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from Ore liete


Siamo quasi alla fine dell'anno, sono fuori tempo massimo o troppo in anticipo per la sua prossima iterazione, ma ora posso scriverne. Per le festività natalizie andavamo da mia zia, pranzo o cena che fosse, e il mio giorno preferito era quello della vigilia, seguito dall'ultimo dell'anno. Intanto, sono del Sud: non mi pare proprio sia una consuetudine nazionale, ma sotto una certa latitudine c'è il cenone della vigilia. E la preparazione iniziava il pomeriggio, con la preparazione delle anguille, le sfuggevoli anguille. La casa di mia zia stava nel centro storico, che in molti paesoni brutti del Sud è un modo falso e gentile per riferirsi alla zona più degradata e abbandonata, un agglomerato di case mangiate dall'umidità e dallo sfacelo, inghiottite dal buio, l'unico tipo di casa alla portata dei più poveri. Due piani, giù una stanzetta di pochi metri quadri collegata a un cucinino ancora più stretto e al salone, l'unico locale di una metratura approssimativamente umana. Al piano di sopra si accedeva da una scala ricavata da putrelle di ferro, queste sì solide (probabilmente, se il terremoto del 1980 fosse capitato più vicino, quelle putresse sarebbero state l'unica cosa a salvarsi di quell'isolato marcio). Sotto il triangolo disegnato dalla scala, lavorava mio nonno quando faceva il ciabattino. Sì, in uno spazio ridicolo che oggi forse associamo di più alle immagini di Kowloon, uno spazio risicato anche in altezza ed era un attimo alzarsi e picchiare la testa su una putrella di ferro. Al piano di sopra, la stanza da letto e il bagno.

Mia mamma e mia zia se ne stavano quasi tutto il tempo nel cucinino, iniziando col litigare con le anguille, che erano sempre e comunque vive e istintivamente, naturalmente portate alla sopravvivenza. Era il regno della frittura, c'era anche il baccalà, e tutti quanti dovevano starne fuori e accontentarsi del puzzo del fritto e dello sfrigolio dell'olio.

Era tutto buio, sostanzialmente: la casa era al piano terra di un palazzo tra palazzi, il sole vi faceva capolino soltanto per poco, quel che rifletteva dalle pareti una volta bianche delle mura circostanti. Ogni locale doveva accontentarsi di una lampadina o di un neon, tranne il salone che si meritava addirittura un lampadario. La sensazione complessiva, però, era di quel buio che non si riesce a sconfiggere.

Il riscaldamento... parola grossa, comunque dalla cucina arrivava un certo calore e nello stanzino d'ingresso c'era una stufetta elettrica che faceva il possibile; solitamente, a quelle stufette prima o poi si rompe uno degli elementi riscaldanti e quelle nostre erano sempre così. Probabilmente, in qualche misura ci aiutavano anche le lampadine, le lampadinacce di una volta, quelle che consumavano quanto un forno elettrico e illuminavano quanto un cero votivo. Più avanti, la stufetta venne sostituita dalla stufa a gas col bombolone, che solitamente finiva proprio in quei giorni.

Su quelle stufe, comunque, ci accendevo i fitti-fitti. Si chiamano stelline nel resto d'Italia, nel napoletano stelletelle o, più comunemente, fitti-fitti. Avrete capito di cosa stia parlando, ma so essere ridondante e specifico: quei bastoncini composti da un'anima di filo di ferro immersa in una qualche miscela chimica che, innescato il fuoco, si concretizza nella distribuzione copiosa e gioiosa di scintille nel raggio di una ventina di centimetri, esaurendosi in un rumore caratteristico. Bottigliette di champagne a parte (quelle cosine di plastica col filo che sbuca), era l'unico fuoco d'artificio a cui avessi accesso. Mio cugino, più grande, poteva dilettarsi con una scatolina di miniciccioli da far durare tutto il periodo delle feste, facendoli esplodere nel cortile del palazzo, ma in famiglia non siamo mai stati amanti di questa barbarie. Champagne, fitti-fitti e miniciccioli, basta: inoltre, non è che avessimo soldi in eccesso da bruciare.

Poi c'erano i cartoni animati: più o meno sempre gli stessi titoli: come oggi abbiamo Una poltrona per due, all'epoca c'erano i film di Asterix, dei Puffi e dei robottoni di Go Nagai. Mi faceva impazzire di meraviglia vedere Devilman e Mazinga Z insieme, oppure, Goldrake coi Mazinga, le spalle comiche e gli altri personaggi mischiati e immischiati. Sulle reti private, invece, era consuetudine trasmettere un cartone animato russo, con la principessa delle nevi. Non il giorno della vigilia, probabilmente, ma in quel periodo e mi piaceva guardare anche quello. Insomma: tra le sortite in cucina a spiare cosa bollisse in pentola o friggesse in padella, i robottoni, Asterix che prendeva a sberle i Romani, i Puffi e i fitti-fitti, quel pomeriggio non sembrava finire mai, ma poi finiva, tornava mio zio da lavoro, faceva il macellaio, e ci si metteva a tavola dopo poco.

Il cenone della vigilia è a base di pesce e il primo piatto erano spaghetti con vongole o lupini (vongole se ci sentivamo particolarmente ricchi), poi fritto di anguille e baccalà, frutta secca e dolci. Le varie pietanze erano intervallate/accompagnate dalla classica insalata di rinforzo e dai finocchi, questi “per sgrassare”. L'insalata di rinforzo era, appunto, un'insalata di cavolo bollito, alici salate, olive verdi e nere, cipolline in agrodolce, papaccelle (strisce di peperoni tondeggianti, grossi al massimo quanto un pugno, marinati in aceto, spesso anche piccanti), altri vegetali... si chiama di rinforzo perché, successivamente, ci finivano dentro gli avanzi, come per esempio i pezzetti di baccalà avanzati. Il contenitore dell'insalata di rinforzo andava avanti e indietro dalla vigilia al primo dell'anno. Poi la frutta secca: noci, arachidi, mandorle, nocciole, ceci e semi di zucca tostati. Datteri, fichi bianchi e neri, oggi si trovano solo quelli bianchi. Prugne secche. I dolci, con roccocò, mustaccioli e anginetti. Solitamente li compravamo già fatti, ma mia zia si provava, ogni anno, coi roccocò, sempre con lo stesso risultato: erano duri come la pietra. Li portava in tavolta e lo scambio di battute seguente era sempre lo stesso:

- Ho fatto i roccocò, ma quest'anno, chissà come mai... - ... sono venuti un poco duri.

Era mio padre quello che si occupava di far notare la cosa e, effettivamente, erano buoni per piantare i chiodi. Così mangiavamo quelli comprati altrove, mentre quei pezzi di marmo finivano inzuppati nel latte, nei giorni a seguire, o mangiucchiati dalle dentature più audaci.

Poi c'era la tombolata, e si rideva quando a dare i numeri (letteralmente) era mio zio, che si diceva un gran bevitore, capace di resistere a chissà quanti litri di vino, in realtà era già ubriaco dopo mezzo bicchiere e partivano racconti militareschi di imprese epiche e avventure in posti esotici che neanche Sandokan, quando tutto quello che aveva fatto, e che avrebbe fatto per la vita che gli restava, era andare dalla casa alla macelleria e ritornare. Un bicchiere intero e partivano le canzoni e i balli, ma si faceva il possibile per non arrivare a questi estremi. Il panariello poi passava a mia zia, che ha sempre avuto una vista pessima, solo parzialmente mitigata dagli occhiali spessissimi, ogni numero era un'incognita o una runa da decifrare. Lo stesso numero sembrava uscire più volte e bisognava ricontrollare, quei giri di tombola duravano troppo più del dovuto.

Infine, pandoro o panettone, più frequentemente il primo (c'era sempre qualcuno *non mi piacciono i passeri (l'uva passa), i canditi, la glassa è troppo dolce...); li facevamo scaldare davanti alla stufa/stufetta, qualche volta dimenticandoceli pure. Difficilmente si aspettava la mezzanotte, lo spumante lo stappavamo con un certo anticipo. Anche il cenone dell'ultimo si concludeva con un certo anticipo: era meglio non trovarsi in strada nel momento cruciale, perché il resto della popolazione non si limitava a champagne, fitti-fitti e miniciccioli.

 
Continua...

from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Questo articolo è una prosecuzione ideale di A proposito di guru laici, autenticità e utopia; raccomando caldamente di recuperarsi la “scorsa puntata”.

Le ferie con Unicorn Overlord

Sono le vacanze di Natale, e sei attaccato ai videogiochi. C'è un impero dispotico che ha sottomesso tutto il mondo conosciuto, grazie a una magia nera che fa il lavaggio del cervello agli oppositori e li riduce a docili servi del regime. C'è un legittimo principe dai capelli blu a capo di una piccola banda di guerrieri lealisti, con in pugno un'arma segreta: un anello sacro, una reliquia del culto del Padre Celeste, la cui carica mistica può sciogliere l'ipnosi dell'imperatore malvagio. Ci sono piccoli gruppi di insorti irriducibili sparsi per tutto il mondo, dalla foresta lussureggiante degli Elfi alle tundre gelate dei Feridi, tutti messi all'angolo dalla repressione imperiale... tutti perfettamente capaci di riprendersi e vincere, se al momento giusto il nobile principe arriverà a colpire il nemico dove fa più male e a ribaltare le sorti della battaglia.

