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from kipple


In senso figurato, ovvio, e metto in chiaro un paio di cose: non sto scrivendo questo per affibbiarmi una qualche primogenitura o la tessera numero 0 di un club esclusivo, è solo per dire che non lo sono più nel senso che la parola ha acquisito, ora che è più facile esserlo alla luce del sole, senza doversi scambiare gesti da carbonari. Avrei voluto poter attingere a una platea più ampia di possibili amicizie, all'epoca. Non era nulla di cui vantarsi, meglio tenere un profilo basso perché non si poteva essere sicuri degli interlocutori. Nerd non era un complimento, no no.

Quando per videogiocare dovevi pagare nelle sale giochi, considerate luoghi di perdizione per individui irrecuperabili, oppure avere qualche amico abbastanza ricco da potersi permettere una console o un qualche modello Commodore, prima che i prezzi diventassero più popolari.

Quando non potevi sfogliare una rivista di videogiochi in presenza di qualcuno più grande di te, figuriamoci andare in giro coi manga sotto gli occhi indagatori e giudicanti di un passante qualunque.

Quando le cose te le dovevi andare a cercare col lanternino, non le trovavi con un tasto magico.

Quando sul nastro trasportatore del supermercato rovesciavi una valanga di libri “sconvenienti”: Clive Barker, Stephen King, fantascienza a caso. Una volta, però, ho trovato una cassiera che era dalla nostra parte.

Quando, qualche anno dopo, uscire dalla proiezione di un anime era più disdicevole che farsi vedere alla biglietteria di una sala vietata ai minori. Quando Guerre Stellari e X-Files, quando l'aeromodellismo...

Quando si era una minoranza, insomma, quando noi eravamo piccoli e gli altri erano grandi, poi siamo cresciuti. Quelli più grandi di noi, ovviamente, ci sono ancora, ma siamo diventati abbastanza da comprenderci a vicenda, almeno all'interno delle nostre passioni. Quei figli ora sono diventati padri, insomma; io no, sono solo diventato più vecchio e anche questo va bene così.

Quando arriva la vita vera, che è come schiantarsi contro un muro, certe cose cambiano. Quando non trovi un lavoro o ne trovi uno da schiavo, quando i genitori invecchiano, si ammalano e peggio, quando il mondo che va a rotoli non sembra essere lontano come prima, quando capisci di riuscire appena a tenerti appena a galla nel presente e l'unica certezza del futuro è che non ne hai uno, ti passa la voglia di perderti in un videogioco, cadere tra le pagine di un libro. Seguire una serie diventa sempre meno attraente, anche la musica non suona più come prima e astrarsi dalle miserie quotidiane diventa impossibile, difficilissimo nel più paradisiaco degli scenari.

E così, proprio ora che potrei confondermi tra la nuova folla, con la diluizione della definizione di nerd a livelli omeopatici, so per certo di non far parte più della categoria. Non ho più la capacità di dedicarmi totalmente a certi argomenti, vivisezionarli, capirli profondamente, viverli, goderne. Non ricordo le storie, tantomeno i particolari, non ricordo i nomi; non ho la curiosità, il tempo libero (dalle preoccupazioni) da dedicare alla scoperta e alla riscoperta, sono fuori tempo massimo per i videogiochi moderni, i libri sono diventati noiosi dopo averne letti così tanti, l'estetica video contemporanea solitamente mi allontana, l'all you can eat del sistema abbonamento mi dà solo la nausea e non capisco come faccia la gente a guardare 300 serie tv 300 film giocare a 300 videogiochi da 300 ore nel solo mese di febbraio, che è ancora di 28 giorni salvo bisestili, come lo era quando ero nerd io, quando era brutto sentirsi apostrofare così.

Non saprei di cosa parlare, dove parlarne, con chi e come sostenere una discussione. Però, ora basta così: questi pensieri sono deragliati da un pezzo, non so dove andare a parare e la sintesi complessiva dei miei pensieri si riassume sempre in contenuti di scarsa rilevanza.

 
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from kipple


O di svitare qualcosa di ostinato in genere, ma nella realtà domestica il barattolo è il caso più comune.

Solitamente, si tratta di conserve, sottoli e sottaceti industriali, coi tappi avvitati da macchine che compensano la mancanza di cuore con una forza esuberante; solitamente, a occuparsene è la persona più forte in casa: statisticamente e per comodità, facciamo che sia il padre di famiglia. Questo padre che, sicuramente, agli occhi dei figli è pure l'essere umano più forte del mondo. È l'ultima risorsa, quando tutti gli altri muscoli in casa hanno fallito, ma il tempo passa. Eccome se passa. vola.

Prima o poi, la persona più forte della famiglia e, di conseguenza, del mondo, vi chiederà di aprire quel barattolo. E quel barattolo, che per tutti gli altri sembra un corpo unico, alla fine lo aprite e con uno sforzo relativamente leggero. “Tutto qui?”

Sono arrivato a questo punto di svolta ormai parecchi anni fa, ormai un numero a due cifre. La sensazione fu galvanizzante: il testimone era stato passato, ero il re della foresta, il più forte in quel microcosmo che è la casa. Era solo l'euforia iniziale, trasformatasi ben presto in tristezza, giusto il tempo di rendersi davvero conto della situazione.

Era iniziato il declino di quello che, nel bene e nel male, era il punto di riferimento. La persona che per anni si era presa cura di me, sempre nel bene e nel male, da quel momento in poi avrebbe avuto bisogno di qualcuno che se ne prendesse cura. Magari si fosse trattato, da lì in poi, solo di aprire barattoli. Quando mi son sentito dire “aiutami ad alzarmi dalla sedia, non ce la faccio, voglio andare a riposarmi un poco”, ho capito che anche io stavo iniziando a morire.

