare con errori e tentativi a compensare i miei deficit di intelligenza sociale. Ricorderò sempre il mio primo lavoretto come traduttore per Dreamlord Games, il cui direttore scelse di dare fiducia allo sbarbatello logorroico che apriva sempre discussioni tecniche sul forum ufficioso di Fate, o quella partita a Dungeon World che iniziò con me collassato per lo stress universitario e uno dei miei compagni di gioco pronto a tirarmi su di morale. O la demo di Lady Blackbird in cui conobbi la coppia, allora appena andata a convivere, che adesso ha un figliolo adorabile; o il playtest al bellissimo gioco di edu-intrattenimento Stonewall 1969, in cui imparai la storia dei Moti di Stonewall e la definizione di lotta di classe auto-organizzata.

E tornando circolarmente al punto di impartenza, è grazie a quei bellissimi anni di educazione affettiva mediata dall'hobby ludico, se a 27 anni mi sono trasferito a Milano e, come primissima cosa, ho mappato le realtà politiche che ancora cercano di portare avanti progetti di sinistra, in una città che da praticamente un decennio sta venendo massacrata per trasformarla in un luna park per milionari, e mi sono buttato a capfitto dentro quel marasma di militanza. Ho partecipato a picchetti, cortei, cene sociali, mostre d'arte e cabaret gratuiti, alla pulizia di centri sociali e alla preparazione di collette alimentari, ho composto e declamato comunicati pubblici in manifestazione e partecipato a dibattiti aperti... E soprattutto, ho stretto connessioni autentiche. Compagni e compagne con cui volevo inizialmente mantenere un rapporto puramente politico (“per non dare troppa confidenza”) sono ormai amici e amiche che considero di famiglia; persone che rispettavo mi hanno deluso allorché le ho messe davanti a una prova dei fatti, e ho saputo rivalutarle senza stracciarmi le vesti; persone di cui diffidavo hanno dimostrato più serietà e apertura di quanto pensassi, e ora sono solo contento di lottare al loro fianco; militanti che potrebbero essere i miei genitori mi raccontano volentieri, con la commozione in volto, degli amici di un tempo stroncati dai fascisti e dall'eroina; militanti che potrebbero essere mie sorelle e miei fratelli minori si interfacciano con me da pari a pari; DJ veterani della scena musicale underground mi salutano calorosamente ogni volta che ci becchiamo in manifestazione ... altre persone della rete Marciona mi invitano agli hacklab e io contraccambio invitandole alle convention di GDR (di nuovo, il cerchio si chiude e tutto sta insieme).

Dove voglio arrivare? Al fatto che io, già da ragazzo, ho saputo individuare un'idea approssimativa di chi volevo essere e l'ho perseguita e affinata col tempo; e ho avuto la fortuna di sentirmi a casa nella Controcultura, quella con la maiuscola, dove consideriamo un valore la libera autoespressione e la condivisione di saperi senza creare poteri (per citare la buon'anima del compagno Primo Moroni). Di conseguenza, ho imparato organicamente a costruire legami autentici, prendendo esempio da persone che già avevano fatto quel percorso e mi hanno guidato e consigliato, e ora sono in condizione di guidare e consigliare io chi è più giovane di me. Tutto questo, senza pagare guru che mi facciano dei workshop sul senso vero dell'esistenza. Davvero ci sta bene che le storie come la mia siano l'anomalia? Davvero vogliamo che la norma sia, invece, dover assumere un/-a guru per imparare a vivere in comunità e darsi una progettualità?

Agire l'utopia

Giusto perché le cose seguono spesso uno schema (sì sono anche neopagano, ma ne parliamo dopo), nelle ore intercorse fra la Marciona e la lettura di «Ciclostyle» avevo proseguito la mia lettura di «Un'Ambigua Utopia», bellissima fanzine di critica culturale marx/z/iana (sic!) curata fra '77 e '82 da un collettivo di nerd sinistri della prima generazione che militavano nell'Avanguardia Operia e leggevano fantascienza, e l'hanno riavviata a partire dal '20 come progetto della pensione. Ebbene, come da titolo la rivista si poneva e si pone il problema di uscire dalla concezione consolatoria e prescrittiva dell'utopia e passare a una concezione pragmatica di agire l'utopia nel qui e ora, e proprio iersera ho letto l'editoriale del numero 6 (Marzo/Aprile 1979), in cui la redazione fece il punto proprio su questa dialettica in ottica di problematizzazione aperta, in particolare domandandosi se possa esistere un'utopia di sinistra o se invece il concetto stesso di utopia non si colleghi intrinsecamente all'automiglioramente individuale capitalista e all'ottimizzazione della macchina statale.

Non ho potuto non collegare fra loro quell'editoriale, la newsletter, la Marciona, e il festival con corteo finale che «Un'Ambigua Utopia» organizzò a Milano nel '78 (rendicontato nel numero 4). Da un lato, c'è un capitalismo ormai così pervasivo che per tante persone della mia età vivere atomizzate ed esistere per lavorare è la norma ineluttabile, l'affiliazione politica (se c'è) non va oltre i meme, portare avanti hobby propri e viverli come fortemente identitari è inconcepibile, e non può mancare la caccia alla relazione sentimentale (rigorosamente monogamica) come status symbol di adultità. Dall'altro lato, ci siamo ieri come oggi noi teste calde antagoniste, che ci ostiniamo a scendere in piazza agghindate da marx/z/iane e da raver, a bordo di risciò sgangherati decorati con artistici cartelli in cartone, esibendo fiere il quadricolore palestinese e la bandiera dell'orgoglio finocchio (rigorosamente la versione nuova, però), e prima durante e dopo queste manifestazioni di dissenso e di disordine costruiamo altre socialità, altre culture, altre prospettive.

Cantavano cinquant'anni fa i cori di Lotta Continua:

La scuola dei padroni non funziona più ma solo come base rossa; la cultura dei borghesi non ci frega più, l'abbiamo messa nella fossa.

Canta oggi Carenza503, rapper torinese con cui ho l'onore di militare:

Sogno con te solo di stare bene. Sembra banale ma è radicale: la forma più pura dell'anarchia che ci potesse mai capitare.

Mi pare che la sostanza sia sempre quella. Non abbiamo, al momento, le condizioni materiali per ribaltare il sistema, ma abbiamo le possibilità di costruire delle alternative interstiziali, e il dovere morale di tirarci dentro più persone che possiamo, senza farle intortare da una falsa alternativa erogata dal capitalismo. Perché l'utopia non verrà domani: l'utopia è oggi, giorno dopo giorno, in ogni istante di vita degna e autentica che riusciamo a mettere insieme, costruendolo assieme. E questa, per me, è la base vera del socialismo libertario.

Per il comunismo e per la frocità, riprendiamoci la città.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Io e il Mondo di Tenebra

Per essere un nerdacchione zillenial, sono un po' atipico: giocare di ruolo al tavolo e dal vivo mi piace tantissimo, ma il mio imprinting ludico è stato praticamente subito con quelli che io chiamo i “GDR d'essai per zecche finocchie”, partendo da Dungeon World e poi escalando sempre più verso Trollbabe, Archipelago, e i LARP di gangster inetti che dissanguano in macchina o di famiglie che esplodono per i non-detti. Rispetto alla media ho giocato poco a Dungeons & Dragons (spizzichi e bocconi di 3.5 e di 5), ma ancora meno al Mondo di Tenebra: un'unica partita atroce a Vampire: The Masquerade quando avevo 18 anni, ovviamente storpiato in un Grand Theft Auto: Vampire City nel quale una banda di ganster vampiri compivano atti di vandalismo aleatorio grazie ai POTERI MAGGGICI. Era da almeno 10 anni, però, che volevo rifarmi la bocca con i miei amici di buon gusto presibbene o con Vampire e Werewolf, o con Mage e Demon, ma alla fin fine la nuova occasione è arrivata adesso, grazie a un diverso amico di buon gusto (molto più recente!) che mi ha proposto una sua hack di Mage: The Awakening.