Sono le vacanze di Natale e stai liberando dalla tirannide un mondo di codice dove sono solo i soldati imperiali a morire, i ribelli si riprendono sempre, e dove l'interfaccia ti preavvisa prima chi prevarrà in uno scontro fra due battaglioni. E dove ci sono abbastanza risorse naturali, pronte alla raccolta, da rimettere in sesto l'economia di tutti i borghi che l'impero ha devastato e ultratassato, assicurando un benessere pan-continentale attraverso un'economia pre-industriale.

Fin qui va tutto bene...

In casa tua.

Fuori di casa tua, nel mondo di atomi, i più ricchi e potenti Stati del mondo sono tutti già in mano a despoti guerrafondai, in ciascun Paese la repressione arresta sfratta e ammazza, e non c'è nessun Padre Celeste a donarci il miracolo salvifico. A ben guardare, non abbiamo nemmeno il principe carismatico benedetto dal Signore Iddio che possa guidare la guerra di liberazione: abbiamo i vari tiranni pronti a sganciarsi le bombe atomiche l'uno contro l'altro. E la nostra economia potrebbe robotizzarsi e assicurare benessere diffuso, invece ci sta trascinando verso l'inabitabilità del pianeta.

Però fin qui tutto bene...

Fra il manganello e la cattedra

Qui nel mondo di atomi, sono cinque mesi che qui in Italia i nostri simpatici despoti mussoliniani demoliscono quelle che, a loro giudizio, sono le cittadelle dei ribelli facinorosi: a luglio, qui a Milano, il centro sociale Leoncavallo è stato espugnato a sorpresa mentre la piazzaforte era bella che vuota (e molti sarcastici complimenti ai suoi difensori assenteisti); pochi giorni fa, a Torino, l'Askatasuna è caduto sotto un assalto di proporzioni bibliche, e in effetti quello spiegamento di armati è servito a ricacciare indietro una tentata controffensiva. Da bravo sinistronzo abitante delle metropoli, sono colpevolmente ignorante di cosa accade in provincia, ma il passaparola delle staffette parla di nubi addensate su tutto il Triveneto, di tempesta lungo il medio Adriatico dalle Marche all'Abruzzo, di una morsa che si stringe nel cuore di Roma attorno al Forte Prenestino; ma se tutte le strade portano ancora a Roma, e se il Forte è il centro sociale più grande d'Europa, il sacco del Forte segnerebbe la disfatta di tutto quel mondo che crede a un'alternativa rispetto alle gerarchie finalizzate al lucro, un'alternativa fatta di autogestione e condivisione.

Ma esiste davvero, quel mondo alternativo?

No raga, perché ora vi invito a dare un occhio alle valutazioni della cosa (per altro, proficuamente discordanti sul alcuni punti) che propongono Valerio Mattioli su «Rivista Studio» e Christian Raimo su «Jacobin Italia» (e grazie all'Archivio Grafton9 per la segnalazione degli articoli!).

Letto? Bene

La percepite anche voi, questa patina di distanza e astrazione nell'analisi, questo mantenere il discorso su un piano teoretico e cerebrale, tutto a parlare di “laboratori culturali”, “glitch nella matrice urbana”, “desiderio”, “dispositivo immaginifico”... e autoproduzione editoriale?
Insomma, a sentire Mattioli e Raimo, i centri sociali sarebbero stati un'esperienza cruciale nel panorama italiano perché hanno fatto da volano alle avanguardie sia musicali sia letterarie di fine millennio: le posse rap, i gruppi punk, la nicchia di sperimentazione narrativa da cui è uscito il New Italian Epic...

E poi quasi basta.

Con tutto il rispetto per Raimo e Mattioli, tanti paroloni sofisticati e filosofeggianti per blaterare tanto senza dire nulla.

Perché l'elaborazione di un'alternativa non deriva solo dalla sala concerti e dallo spazio stamperia, Sacripante!

Il desiderio che muove le masse

Da troppi anni, c'è uno spettro che avvelena quella manciata di persone convinte di poter tenere in piedi una parvenza di attività politica progressista, in questo paese che precipita nel neofascismo. È lo spettro dell'intellettualismo vuoto e borioso, figlio di quella pedagogia borghese della lingua italiana per cui non si “fanno i compiti” bensì si “eseguono i compiti”, il fenomeno tal dei tali non è “cultura giovanile” bensì “tipico dei ragazzi”, non esistono i “ruoli di genere nella cultura” bensì “la figura della donna nella cultura” (evviva l'oggettificazione per cui la donna non agisce mai, bensì è analizzata dall'uomo)... e soprattutto, non esiste la “rilevanza immediata e personale” di un tema, esiste l'“attualità” di quel tema: asettica, emotivamente piatta, ovviamente orientata in partenza a mantenere eternamente “attuale” ciò che la cultura del padronato ha elevato a canone (La poesia lirica cinquecentesca sarebbe ancora attuale? Sì e io allora ho una vagina...).

«Ma cretinodicrescenzago, tu ti stai lamentando della retorica con cui la cultura di regime anestetizza preventivamente tutti i temi caldi! Noi siamo l'opposizione democratica, noi diciamo le cose come sono!»

Oh per favore, caru compagnu, non diciamoci bugie. Davvero non parlate mai in finto compagnese settantasettino, infilando in ogni dove la “soddisfazione dei bisogni materiali” o “l'innalzameno del livello di scontro” oppure il “salto di qualità della repressione” solo perché suonano bene? E davvero non parlate mai in finto compagnese femminista-finocchio, spargendo qua e là come prezzemolo il “potenziale trasformativo” o lo “sguardo dettato dal posizionamento” oppure le “alleanze fra i margini”? E davvero non fate mai anche voi come Raimo e Mattioli, pappagallando la santa trinità dei “comunisti critici” Michel Foucault-Gilles Deleuze-Felix Guattari, più una spruzzatina della buonanima di Primo Moroni?

Ammettetelo, ammettiamolo. Lo facciamo tuttu: parliamo in un accademicese che non capiamo davvero ma che ci dà un tono, ci fa sembrare informati e profonde e capaci di analisi elaborata, capaci di decostruire (ah, altra bella parolona) il sistema del padronato fin nei suoi atomi costitutivi. Ma è tutta una farsa, come i processi finti di Forum: l'accademicese è un comodo strumento per girare attorno al segreto di Pulcinella, all'elefante in mezzo alla stanza.

Intermezzo: in lingua inglese elephant in the room (“elefante nella stanza”) è la metafora equivalente al nostro “segreto di Pulcinella”. Da quando l'ho scoperto, voglio sceneggiare uno sketch comico in cui Pulcinella tenta invano di nascondere un elefante in una stanza. Ahahaha che genio che sono...

Dall'azione al pensiero e di ritorno all'azione

Nell'ultimo lustro, lo sappiamo, è esploso il dibattito pubblico sul linguaggio inclusivo, e ci sono state costruite sopra delle piccole fragili carriere; personalmente, trovo che tale dibattito incapsuli perfettamente il peccato originale accademista della sinistra italiana, tanto più che, mi sembra, nessunu si sta degnando di sbloccare l'empasse grazie al percorso tracciato dalla compagna Brigitte Vasallo (la mia filosofa vivente preferita; ecco, l'ho detto) nel suo splendido Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe. Ci spertichiamo a mappare tutte le forme di linguaggio irrispettoso nella speranza che stigmatizzarle spinga le persone a “parlare pulito” e, a catena, ad “agire pulito”, ma non ci poniamo mai il problema che la lingua è uno strumento, e come tutti gli strumenti può essere monopolizzata o quasi dai padroni, ma se i ceti subalterni creano una propria versione di uno strumento, essa viene svilita e confiscata proprio perché non faccia concorrenza alla versione padronale. Ora, chi ha accesso agli strumenti del padrone e si professa progressista ha gioco estremamente facile a confondere i confini fra povertà materiale e culturale ed eguagliare l'ignoranza col fascismo, marchiando di un peccato originale inespiabile chi certi strumenti concettuali non ce li ha, perché è già tanto se arriva a fine mese con un lavoro di fatica: in un certo senso l'ho esperito io stesso, con amara ironia, alla presentazione milanese di Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe, allorché il pubblico che capiva il Castigliano dell'autrice si metteva sistematicamente a ridere e applaudire sopra la traduzione in Italiano a beneficio degli ignoranti come me.

Dove voglio arrivare, con questa filippica? Alla mia convinzione che l'analisi di Vasallo sia il controincantesimo necessario per spezzare quel sortilegio velenoso che rincoglionisce il progressismo italiano: se il linguaggio è uno strumento, e un linguaggio democratico deve essere inclusivo, la comunicazione deve demolire tutti i livelli intermedi di astrazione e mistificazione che confondono le acque e allontanano il pensiero dal mondo degli atomi. La comunicazione politicamente schierata deve smetterla di procedere per goffe citazioni scolastiche da un canone di teoria filosofica che tuttu fingono di conoscere ma quasi nessunu ha letto davvero: deve farsi strumento di emancipazione con cui la singola persona subalterna possa pensare e descrivere sé stessa e la sua condizione, verbalizzare i propri bisogni concreti (materiali o spirituali che siano, differenza non ve n'è), e progettare una prassi trasformativa con cui migliorare il proprio vivere.
E questa che sto formulando io non è la fusione atomica, eh: è solo la sintesi di ciò che ho imparato leggendomi da cima a fondo Pedagogia degli oppressi del compagno Paulo Freire (un classico sessantottino terzomondista), e facendo amicizia con vecchi militanti di Avanguardia Operaia che in gioventù si sono sporcati le mani e spaccati le ossa a fare scontri di piazza, contrastare lo spaccio di eroina, e occupare spazi abbandonati per restituirli alla comunità.