Faccio volontariato in un posto, nonostante la mia età sono tra i più giovani del gruppo. Mi chiedono di avvitare e svitare cose, operazioni che loro fanno con le pinze, a me bastano ancora solo le mani; quell'irrigatore, che per loro è a fine corsa, nelle mie mani fa ancora una decina di giri. Quando mi è (ri)capitato la prima volta, però, non ho provato nessuna euforia, nessun brivido di forza. Mi sono solo intristito e ho fatto in modo che non se ne accorgesse nessuno.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Da dove sono partito

Circa un anno fa, a cavallo fra primavera ed estate 2025, ero in uno stato costante di disregolazione emotiva causato dall'uso compulsivo di Instagram e Reddit (e in parte X), per cui scelsi di andare alla radice del problema e tagliare via i social network commerciali: basta accesso costante a un flusso perpetuo di informazioni miste, strutturato in una forma tale da farmele ingurgitare senza ragionarci sopra e mirato a scandalizzarmi e farmi polemizzare sul nulla. Il passo successivo fu spostarsi su (quel che resta de) l'internet libero, con un profilo Mastodon, questo blog qua, e la riscoperta di newsletter e feed RSS, nel tentativo di riprendere io il controllo dei flussi di informazioni che mi raggiungono: nel tentativo di responsabilizzarmi e controllare io a che informazioni accedo, quando e come. La cosa è escalata al punto che, a una certa, ho distrutto Windows 10 sul mio portatile e ci ho montato su Linux Mint. Oggi, in ogni caso, mi rendo conto che ho davvero ancora tanto da fare.

Cos'ho imparato sinora

Riprendendo alcuni dei passaggi più interessanti di Hacking del sé, la chiave di volta del mio percorso è che devo ancora accrescere la consapevolezza di me stesso e il mio autocontrollo. In particolare:

  • Ho imparato sulla mia pelle che davvero i mali del secolo sono la noia, la mancanza di focus, e la solitudine, perché pur essendomi sbarazzato degli spazi online più esplicitamente pensati per succhiarci via tempo ed energie (e preziosi dati monetizzabili), nondimeno non mi sono affatto liberato del doomscrolling: se ho davanti del tempo vuoto, più o meno lungo, o se voglio fare una pausa da un'attività, l'istinto automatico è ancora di tirar fuori il telefono per sfogliare e aggiornare all'infinito le cronologie di Mastodon, o le caselle e-mail, o i miei blog preferiti, o leggere e rileggere articoli di Wikipedia e TV Tropes che vanno a toccare sempre gli stessi pochi temi di mio interesse, magari più volte gli stessi fino a memorizzarne dei brani. Confesso di avere abbastaza schifo di questa mia incapacità di sganciarmi dal cellulare e dalla sua illusione di essere agganciato e partecipe ai fatti del mondo, e dedicare invece il mio spazio-tempo vuoto a un'attività continuativa, possibilmente analogica (ma su questo ci torneremo).
  • Ho imparato che il mio autocontrollo informatico diventa decisamente migliore se riesco a metter via il telefono (tendenzialmente in carica sul comodino) e a lavorare sul computer, perché la maggiore “ergonomicità” del lettore di feed RSS mi permette di isolare l'accesso alle notizie sul suo software dedicato, e immergermi meglio su ciò che effettivamente voglio fare, che sia un lavoro in cloud via browser o un lavoro locale con programmi locali. E ora che sono su Linux, non devo più sprecare le ore a tenere il computer accesso senza usarlo affinché installi gli abnormi aggiornamenti di Microsoft.
  • Ho imparato che compartimentare meglio gli ambienti del cyberspazio mi aiuta ad attenuare la “reperibilità 24/7”: seguendo uno spunto di Liberare il mio smartphone per liberare me stesso, sono riuscito a catalogare i miei strumenti informatici fra modalità lavorativa e modalità personale: le credenziali della piattaforma Google con cui lavoro sono state relegate a un profilo utente apposito sul cellulare, e a un browser dedicato sul computer (Chromium, contrapposto al Firefox per uso personale), e in tal modo sono io a cambiare nome utente o browser, in modo da decidere quando dedicarmi al lavoro e quando ai fatti miei. Certamente, resta il problema che su telefono non ho ancora saputo snellire e scremare le funzionalità “personali” in modo da non cadere in meccanismi di dipendenza (vedi sopra).
  • Ho imparato che la decentralizzazione dei cyberspazi e l'eliminazione degli algoritmi profilatori non bastano a rendere sano Internet: prevedibilmente, serve a monte un'etica-deontologia dello stare su Internet, e una consapevolezza di che spazio abiti e di come lo stai usando. In questi ultimi 6 mesi circa, ho usato Mastodon essenzialmente per sfogare i miei patemi personali e/o le mie filippiche a tema politico, non diversamente da come facevo su Instagram: a differenza che su Instagram, non credo di aver fatto stare male altre persone, ma sicuramente ho inquinato e degradato la qualità dei contenuti di uno spazio autogestito che è stato troppo gentile per dirmi di piantarla. Come si è detto in questo interessantissimo dibattito avviato dall'utente Xab, forse è il caso di uscire dal paradigma post-Facebook per cui i social network siano una “federazione di blog”, in cui ogni utente può raccontare quel che vuole senza badare all'effetto complessivo sullo scambio di informazioni, e tornare invece nel paradigma forum: ogni spazio online ha una funzione designata (come ogni profilo utente sul telefono, vedi sopra), ed è tuo dovere di utente immetterci dati coerenti con tale funzione. Come non si usa un foglio di testo come foglio di calcolo, analogamente non si parla di cavoli propri in un luogo di discussione tematica.
  • Ho imparato che saperti montare da solo Linux, armeggiare con un file epub e scrivere testi in Markdown non conta nulla come capacità informatica: le competenze digitali che ti permettono davvero di fare hacking sono altre e molto più avanzate, e bisogna avere l'umiltà di ammetterlo e decidere se si può e vuole impararle davvero con studio costante.
  • Ho imparato che acquisire solo capacità informatiche non conta granché, in un progetto generale di vita più consapevole/politicizzata/antagonista/come cavolo vogliamo chiamarla. Grazie al cielo il mondo fisico è ancora là fuori, e per fare davvero contropotere punk servono piuttosto capacità di agricoltura, di meccanica-elettricistica-idraulica, di cucito/sartoria e di cucina. Insomma, quelle competenze pratiche che non studiamo più a scuola per classisimo, ma che cinquant'anni fa erano patrimonio di tutta quella generazione capace di occupare case vuote in città e di mettere in piedi comuni in campagna.
  • Ho imparato che per me la militanza politica è fonte di gioia e soddisfazione costante, perché anche nel fallimento sento di stare agendo contro un sistema marcio, ma dall'altra parte è la cosa di cui più sono pratico, a fronte dei vari hobby di cui so poco e in modo settoriale.