Logo di *Mage: The Awakening*

Giocare a meccaniche coperte

Non intendo parlare troppo della regole “parametriche”, perché il mio amico (persona dai molti nomi, io fra i vari uso Shaggy) ha fatto un lavoro egregio di sfrondamento e razionalizzazione delle meccaniche, ed è giusto che lo commenti lui un domani. Mi sento solo di esporre che ha ottimizzato la struttura del Nuovo Mondo di Tenebra prendendo spunto dal filone di design che da The Pool ha prodotto direttamente The Shadow of Yesterday e Fate, è deviato indirettamente sui Powered by the Apocalypse e si è ricongiunto a sé stesso nei Forged in the Dark. In sostanza, risoluzione a obiettivi, sistema misto di statistiche fisse e tratti, risorse spendibili per intervenire sull'alea e ricaricabili tramite impiego di spunti narrativi; tutto liscio come l'olio. Ciò che mi ha affascinato, è che Shaggy ci tiene molto a coltivare la dimensione di “orrore personale” che dovrebbe rappresentare il cuore dell'esperienza Mondo di Tenebra, pertanto abbiamo giocato in modalità 1-a-1 e, soprattutto, a informazioni coperte: io ho iniziato il gioco creando unicamente il lato umano del mio personaggio, il comune mortale immerso in una vita mondana, e la partita introduttiva si è imperniata sul Risveglio delle facoltà magiche del protagonista (l'awakening del titolo), andando così a costituire sia un tutorial graduale delle regole sia, nella diegesi, l'esposizione del personaggio principale a un mistero numinoso e perturbante, mistero che è tale anche per me giocatore, che non conosco la cosmologia e metafisica alla base di questo mondo immaginario. Come Shaggy mi ha candidamente esplicitato, questa modalità ha senso solo alla primissima partita a Mage di una persona, perché poi la discrasia di informazioni note fra personaggio fittizio e giocatore reale la renderebbe una noia mortale senza alcun pathos, ma per parte mia l'essere un'esperienza una tantum non la rende meno degna del mio tempo; anzi, penso si tratti del primo caso in cui mi sto godendo un GDR “tradizionale” a informazioni così cospicuamente asimmetriche, perché la diegesi in cui stiamo giocando e la sua parametrizzazione si prestano molto bene allo scopo. È stato emozionante aggiungere di botto alla mia scheda personaggio le prime statistiche magiche, non sapere ancora come funzionino, e farci i primissimi esperimenti per raccapezzarmi: empatia a mille con lo sbigottimento e la curiosità del mio buon protagonista, e piena percezione del senso di ascesi gnostica che Shaggy mi ha pronosticato.

Qualche considerazione più ampia

Innanzitutto, dopo tre anni che gioco a LARP monosessione, sono abituatissimo alle schede di personaggio modulari in cui le varie parti si sbloccano col progredire della partita e forniscono nuove informazioni da portare in scena, giocando anche sulla discrasia fra ciò che io giocatore so, come decido che il mio personaggio lo vive, e cosa e come farò agire al personaggio. È però la prima volta che vedo questa dinamica applicata a un GDR cartaceo, e l'ho trovata così piacevole che spero qualche designer ci abbia pensato prima di Shaggy, auspicabilmente congegnando dei meccanismi di “temporizzazione” per cui lo sblocco delle nuove meccaniche sia drammaturgicamente sensato, e non totalmente arbitrario a discrezione del Narratore (del resto i buchi regolistici di discrezionalità, notoriamente, sono il fattore più frequente di instabilità nei giochi con Game Master). Così su due piedi non saprei certo pensare a esperienze ludiche in cui questa dinamica risulti automaticamente adatta, però non dubito che ne esistano, e di sicuro mi incuriosirebbe esperirne e metterle a confronto. In secondo luogo, mi ha parecchio sorpreso che sotto due diverse prospettive questa partita si ricolleghi a riflessioni sulla natura del GDR (o meglio, delle correnti interne al medium GDR) che ho letto di gusto di recente sul blog Taskerland scoperto grazie a quella benedizione che è Mastodon:

  • Questo articolo tratta di come i GDR, per ovvie ragioni storiche, siano quasi intrinsecamente radicati nell'immaginario delle narrative di genere, e questo rappresenti una soglia d'ingresso in più. La cosa mi tocca, perché nel comporre il mio personaggio di Mage ho cercato deliberatamente di mettere assieme un individuo lontano da me, terribilmente “Italiano medio”, quindi del tutto impreparato a livello di cultura pregressa ed immaginario ad esperire il sovrannaturale, laddove io ho come mio interesse assorbente la storia delle religioni e dell'occultismo. Lo sforzo deliberato di recitare una persona normale schiaffata in un contesto fantastico, e di farla agire senza sistematizzare il sovrannaturale in paradigmi di senso pregressi, è un esercizio stimolante.
  • A cavallo fra questo e quest'altro articolo, si tratteggia un gusto per il GDR caratteristico dell'Europa francofona alla fine del secolo scorso: il Jeux d'Ambience in cui i personaggi sono figure verisimili connotate essenzialmente dalla propria professione e status sociale, vengono posti davanti a una comunità (anche in senso lato) attraversata da tensioni, faide, complicazioni e quant'altro, e i giocatori devono fare interfacciare i personaggi con tale comunità anche nelle minuzie della vita quotiiana, tendenzialmente partecipando a un conflitto centrale di tipo giallistico. Una modalità ludica esemplata da Call of Cthulhu, non da un D&D allora irreperibile in Francia, e quindi ben antecedente l'esperienza ludica ricercata dal Mondo di Tenebra, ma ad essa accomunato da due fattori:
    • L'abitudine di nascondere ai giocatori tutte le regole di parametrizzazione, demandate unicamente al narratore, per introiettarli a giocare in modalità freeform. Che è diverso dall'emersione organica dei sistemi di regole, e secondo me meno interessante, ma presenta un'affinità concettuale di fondo.
    • La prospettiva narratologica da “romanzo borghese” in cui i personaggi giocati non sono eroi di romanzo d'avventura, più o meno fantastici e più o meno orientati alla sublimazione di fantasie di potere fanciullesche (dal pistolero spaziale al mago signore degli elementi), bensì figure umane realistiche e radicate nelle proprie comunità, che con i propri mezzi mondani affrontano (e neanche sempre) una minaccia latente paranormale. E se questa minaccia da esterna diventa interna, ecco emergere l'intimo orrore promesso dai giochi del Mondo di Tenebra.

Conclusioni per oggi

Voglio andare da qualche parte, con questi miei pensieri? Nah, solo renderli pubblici e sollevare riflessioni e domande a chi legge, come ho promesso nella dichiarazione d'intenti del blog. Forse ne terrò conto per i miei (pochi) progettini di design nel cassetto, forse orienterà le mie prossime partite alle convention, forse resteranno elucubrazioni per il piacere di farle. So solo che spero che Shaggy abbia presto disponibilità per continuare la partita, perché ho concluso stipulando il primo accordo magico del mio Mago con un essere spiritico. E voglio vedere cosa posso farne.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

La solita intro aneddotica

Io sono tremendamente fuori tempo su tutte le forme d'arte. Non sto quasi mai al passo con le novità del momento e baso la mia dieta mediatica sui pezzi da novanta del passato, spaziando dall'antichità profonda all'altro ieri. Rispetto ai videogiochi, sono estremamente affezionato all'epoca che va grossomodo dall'89 al 2000 (gli anni in cui o ancora non c'ero, o ero un marmocchio), e oggi ho terminato di giocare un pezzo da novanta di quella fase storica: Final Fantasy IV. Queste sono le mie opinioni da cretino qualunque, aspettatevi spoiler.