E qui torniamo al mio punto di partenza.

Le vere geografie del desiderio

Non chiedermi chi è stato il primo, non chiedermi come si fa, non chiedermi chi erano i Beatles: chiedi chi era Davide Dax! Chiedilo a chi gli è restato vicino a chi ora è qua nel nome di Dax. Gridalo forte a chi non ha capito cosa vuol dire davvero antifa!

Sono le barre del rapper Aban in memoria di Davide “Dax” Cesare, militante del centro sociale milanese ORSO, assassinato da neofascisti il 16 marzo 2003. Qui in Lombardia, i graffiti “Dax odia ancora” sono una presenza fissa e rassicurante, e un punto di ingresso alla militanza politica per tantu fra noi: lo sono stati per me, che mi trasferii a Milano giusto in tempo per il ventennale della morte di Dax, e la sera del 16 marzo 2023 mi recai lì, sotto la lapide in memoria di Davide, all'angolo fra via Brioschi e via Zamenhof, tutto tremante e intimorito davanti a quel mondo nuovo e sconosciuto, quella sottocultura dell'antagonismo che conoscevo solo dai fumetti di Zerocalcare... finché non abbiamo guardato il documentario sulla vita e il ricordo di Davide, e poi è partito il corteo, e il sound system del furgone ha sparato a tutto volume le barre di Aban. E allora ho capito di essere a casa.

Ad accogliermi nella sinistra di movimento non sono state le elucubrazioni professorali e decontestualizzate sul desiderio, il prisma intersezionale, e la declinazione femminile dei sostantivi: è stato il peana funebre per un camionista delle case popolari di Rozzano che si faceva il culo quadro per mantenere la figliola (quasi mia coetanea) e tenere in piedi uno spazio sociale, e ci è stato ammazzato a coltellate a ventisei anni. Ma, come rappa Aban, la comunità di Davide ha “trasformato il dolore in azione”, a partire dai suoi genitori Arcangelo e Rosa, e anche se l'ORSO è stato sgomberato, tuttavia in via Gola sopravvive il quadrilatero delle case occupate, con la sua vertenza perpetua per ottenere la sanatoria, e il volto fiero di Dax che campeggia sul muro all'angolo con via Pichi; poco lontano, sopravvive anche il Cox18, con l'archivio storico di tutta la stampa autoprodotta che il movimento milanese (e non solo) ha accumulato nei decenni e che la biblioteca nazionale di Firenze di sicuro non ha mai catalogato. Un bel po' più a nordovest, c'è lo Spazio Micene, il luogo di ritrovo e coordinamento per chi abita le case popolari del quartiere di San Siro, quella comunità che ieri pianse l'omicidio di Giuseppe Pinelli e ora protegge dalla repressione i suoi figli che parlano un po' Italiano e un po' Egiziano, che hanno il cuore un po' ai piedi dello stadio Giuseppe Meazza e un po' nelle campagne fra il Nilo e il Mediterraneo. Si va tutta a Est, e si raggiunge il SOCS, un seminterrato del plesso di scienze naturali dell'Università Statale, un'aula studio con mensa autogestita che ospita seminari e hacklab, unico piccolo grande risultato del movimento delle Tende in Piazza del 2023 (essendo che la questura li sgomberò dal cinema abbandonato di viale Abruzzi, ma dettagli).

E questi sono solo alcuni, degli spazi sociali variegati e litigiosi sparsi per questa grande metropoli che è Milano. Ciascuno con i suoi limiti, le sue storie, i suoi progetti, il suo sogno di rendere la vita più bella a chi abita il suo territorio. E come Milano ha i suoi, sono certo che ogni piccolo spazio ancora attivo in ogni centro di provincia abbia le sue storie, i suoi progetti, i suoi sogni.

Questi sono i centri sociali, questa è la sinstra di movimento: non paroloni sui libri di filosofia, ma progetti collettivi per migliorare la vita, per dare una risposta a bisogni reali e accrescere un po' il benessere di tutti. È con il progetto collettivo che le famiglie senza tetto rioccupano case abbandonate lasciate a marcire, che chi non spiccica una parola di Italiano impara quantomeno le basi grazie ai corsi gratuiti, che le donne bisognose di supporto hanno accesso a consultorie autogestite e gruppi di sport popolare che fra le righe insegnano anche l'autodifesa.

Non è coi paroloni, che bisogna raccontare questi sogni: è con il linguaggio della leggenda urbana, della poesia rappata, della mitologia moderna.

I sogni si raccontano col cuore.

Olio di gomito, e immaginario di lotta

C'è un motivo, se da cinquant'anni a questa parte vanno forte le storie high fantasy che scopiazzano male quel pezzo da novanta che è Il signore degli anelli: perché è rassicurante sognare mondi in cui la Divinità designa chiaramente un Cristo che possa dissipare il Male incarnato, e gli fornisce pure gli strumenti infallibili per riuscirci. A quel punto, ovvio che ci accodiamo tuttu al carro del vincitore, per guadagnarci l'accesso al nuovo Eden in terra.

Ma questa teologia è una semplificazione consumista, non è la vera visione cattolica del prof. Tolkien, e non è certo l'unica teologia possibile. Ci sono altre storie mitiche, con cui dare forma alla nostra visione del mondo atomico e orientare di conseguenza il nostro agire. La compagna Ursula Kroeber Le Guin ha raccontato ne I reietti dell'altro pianeta una società anarchica in dialettica con un blocco capitalista e uno sovietista, e il suo romanzo, per me, è stato più educativo di mille ore di ciance con anarchici viventi che venerano in modo masturbatorio il pensiero di Errico Maltatesta. Zerocalcare sono quindici anni che si batte con carta e inchiostro per rappresentare l'antagonismo di sinistra come una scelta nobile e gratificante, ed è anche grazie a lui che abbiamo idea, qui in Europa, di ciò che sta facendo il movimento libertario curdo (e ormai non più solo curdo) per costruire un'utopia fra i monti Zagros e il fiume Eufrate. Il defunto Nanni Balestrini si sarà anche adagiato su sé stesso, ma intanto Vogliamo tutto ci racconta in presa diretta le lotte sindacali auto-organizzate della Fiat di Torino nel '69... e a leggerlo, ti dici che avresti voluto essere lì con gli operai insorti, nella battaglia di corso Traiano. E ben prima di Mattioli e Raimo, una difesa dei centri sociali c'è in Al sole come i gatti di Marta Baroni, alla quale sarò per sempre debitore, perché parlando della sua Roma mi ha insegnato cosa vuol dire amare un isolato, un quartiere, una città... È grazie a lei se ora amo la mia via, la mia Affori, la mia Milano.

I compagni di Dax hanno scritto sulla sua lapide che:

[...] Contro la rassegnazione pensare l'impensabile! Contro la paura imparare il coraggio! Cospirare vuol dire respirare insieme. [...]

Pensare l'impensabile, a casa mia, si chiama pensare il fantastico: si chiama scrivere fantascienza, fantasy, horror, realismo magico. Si chiama non cedere all'obbligo eurocentrico scientista di pensare il mondo solo in termini materialisti, e liberare un pensiero spirituale, se non (eresia!) religioso. Pensare l'impensabile è prendere il mondo atomico per come lo esperiamo, e immaginarsi un di più, un'eccedenza, un'anomalia. Un fuori fase che ci permette di intuire un'altra prospettiva. E la buona letteratura fantastica parte dalle eccedenze che la comunità avverte ma non verbalizza, le porta alla luce, e innesca il ragionamento collettivo su cosa fare, di quelle eccedenze. È la chiave di volta dell'afrofuturimo di Octavia Butler, Samuel “Chip” Delany e Charles Saunders. È una possibile sfaccettatura della resistenza palestinese al colonialismo sionista. È un pilastro della sopravvivenza delle persone finocchie come me; chiedetelo alla compagna Filomena Sottile.

Poul Anderson fu uno dei maggiori autori statunitensi di fantascienza in quella generazione che vinse la Seconda Guerra Mondiale e reputava la NATO una forza del bene, destinata a sconfiggere la barbarie sovietica e portare l'umanità verso un futuro di benessere tecnocratico. Nel suo racconto “Gypsy” (mi risulta inedito, in Italiano), del Cinquanta-qualcosa, il giovane Anderson si scatena in un immaginario utopico, a pensare l'impensabile: un futuro neanche troppo distante in cui gli esseri umani potranno scegliere se colonizzare pianeti ecologicamente simili alla Terra, ma privi di vita intelligente, o viaggiare da nomadi fra i sistemi stellari, per il gusto di esplorare lo spazio aperto e conoscere altre specie senzienti. Questa è la costruzione di una prospettiva mitico, di un sogno cui tendere, e questo immaginario, al tempo, dava forma alla classe intellettuale statunitense, quella grazie alla quale siamo arrivatu al computer in ogni casa. Poi il vento dell'immaginario è mutato, e ora viviamo nella peggiore delle distopie che aveva immaginato la generazione del cyberpunk.