I miei propositi da qui in poi

Sono tutti questione di accrescere la mia autodisciplina:

  • Assumere un maggior controllo del mio telefono e spazzare via le fonti residue di distrazione. Basta applicazioni separate se non strettamente necessarie (tipo lo SPID): tutto il resto via browser, e vanno messi a regime i feed RSS sul telefono, come già lo sono su computer. Basta doomscrolling.
  • Di pari passo, meno telefono in mano e più lettura di testi lunghi quando sono fuori casa. Piuttosto, che mi guardino storto, ma da ora sì all'e-reader a tavola.
  • Di pari passo, più notizie in formato cartaceo, ovviamente di testate selezionate. Sono due settimane che riesco a leggere da cima a fondo «Internazionale», dopo anni che mi perdevo sempre per strada, forse riuscirò ad appaiarci un altro settimanale cartaceo (quale, non so). E magari, anche una bella riscoperta delle radio.
  • Nella mia vita reale, circoscrivere un po' di più e un po' meglio l'attività politica e dare più spazio ai miei hobby, prima di trasformarmi nel mio avversario naturale, cioè il sinistronzo con una copia de Il capitale su per il culo e zero vita culturale-ricreativa.
  • Saper smanettare poco e male coi computer non fa alcuna differenza tangibile nel mondo attorno a me. È ora di imparare cose pratiche vere, che siano competenze artigianali e/o lingue straniere. Voglio dire, un Egiziano mi ha detto che potrei diventare un discreto arabofono!

E niente, credo che questo sia tutto. Ci riaggiorniamo fra sei mesi, per valutare se e quanto ho assolto ai miei propositi.

 
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from Nonsolobotte

LA NOTTE DEI LUNGHI ARTIGLI

La notte dei lunghi artigli

Francis e Gustav vivono insieme. A volte si amano, a volte si tollerano a fatica, ma convivono ormai da anni e non saprebbero stare lontani l'uno dall'altro. Questo fino a quando compare Francesca... Donna, quindi biologicamente affine a Gustav che è un uomo (ah, dimenticavo di dire che Francis è un gatto!), arriva a sconvolgere il tranquillo ménage à deux. Così Francis decide che qull'appartamento non è abbastanza grande per tutti e tre e scompare. Inizia così la sua seconda vita, una vita fatta di mistero, intrighi felini e delitti.

Gran bel libro, sia per chi ama gli intrighi sia per chi ama i gatti. Se li amate entrambi, non potete proprio perdervelo!

Titolo: La notte dei lunghi artigli Autore: Pirinçci Akif Traduttore: Boschetti S. Editore: TEA Data di Pubblicazione: 1996 ISBN: 8830412147

(Nonsolobotte – 4 gennaio 2008)
 