Final Fantasy IV

Con che spirito ho giocato

Con quello da smanettone filologo: ho giocato sul mio SNES Mini la prima edizione del '91 per Super Nintendo Entertainment System, ma ho applicato alla ROM originale per il mercato USA la patch Namingway Edition, che aggiorna la traduzione in accordo con le edizioni successive, restaura i contenuti tagliati dalla prima localizzazione, e debugga e ribilancia qua e là. Oltre che con quello da sentimentale: le mie partite a Final Fantasy X, X-2, XII: The Zodiac Age, XV e VII (sia primo atto dell'originale sia primo episodio del Remake) sono state importanti attività condivise con il mio ex partner dei tempi di fine università-inizio lavoro, e nei primi giorni o di questa avventura con FF IV volevo scrivere di mio pugno un manuale di istruzioni, così da proporre il gioco alla persona che tre mesi dopo, a fine partita, è ormai diventata la mia ex partner. In più, c'è stato uno iato di un mese e mezzo in cui non ho avuto la testa per giocare, siccome stavo comprando casa. Per cui, che dire, FF si conferma una serie che mi immalinconisce spesso.

Cosa ne penso del gioco

Darò considerazioni sparse e disorganiche, perché non ho minimamente le competenze ludologiche per costruire un discorso coeso:

  • È stato fondamentale avere con me una scansione del manuale originale della prima edizione, perché è chiaramente un gioco pensato per il supporto cartaceo separato: le informazioni interne dell'interfaccia abbondano, ma non bastano. E dato che io sto giocando una versione ribilanciata, c'è voluto anche il manuale separato della patch per tenere traccia degli effetti ricalibrati di magie ed equipaggiamenti. Per la serie, impegnativo come tradurre dall'Aramaico.
  • Il combattimento ATB con la “barra della stamina” che si carica in tempo reale spacca ancora dopo 34 anni: a mio gusto non c'è proprio paragone con il soporifero sistema coevo dei Dragon Quest, con immissione dei comandi in blocco per tutto il party. Mai un tempo morto, bensì un'alternanza piacevolissima fra pensare alla prossima mossa e godersi l'animazione corrispondente, più l'affanno piacevole di correre ai ripari se succede qualche guaio (tipo un personaggio mandato KO da un colpo a sorpresa).
  • La prima fase del gioco è un capolavoro drammaturgico, dall'inizio in medias res con l'assalto a Mysida fino alla liberazione di Rosa. Non c'è un passaggio fuori posto: il ritmo resta incalzante, i conflitti urgenti, i dialoghi ben scritti (nei limiti di una traduzione dal Giapponese all'Inglese con limiti di caratteri). La doppia strage al villaggio di Mist e nel castello di Damcyan ci lascia un magone atroce e la percezione di stare combattendo contro forze insormontabili, l'interludio notturno dedicato al duello fra Edward e l'uomo-pesce è di un lirismo sopraffino, l'assedio di Fabul ha una coreografia assolutamente esaltante (e siamo dieci anni prima de Il Signore degli Anelli: Le Due Torri)... il naufragio del vascello arriva come un ennesimo pugno nello stomaco, e allorché Cecil si ritrova totalmente solo sulla costa di Mysida non si può non fare nostro il suo dolore profondo, la sensazione che tutta la sua vita si è sbriciolata nell'arco di poche settimane e tutto ciò che gli resta sia buttarsi in mare... o mendicare il perdono dai suoi nemici. Ed ecco perché il pellegrinaggio sul monte Ordalia è forse il momento più toccante del gioco: perché davvero il nostro protagonista e avatar principale ha toccato il fondo, è solo e infelice e carico di peccati, e la sua redenzione è appesa all'aiuto di due ragazzini prodigi (per altro, Palom e Porom mio nuovo duo preferito di spalle comiche). I filmati di a parte in cui Kain e Golbez monitorano il viaggio di Cecil non fanno che accrescere la tensione, e il doppio scontro con Scarmiglione rende tanto più dolce e rassicurante la purificazione di Cecil nel sacrario.
  • Se il sacrificio di Palom e Porom contro Cagnazzo è un'ulteriore coltellata al cuore, soccorrere Yang e Cid e sbloccare finalmente l'aeronave ci porta a una simpatica (e necessaria) fase di “viaggio fra omaccioni”, con la libera esplorazione di un mondo vasto e misterioso (cfr. FF XV stesso); è stato estremamente liberatorio svolazzare per il pianeta, mappare bene le posizioni reciproche fra i vari reami... ed esplorare le zone nuove. In particolare, mi rivendico di essermi causato un game over cercando di esplorare anzitempo il castello di Eblan, e di aver trascorso ore a metter da parte soldini per comprare a Cid e Cecil delle corazze di mythril... salvo poi proseguire la trama e scoprire che il dungeon successivo si gioca il trucchetto del magnetismo. Ergo, altra caccia al mostro per comprare equipaggiamenti di legno e tessuto!
  • La battaglia della Torre di Zot è estremamente godibile, sia per l'esplicito ingresso nella vicenda del tema “Civiltà perduta tecnologicamente avanzata”, sia per il duello a colpi di Reflect contro le Tre Sorelle Magus (miei vecchie beneamante conoscenze da FF X)... sia soprattutto per il momento climatico, fra il sacrificio di Tellah e la liberazione di Rosa e la battaglia contro Barbariccia, splendido tutorial per imparare a usare Kain. Mi è rimasta particolarmente dentro la scena conclusiva della sequenza, con Rosa che teletrasporta la squadra in camera da letto di Cecil (<3) e, davanti al radiocontrollo dell'aeronave, commenta all'incirca “Will wonders ever end?”. Quanto vorrei poter ritrovare anche io quel senso del meraviglioso, che bene o male si è spento quando sono diventato adulto...
  • L'esplorazione del Sottomondo si apre col botto, fra la battaglia contro la bambola assassina della principessa Luca e Rydia adulta che arriva a spaccare il culo a Golbez, ma dopo il furto del terzo cristallo (e già lì, almeno dirci dove stavano primo e secondo...) entriamo in una fase, secondo me, piuttosto deboluccia, in cui il ritmo sostenuto collassa in favore di una dinamica da dungeon crawl ancora ancorata al design di inizio-metà decennio precedente (penso in particolare al ritmo di Phantasy Star I dell'87). Le missioni principali sono una raffica di assalti inconcludenti alla Torre di Babel, costellati da troppe occasioni in cui sembra, ma non è mai così, che Yang e Cid ci restino secchi; la missione secondaria di duellare con re Leviatano e regina Asura è deliziosa e il villaggio degli Eidolon è buffissimo, ma la labirinticità delle loro caverne è davvero snervante, e peggio ancora tocca fare due giri nella grotta delle Silfidi per completare la “guarigione” di Yang; Kain che ricade preda dell'ipnosi di Golbez è un filino telefonata o quantomeno mal coreografata. Quantomeno, reclutiamo il buon Edge, abile in tutto e maestro di nulla, ma motore narrativo del delizioso duello contro Rubicante. E non nego che è stato soddisfacentissimo sconfiggere Odin con precisione millimetrica, con un Thundaga di Rydia piantato sulla punta della spada proprio mentre iniziava l'animazione di attacco.
  • Nell'atto finale, si torna finalmente in carreggiata: particolarmente affascinante il design dei mostri lunari, prevedibile nel modo giusto e gustoso il momento “Cecil, sono vostro zio” del saggio Fusoya, appassionante il giusto il duello per domare Bahamut (in tal senso, un plauso ai libri informativi nella biblioteca degli Eidolon)... fottutamente epico l'assalto frontale al Gigante di Babil, sia per l'assalto coordinato aria-terra di tutti i “popoli liberi” sia per lo scontro 4 vs 5 con i Demoni Elementali (carucci che sono, a provarci), sia per la battaglia ufficialmente sci-fi contro la CPU dell'automa che già preconizza le atmosfere di FF VII. Da quel momento in poi, confesso di aver selvaggiamente dato la caccia ai mostri lunari per livellare la squadra, timoroso di affrontare l'ultimo dungeon sottoaddestrato, ma dopo aver potuto comprare i miei 99 pezzi di ogni oggetto curativo base ho gettato ogni indugio e sono entrato nella “Zona Zemus”... dove, in un paio di pomeriggi di gioco, ho aperto come angurie tutti i boss intermedi, raccattato tutte le armi speciali supreme, e sfidato Zeromus. Se è vero che, a questo punto, la rarefazione dei punti di salvataggio è perfida, è anche vero che non ho dovuto utilizzare troppo spesso i salvataggi rapidi tramite emulatore, e al terzo tentativo ho annientato Zeromus con tale scioltezza che ci sono rimasto male per quanto veloce sia stato lo scontro: è bastato assimilare bene il ritmo “stai sulla difensiva, attacca un po' di meno e guarisci un po' di più”! Certo, non è stato orrendamente facile come il triumvirato Sin-Seymour-Yu Yevon in FF X, in cui avevo sovralivellato terribilmente, tuttavia...