Compagnu e compagne e compagni, c'è poco da fare. Se vogliamo invertire il vento, dobbiamo scendere dal piedistallo fatto di libroni di filosofia che nemmeno capiamo, e farci umili e laboriosu: dobbiamo parlare come mangiamo per capire i nostri bisogni reali, sporcarci le mani assieme per soddisfare assieme quei bisogni, e sognare assieme un'utopia in cui stiamo meglio... e raccontare quell'utopia sì da renderla accattivante, attraente, bella.

Se sapremo raccontare con onestà quell'utopia, e se costruiremo con sincerità i nostri sogni strada per strada e casa per casa, forse ci sarà ancora una possibilità.

Forza amicu, cospiriamo assieme.

 
Continua...

from Does GLaDOS dream of electric sheeps?

“Era dal 1968 che non mi sentivo così”, esclamò John, cercando goffamente di rimanere in piedi vicino la palizzata. “Così come? Ubriaco? O intendi felice?” Mark era in genere un ragazzo che andava dritto al dunque. “Entrambi, uno la conseguenza dell'altro!” La palizzata era un rimasuglio del recinto con il quale la vecchia e decadente cittadina di Orkaunty segnava il suo confine. Era un pezzo d'epoca, molto famoso: tanto che il primo sindaco arrivato dopo la grande guerra del Nord fece installare una placchetta metallica con scritto “Qui la cittadina di Orkaunty smette di essere circoscritta dalla Valle del Nulla ed espande le sue radici verso l'orizzonte – Russel McKolin” “Che idiota, comunque” Mark si girò di scatto e vide che John stava fissando, con equilibrio precario, la palizzata. Si avvicinò barcollando, scavalcò e si mise di fronte al suo amico. “Di chi parli?”, chiese Mark con sguardo interrogativo. “McKolin... Quel vecchio idiota, schifoso e ladro di un McKolin... McKolin...” “Forse è ora di tornare a casa, che dici?” Mark afferrò il braccio di John per tirarlo verso la strada, ma non riuscì a smuoverlo. “Voglio rimanere ancora un po'”, fece John. “Cosa vuoi fare?” “Non lo so... Sono ubriaco e sto ricordando il passato. Il minimo che posso fare è versare una lacrima per tutti coloro che ho perso durante la mia vita” “Oh, cosa mi tocca sentire alle tre di notte... John andiamo, sei stanco” “No Mark, non sono stanco, sono annoiato” “Da cosa?” “Dalla vita che conduco ogni giorno da ormai quindici anni” “Essere anziani significa questo? E io che non vedo l'ora di arrivare alla pensione!” “Sciocco, sei giovane e puoi permetterti di fare cose che un vecchio bacucco come me non può che sognare” Per diversi secondi nessuno dei due disse nulla, poi John, voltandosi, guardò prima Mark, poi di nuovo il paletto e poi ancora Mark. “Va bene, andiamo a casa” “Oh, dio, grazie! Non vedo l'ora di buttarmi sul letto e...” Ma John gli mise una mano sulla spalla e con un cenno gli intimò di fare silenzio.

La decisione che John prese molti anni prima, di andare a vivere lontano dal centro, in mezzo al deserto e alle sterpaglie, era una delle poche cose che non rimpiangeva. Camminando in silenzio poteva ascoltare il rumore dei passi di Mark, che trascinava i piedi per terra, il fruscio del vento e il canto dei grilli. Il cielo era nuvoloso, ormai lo era da anni, guardando in alto cercava di ricordarsi le stelle, piccoli puntini luminosi, alcuni più, altri meno, che invadevano il cielo dopo il calar del Sole. Neanche il Sole c'era più da molto tempo. L'alcol che aveva in corpo lo rilassava e lo scaldava. Arrivati a pochi metri dall'ingresso, si fermò di colpo: aveva voglia di stendersi da qualche parte ed osservare il cielo notturno. “Cosa succede?”, Mark sembrava preoccupato. “Niente Mark, sono solo... Sono...”, si guardarono negli occhi e Mark poté vedere che qualcosa turbava il suo anziano amico. “Sei stanco?” “No. Beh, un po' sì, ma è normale alla mia età. No, in realtà vorrei stendermi da qualche parte per osservare il cielo” “Il cielo? Ma John, mio caro vecchio John, sai meglio di me che il cielo non esiste più da ormai troppi anni” “Il cielo esiste, solo che non possiamo vederlo” “Allora cosa vorresti osservare, se il cielo non si può vedere?” John esitò. “Il mio passato” I due si fissarono e dopo un po' Mark mugolò qualcosa che assomigliava a “fai come vuoi io sono troppo sbronzo per dormire fuori” e si avviò sullo stradino di terriccio che portava alla casetta. Stare in piedi in mezzo alla strada, di notte, a quell'età, era rischioso. Certo di animale selvatico ormai non ce n'era quasi nessuno, ma qualche predone del deserto poteva approfittarsi del momento. A John non importava. Contemplando il cielo ricordò di quando stava disteso sul prato con Anna, di notte, a guardare le stelle. “Secondo te John, riusciremo mai a raggiungere almeno una di quelle stelle?”, chiese lei, osservando quella che un tempo era chiamata la costellazione di Orione. “Mio fratello dice che un giorno le stelle non esisteranno più” Anna spostò il braccio di John dietro la sua schiena e si accoccolò su di lui “Credo che sia una cosa molto triste” “In effetti lo è An, ma forse mio fratello si sbaglia” John spostò lo sguardo dal cielo sulla casetta e pensò che, in fondo, suo fratello aveva avuto ragione su tutto. Con molta pazienza (e presa di coscienza sull'ubriacarsi alla sua veneranda età), si mise a gattoni, si sollevò in piedi e si incamminò verso casa, ponendo fine alla lunga giornata.

La mattina seguente, John si rese conto anche senza aprire gli occhi che la coperta era del tutto avvolta attorno a lui, ma decise di rimanere a letto ancora un po'. Verso mezzogiorno Mark bussò alla porta di camera sua.

“Sei vivo?” “Sì, sono solamente intrecciato nella coperta” “Se mai volessi smetterla di poltrire, il pranzo è pronto” “Sai Mark, dovrei alzarti la paga” “Forse prima dovresti cominciare a pagarmi” “Già, forse...” Entrando in cucina c'era una tavola rettangolare, lunga circa due metri, larga uno, quasi spoglia, apparecchiata con due piatti, due bicchieri, un paio di cucchiai e ogni piatto aveva una fetta di formaggio, del pane duro come una palla da baseball e dello stufato. Dello stufato? “Dello stufato? Dove hai trovato della carne?” John non vedeva dello stufato da quell'inverno in cui per sbaglio una tegola della casa era caduta sopra una lepre che passava nei dintorni. “Credo... Credo di non potertelo dire” “Sei andato in città, non è vero'?” Mark non rispose. “Allora?!”, John alzò il tono della voce. “Io...” “TU COSA?! Ti è dato di volta il cervello? Vuoi farti ammazzare?” Le urla misero Mark sulla difesa. “Ma non si rischia ad andare in centro! Sei pieno di pregiudizi! Quelle persone sono come noi! Solo perché hai deciso di fare l'eremita non vuol dire che loro siano mostri alieni!” John mantenne fisso lo sguardo su Mark e dato l'affanno, si mise a sedere. “Mangiamo, ne discuteremo dopo” Calò in silenzio, come succedeva un tempo, quando gli schermi trasmettevano dei programmi televisivi e tutti erano abbindolati dalle immagini proiettate. Mark posò il cucchiaio sul piatto e si rivolse a John. “Senti, mi dispiace, ma stavamo finendo il cibo e sinceramente cominciava a darmi la nausea mangiare tutti i giorni la stessa cosa” “Se avessero capito da dove vieni avrebbero potuto metterti in prigione e torturarti, come minimo” “Ma non è successo! Sono vivo, non mi hanno riconosciuto, ho l'accento locale da anni ormai e non possono neanche basarsi sul colore della pelle visti tutti gli schizzati che si fanno modificare il DNA al giorno d'oggi” John non lo guardò neanche. Spostò la sedia facendo rumore e andò vicino la finestra, guardando fuori. La teatralità di John colpì Mark al punto di doversi trattenere dal fare battute, non era proprio il momento. “Sai cos'è successo a mio fratello, no?” “Certo, me lo avrai raccontato un milione di volte” “Bene, ma non sai perché mi sono trasferito qui” In effetti era più una supposizione che una certezza. Il fratello di John, Albert, era morto in un campo di concentramento durante la guerra del Nord. Quelli che una volta erano gli Stati Uniti avevano dichiarato guerra al Canada e tutti coloro che non avrebbero prestato servizio in nome della difesa della propria patria, sarebbero stati considerati traditori e puniti a dovere. Un classico. Albert era un ricercatore universitario, un pacifista, un socialista, insomma una piaga, ma finché il governo poteva guadagnare dai suoi lavori sottopagandolo, andava bene. Quando ci fu la chiamata alle armi si oppose, quindi lo arrestarono e lo imprigionarono. John non fece la stessa fine, combatté quella inutile guerra e tornò a casa più povero di prima. “Perché la tua vecchia casa ti ricordava tuo fratello?” “No, non mi dispiace ricordare mio fratello, era una bravissima persona... No, il problema non era la casa, il problema erano le persone. Nonostante avessi dato tutto me stesso, il governo mi tenne sotto controllo per evitare che potessi fare qualche “follia” vendicando mio fratello. Non solo, divenni un reietto, il mio vecchio quartiere mi considerava un traditore, come Alb, e non c'era nulla che potessi dire o fare per cambiare la loro opinione. Così decisi di attuare il piano Z, quello che tenevo come soluzione alternativa per tutto: me ne andai in mezzo al niente per condurre una vita solitaria e pacifica. La prima devo dire di averla ottenuta, la seconda, invece, un po' meno” Mark non sapeva cosa dire, ma non sapeva neanche cosa c'entrasse questo con quello che aveva fatto durante la mattina. In fondo, gli Stati Uniti non esistevano più da un bel pezzo. “Non c'è più un pericolo simile, però... Capisco la tua preoccupazione, ma non c'è nessun governo totalitario a bacchettarci” “No, ma le persone non cambiano. Se vogliono odiare lo fanno, anche senza un vero motivo. E quelle persone che abitano nel centro cittadino non hanno nulla se non rabbia repressa, rinvigorita ogni giorno dalle notizie e dall'odio l'uno per l'altro e per sé stessi. La città è pericolosa, preferirei morire di fame che tornarci” Non ci fu risposta se non il rumore dei piatti e delle posate che venivano portate in cucina, pronte ad essere lavate. John continuò a guardare fuori, a scrutare la linea dell'orizzonte che divideva la terra sabbiosa e il cielo cupo. Una patina gialla ricopriva tutto quello che un paio di occhi non potenziati potevano captare e di tanto in tanto passava un uccello. Un uccello? Stupido vecchio, non era un uccello, era un drone, gli uccelli non esistono più.