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from bianot

oddio

scrivo questo testo in differita (ho scritto questo testo in differita?) perché ho fatto scadere l’invito a Log, e, insomma, non so se questo già basti a raccontare o introdurre o a presentare – la testa di rapa che un po’ sono. ma non è tanto importante il come (in ritardo, cioè) ma il perché, si dice, e quindi intanto racconto questo, che ho avuto un grande desiderio di scrivere e raccontare quel che succede a scuola, e l’ho avuto proprio da quando sono a scuola. negli ultimi mesi faccio mentoring, parola che vuole dire proprio poco, mi fa pensare a quei termini vaghi come Animale, come diceva Derrida, che sono dei singolari-generali che raccolgono al loro interno tante cose e quindi forse troppe, cioè forse nessuna cosa, e però pure con l’aggravante del tecnicismo inglese che non son nemmeno sicura sia tanto tecnico, ma comunque, ecco, il mentoring è una via di mezzo fra l’aiuto compiti e l’orientamento e il sostegno a volte un po’ emotivo. io non so consolare le persone, mi ha detto a proposito (ragazza) proprio oggi, mentre leggevamo l’epopea di gilgameš. allora ci ho pensato un attimo (neanche io so consolare le persone, penso sempre, mi sento rigida senza garbo improvvisamente estranea e a volte quando arriva il loro dolore a me sembra di sentire quello, che è il loro dolore, e poi però un mio privilegio, o una distanza che si chiama fortuna, anche se anche io lo sento quel dolore, o lo so sentire, immaginare, e mi fa sentire un po’ in colpa, e mi lascia lì a orbitare). allora le ho chiesto, e tu (ragazza), che cosa ti fa sentire consolata – trovi che le altre persone ti sappiano consolare? e lei è rimasta in silenzio e ha detto: questo non lo so, non me lo sono mai chiesta, è una domanda con una risposta difficile. ma, quanto a me, diceva, io le persone però le abbraccio solo, e mi sembra poco, e questo lo so. io ho pensato che invece era tantissimo e gliel'ho detto, e anche detto, guarda, spesso basta quello spazio lì, che va da un braccio all’altro, lo spazio di due braccia?, in cui dirsi: ecco qui, ma certo, per questo dolore c’è spazio, vedi?, di questo dolore siamo capaci (capace è capax dal latino, quella parola che parla anche della bottiglia, e che ci dice che ha questa o quella capacità di contenere, capacità che spesso varia, direi proprio)). dicevo però, e ancora arrivo in ritardo, vi chiedo un po’ scusa, che questa cosa di scrivere mi è venuta soltanto a scuola – forse perché a scuola amavo scrivere e scrivevo tanti racconti, ed era facile e poi ho smesso, e scrivere è diventato solo un compito e un far vedere che so fare, o che dovrei saper fare, che so produrre una cosa sensata, forza, guarda, oh no, mi stanno guardando, mi stanno leggendo, e forse per questo il fatto che scrivo finisce ormai per significare che produrrò anche qualcosa di un po’ oscuro (metà colpa del fatto che sono involuta di mio, metà grazie al fatto che mi piace che le frasi prima che leggerle si possano suonare o insomma si muovano da sé e che somiglino quasi al verso, forse come quello che fanno gli animali – alcuni animali, specifichiamo quali, che sennò non vale: a me piacciono gli insetti, per esempio, e loro cantano parecchio, sarà questo?). e succede questo pianto e stridore di denti, dico un po' scherzando e un po' sul serio, perché nello scrivere per me c'è dentro anche tanto della vergogna, dell'esporsi quando non sempre si vuole, e così via. però l’altro giorno, uscita da scuola, volevo – avevo in testa che volevo scrivere qualcosa di più lungo, magari non proprio questo, sicuramente non proprio questo, e anche ieri dopo le nuove due ore in classe avevo in testa ancora una cosa del genere, o questa cosa che è un po' degenere, lo ammetto. e quindi, intanto, le ho messe per iscritto, e ora le metto qui. come si dice. piacere? dopo, comunque, vi racconto meglio.

 
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from Storieparole

La storia di oggi parla di un uomo dimenticato, un uomo sconosciuto ai più, che non venne creduto in vita e il cui nome è stato seppellito dalla polvere degli anni.

Max Gerlach venne al mondo in Germania nel 1885 – sono dunque trascorsi 140 anni dalla sua nascita – ma si trasferì ancora bambino negli Stati Uniti d'America, dove studiò, lavorò come meccanico e si arruolò nell'esercito, nel 1918. Se la sua storia vi pare fin qui comune a quella di milioni di altri individui, non siete troppo lontani dalla verità, ma Max era deciso a incarnare quel sogno americano di cui traboccano racconti e film: lui non voleva una vita ordinaria, lui voleva splendere.

Il lavoro di meccanico lo portò a incontrare le più diverse persone, appartenenti ai più disparati ambiti sociali e professionali, ed è proprio lavorando nella sua officina, dando nuova vita ad automobili acciaccate, che probabilmente gli venne l'idea di dare nuova vita anche a se stesso: iniziò facendosi chiamare Max von Gerlach, ammantando il proprio nome con un velo di europea nobiltà, e prese a parlare in modo raffinato e snob, usando spesso l'intercalare “old sport”.

Se a questo punto un'eco lontana ha iniziato a sussurrarvi nella mente non dovete stupirvi troppo: Max Gerlach fu tutt'altro che una persona comune e la sua storia, o perlomeno quella che da essa trasse con ogni probabilità ispirazione, è stata diffusa in tutto il mondo, venendo trasposta anche in due film di successo con attori di fama planetaria.

Max Gerlach

Ma forse qualche altro indizio vi guiderà verso la soluzione del mistero. Come dicevo poc'anzi, il lavoro di Max lo portò a entrare in contatto con le persone più diverse; tra queste, il boss mafioso Arnold “The Brain” Rothstein (anch'egli di chiara ascendenza germanofona), passato alla storia per lo scandalo delle scommesse esploso in seguito alle finali truccate del campionato di baseball del 1919. Tra le variegate conoscenze maturate da Gerlach spicca il nome di un celebre autore statunitense: Francis Scott Fitzgerald.

Lo scrittore non fece mai mistero di trarre ispirazione dalla sua vita per scrivere poi i propri romanzi: chiaramente riferito ai suoi anni da studente a Princeton è ad esempio “Di qua dal Paradiso” e certo non mancano spunti autobiografici in “Belli e dannati”; ha dunque senso supporre che anche “Il grande Gatsby”, la sua opera più celebre e di cui quest'anno ricorre il centenario della prima pubblicazione, immergesse le proprie radici nel terreno della realtà quotidiana.

A supporto di questa teoria, che vedrebbe lo sconosciuto e dimenticato Max Gerlach come ispiratore del personaggio di Jay Gatsby non ci sarebbero soltanto i numerosi “old sport” usati come intercalare dai due (Gatsby pronuncia questo “vecchio mio” ben 42 volte all'interno del romanzo, e la frase è stata ripresa anche nei film che hanno visto protagonisti Robert Redford prima e Leonardo Di Caprio poi): la reale “collaborazione” di Gerlach col mafioso ebreo Rothstein richiama da vicino quella romanzesca di Gatsby con Meyer Wolfsheim, anch'egli votato al crimine e dotato di cognome tedesco, e c'è poi la telefonata che lo stesso Max Gerlach fece a una trasmissione radiofonica, nel 1951, nel corso della quale si stava presentando una biografia di Fitzgerald, asserendo di essere lui il vero Jay Gatsby. Ma non venne creduto. Da tempo si identificava “Il grande Gatsby” con Robert Kerr, molto amico dell'autore, uomo di umili origini e capace di dare la scalata al successo proprio come il protagonista del romanzo: la “sparata” radiofonica di un meccanico immigrato, ormai vecchio e malconcio, non venne minimamente presa in considerazione.