Cosa mi porto dietro, da questa partita?

Che in questo momento storico la profezia di Zeromus è corretta e “l'oscurità nel cuore umano” prevale su tutta la nostra Terra, pertanto c'è tanto bisogno di persone come Cecil; anzi, persone capaci di fare anche più di Cecil, e brandire assieme la spada oscura del Cavaliere Nero e la magia bianca del Paladino, in una prospettiva più taoista che strettamente manichea (perdonatemi, ma per me il simbolismo luce-tenebra sarà per sempre condizionato dal romanzo La mano sinistra del buio). Che quando organizzo cose belle e significative, nella loro piccolezza, assieme alle persone a me care, mi posso concedere di pensare a me stesso come a un cavaliere di Baron, o come un ninja di Eblan. Ma forse, dovendo proprio scegliere bene, io sono il gemello maschio di Rosa nella fisionomia di Tellah. Che se sento di stare collassando sotto un fardello troppo pesante, doloroso come l'incantesimo “Big Bang” di Zeromus, dovrei chiedere una mano alle persone cui tengo; posso legittimamente presumere che verranno a tirarmi su, come tutti i popoli della Terra guidati dal saggio Minwu. Che finché esisterò come individuo, il tema musicale di Final Fantasy per me sarà la colonna sonora della collaborazione e della speranza davanti alle avversità. Perché ne abbiamo tanto bisogno.

 
Continua...

from Super Relax


Intanto, non seguo sport di gente che diventa milionaria o milionaria ci nasce (per esempio, calcio nella prima categoria e automobili e motorette nella seconda). Come no, ma sai i milioni che ha Pogačar? Lo so, ma quelli che guadagnano quelle cifre saranno meno di dieci in tutto il mondo (e non un calciatore qualsiasi di serie A che, magari, resta in panchina per tutto il campionato). Poi ci sono quelli che guadagnano qualcosina in più, facciamo un centinaio, e tutti gli altri che si devono accontentare di qualcosa di simile a uno stipendio. A fine carriera, quindi prima dei quaranta anni, devono reinventarsi in qualche modo se vogliono continuare a mangiare. Anche i tifosi non hanno bisogno (speriamo ancora per molto) di abbonamenti per seguire le competizioni più importanti, se passano dalle tue parti puoi assistere senza pagare un biglietto, non ci sono tifoserie gestite da malavitosi e fasci in genere. Non ho mai sentito di scontri tra gli ultrà del ciclismo, con le coltellate in prossimità del traguardo e i capibastone invischiati nel traffico di droga.

È uno sport che, teoricamente, posso fare anche io per i fatti miei, a 1/50 dell'intensità dei professionisti: ho una bicicletta (una gravel nello specifico), un abbigliamento sommario e le strade a disposizione. Le pendenze a doppia cifra diventano ben presto impegnative/infattibili, la velocità in pianura è quella che è e non posso fare centinaia di chilometri al giorno, ma in scala molto ridotta posso ricrearne un simulacro.

Ci vedo la libertà che non ho mai avuto, perché non hanno mai voluto comprarmi la bicicletta e di quella libertà ho avuto un surrogato televisivo quando ho iniziato a seguire il ciclismo, ai tempi di Bugno, Chiappucci, Indurain e Pantani. Libertà che mi son concesso in questa grigia mezza età, libertà di allontanarmi fisicamente da un punto di partenza che sento come una prigione, solo con la scarsa forza dei miei muscoli.

Il ciclismo su strada mi mostra panorami e luoghi, spesso bellissimi, che non avrò modo di vedere dal vivo. Mi piacciono le strade del Giro, perché l'Italia è un posto che può essere bellissimo, nonostante gli italiani; mi piacciono anche le strade del Tour, su quelle della Vuelta non posso esprimermi nettamente perché la copertura video è scarsa e il paesaggio spagnolo è particolare, quindi penso che, per forza di cose, ci sarà un discreto chilometraggio in zone semidesertiche.

Non tifo per nessuno: se mi piace uno sport, è lo sport in sé a piacermi, non perché sia trainato da Tizio o Caio. Se c'è un bell'attacco in salita, se una fuga va a buon fine, se vedo una discesa pennellata alla precisione... mi va bene tutto, non mi interessano i protagonisti.

 
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from AtAbi

Vorrei condividere con Voi alcune mie letture, spero siano di Vostro interesse. Per questo ho deciso di iniziare un blog intitolato 'Note a margine'.

 
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from manuel

Questo testo è il risultato di una sfida che ho fatto con degli amici. L'obiettivo era di scrivere una storia lunga 3.600 caratteri partendo da un'immagine. Buona lettura!

Mattias fece schizzare la mano sopra la testa e volse lo sguardo dietro di sé. L'omone, che per poco non lo scaraventò per terra, proseguì indifferente la sua strada.

Perché ogni giorno doveva essere la solita storia? Digrignò i denti e strinse la mano libera alla bretella. Inveire contro di lui sarebbe stato inutile, controproducente.

Sulla spalla destra, Ossuto gli diede un calcetto sul collo e fece un cenno verso l'altra parte. Sì, i pacchi non si sarebbero consegnati da soli.

Le vie del mercato erano intasate dalla mandria di gente. La luce calda del sole faticava ad affacciarsi su di loro a causa dei grandi edifici scuri e opprimenti costruiti attorno alla piazza. Sembravano lucciole vagare nel buio.

Mattias dovette reprimere diverse volte l'impulsi di sbraitare contro quegli adulti maleducati e presuntuosi. Se fossero stati più bassi di lui…

Scattò in mezzo a due uomini alti e snelli, sfiorandoli come fosse il vento. Ossuto emise un grido terrorizzato, tenendo strette le sue piccole mani sul soprabito stropicciato.

Ripeté le movenze precise e snodate per evitare il contatto, sia visivo che tattile, con altre cinque persone. Ignorò le loro imprecazioni mentre scompariva nello spazio stretto tra due bancarelle. Brontoloni senza cervello. Ecco cosa siete.

«Ehilà!» annunciò tra un respiro e l’altro.

Mattias sbirciò lo spazio minuto dietro al tavolo di legno su cui giacevano gingilli e cianfrusaglie ammassati come cumuli di terra. Aguzzò per bene lo sguardo: gioielli di dubbia qualità, ingranaggi malandati e stoviglie arrugginita. Roba di poco valore, oggetti che solo gli sprovveduti e i creduloni comprerebbero.

«Arrivo!» disse una voce possente.

Un teschio con una corona di tasselli e dagli occhi color dell’alba sbucò da sotto il telo rosso porpora. Pareva infastidito, quasi stizzito.

Mattias fece scivolare Ossuto a terra e posò con cura la sacca, l’ultima cosa che voleva era danneggiare gli altri pacchi. Estrasse un oggetto coperto da un involucro di carta sottile e glielo porse. Le braccia gli tremavano dalla paura, non voleva incrociare quei puntini infuocati.

L'essere fece lievitare il pacco verso di sé. Lo fece girare su sé stesso in diverse direzioni: avanti, destra e sinistra. Lo guardò per un istante, poi annuì soddisfatto.

«È perfetto» sancì contento la testa. «Grazie, giovanotto. Anche a te, fratello d'ossa. In futuro saprò chi chiamare se avrò bisogno di fare una consegna.»