Originally wrote in 2020-05-12T23:57:00.002+02:00

 
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from Does GLaDOS dream of electric sheeps?

«Lo shuttle 16996 proveniente da Neo Roma 1 e diretto a Milano 4 è stato cancellato. VolItalia si scusa per il disagio»
La voce si interruppe mentre io cominciavo già a schizzare male. 
«Cazzo, è la seconda volta in due giorni, se prendo la testa di quel porco di Augusti...», pensai ad alta voce. Persone non curanti di ciò che dicevo mi sfrecciavano di fianco, intente a badare ai fatti loro. Sferro un calcio una lattina innocente che finisce oltre la banchina, nel vuoto. La stazione sospesa a centinaia di metri da terra e comunque sotto non c'è niente, il calore del razzo in arrivo e in partenza è troppo alto per poter costruire qualcosa al di sotto. Sicuramente non è un problema di sicurezza, la morte accidentale di innocenti è solo un modo per ridurre il sovrappopolamento mondiale.
 Mentre continuo a pensare ai fatti miei, vedo due energumeni che si avvicinano. “Polizia” dice la scritta sul cromo che hanno al posto del torace.
«Ehi, tu» esclama uno dei due cinghiali.
«Mi dica, agente», rispondo con faccia angelica, mentre il mio neuralink modificato cerca il percorso più rapido per uscire. Una mod del pathfinder che include le mappe di tutta la città fa sempre comodo quando la Legge non permette di vivere rilassati.
«Sei stato avvistato da una telecamera di sorveglianza mentre davi un calcio a della spazzatura, facendola cadere nel vuoto. Come ti dichiari?»
Nel frattempo la Legge ha stabilito che il Potere Esecutivo doveva combaciare con quello Giudiziario, creando una succursale italiana del sistema americano. Ora anche qui possiamo ricreare il cyber farwest, con tanto di Sceriffo e taglie sui ricercati. Chissà com'erano i tempi dei meme e delle AI che non capivano un cazzo.
«Innocente, vostro onore»
Il neuralink mi avvisa che il percorso migliore parte dalle scale alle mie spalle, passa per i bagni, per finire all'uscita laterale della stazione, prendendo il turboascensore che sbuca nel vicolo. Ho due possibilità, una delle quali inizia con una corsa e finisce nella pattuglia pronta ad aspettarmi in fondo al turboascensore. L'altra, invece, comincia con una pisciata e finisce con una più probabile fuga nelle fogne.
«Prima che mi diciate il verdetto, agenti, vorrei appellarmi alla vostra clemenza e chiedervi di poter andare in bagno. Ovviamente potete accompagnarmi, se necessario»
I due piedicromati si guardano, probabilmente comunicando privatamente via neuralink e poi con un cenno del capo e una bella spinta mi fanno sapere che possiamo avviarci verso le latrine. Ottimo. Il bagno è più una sorta di ufficio vecchio stile, fatto di cubiculi in cui puoi lavarti o espletare le tue funzioni senza problemi di sorta. Quello che le guardie non sanno è che il mio neuralink hackerato mi permette di entrare e prendere possesso dei sistemi digitali più elementari. Dopo aver cominciato a urinare sotto lo sguardo vigile di quei porci depravati, mi connetto al sistema di porte elettronico. Lo specchio smart mi permette di vedere chi passa per il corridoio e nel momento in cui un energumeno si trova esattamente davanti il mio cubicolo, faccio scattare la porta. L'uomo, col naso sanguinante, comincia a imprecare verso i due poliziotti.
«Guardie infabi, non si buò neanghe biù bisciare in bace!» Grazie amico mio, non sai quanto hai ragione. Mentre i piedicromati si girano per placare le ire dell'energumeno, io mi dileguo nella direzione opposta, uscendo di soppiatto dalla porta.    La voce che annuncia gli arrivi rimbomba nel corridoio mentre passo attraverso un branco di persone dirette a Milano 4. Il turboascensore per il piano terra è vuoto e mi infilo dentro il più velocemente possibile. Mentre la cabina prende velocità e il rumore della carrucola sfrega sui grossi cavi, mi appoggio alla parete e mando un messaggio vocale al contatto che dovevo incontrare oggi.
«Per colpa delle guardie non sono potuto salire sul razzo. Ci riprovo domani. Bella»
Il capo non sarà contento, ma non importa. Meglio consegnare in ritardo i dati che darli in mano alla Legge. In fondo nessuno ci mette fretta. Nessuno sa che quei dati sono stati rubati e che nel momento in cui verranno rilasciati, il sistema bancario crollerà sotto il culo di quei porci borghesi. La loro ricchezza andrà in fumo e noi prenderemo il sopravvento.

Originally wrote in 2023-11-09T17:16:00.000+01:00

 
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from Does GLaDOS dream of electric sheeps?

Ferro. Alluminio. Zolfo. Cosa c’è nelle profondità di Neo Roma 3? Carcasse di anime di metallo buttate negli angoli sporchi di stagno. C’è puzza di silicio andato a male. I neuro impianti fritti dalle cyber droghe dei mutanti umani cyborg. Cosa vuoi fare? Preferisci ricevere iniezioni gratuite di dopamina al costo di un semplice post sulla rete? O trastullarti con un massaggio neurale apposta per venirti nelle mutande nel tragitto casa lavoro? Dove vuoi abitare? Qual è la differenza tra un cubicolo nel centro storico e una stanza vuota nello sprawl? Quanta terra bruciata. Quanta terra sprecata, ecco un edificio di bianco cemento che si erge in mezzo alle lande desolate delle borgate. Lo vedi quello? È il prezzo da pagare per poterti sollazzare con i social, quando metti like pensa che hai regalato un centimetro cubo in più di terra a quel mastodontico palazzo che come Gengis Khan non fa più crescere l’erba. Il gigante dei tera byte della conoscenza umana. Il mostro finale dell’umanità stessa, l’uomo che progetta e porta avanti il suo ordigno finale. Accenditi una sigaretta virtuale, per della nicotina direttamente iniettata nel cervello dal tuo neuralink. Vuoi provare una sniffata digitale? Quanto pagheresti per vivere più veloce senza doverti muovere? Ricordati che la filmografia è gratuita, devi solo dire allɜ amicɜ quanto la nostra azienda sostenga la loro causa. Transumanesimo? Ecco una maglia. Cyberpropaganda comunista? Abbiamo una bandana come quella di Cyber-Guevara. 

Sono sul treno per il quartiere cyborg, vedo un vecchio seduto che si spara l’aria condizionata per evitare di sorbirsi il caldo infernale del deserto che si stende fuori dai binari. Le arterie stradali abbandonate, la spazzatura mai raccolta, gli zombi del verano che vagano in cerca di cyber K. Il vagone sussulta. I sedili sono più vecchi di quell'uomo con le protesi robotiche. I polmoni di un anziano, le gambe di un ragazzino. La fermata della metro è piena, la puzza di marcio non ci lascia mai, l’aria condizionata non fa altro che ributtarci addosso lo stesso schifo che sputiamo fuori dalle bocche. Fiumi di carcasse che non sanno di essere morte si riversano per le strade di Neo Roma dirette a produrre, a consumare, a vivere gli ultimi anni rimasti alla Terra. Un grigio sole che filtra attraverso la cupola di contenimento illumina gli alberi di metallo e i pannelli solari si muovono come girasoli robot. Respiro a pieno, il filtro della mascherina sa di medicinale. Eccomi, per una nuova giornata, pronto a lavorare per sopravvivere, fino all’imminente fine. 

Originally wrote in 2022-05-29T20:27:00.005+02:00

 
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from Lelio

Alla fine mi sono fatto ricoverare. Ma solo dopo aver ricevuto la carta di identità col mio nome corretto. Non potevo rischiare discriminazione di genere da parte di infermierǝ e dottorǝ.