Questo fino a quando, parecchi anni dopo, un altro biografo di Fitzgerald, Matthew Bruccoli, non trovò tra alcuni appunti dell'autore una scritta di Max Gerlach che diceva “How are you and the family, old sport?” (“Come state tu e la famiglia, vecchio mio?”). Troppo tardi per dare all'anziano meccanico in pensione il giusto riconoscimento: era morto al Bellevue Hospital di New York nel 1958. Ma non troppo tardi per raccontare la sua storia.

Max Gerlach il grande Gatsby

 
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from Storieparole

Scrivere

Perché? Comunicare fa parte della natura umana, anzi: trasmettere le proprie conoscenze ai membri del branco e ai cuccioli, evitando loro rischi e pericoli, organizzando le battute di caccia o pianificando la difesa o l'espansione del proprio territorio, è caratteristica comune a tutti gli animali che si ritengono più evoluti. Ma comunicare non è scrivere. Quando, a Lascaux, circa 17500 anni fa, qualcuno disegnò cavalli, cervi, bisonti e lasciò il segno delle proprie mani sulle pareti delle grotte, certamente voleva comunicare qualcosa, forse ai posteri o forse al divino, ma per passare dai disegni alla scrittura è necessario attendere molto a lungo: attualmente il più antico testo scritto è, secondo molti studiosi, la tavoletta di Kish ritrovata appunto nell'antica città sumera di Kish, nell'attuale Iraq. Tavoletta di Kish

Si tratta, come da consolidata tradizione mesopotamica, di una tavoletta d'argilla, sulla quale sono stati incisi simboli proto-cuneiformi, ma la cui datazione è ancora oggetto di discussione, essendo stata scoperta in un'epoca in cui l'archeologia era ancora molto più basata sull'avventura e l'intraprendenza che non sulla scienza e la stratigrafia, e anche il suo significato è oggetto di speculazioni e diatribe. Io credo sia l'inizio della barzelletta: “Sapete cosa fanno un ittita, un egiziano e un sumero in una taverna?”

Pur tra i mille dubbi che ancora ammantano la nascita della scrittura, almeno la sua funzione pare certa: si scrive – e si scriveva – per fissare concetti e sapere, per tramandare, come dicevamo all'inizio, le proprie conoscenze, nel sacro come nella contabilità, nelle leggi come nella medicina. Non si sa con certezza neppure quando la scrittura, dono divino secondo svariate culture del passato, sia uscita da templi, palazzi e tribunali per andare ad abbracciare la cultura popolare, fissando con parole immutabili racconti che prima erano destinati a svanire insieme al suono delle voci. Nell'estate del 2018 un gruppo di archeologi impegnati in una campagna di scavi nel sito di Olimpia Antica ha scoperto una tavoletta di argilla su cui erano incisi i primi 13 versi dell'Odissea di Omero; datata come riconducibile all'epoca romana, attorno al III secolo dopo Cristo, potrebbe essere la più antica testimonianza scritta di un poema occidentale. Tavoletta omerica

Per arrivare ai romanzi, però, è necessario attendere ancora svariati secoli: il termine romanzo probabilmente deriva dal francese antico romanz, a sua volta proveniente dall'avverbio tardo latino romanice che significa “alla romana” e veniva usato per designare i cittadini di origine romana che parlavano, appunto, “romanice”, a differenza dei barbari. È solo nel XII secolo che in Francia la parola romanz assume anche un altro significato, andando a designare il discorso o il testo in lingua volgare, e più tardi ancora indicherà quelle opere letterarie che riprendevano i miti e le leggende del mondo classico. Come da questo si sia arrivati al surplus di scrittura e pubblicazioni che dominano il nostro vivere quotidiano, però, è un'altra storia...

 
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from basseaspettativepodcast

Il controllo dell'informazione (in senso buono)

Nell'ultima puntata ( https://open.spotify.com/episode/4xN1OprIN2gfsqVERnWJdE ) abbiamo parlato di misure applicabili contro il complottismo.

Una misura che ci sembra venga spesso presa sotto gamba è quella del controllo dell'informazione: non stiamo parlando del controllo centralizzato da parte di un ente o un governo, ma del controllo che possiamo applicare tutti noi quando stiamo per condividere un'informazione.

Più il titolo dell'articolo è eclatante, più l'emozione generata in noi è forte e più velocemente tenderemo a condividere un'informazione. Spesso senza controllarne la veridicità. È il meccanismo che rende virali notizie “che non lo erano”, ad esempio notizie vere, ma riportate in modo incorretto o distorto, oppure notizie false (“fake news”).

Gli studi dimostrano che la misinformazione, ad esempio un politico che cita delle statistiche in modo errato o distorto per giustificare una legge, ha un impatto più grande delle “fake news” che spesso sono relegate ad una frangia più estrema e numericamente ridotta della popolazione.

Quindi quello che possiamo fare nel nostro piccolo è controllare le notizie che condividiamo: è proprio vero che un nuovo studio conferma che mangiare cioccolata fa bene? Probabilmente i ricercatori scrivono qualcosa tipo “è stato riscontrato un miglioramento nel 51% dei soggetti testati, ma non è possibile stabilire un nesso causale”. Invece di condividere acriticamente, andiamo a leggere lo studio, facciamoci un'idea più chiara, forniamo un contesto al semplice link e al titolo “acchiappa click”, così che le persone che leggeranno la nostra condivisione potranno a loro volta fermarsi a riflettere.

Poi, certo, qualcuno potrebbe argomentare che in questo modo l'algoritmo potrà dare ancora più spazio alla fuffa che viene generata e ricondivisa alla velocità della luce, ma quello è un problema differente e andrebbe affrontato con strumenti diversi.