Mattias dilatò le labbra un sorriso tirato. Prese Ossuto, alzò i tacchi e corse dritto dove era spuntato qualche momento prima. Con sua sorpresa, la marea di persone era aumentata e camminare in mezzo alla strada pareva impossibile.

«Reggiti forte!»

Si buttò nella mischia e strinse i denti. Spintoni, gomitate e piedi molesti misero a dura prova il suo corpo. Il vociare confuso e assordante delle persone attorno martellarono i suoi timpani senza alcuna pietà. Orientarsi nella penombra e nel frastuono imperterrito pareva un'impresa.

Scorse uno spiraglio alla sua destra, un faro di speranza. Fece un respiro profondo e cominciò a sgomitare e spintonare tutti quanti, senza guardarsi indietro. Scrollava le arrabbiature e gli insulti dei presenti di dosso. Si sentiva un cavaliere privo di scudo sotto un cielo pieno di frecce. Il pacco doveva arrivare a destinazione.

Sgusciò via, stremato e vittorioso. Mattias si fermò per un momento, i polmoni stavano andando a fuoco e il cuore non la smetteva di galoppare. Inspirò ed espirò per tre volte, il battere ritmico e opprimente si acquietò man mano che lo faceva.

Un ultimo pacco. Sospirò. Ancora uno e per oggi abbiamo dato abbastanza.

 
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from Storieparole

Facciamo che sono un pirata! Oggi, tornando dal lavoro, ho visto un bambino – avrà avuto 6 o 7 anni o giù di lì – che, una mano stretta tra le dita del papà, reggeva con l’altra una confezione di Pringles sfondata e ci guardava attraverso mentre camminava per strada, tutto contento. Chissà cosa vedeva, in quell’improvvisato cannocchiale? E di colpo mi sono ritrovata a pensare a quando, il Topolino arrotolato tra le dita, anch’io giocavo a osservare il mondo da un cannocchiale che trasformava il cortile di casa in un oceano dalle onde impetuose, la ghiaietta in banchi di pesci dei più strani e colorati, mentre dicevo a mia sorella ”Facciamo che siamo pirati!”, cercando di distoglierla da quelle sue noiosissime Barbie bionde-belle-ricche. Quanto spesso lei restava sulla riva, o cercava di convincere anche me a rimanere, offrendomi – oh, quale generosità! – di essere la cameriera del suo formoso alter ego rosa shocking! Ma io ero già salpata, vento in poppa e viso teso verso nuove avventure! Ero il capitano dei pirati, avevo tesori da trovare, nuove terre da scoprire, pescecani e nemici armati fino ai denti da sconfiggere.

Chissà quand’è che ci hanno rubato la magia. Non saprei dire in quale momento la sgangherata eppure potentissima formula magica del facciamo che ha smesso di funzionare, né chi ha gettato un incantesimo sulle nostre giornate, rendendole grigie e insipide e piatte, cercando di convincerci che nella vita dei grandi non c’è spazio per la fantasia, la meraviglia, la gioia. Eppure a volte è sufficiente incrociare lungo una strada polverosa e arroventata dal sole di fine giugno un bimbetto che guarda il mondo attraverso un cannocchiale fatto di cartone per ricordarsi che la vita è meravigliosa e piena di possibilità, che anche se non ci sono più né cortile né pirati nessuno può portarci via la gioia e la fantasia, perché sono dentro di noi e non importa quanto in profondità siano finite, sommerse da bollette e responsabilità e altre noiosissime cose da grandi: sono lì. E spetta solo a noi lasciare che tornino alla luce, come il più prezioso dei forzieri dei pirati.

 
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from Warp

Hey Livello Segreto (ma anche più in generale il Fediverso), sediamoci un attimo e facciamo quattro chiacchiere insieme.

L'argomento è Livello Segreto, il suo presente e il suo futuro, ma essendo inseriti in un contesto fortemente sociale come il Fediverso la cosa può interessare anche al di là delle singole utenze qui sopra.

Per prima cosa, parliamo di CW. Se ci penso dal punto di vista della moderazione, quello del Content Warning è probabilmente il concetto più difficile da far passare. Chi lo tratta come censura, chi lo vede come una limitazione delle proprie libertà e chi come qualcosa di inutile in un contesto di protocollo Activity Pub. La verità – come a volte accade – è ben più semplice di qualunque ricamo che si possa fare su questo argomento ed è qualcosa che abbiamo ripetuto allo sfinimento.

Il Content Warning è rispetto nei confronti delle altre persone. È evitare di entrare in un bar e trovare la tele accesa sulle notizie di cronaca nera. È aprire il proprio feed di notizie e non venire bombardati da... notizie sui bombardamenti. È affrontare argomenti lasciando alle persone la scelta di affrontarli quando si sentono di farlo.

Si torna sempre lì: Livello Segreto è una festicciola fatta da amic* a cui state partecipando con un bicchiere in mano. Va bene che i Social ci hanno alienato, ma dal vivo dubito che a persone sconosciute che stan parlando di quanto son belli i prati vi accodiate parlando di quel che sta facendo Trump.

Volete farlo? Va benissimo! Ma prima usate il CW e sondate il terreno e lasciate che siano le persone a scegliere se affrontare l'argomento. Su cosa uso il CW? Su tutto ciò che A TUO AVVISO può urtare la sensibilità altrui (è in primis un esercizio di empatia) e sicuramente per “NSFW, SPOILER, GUERRA, POLITICA” (come recitano le regole).

Ah ma quindi intendi che non devo usarlo per tutto ciò che non è videogiochi, musica, manga... ? Okay, questo è il secondo punto. La descrizione di Livello Segreto recita: “Livello Segreto è un'oasi social incentrata sul rispetto e la libertà. La comunità è nata per parlare di videogiochi, fumetti, musica, diritti, underground, controcultura, arte. LS è uno spazio senza pubblicità, annunci commerciali e gossip. Più che un'istanza generalista, è un'istanza nata intorno agli interessi e ai valori della sua comunità. Frequentatela e scopritela!” Il fatto che LS sia nato per parlare di alcune cose non ne limita l'utilizzo solo a determinati argomenti (non è mai stato così e mai lo sarà). Il punto di Livello Segreto – alla nascita così come ora – è dare alle persone un LUOGO diverso dove poter parlare e dove potersi interfacciare, ma senza per questo limitare gli argomenti di conversazione. Si torna sempre all'esempio della festa o del gruppo di amici: gioco a DnD con persone con cui parlo tranquillamente di film, politica, società, futuro... quel che ci interessa non è il contenuto – fino a un certo punto –, ma il modo di porsi.

Vogliamo dire che Livello Segreto è un'istanza generalista? Diciamolo. Ha senso farlo su internet dove anche decenni fa quando si usavano forum “settoriali” si parlava comunque della qualunque? No, non davvero. Ma se servisse a qualche persona per capire se Livello Segreto è il suo posto o meno allora... la risposta è questa e spero che la spiegazione sia soddisfacente.

Iniziative e contenuti futuri. Livello Segreto non ha alle spalle un'azienda o una struttura che produce contenuti (o che paga persone per produrre contenuti). Non esistono gli influencer, detta brutta e schietta. Significa sì che siamo in un posto un po' più libero, ma significa anche che dobbiamo essere noi (inteso in senso lato come utenza del Fediverso) a stimolarci vicendevolmente con contenuti interessanti e di qualità. Proviamo a vivere questa sfera social online invece che approcciarci con la stessa filosofia con cui “subiamo” altri social (perché di fatto portati a comportarci in tal modo). Un paio di esempi? Ecco qui: https://livellosegreto.it/@Micolcosta/114732565646758695 https://livellosegreto.it/@cretinodicrescenzago/114731559957535194 Qualche idea per stimolare un po' la nostra creatività collettiva c'è, spero che con un po' di tempo si riesca a imbastire e portare presto sui vostri schermi (allo stesso modo se avete qualche idea... scriveteci!).

Un'ultima cosa. Internet è ormai irrimediabilmente (o quasi?) contaminato da contenuti prodotti da AI. Abbiamo aggiunto tra le regole di Livello Segreto quella di NON pubblicare contenuti generati da intelligenze artificiali.