Sono uscito da un po', va meglio, riesco a restare abbastanza concentrato per leggere, il che è una gran cosa considerato il previo stato delle cose. In questi giorni di festività ho letto molto. Ma mi sono anche sentito molto solo, perché non ho trovato aperture per condividere il mio dolore con la mia famiglia. È faticoso mettere a tacere i propri sentimenti, ma è anche dannatamente facile indossare la maschera dello stoico.

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_030-2025.jpg

Sono il mio mulino a vento quello che cammina sulla scala mobile per il paradiso di Natale alla fine di un arcobaleno banale contento e coccolato dal quotidiano luogo privato.

Seduto sui gradini del mo foglio accompagnato dal ricordo di me stesso metto insieme parole come adesso.

Sono il mio leviatano quello con un buon lavoro e una buona paga e va sereno con il biglietto del treno in mano e davvero convinto che basti mettere lo smalto nero.

Seduto sui gradini del mio foglio accoccolato dalla visione di me stesso cerco segni e colori come adesso.

 
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from Dal Nulla

Chiedo perdono se non sono come voi, se non sento sulle spalle il destino del mondo se non mi curo delle sofferenze se le ingiustizie mi sono indifferenti, se di nessuno mi importa se non di me stesso, e forse nemmeno.

Chiedo perdono se non posso agire come voi, con la vostra sicurezza il vostro piglio ché tutto mi appare senza scopo e ogni passo compiuto è come un passo di marionetta, e anche voi mi apparite come enigmi, volti sconosciuti, ma non ho pietà di voi, e non mi sento solo se anche questa notte vi maledico e perdo per sempre la vostra compagnia.


penitente

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Oggi voglio scrivere in modo diverso. Sì “diverso” come siamo diversi noi culatton* quando siamo sulla bocca di vostra madre.

La febbre a 38 a volte vale la candela. Vale l'annichilimento delle energie e gli incubi in cui non puoi mai smettere di essere l'organizzatore responsabile. Vale, se quella febbre inizia in una serata mistica di musica elettronica e chiacchiere sugli autobus notturni, e ti concede tre giorni di isolamento per riprovare a vivere come se fosse il 1998.

Perché se il mondo è andato in vacca nel 2001, allora l'unico modo per preservare la sanità mentale è mantenere l'orologio fermo a prima del Millenium Bug, allestire un diorama funzionante di com'era la vita allora, e da lì produrre in vitro i successivi 25 anni tentando di dargli una piega migliore, almeno su scala micro.

Tre giorni per fare finta che la tua Nintendo Switch 1 sia una Sony PlayStation 1... non che cambi la tua mostruosità che non è ludopatia ma forse ci si avvicina un pochino. Tre giorni per fare finta di non avere tutti i media del mondo on demand e giocare a farsi un palinsesto. Il palinsesto con le sue scadenze insindacabili che dovevi essere pronto davanti alla TV giusto giusto, se no ti perdevi i pezzi, e allora assimilavi la puntualità e ti costruivi di conseguenza le routine.

Mi manca La Melevisione dopo scuola alle elementari. Dio che sfigato.

Tre giorni per spingere la rievocazione storica ancora più all'indietro e provarci pure con la radio. Perché la radio ce l'ha ancora il palinsesto, e quella tua mostruosità che è ossessiva-compulsiva delle cause perse può palinsestare persino i podcast che nascono per l'on demand.

Tre giorni, e un paio d'ore per ricablare daccapo per la terza volta tutto il tuo portale sull'Internet e abilitarti sul browser SearXNG.

Ho eretto nel cuore del deserto una porta verso lo spazio. Sabbia su sabbia, una voragine aperta sul cosmo. Ci ho caduto dentro il mio vispissimo occhietto.

Lo spazio è morte e lerciume.

Il 1998 è morto. Fuori dalla rievocazione storica, là fuori, non si può fare altro che piegarsi di vomito.

Oppure nascondersi sotto il letto, e darsi del tempo analogico.

 
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from stefanostaccone

Da tempo rifletto su un problema che osservo su più livelli della nostra società: la disumanizzazione.
Non come evento improvviso, ma come processo lento, normalizzato, che attraversa le grandi multinazionali, le istituzioni, e finisce per infiltrarsi anche nei contesti più piccoli, fino al quotidiano. Prendiamo un esempio semplice e familiare: l’acquisto online.
Clicchiamo, paghiamo, e nel giro di poche ore o giorni l’oggetto è davanti alla nostra porta. Tutto è veloce, efficiente, apparentemente automatico. La sensazione è che dietro ci siano solo macchine, algoritmi, sistemi perfetti. Le persone scompaiono. Questa percezione non resta confinata all’e-commerce.
La portiamo con noi nel lavoro, nei rapporti professionali, nel modo in cui valutiamo il tempo, la presenza e persino la salute degli altri.

L’algoritmo come semplificazione estrema dell’umano

Recentemente ho scritto una riflessione in cui criticavo la trasformazione dell’individuo, con la sua singolarità, complessità e fragilità, in un algoritmo. Un modello semplificato, ottimizzato, misurabile. Le grandi aziende (ma non solo) hanno un bisogno strutturale di semplificare problemi complessi.
È comprensibile: gestire sistemi grandi richiede modelli, metriche, KPI, performance. Il problema nasce quando questa logica viene applicata senza filtro all’essere umano. Sono un ingegnere meccanico, con un dottorato di ricerca.
Nel mio lavoro sono abituato ad affrontare problemi complessi scomponendoli in parti più semplici, isolando cause ed effetti, analizzando fenomeni sovrapposti. È un metodo necessario in ambito ingegneristico.

Ma ciò che funziona per una macchina non funziona automaticamente per una persona.

Eppure oggi vedo questo approccio applicato ovunque: le persone diventano risorse, funzioni, colli di bottiglia, problemi da risolvere o strumenti da ottimizzare e sotto continuo giudizio attraverso indicatori che ne misurano le prestazioni.

Quando smetti di funzionare, diventi un problema

Questa riflessione si è fatta più concreta durante le ultime settimane.
Sono stato operato e, per diversi giorni, costretto a letto, con movimenti limitati e l’obbligo di evitare stress e sforzi. Questa immobilità forzata mi ha rallentato fisicamente, ma ha accelerato il pensiero.
Ho avuto tempo per riflettere su ciò che ho fatto, su ciò che sto facendo e su ciò che potrei fare. Ho letto, osservato, pensato. E soprattutto ho osservato le reazioni del mondo del lavoro intorno a me.

Dal giorno dell’operazione non c’è stato un solo giorno senza messaggi di lavoro.
Il pretesto era spesso umano: “come stai?”. Immediatamente dopo (o prima) arrivava la richiesta: problemi, urgenze, decisioni.

Tutti sapevano che ero immobilizzato a letto.
Tutti erano stati avvisati con largo anticipo della mia assenza.
Avevo anticipato lavoro, organizzato consegne, preparato il terreno. Eppure, per molti, questo non è stato sufficiente.

Il caso che mi ha fatto scattare qualcosa

L’episodio più emblematico è avvenuto pochi giorni fa.
Un collaboratore, non informato della mia malattia, mi ha chiesto una modifica a un disegno tecnico. Gli ho spiegato la situazione: ero stato operato, immobilizzato a letto, impossibilitato a lavorare.
La risposta è stata:

“Ok, spero ti riprenda presto. Ma riesci per questo fine settimana?”

In quel momento è stato chiaro.
Non ero una persona che stava male.
Ero una funzione temporaneamente guasta. Se funziono, risolvo problemi.
Se non funziono, divento io il problema.

Un’osservazione (non statistica, ma significativa)

Ho notato un dettaglio interessante, senza pretendere che abbia valore scientifico.
Le persone che hanno mostrato maggiore attenzione, empatia e reale preoccupazione per la mia salute avevano mediamente meno di 30 anni.
Quelle più distaccate, insistenti, focalizzate solo sul lavoro avevano spesso più di 30 anni.

Non è un giudizio generazionale. È una sensazione, una traccia che mi fa riflettere su cosa ci stiamo portando dietro come modello culturale. La cosa positiva è che forse le nuove generazioni stanno guardando al mondo del lavoro con occhi diversi e, spero, sviluppino anticorpi appropriati per conservare l'empatia verso il prossimo.

Un sistema che non dialoga

Viviamo immersi in sistemi che ci osservano, ci misurano, ci classificano.
Dai social ai dati fiscali, dai censimenti alle abitudini di consumo, tutto confluisce in algoritmi che decidono, o influenzano, come veniamo trattati. La cosa più inquietante non è l’algoritmo in sé.
È il fatto che non possiamo parlarci.

Non possiamo spiegare il contesto.
Non possiamo raccontare una fragilità temporanea.
Non possiamo contrattare il giudizio. E, lentamente, iniziamo a comportarci allo stesso modo anche tra di noi.

Quando la disumanizzazione diventa sistemica

Sarebbe però miope fermarsi al mondo del lavoro.
La disumanizzazione che osservo nelle dinamiche professionali è solo una versione attenuata di qualcosa di molto più grave, che sta avvenendo sotto gli occhi di tutti a livello globale.