 
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from Super Relax


Innaturale perché è un sentimento malato instillato da una mentalità tanto sbagliata quanto difficile da stradicare; naturale perché praticamente data per scontata, nei paesi meno civili. Vivo in Italia.

Dell'avversione dinamica non c'è molto da dire: sappiamo benissimo che l'unico ciclista buono è quello morto, per la persona plagiata da decenni di macchinacentrismo istituzionale, concetti e luoghi modellati sulle necessità delle automobili e degli automobilisti.

L'avversione statica è quella che fa odiare anche la bicicicletta in sé, in qualsiasi momento. Schiuma alla bocca per il concetto stesso di bicicletta: la sola esistenza di un mezzo che non consuma, non inquina, porta benessere mentale e fisico e non ammazza con un tocco i soggetti più deboli.

*L'avversione dinamica si manifesta in strada, in movimento. L'avversione statica si manifesta anche nel cortile di un condominio, tra le mura di un palazzo, in un qualsiasi posto chiuso. Spesso è anche regolamentata e imposta, in maniera ufficiale (delibere di condominio) o ufficiosa (cartelli apposti arbitrariamente da un soggetto, con l'approvazione tacita degli altri).

Non voglio tirarla ulteriormente per le lunghe: la gente preferisce un autocarro del 1960 lasciato acceso davanti casa, a una bicicletta parcheggiata in una rastrelliera in un cortile deserto, inutilizzato. L'autocarro inquina come un deposito di materiali sintetici in fiamme, la bicicletta sta lì, inoffensiva e silente. Tanto basta.

 
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from Ore liete


Circumvallazione è una parola probabilmente grossa, per un paesino di 1.000 abitanti scarsi e il cui nucleo, seppur all'interno di un'area abbastanza generosa, è racchiuso metaforicamente in un pugno.

Questa fantasiosa circumvallazione, della lunghezza di circa 3 chilometri, avvolge il paese ed è ottima per farci delle camminate, cosa che a volte facevamo prima dell'orario di colazione o nel pomeriggio, quando il sole iniziava a trovare ostacolo nelle montagne; lungo il percorso, la caserma dei carabinieri e della forestale, alcuni punti panoramici dove far spaziare la vista, la chiesa grande e un forno.

Uso questo termine perché non ricordo quale fosse l'attività principale: vendevano pane, pizzette, dolciumi, biscotti, dolce e salato. Qualunque cosa fosse, era in un punto strategico del tracciato e ci si poteva fermare per poter prendere qualcosa da portare a casa, o mangiare nei paraggi, e rifarsi della lunga camminata. Che non era lunga per niente, ma da piccoli il mondo sembra molto più grande.

All'epoca, ora non saprei, era tutto bianco, dentro e fuori. Semplice intonaco, insomma, ma mi è rimasto dentro così, nella sua banale semplicità, per qualche motivo. Ancora oggi, nella mia mente, il forno per definizione è tutto bianco, appena fuori dal centro, tranquillo, rassicurante. Un posto così è un posto dove mi piacerebbe comprare il pane, dei biscotti, del dolce e del salato.

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_024-2025.jpg

Sul lettino nel corridoio di casa al mare senza sapere se volare se strisciare nelle vacanze estive riuscivo ad immaginare di essere libero e illimitato in una terra disperata.

L'urgenza di vivere mi bruciava le scarpe mi strappava le carte mi sfondava le porte e rideva di me.

Sul lettino nel corridoio di casa al mare dove mi hai chiamato amore oppure Angie, Anna o Alfredo mi veniva spesso un nodo alla gola e lo capisco adesso cos'era.

Cantami, amica quello che vuoi basta che non mi lasci mai.

 
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from TridiComics

Counter-attack. That is, the name I spontaneously gave to the impactful photo depicting Greta Thunberg on the deck of the boat Madleen, setting sail for Gaza

Premise: To reach an international audience of readers, the American English translation of my text is first shown. Italian-language readers may find the original version below.

Let's talk about this impactful photo (taken on June 3, 2025) depicting Greta Thunberg on the deck of the boat Madleen, setting sail for Gaza aimed at “breaking Israel's siege” on the persecuted palestinian people.

This picture now belongs to eternity.

Flooded as we are by the infodemic, audiovisual, memetic and ai-generated tide we do not yet realize it, but this shot of Thunberg is one of those images that “makes history.” As with Korda's “Guerrillero Heroico” or Widener's “Tank Man”, this photo will be featured in school textbooks, history essays, museums and exhibitions for the years to come. It is something bound to be passed on to all posterity (assuming, of course, that the above posterity will be populated by people who are less short-sighted, less narrow-minded, and less cruel than those who live in contemporary times; but that's another matter, better not to digress).

If I was the author of this photo, I would have named it “Counter-attack.”

Because Thunberg is the embodiment of the last and, alas, feeble counter-attack of the Future against the eternal sprawling present that crushes and suffocates us all.

She's an immortal symbol that transcends the mere chronological dimension.

Greta Thunberg, « la Pucelle » (“the Maiden”). A Jeanne d'Arc (“Joan of Arc”) of our times.

An icon of Absolute Future.

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Now follows the original version of the text aimed at Italian readers.

Premessa: Quella che segue è la versione originale del mio scritto, così come l'ho originariamente pensata e ideata. Nel testo vengono utilizzati i caratteri ə e ɜ (il primo per il numero singolare e il secondo per quello plurale) come suffissi a nomi e aggettivi per esprimere il non-genere. Questa scelta deriva dalla mia personale prospettiva socio-politica che riconosce il genere come un costrutto sociale arbitrario e storicamente determinato che può (anzi deve) essere superato.