Dubbi, domande o perplessità: scriveteci. Ed & Kenobit

 
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from Signor Uscita

Vi sarà capitato di avere delle idee, dei pensieri o dei progetti. E vi sarà capitato che questi non trovino abbastanza spazio, o non abbiate e energie per approfondirli. Per completarli.

Ecco questo è quello che mi succede con lo scrivere. Ho delle idee che mi ronzano e che ritornano più volte. Sotto la doccia, mentre lavoro, mentre cucino. Vorrei produrre qualcosa, scriverci o anche solo parlare con qualcuno.

Si tratterebbe di rilasciare la pressione, è come liberarsi di un peso. Solo che, non lo faccio mai.

Intendo dunque scrivere e non completare i post. Per vedere cosa succede.

[...]

 
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from Nonsolobotte

Non-recensione libraria: “Il Super Senso”

Le recensioni sono una cosa seria, non come quelle che si trovano un tanto al chilo sui social brutti, del tipo “Mi dai gratis il tuo libro e io scrivo che è meraviglioso, così magari tu vendi qualche copia e qualche aspirante autore dà a me altri libri gratis”. No. Qualsiasi cosa siano quelle cose lì, non sono recensioni. Le recensioni sono una cosa seria, dicevo, dunque questa è una non-recensione. Non perché l’autore o la casa editrice mi abbiano dato gratis il libro – regolarmente pagato con denaro sonante dalla qui presente – ma perché quella che segue è solo la mia impressione a termine della lettura.

“Il Super Senso” è il secondo libro della trilogia, ideata da Paolo Borzacchiello, che ha per protagonista Leonard Want (cognome non casuale, come nessuna delle parole usate da lui o da Borzacchiello, che poi è lo stesso. O forse no), profiler linguistico comportamentale, che in questa nuova avventura si trova a fronteggiare il Presidente degli Stati Uniti e una giovane, timida donna incinta e con pensieri suicidi. Ritroviamo qui Lisa-Dio-Jessica Fletcher, Evelin, sempre bella come un angelo e letale come un demone, l’affascinante Lucifer e anche personaggi meno insoliti, come il pupillo e collaboratore e l’amata figlia ormai prossima alla maggior età. Lettura interessante, ricca di spunti condivisibili e degni di approfondimento personale, eppure non mi ha avvinta quanto il precedente. Sarà che sono refrattaria per indole ai sequel, sarà che ho trovato la storia più confusionaria, o magari sarà per quel paio di refusi – davvero, ne ho trovati due o tre al massimo – che mi hanno indispettita. In un altro libro sarebbero stati tollerati, ma qui, no. Da Want – e da Borzacchiello – mi aspetto l’eccellenza lessicale, stilistica e formale. Sicché, libro bello ma non eccelso nella sua trama. Discorso a parte gli insegnamenti disseminati con maestria tra le pagine, con l’ormai consueto sistema dei tre caratteri differenti (normale, corsivo e grassetto) per i tre diversi cervelli: questi sì sempre all’altezza. Ad ogni modo, la lettura mi ha lasciato il desiderio di tuffarmi nel terzo e ultimo capitolo della trilogia, quindi direi che lo scopo dell’autore può dirsi comunque raggiunto.

Titolo: Il Super Senso Autore: Paolo Borzacchiello Editore: Mondadori Anno di edizione: 2020 ISBN: 9788804730019

 
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from kipple


In senso figurato, ovvio, e metto in chiaro un paio di cose: non sto scrivendo questo per affibbiarmi una qualche primogenitura o la tessera numero 0 di un club esclusivo, è solo per dire che non lo sono più nel senso che la parola ha acquisito, ora che è più facile esserlo alla luce del sole, senza doversi scambiare gesti da carbonari. Avrei voluto poter attingere a una platea più ampia di possibili amicizie, all'epoca. Non era nulla di cui vantarsi, meglio tenere un profilo basso perché non si poteva essere sicuri degli interlocutori. Nerd non era un complimento, no no.
Quando per videogiocare dovevi pagare nelle sale giochi, considerate luoghi di perdizione per individui irrecuperabili, oppure avere qualche amico abbastanza ricco da potersi permettere una console o un qualche modello Commodore, prima che i prezzi diventassero più popolari.

Quando non potevi sfogliare una rivista di videogiochi in presenza di qualcuno più grande di te, figuriamoci andare in giro coi manga sotto gli occhi indagatori e giudicanti di un passante qualunque.

Quando le cose te le dovevi andare a cercare col lanternino, non le trovavi con un tasto magico.

Quando sul nastro trasportatore del supermercato rovesciavi una valanga di libri “sconvenienti”: Clive Barker, Stephen King, fantascienza a caso. Una volta, però, ho trovato una cassiera che era dalla nostra parte.

Quando, qualche anno dopo, uscire dalla proiezione di un anime era più disdicevole che farsi vedere alla biglietteria di una sala vietata ai minori. Quando Guerre Stellari e X-Files, quando l'aeromodellismo...

Quando si era una minoranza, insomma, quando noi eravamo piccoli e gli altri erano grandi, poi siamo cresciuti. Quelli più grandi di noi, ovviamente, ci sono ancora, ma siamo diventati abbastanza da comprenderci a vicenda, almeno all'interno delle nostre passioni. Quei figli ora sono diventati padri, insomma; io no, sono solo diventato più vecchio e anche questo va bene così.

Quando arriva la vita vera, che è come schiantarsi contro un muro, certe cose cambiano. Quando non trovi un lavoro o ne trovi uno da schiavo, quando i genitori invecchiano, si ammalano e peggio, quando il mondo che va a rotoli non sembra essere lontano come prima, quando capisci di riuscire appena a tenerti appena a galla nel presente e l'unica certezza del futuro è che non ne hai uno, ti passa la voglia di perderti in un videogioco, cadere tra le pagine di un libro. Seguire una serie diventa sempre meno attraente, anche la musica non suona più come prima e astrarsi dalle miserie quotidiane diventa impossibile, difficilissimo nel più paradisiaco degli scenari.

E così, proprio ora che potrei confondermi tra la nuova folla, con la diluizione della definizione di nerd a livelli omeopatici, so per certo di non far parte più della categoria. Non ho più la capacità di dedicarmi totalmente a certi argomenti, vivisezionarli, capirli profondamente, viverli, goderne. Non ricordo le storie, tantomeno i particolari, non ricordo i nomi; non ho la curiosità, il tempo libero (dalle preoccupazioni) da dedicare alla scoperta e alla riscoperta, sono fuori tempo massimo per i videogiochi moderni, i libri sono diventati noiosi dopo averne letti così tanti, l'estetica video contemporanea solitamente mi allontana, l'all you can eat del sistema abbonamento mi dà solo la nausea e non capisco come faccia la gente a guardare 300 serie tv 300 film giocare a 300 videogiochi da 300 ore nel solo mese di febbraio, che è ancora di 28 giorni salvo bisestili, come lo era quando ero nerd io, quando era brutto sentirsi apostrofare così.

Non saprei di cosa parlare, dove parlarne, con chi e come sostenere una discussione. Però, ora basta così: questi pensieri sono deragliati da un pezzo, non so dove andare a parare e la sintesi complessiva dei miei pensieri si riassume sempre in contenuti di scarsa rilevanza.

 
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from kipple


O di svitare qualcosa di ostinato in genere, ma nella realtà domestica il barattolo è il caso più comune.

Solitamente, si tratta di conserve, sottoli e sottaceti industriali, coi tappi avvitati da macchine che compensano la mancanza di cuore con una forza esuberante; solitamente, a occuparsene è la persona più forte in casa: statisticamente e per comodità, facciamo che sia il padre di famiglia. Questo padre che, sicuramente, agli occhi dei figli è pure l'essere umano più forte del mondo. È l'ultima risorsa, quando tutti gli altri muscoli in casa hanno fallito, ma il tempo passa. Eccome se passa. vola.
Prima o poi, la persona più forte della famiglia e, di conseguenza, del mondo, vi chiederà di aprire quel barattolo. E quel barattolo, che per tutti gli altri sembra un corpo unico, alla fine lo aprite e con uno sforzo relativamente leggero. “Tutto qui?”