I conflitti armati attualmente in corso nel mondo mostrano la stessa logica portata all’estremo: persone ridotte a numeri, vittime trasformate in statistiche, vite umane raccontate come effetti collaterali. In contesti come quello palestinese, ciò che colpisce non è solo la violenza in sé, ma la sua progressiva normalizzazione. La morte viene raccontata in modo asettico, minimizzata, resa astratta. Come se alcune vite valessero meno di altre.

Anche qui il meccanismo è lo stesso: quando un gruppo umano viene percepito come un ostacolo, come un problema da rimuovere, la sua disumanizzazione diventa funzionale. Non si parla più di persone, ma di territori, equilibri geopolitici, interessi strategici. L’individuo scompare, proprio come accade, in forma infinitamente meno drammatica, nei contesti lavorativi quando una persona smette di “funzionare”.

Questo non rende meno legittime le riflessioni sul lavoro, ma le ridimensiona. Ci ricorda che ciò che viviamo ogni giorno è parte di una cultura più ampia, che accetta sempre più facilmente la perdita dell’umanità quando questa intralcia l’efficienza, il controllo o il potere.

Non arrendersi alla disumanizzazione

Quello che voglio ricordare, a chi legge e soprattutto a me stesso, è questo:
non dobbiamo normalizzare tutto questo.

Non dobbiamo accettare che l’essere umano venga ridotto in maniera assoluta e irreversibile a un numero. Non dobbiamo smettere di difendere la singolarità, la lentezza, la vulnerabilità. Combattere la disumanizzazione non è un gesto eroico.
È fatto di piccoli atti quotidiani:

  • rispettare un limite
  • accettare un’assenza
  • riconoscere che una persona non è una funzione

Arrendersi a questo processo significa perdere qualcosa che non possiamo recuperare.
E nessun algoritmo potrà mai restituircelo.

La malattia come atto sovversivo

In un sistema che pretende disponibilità continua, prestazione costante e presenza totale, la malattia diventa qualcosa di più di una semplice condizione fisica: diventa una sorta di atto sovversivo. Essere malati significa interrompere il flusso, spezzare la catena dell’efficienza, sottrarsi, anche solo temporaneamente, alla logica della performance. Non perché lo si voglia, ma perché il corpo lo impone. E questo, oggi, è quasi inaccettabile.

Nel momento in cui non sei operativo, non sei performante, non sei “al 100%”, smetti di essere una risorsa e inizi a essere percepito come un problema.
La fragilità, invece di essere accolta, viene tollerata a fatica, come un errore di sistema. Eppure è proprio lì che si misura l’umanità di un ambiente di lavoro: nella capacità di riconoscere che fermarsi non è una colpa, che ammalarsi non è una scelta, e che il valore di una persona non può coincidere con la sua produttività.

Resistere a questa narrazione, anche solo rifiutandosi di colpevolizzarsi quando ci si ferma, è forse uno dei pochi gesti realmente rivoluzionari che ci restano.

 
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from Dal Nulla

Avanza il nero vessillo del tredicesimo arcano (Tredici foriero di sventura) Un fiore bianco a cinque punte rovesciate l'emblema della terribile innocenza: essere, cambiare, divenire, soffrire, morire. Le cinque punte del pentacolo, i cinque petali del fiore. Gli occhi rossi del destriero fissano un nuovo sole la morte cavalca con gli occhi vuoti. Giace per terra il re, rovina tra la polvere la corona, a nulla vale il candore della fanciulla, a nulla la bellezza del suo diadema di rose. Vane le preghiere, le invocazioni: il papa e la croce crolleranno e la città di Dio è un cumulo di rovine. Avanza la morte sul suo destriero, rovina la Storia sotto i suoi zoccoli. Al suo passaggio resta il nulla la steppa arida, la terra brulla. Possono i tuoi occhi vitrei guardare il giorno nuovo che nasce? Una barca lontana solca un ipotetico acheronte, la meta ignota di noi che trasmutiamo. Tutti ci accoglie la morte nel suo abbraccio dolce: un bambino, prima di essere fracassato, le offre un fiore.


La morte

 
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from stefanostaccone

Il Censimento permanente della popolazione e delle abitazioni, promosso annualmente dall’ISTAT, nasce con un obiettivo apparentemente semplice: conoscere quante persone vivono in Italia, in quali tipi di abitazione risiedono e come sono strutturati i nuclei familiari. Quest'anno ho ricevuto la lettera dall'ISTAT che mi ha obbligato a partecipare al censimento. Si è obbligati a rispondere e a farlo in maniera corretta, pena una multa che va dai 250 a 2500 euro. Questa formula mi è sembrata subito anomala, ho deciso quindi di partecipare al questionario in maniera attiva, prendendo appunti e riflessioni su tutte le domande alle quali rispondevo. A valle delle risposte, ho analizzato in maniera dettagliata il questionario. A mio avviso si evince un livello di profondità informativa che va ben oltre la necessità di “contare” individui e case. Le domande, prese singolarmente, sembrano innocue; ciò che suscita interesse – e personalmente preoccupazione – è l'effetto cumulativo: un sistema di rilevazione che, pur rispettando la legge, è in grado di produrre un ritratto estremamente completo della vita delle persone.

Oltre l’anagrafe: le informazioni trasversali

La prima cosa evidente, immediatamente dopo aver iniziato a rispondere, è che il censimento contiene domande che non sono strettamente necessarie al solo scopo dichiarato, ma che contengono tanti piccoli elementi trasversali.

Indicatori indiretti della condizione economica

L’ampiezza dell’abitazione, il numero di stanze, la disponibilità di automobili, di box auto, la presenza di un ascensore nello stabile e persino l’anno di costruzione dell’edificio non servono a stabilire “chi vive dove”, ma a stimare il livello di benessere del nucleo familiare. Se l'intento fosse quello di giudicare sulla sola abitazione dal punto di vista energetico per esempio, sarebbe sufficiente attingere alle informazioni già esistenti e presenti in catasto, chiedere conferma dei metri quadri e della classe energetica dell'edificio. Il reddito in questa fase non viene mai citato. Tuttavia si tratta di elementi che, accumulati e incrociati tra loro, restituiscono informazioni socioeconomiche molto precise.

Routine quotidiane e mobilità individuale

La parte dedicata all'acquisizione di informazioni relative agli spostamenti per studio o lavoro sono estremamente dettagliate. Vengono richiesti orari di uscita da casa, mezzi di trasporto utilizzati, durata del tragitto, luogo di lavoro o studio, frequenza settimanale degli spostamenti. Il livello di dettaglio è tale per cui, ad esempio, laddove ci spostiamo in treno come pendolari per andare a lavoro, bisogna inserire tutti i mezzi che si usano (auto privata + treno + metropolitana). Non è sufficiente inserire il solo mezzo preponderante ma tutti quelli necessari da inizio a fine tragitto. Questi dati a mio avviso permettono di ricostruire vere e proprie abitudini quotidiane, mappandole in maniera precisa. Mi chiedo se queste richieste passino la linea oltre il perimetro legittimo del censimento.

Reti sociali e benessere personale

Si indaga anche sul benessere e in particolare sul livello di soddisfazione della vita, la percezione di sicurezza notturna e la presenza o assenza di amici, parenti o vicini che possano aiutarci qualora ne avessimo bisogno. Questi elementi innegabilmente costruiscono un quadro del supporto emotivo e sociale di chi compila il questionario. Sembra più un'indagine sociologica, ma non ho conoscenze o strumenti per poter giudicare sull'impatto che le risposte possono avere.

Storia migratoria personale e familiare

Vengono chiesti naturalmente i dati relativi alla propria cittadinanza, ai quali vengono aggiunti eventuali passaggi (migrazioni ad esempio), luogo di nascita dei genitori, trasferimenti all'estero. Queste informazioni potrebbero essere anch'esse dedotte dall'ufficio anagrafe; inserirle all'interno di questo contesto rafforza la capacità di tracciamento e individuazione del soggetto. Di anonimo a questo punto è rimasto ben poco.

Competenze digitali

Vengono fatte domande apparentemente innocue sull'uso di internet, sulla frequenza di utilizzo, sulla necessità di assistenza nella compilazione dello stesso questionario. Questo restituisce indubbiamente informazioni sulle * abilità digitali *, e quindi su quanto si potrebbe essere vulnerabili sotto questo profilo. Domande interessanti, ma non posso fare a meno di chiedermi quanto attinenti allo scopo del questionario.

A valle di queste domande per me il quadro è chiaro: la struttura complessiva del questionario mira non solo a conseguire gli scopi dichiarati, ma anche a capire e tracciare come viviamo, come ci muoviamo, come stiamo e quale è il nostro livello di integrazione nel tessuto sociale.

Analisi sui rischi per la privacy: quando i dati diventano profili.

Dopo aver compreso la portata e ampiezza delle informazioni, ora è necessario capire quali sono i rischi connessi. L'ISTAT naturalmente opera in maniera legittima e secondo normativa, ma questo non annulla i rischi strutturali generati dalla raccolta granulare e quantitativa dei dati raccolti.

Profilazione involontaria dettagliata

Immaginate di chiacchierare con un amico, in un piccolo paese.

Conosci quella ragazza...quella che lavora all'università come ricercatrice. La mamma fa la maestra, il papà pensionato, hanno una villetta su in paese.

In un piccolo paese, l'amico potrebbe rispondere con altissima probabilità beccando il nome al primo o secondo tentativo. Combinando informazioni su lavoro, abitudini di vita e condizioni abitative, rapporti familiari, salute percepita e benessere psicologico, il questionario produce un profilo estremamente completo di noi. Ci descrive in maniera multidimensionale e completa all'interno del nostro contesto di vita.