Parliamo di questa ormai celebre foto, scattata in data 3 giugno 2025, che ritrae Greta Thunberg sul ponte dell'imbarcazione Madleen, diretta a Gaza per “rompere l'assedio di Israele” sulla popolazione palestinese perseguitata.

Questo scatto appartiene ormai all'eternità.

Anche se, inondatɜ come siamo dalla marea infodemica, audiovisiva, memetica e ia-generativa non ce ne rendiamo ancora conto, questa istantanea di Thunberg é una di quelle immagini che “fa la Storia”. Come per “Guerrillero Heroico” di Korda o “Tank Man” di Widener, ritroveremo questa fotografia negli anni a venire, nei testi scolastici, nei manuali di storia, nei musei e nelle mostre. È qualcosa di destinato a essere tramandato all'intera posterità (a patto, ovviamente, che suddetta posterità sia abitata da persone meno miopi, meno grette e meno crudeli di quelle che abitano la contemporaneità; ma quello é un altro discorso, meglio non divagare).

Se fossi stato io l'autorə della foto, l'avrei intotolata “Counter-attack”.

Perché Thunberg é la personificazione dell'ultimo e, ahinoi, flebile contrattacco del Futuro contro l'eterno presente tentacolare che ci stritola e ci soffoca tuttɜ.

É un simbolo immortale che oltrepassa la mera dimensione cronologica.

Greta Thunberg, la pulzella. La Jeanne d'Arc del nostro tempo.

Un'icona di Futuro Assoluto.

 
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from Disattualizzando

Il Politicamente Corretto non è politicamente corretto. Con l’improprio termine “politicamente corretto”, oggi tanto in voga, percepisco una certa ipocrisia e falsità da parte di chi, invece di rispettare in modo personale e autentico, porta avanti un’inutile e ambigua battaglia contro problemi che iniziano a esistere proprio nel momento in cui vengono percepiti come tali.
Qualche decennio fa, non ci si sentiva automaticamente offensivi ogni volta che si alludeva a un gusto, una tendenza, una cultura o al colore della pelle. In molti casi, purtroppo non in tutti, queste caratteristiche erano socialmente accettate tanto quanto lo erano le differenze stesse: diversità che non hanno né ragione né torto, ma che dovrebbero semplicemente coesistere. IMG-2647 Il significato offensivo di una parola, come in ogni situazione e discorso, dipendeva dal tono, dal contesto o dalla cattiveria con cui veniva pronunciata, non dalla parola in sé. Questa formale e forzata necessità di rispettare ogni sfaccettatura di ogni individuo finisce per generare, col tempo, l’effetto contrario: una nuova forma di discriminazione, che invece di unire le persone, le allontana e le confonde. Renato Zero si vestiva da donna, Loredana Bertè si travestiva da donna incinta in minigonna, nessuno ha mai discusso dei gusti sessuali di Lucio Dalla, e nessuno ha mai discusso dell “negro” in Colpa d’Alfredo di Vasco Rossi. Eppure, tutto ciò accadeva in un periodo storicamente segnato da grande chiusura mentale e forte bigottismo. Alcune di queste palesi ed improprie mancanze di rispetto, utilizzate da artisti e personaggi famosi, hanno paradossalmente aperto una strada all’accettazione e all’apertura mentale. Nessuno ha motivo di sentirsi offeso a prescindere; è uno strumento di ammissione verso aspetti e condizioni che restano “mal visti” finché restano sconosciuti. Gli artisti utilizzano questi strumenti nella loro arte, per creare situazioni plausibili ed attendibili, senza l’intento di mancare di rispetto.
Molti dei film di Quentin Tarantino hanno fatto sognare generazioni di appassionati, e una delle loro caratteristiche principali è proprio la volgarità, rivolta a bianchi, neri, uomini o donne. Si tratta di raccontare una storia, senza censure, senza freni inibitori, d’altronde così com’è, spesso, la vita stessa. L’estrema necessità di riguardo, quindi, verso una caratteristica più o meno visibile, finisce per diventare uno stigma ancora più grave, un’etichetta che definisce la persona e alimenta i pregiudizi nei suoi confronti.
Se si ha paura di rivolgersi a un individuo con il suo nome e si sente il bisogno di inventare formule fittizie, apparenti e “ornamentali”, è perché quel soggetto non è stato davvero accettato. Né lui, né ciò che fa, né ciò che è o dice di essere. Un bidello è un bidello, uno spazzino è uno spazzino, un handicappato rimane un handicappato. Non si fanno favori a queste persone cambiando loro etichetta in “collaboratore scolastico”, “operatore ecologico”, “diversamente abile”... ma diversamente da cosa? L’offesa nasce nel momento in cui si crede che quella parola lo sia, offendendo così la dignità dell’individuo in base all’apparenza, senza sapere nulla di quel che effettivamente è.
La lingua italiana sarà la prossima vittima di questo falso perbenismo e di tutte queste inutili formalità. Si vogliono cambiare le radici di una lingua antica, tra le più belle del mondo, solo perché qualche ignorante si sente offeso. L’asterisco alla fine delle parole, la schwa, l’invenzione di offese inesistenti percepite da chi ha un’intelligenza solo approssimativa: questi sono strumenti con cui si sta sfasciando la nostra meravigliosa cultura. Stiamo regredendo nel pensiero e nel linguaggio, scambiandoli con superficialità e ignoranza. In italiano, ogni parola ha un maschile e un femminile. Le parole, ovviamente, non sono “trans” e “non binarie”. Per quale motivo un uomo dovrebbe avere difficoltà a usare la parola “entusiasta”, data la sua origine femminile? Faccio un esempio: se in un gruppo ci sono cinque ragazze e un solo ragazzo, la grammatica italiana impone l’uso del maschile plurale. Mai, nella storia della nostra lingua, una ragazza si è sentita, o avrebbe mai dovuto sentirsi offesa. Oggi, a quanto pare, sì.
Il termine “negro”, se usato in modo offensivo, è incivile ed irrispettoso. Ma nelle lingue neolatine come lo spagnolo o il rumeno, il colore nero è identificato dalle parole negro e negru. E’ semplicemente la lingua. Il problema non è nella nostra civiltà o nella nostra lingua, ma nell’uso che se ne fa. Passare da “nero” a “negro” non cambia molto, a livello linguistico. Deduco che “negro” non può avere significati solamente negativi, ciò implica che non è sempre una offesa, e se usata senza cattiveria, non è una parola oltraggiosa. Dire che una persona è “di colore” non significa nulla. E’ una offesa verso chi non è razzista. Di che colore stiamo parlando, esattamente? Del colore che non si può dire! Non si può dire il colore della persona “di colore”, ma si può dire che è “di colore”. Se hai problemi con la parola che indica quel colore, allora hai un problema con le persone “di colore”, e per confonderti tra i falsi perbenisti, hai il coraggio di offenderti “per solidarietà” quando senti pronunciare la parola con la “N”.
In questo mondo non si possono rispettare tutti, e non si può incasellare ogni individuo in un’etichetta da consultare per sapere come rispettarlo. Forse dovremmo iniziare a rispettare noi stessi, le persone vicine, e quelle che incontriamo per strada. Sarebbe già un risultato importante, e per nulla scontato.