Sono arrivato a questo punto di svolta ormai parecchi anni fa, ormai un numero a due cifre. La sensazione fu galvanizzante: il testimone era stato passato, ero il re della foresta, il più forte in quel microcosmo che è la casa. Era solo l'euforia iniziale, trasformatasi ben presto in tristezza, giusto il tempo di rendersi davvero conto della situazione.

Era iniziato il declino di quello che, nel bene e nel male, era il punto di riferimento. La persona che per anni si era presa cura di me, sempre nel bene e nel male, da quel momento in poi avrebbe avuto bisogno di qualcuno che se ne prendesse cura. Magari si fosse trattato, da lì in poi, solo di aprire barattoli. Quando mi son sentito dire “aiutami ad alzarmi dalla sedia, non ce la faccio, voglio andare a riposarmi un poco”, ho capito che anche io stavo iniziando a morire.

Faccio volontariato in un posto, nonostante la mia età sono tra i più giovani del gruppo. Mi chiedono di avvitare e svitare cose, operazioni che loro fanno con le pinze, a me bastano ancora solo le mani; quell'irrigatore, che per loro è a fine corsa, nelle mie mani fa ancora una decina di giri. Quando mi è (ri)capitato la prima volta, però, non ho provato nessuna euforia, nessun brivido di forza. Mi sono solo intristito e ho fatto in modo che non se ne accorgesse nessuno.

 
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from Ore liete


Per un anno siamo stati in villeggiatura a Lettopalena, un ridente (si dice sempre così) paesino abruzzese in provincia di Chieti, oggi circa 300 abitanti e qualcuno in più, ma non tanti, nei primissimi anni Novanta. Del paesino, però, avrò modo di parlarne qualche altra volta.

Venivamo da tre anni consecutivi di villeggiatura al Matese (San Gregorio – Castello – San Gregorio) e avevamo deciso di cambiare un poco aria, all'epoca si spulciavano le inserzioni su pubblicazioni come Fieracittà e Bric à Brac; non so che fine abbiano fatto, il primo avrà chiuso i battenti di sicuro. Troviamo questa inserzione, c'eravamo con i tempi e le date e anche il prezzo sembrava interessate. Quanto pagavamo per quelle casette? Solitamente, tra 350.000 e 450.000 lire, per un mese o una ventina di giorni. La ventina di giorni sarebbero, in realtà, nominalmente due settimane, ma i proprietari ci dicevano puntualmente che non ci sarebbero stati problemi a restare qualche giorno in più del dovuto.

E andiamo in Abruzzo, troviamo il paesino, raggiungiamo la casa a suon di indicazioni dei passanti. Due livelli e un'ampia cantina, un lato della casa affacciava direttamente su uno dei monti della Maiella, 2.500 metri di altezza circa, una cosa che non smetterà mai di stupire gente che, come noi, veniva dal livello del mare. Ogni mattina era una meraviglia.
Ora, la cosa che mi meraviglia abbastanza di queste situazioni è la fiducia che certe persone ripongono negli estranei, gente che viene da un'altra regione, impossibile da rintracciare: li avevamo contattati sul telefono fisso, all'epoca telefono e basta, non è che ci fossero alternative, e tanto bastava. Si erano fatti trovare in casa il giorno dell'appuntamento e quello fu il nostro unico contatto visivo, fisico.

Le case da villeggiatura, solitamente, sono semivuote, arredate il minimo possibile, con sedie, tavoli, qualche mobile e basta: questa no, era una vera e propria seconda casa, un posto dove poter abitare tranquillamente. Mobili pieni di cose, elettrodomestici, scaffali e mensole coi libri (ne approfittai per leggere, un paio di volte, Harold e Moude), tutto quello che si troverebbe in una casa di dimensioni generosi. E sotto c'era la cantina, l'ho già detto. Piena di cose anch'essa, con conserve, damigiane di vino e olio, una videocamera Super 8. Tutta roba, come quella in casa, che avremmo potuto prendere in prestito a tempo indefinito, cosa che, ovviamente, non facemmo.

Praticamente, questa brava gente, onesta e ingenua (nel senso più benevolo del termine, se ci fate caso le persone così e quelle buone in generale pensano che anche gli altri si comportino come loro, a differenza delle carogne che... pensano che anche gli altri siano come loro), si era fatta vedere per lasciarci le chiavi e farsi pagare quanto pattuito telefonicamente, per poi scomparire per sempre dalla nostra vita. Le chiavi le avremmo lasciate al vicino quando avremmo deciso di lasciare la casa, loro non sarebbero tornati a breve.

Io, invece, torno alla cantina e a qualcosa in essa contenuto, il titolo lo annunciava: uno skateboard. Era di quelli col corpo in plastica, piccolo e abbastanza stretto da non poterci poggiare del tutto i piedi sopra senza lasciarli sporgere ed era la cosa che mi pareva più interessante tra quelle presenti. Assieme alla Super 8 che, però, non aveva la pellicola su cui registrare e poi, comunque, non avrei avuto modo di sviluppare e vedere. La casa si trovava ai margini di un piazzale di forma approssimativamente ovale, usato come parcheggio, da cui partivano alcune stradine che portavano a una strada più esterna, diciamo concentrica. Queste stradine erano lunghe una decina di metri al massimo, ma in discesa. Una discesa particolarmente ripida.

All'epoca, sullo skateboard ci sapevo andare: non sapevo fare nessun trick, ma ci stavo in equilibrio, potevo andarci in giro. Me la cavavo meglio coi pattini, non mi spiacerebbe reimparare ad andarci. Qual è la prima da fare, per uno che su uno skateboard sa giusto starci in equilibrio, spingersi e girare un po' qua e un po' là? Ovvio: prendere la rincorsa sul piazzale e lanciarsi lungo la più ripida di quelle discese, perché queste sono le cose che fanno i cuccioli di animali, da che mondo è mondo: le cose sceme e pericolose, non è mica un'invenzione di questi tempi moderni. Lo skateboard sguscia via come impazzito, tra il realizzare la cosa e battere pesantissimamente il coccige sull'asfalto è questione di centesimi di secondo per un cronometro, un tutt'uno per la concezione umana del tempo, sicuramente meno scientifica. Se gli alberi della Maiella fossero stati imbiancati, avremmo potuto vedere la neve venir giù dai loro rami, in risposta a quell'urto che si premurò di accompagnarmi, sotto forma di dolore sordo e persistente, per qualche giorno. Era un corpo ancora giovane, il mio, quindi pronto a reagire. Oggi avrebbero dovuto raccogliermi da terra, quindi non lo rifarei. E neanche quella volta lo rifeci, ma passato il dolore, eccomi di nuovo sullo skateboard azzurro. Solo per scorrazzare nel piazzale, però: quell'esperienza mi aveva insegnato qualcosa.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Da dove sono partito

Circa un anno fa, a cavallo fra primavera ed estate 2024, ero in uno stato costante di disregolazione emotiva causato dall'uso compulsivo di Instagram e Reddit (e in parte X), per cui scelsi di andare alla radice del problema e tagliare via i social network commerciali: basta accesso costante a un flusso perpetuo di informazioni miste, strutturato in una forma tale da farmele ingurgitare senza ragionarci sopra e mirato a scandalizzarmi e farmi polemizzare sul nulla. Il passo successivo fu spostarsi su (quel che resta de) l'internet libero, con un profilo Mastodon, questo blog qua, e la riscoperta di newsletter e feed RSS, nel tentativo di riprendere io il controllo dei flussi di informazioni che mi raggiungono: nel tentativo di responsabilizzarmi e controllare io a che informazioni accedo, quando e come. La cosa è escalata al punto che, a una certa, ho distrutto Windows 10 sul mio portatile e ci ho montato su Linux Mint. Oggi, in ogni caso, mi rendo conto che ho davvero ancora tanto da fare.