Combinando i dati di età, professione, residenza, struttura familiare e livello di istruzione, in particolare all'interno di comuni di piccole dimensioni è possibile essere identificati anche senza l'ausilio del nome e cognome. Più dettagli ci sono, meno siamo anonimi.

Function Creep

Non ricordavo questo inglesismo specifico, l'ho trovato durante una ricerca online mentre approfondivo il discorso sulla privacy. Questo termine indica quando l'uso di una tecnologia (in questo caso l'uso di dati) inizialmente definito per scopi specifici dichiarati, viene riutilizzata per finalità seppur legittime ma non previste originariamente. L'insieme dei dati potrebbe essere impiegato per altri fini o altre analisi, come politiche territoriali, indagini sulla qualità della vita, studi sulle vulnerabilità. Il punto critico per me non è l'uso in sé dei dati, quanto la consapevolezza di chi compila il questionario. Difficilmente un cittadino medio se ne rende conto, e comunque non può fare nulla perché obbligato dalla legge.

Collegamento potenziale con altri database pubblici

Anche se per definizione il censimento è isolato da altre basi dati, l'Italia dispone di achivi centralizzati. L'esistenza di molti punti di contatto rende teoricamente possibile correlare le informazioni provenienti da fonti diverse, aumentando il livello di dettaglio del profilo personale.

Conseguenze in caso di data breach

Data breach della pubblica amministrazione italiana ahimè sono abbastanza comuni. Un attacco in questo contesto implicherebbe non solo la grave diffusione di dati anagrafici, ma anche di routine quotidiane, condizioni abitative, economiche e sociali, vulnerabilità sociali e psicologiche. Si tratterebbe di materiale estremamente sensibile e sfruttabile per frodi o manipolazioni sociali malevole.

Conclusioni: La quantità che diventa qualità

Il censimento ISTAT dal punto di vista legislativo non è illegittimo. Il problema non sono le domande in se, ma la cumulata delle domande. Ogni domanda è un pezzo del puzzle. Una volta completato, viene fuori un'immagine nitida di te, una radiografia completa della tua vita. Questo pone a mio avviso due questioni principali: Quanto le persone comuni sono consapevoli del livello di dettaglio dei dati che si stanno fornendo? E' “proporzionato” l'obbligo, in termini di poteri dello stato, di raccolta di un tale quantitativo di dati vista la finalità dichiarata? Lo studio della società in profondità è legittimo, ma questo richiede trasparenza. In un mondo dove i propri dati digitalizzati rappresentano ricchezze per aziende a discapito di ignari cittadini, diventa fondamentale dibattere pubblicamente sul rapporto che c'è tra conoscenza statistica e diritti individuali.

 
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from Dal Nulla

La prima spada - Il buio sulla parete (Nella notte è la solitudine E l’angoscia dell’uomo) La seconda spada - La bianca veste (Un miraggio, forse, d’innocenza Un miracolo bambino) La terza spada - Le mani a coprire il volto (Nostra soltanto è la disperazione, La vita che ci abbandona) La quarta spada - Le lacrime (Soli siamo di fronte Alla morte di noi stessi) La quinta spada - Rosacroce e zodiaco tra le lenzuola (La fasulla responsabilità Delle stelle) La sesta spada - La morte violenta ai piedi del letto (Sei tu che tenzoni te stesso) La settima spada - Sfiora i capelli (Gli spettri dei dubbi Si annidano come forfora) L’ottava spada - Recide il collo (Dov’è la mia testa mortale? Appartiene a me stesso Al di fuori di me) La nona spada - Dritta al cuore. La nona spada dritta al cuore.

Se da te proviene il destino Che ti accarezza nel sonno Se sei tu l’inquietudine Che ti tiene sveglio Tra le lapidi dei tetti E sotto le stelle fugaci Se i tuoi occhi son quelli della morte E la tua pelle è quella di un cadavere Riposa con la gentilezza Della primavera che sfiorisce Lasciati andare come petalo appassito Come pomeriggio d’autunno che cede alla notte Sii la notte dell’anima che chiedi Sii la notte della morte che brami.

L’ombra di nove spade Aleggia su di te L’ombra di nove spade.


nove di spade

 
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from AtAbi

La politica del malessere Autrice: Alicia Valdes

Questo che scrivo é una recensione di quello che ho letto recentemente, di solito leggo poco e con poca attenzione, questo libro è una eccezione. Perchè? Presenta idee per me originali, non solo teoriche, propone cambi.

Alicia fa politica oltre che psicoanalisi.
Per lei la teoria psicoanalitica non è uno strumento diverso dalla analisi critica.

Prescinde dalla necessitá di una identitá completa, questo mi assolve dalla mia ricerca di essere sempre coerente.

annoto a margine alcune frasi durante la lettura:

La idea di una identitá completa è messa in discussione, nessuno é mai identico in ogni momento della sua vita, gusti, desideri e stati d'animo cambiano.

La forma in cui immaginiamo il futuro é fortemente condizionata dai prodotti culturali che consumiamo.

Un poco citando Gramsci, un poco Žiržek cerca di dare una risposta al perchè non siamo piú capaci di pensare ad un futuro migliore e perchè é piú facile desiderare la distruzione che il cambio.

 
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from Lelio

Questa sarà una condivisione probabilmente disordinata

Quando andavo alle medie coniai il termine “albero-luna” per definire il mio rifugio mentale, un luogo un po' come i palazzi della memoria, il mio angolo di solitudine protetta.

Da un bel po' non riesco a tornare all'albero-luna. È un bene per molti versi, visto che da lì poi partivo nei miei lunghi viaggi dissociativi, ma da un lato mi manca. Ora come ora la solitudine sa di angoscia, di pensieri intrusivi e sensazioni pungenti. Per tornare all'albero-luna forse dovrei mettermi in cuffia “The Piper at the Gates of Dawn” o “The End” in loop, magari dopo aver mangiato del cioccolato fondente e provando a disegnare o a scrivere versi nel mentre. Forse sono i farmaci che mi tengono coi piedi ancorati nella terra invece che lasciarmi fluttuare su un albero privo di radici. Forse per questa novità è scomodo stare.

Mi guardo dentro e mi trovo stritolato dai sensi di colpa. Perché non sono felice? Cosa c'è di sbagliato in me? Sono soddisfatto della vita che sto facendo, quindi perché non riesco a godermela? E poi arrivano come frecce i pensieri intrusivi, pensieri violenti e anticonservativi che non starò a riportare. L'immagine è quella di una sorta di San Sebastiano trans, stritolato dal serpente e trafitto da innumerevoli frecce mentre guarda il cielo cercando risposte. Le immagini cristiane si prestano sempre bene a descrivere i miei stati angosciosi, d'altronde si tratta dell'iconografia di una religione decadente e devota al dolore.

“Tu non soffri di depressione, ne ho viste tante e tu non ce l'hai” mi fu detto una volta dopo aver condiviso la mezza diagnosi del mio psichiatra con un mentore. Questa frase mi segna in modo incredibile. La rabbia con cui mi ci ribello quando passo ore e ore bloccato a letto a dormire, o quando non riesco a lavarmi i denti per giorni, o quando rimando infinitamente una doccia perché è troppo faticoso; il rammarico con cui ci ripenso quando invece sto bene, perché dovrei stare peggio, dovrei avere segni più evidenti, non posso mascherare così tanto, forse dovrei tentare questo o quell'altro metodo autolesionista; e poi il costante desiderio misto a timore di un nuovo ricovero, perché forse questa volta potranno aiutarmi davvero, potrebbe essere l'occasione per avere delle risposte più chiare, però dovrei saltare x lavori e forse è meglio tenere botta, resistere ancora un po', rimandare a quando davvero non ce la farò più... Menomale che domani vedo lo psichiatra, dai.

 
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from Signor Uscita

Commodore 64 Advent Show – Intro Theme

Commodore 64 Advent Show Logo https://www.youtube.com/watch?v=bXpV0hnUjJU

La mia amica Valeria informatica seria a otto anni aveva già il Sixty-Forough

E anche Massimiliano che abitava a Roiano programmava con il suo Sixty-Forough

Dissi ai miei genitori: “Dite NO ai dissapori, a Natale ne voglio uno anch'io!”

Ero molto contento e vivevo l'avvento come fosse del mio Sixty-Forough

Commodorough Sixty-Forough col suo basic trovo lavoro

Datasette, dischi floppy giochi pirata, no! non son mai troppi

Cantiamo in coro: Commodorough Sixty-Forough Advent Show

Ora il tempo è passato ma sto ancora inscimmiato a giocare con il mio Sixty-Forough

E anche Dan Dellafrana nella sua retro-tana ci dà forte con il suo Sixty-Forough

E anche Lindo Ferretti tra cavalli e capretti si trastulla con il suo Sixty-Forough

E Roberto Recchioni riceve dei doni per giocare con il suo Sixty-Forough

Commodorough Sixty-Forough Fossi a Venezia direi “Ghe sboro!”

Fossi sardo sarei di Nuoro per far rima con il Sixty-Forough

Cantiamo in coro: Commodorough Sixty-Forough Advent Show

Kenobisboch presenta: Commodorough Sixty-Forough Advent Show

 
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