Cos'ho imparato sinora

Riprendendo alcuni dei passaggi più interessanti di Hacking del sé, la chiave di volta del mio percorso è che devo ancora accrescere la consapevolezza di me stesso e il mio autocontrollo. In particolare:

  • Ho imparato sulla mia pelle che davvero i mali del secolo sono la noia, la mancanza di focus, e la solitudine, perché pur essendomi sbarazzato degli spazi online più esplicitamente pensati per succhiarci via tempo ed energie (e preziosi dati monetizzabili), nondimeno non mi sono affatto liberato del doomscrolling: se ho davanti del tempo vuoto, più o meno lungo, o se voglio fare una pausa da un'attività, l'istinto automatico è ancora di tirar fuori il telefono per sfogliare e aggiornare all'infinito le cronologie di Mastodon, o le caselle e-mail, o i miei blog preferiti, o leggere e rileggere articoli di Wikipedia e TV Tropes che vanno a toccare sempre gli stessi pochi temi di mio interesse, magari più volte gli stessi fino a memorizzarne dei brani. Confesso di avere abbastaza schifo di questa mia incapacità di sganciarmi dal cellulare e dalla sua illusione di essere agganciato e partecipe ai fatti del mondo, e dedicare invece il mio spazio-tempo vuoto a un'attività continuativa, possibilmente analogica (ma su questo ci torneremo).
  • Ho imparato che il mio autocontrollo informatico diventa decisamente migliore se riesco a metter via il telefono (tendenzialmente in carica sul comodino) e a lavorare sul computer, perché la maggiore “ergonomicità” del lettore di feed RSS mi permette di isolare l'accesso alle notizie sul suo software dedicato, e immergermi meglio su ciò che effettivamente voglio fare, che sia un lavoro in cloud via browser o un lavoro locale con programmi locali. E ora che sono su Linux, non devo più sprecare le ore a tenere il computer accesso senza usarlo affinché installi gli abnormi aggiornamenti di Microsoft.
  • Ho imparato che compartimentare meglio gli ambienti del cyberspazio mi aiuta ad attenuare la “reperibilità 24/7”: seguendo uno spunto di Liberare il mio smartphone per liberare me stesso, sono riuscito a catalogare i miei strumenti informatici fra modalità lavorativa e modalità personale: le credenziali della piattaforma Google con cui lavoro sono state relegate a un profilo utente apposito sul cellulare, e a un browser dedicato sul computer (Chromium, contrapposto al Firefox per uso personale), e in tal modo sono io a cambiare nome utente o browser, in modo da decidere quando dedicarmi al lavoro e quando ai fatti miei. Certamente, resta il problema che su telefono non ho ancora saputo snellire e scremare le funzionalità “personali” in modo da non cadere in meccanismi di dipendenza (vedi sopra).
  • Ho imparato che la decentralizzazione dei cyberspazi e l'eliminazione degli algoritmi profilatori non bastano a rendere sano Internet: prevedibilmente, serve a monte un'etica-deontologia dello stare su Internet, e una consapevolezza di che spazio abiti e di come lo stai usando. In questi ultimi 6 mesi circa, ho usato Mastodon essenzialmente per sfogare i miei patemi personali e/o le mie filippiche a tema politico, non diversamente da come facevo su Instagram: a differenza che su Instagram, non credo di aver fatto stare male altre persone, ma sicuramente ho inquinato e degradato la qualità dei contenuti di uno spazio autogestito che è stato troppo gentile per dirmi di piantarla. Come si è detto in questo interessantissimo dibattito avviato dall'utente Xab, forse è il caso di uscire dal paradigma post-Facebook per cui i social network siano una “federazione di blog”, in cui ogni utente può raccontare quel che vuole senza badare all'effetto complessivo sullo scambio di informazioni, e tornare invece nel paradigma forum: ogni spazio online ha una funzione designata (come ogni profilo utente sul telefono, vedi sopra), ed è tuo dovere di utente immetterci dati coerenti con tale funzione. Come non si usa un foglio di testo come foglio di calcolo, analogamente non si parla di cavoli propri in un luogo di discussione tematica.
  • Ho imparato che saperti montare da solo Linux, armeggiare con un file epub e scrivere testi in Markdown non conta nulla come capacità informatica: le competenze digitali che ti permettono davvero di fare hacking sono altre e molto più avanzate, e bisogna avere l'umiltà di ammetterlo e decidere se si può e vuole impararle davvero con studio costante.
  • Ho imparato che acquisire solo capacità informatiche non conta granché, in un progetto generale di vita più consapevole/politicizzata/antagonista/come cavolo vogliamo chiamarla. Grazie al cielo il mondo fisico è ancora là fuori, e per fare davvero contropotere punk servono piuttosto capacità di agricoltura, di meccanica-elettricistica-idraulica, di cucito/sartoria e di cucina. Insomma, quelle competenze pratiche che non studiamo più a scuola per classisimo, ma che cinquant'anni fa erano patrimonio di tutta quella generazione capace di occupare case vuote in città e di mettere in piedi comuni in campagna.
  • Ho imparato che per me la militanza politica è fonte di gioia e soddisfazione costante, perché anche nel fallimento sento di stare agendo contro un sistema marcio, ma dall'altra parte è la cosa di cui più sono pratico, a fronte dei vari hobby di cui so poco e in modo settoriale.

I miei propositi da qui in poi

Sono tutti questione di accrescere la mia autodisciplina:

  • Assumere un maggior controllo del mio telefono e spazzare via le fonti residue di distrazione. Basta applicazioni separate se non strettamente necessarie (tipo lo SPID): tutto il resto via browser, e vanno messi a regime i feed RSS sul telefono, come già lo sono su computer. Basta doomscrolling.
  • Di pari passo, meno telefono in mano e più lettura di testi lunghi quando sono fuori casa. Piuttosto, che mi guardino storto, ma da ora sì all'e-reader a tavola.
  • Di pari passo, più notizie in formato cartaceo, ovviamente di testate selezionate. Sono due settimane che riesco a leggere da cima a fondo «Internazionale», dopo anni che mi perdevo sempre per strada, forse riuscirò ad appaiarci un altro settimanale cartaceo (quale, non so). E magari, anche una bella riscoperta delle radio.
  • Nella mia vita reale, circoscrivere un po' di più e un po' meglio l'attività politica e dare più spazio ai miei hobby, prima di trasformarmi nel mio avversario naturale, cioè il sinistronzo con una copia de Il capitale su per il culo e zero vita culturale-ricreativa.
  • Saper smanettare poco e male coi computer non fa alcuna differenza tangibile nel mondo attorno a me. È ora di imparare cose pratiche vere, che siano competenze artigianali e/o lingue straniere. Voglio dire, un Egiziano mi ha detto che potrei diventare un discreto arabofono!

E niente, credo che questo sia tutto. Ci riaggiorniamo fra sei mesi, per valutare se e quanto ho assolto ai miei propositi.

 
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from Nonsolobotte

LA NOTTE DEI LUNGHI ARTIGLI

La notte dei lunghi artigli

Francis e Gustav vivono insieme. A volte si amano, a volte si tollerano a fatica, ma convivono ormai da anni e non saprebbero stare lontani l'uno dall'altro. Questo fino a quando compare Francesca... Donna, quindi biologicamente affine a Gustav che è un uomo (ah, dimenticavo di dire che Francis è un gatto!), arriva a sconvolgere il tranquillo ménage à deux. Così Francis decide che qull'appartamento non è abbastanza grande per tutti e tre e scompare. Inizia così la sua seconda vita, una vita fatta di mistero, intrighi felini e delitti.

Gran bel libro, sia per chi ama gli intrighi sia per chi ama i gatti. Se li amate entrambi, non potete proprio perdervelo!

Titolo: La notte dei lunghi artigli Autore: Pirinçci Akif Traduttore: Boschetti S. Editore: TEA Data di Pubblicazione: 1996 ISBN: 8830412147

(Nonsolobotte – 4 gennaio 2008)
 
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