 
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from Ore liete


I nostri anni di villeggiatura, tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, non erano funestati dai telefonini e dalla necessità di essere perennemente in contatto con tutti, come se si avesse sempre qualcosa da dire o da far sapere.

Qualche volta, però, del telefono avevamo bisogno, specialmente per mettersi d'accordo coi parenti per eventuali visite: qua tutto bene, si sta freschi (eh sì, all'epoca a 800 metri di altitudine in agosto c'era il fresco), venite a trovarci, allora vi aspettiamo tal giorno.

Poco lontano dalla nostra casetta a due livelli, c'era questo localino buio, praticamente una sorta di spaccio con coloniali, barattoli, merceria, candele, di tutto un po' su scaffalature di ferro, quelle della ferramenta. Si chiamava proprio “la botteguccia”, se non ricordo male; ricordo di sicuro l'oscurità che impregnava il piccolo locale, stretto tra due palazzi sufficientemente alti a evitare che il sole lo lambisse, se non con un fievole riflesso, in ogni ora del giorno. L'illuminazione era affidata a un neon abbastanza indeciso, sembrava un rifugio ipogeo; nell'angolo più buio, protetto da una tendina, un telefono da parete, quelli grigi della SIP che si trovavano anche in parecchie case, anche se quelli da tavolo erano enormemente più diffusi. In quanto casalingo, non accettava gettoni, ma si faceva sentire al passaggio di ogni scatto, con un qualche marchingegno che produceva un suono ben udibile.

Finita la telefonata, passavamo al bancone, e pagavamo per gli scatti consumati. Così, due o tre volte lungo la nostra permanenza, queste telefonate quasi telegrafiche. Ci capitava anche di dover fare la fila, mica eravamo gli unici villeggianti.

 
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from Disattualizzando

Il complotto del Telefono Intelligente Siamo tutti consapevoli che, negli ultimi dieci anni, ha conquistato il mercato con una prepotenza senza precedenti il prodotto più venduto della storia contemporanea: lo smartphone. Il fenomeno è così eccezionale che tutti, o quasi, ne possiedono almeno uno. Lo ripeto per sottolineare il concetto: oggi, al mondo, è quasi impossibile trovare qualcuno che non lo possegga. Avere uno Smartphone è divenuto usuale, tanto da contaminare ogni aspetto della nostra esistenza, è ormai socialmente accettato che sia parte integrante della nostra persona. La nostra esistenza è conservata e garantita da uno strumento che è più desiderato e sopravvalutato che realmente necessario. IMG-1400 L’effetto più insidioso del suo continuo utilizzo è la dipendenza che genera, espressa da una compulsione a consultarlo in continuazione, un bisogno costante di averlo accanto. Dal punto di vista psicologico, questo comportamento è paragonabile a quello di un tossicodipendente in crisi d’astinenza.
A livello sociale, molti ritengono che la tecnologia smart sia riuscita ad avvicinare le persone, permettendo loro di comunicare senza doversi vedere e stare davvero insieme. Possiamo non sentirci soli anche quando lo siamo. Questo strumento, paradossalmente, ha spesso allontanato proprio le persone che un tempo erano più vicine. E’ una tecnologia che ci ha resi soli tra altre persone sole. L’atto di chattare ha preso il posto del dialogo, la condivisione virtuale ha sostituito la bevuta in compagnia, l’immagine di un profilo social ha rimpiazzato il guardarsi negli occhi. Sono esempi estremi, che non sempre rappresentano la realtà di tutti, ma la logica del discorso è difficile da smentire.
Sul piano commerciale, le grandi multinazionali – Apple, Xiaomi, Samsung… – hanno puntato sul prodotto più facile da vendere per alimentare la loro brama di potere e denaro, aggiudicandosi il podio mondiale eterno fra i potenti. Chi conosce le dinamiche di una grande impresa, o aspirante tale, sa bene che non c’è spazio per filantropia o buon senso. Ogni impresa desidera possedere uno strumento che sia facilmente commerciabile e diffondibile, e le grandi aziende tecnologiche hanno trovato la loro gallina dalle uova d’oro.
Lo smartphone è stato venduto a chiunque: ricchi, poveri, giovani, anziani, americani, asiatici, africani, europei… È indiscutibilmente uno dei prodotti più acquistati al mondo, eppure per le proprie potenzialità lo utilizziamo spesso in modo superficiale. Tutto ciò che puoi fare con il tuo Telefono Intelligente, lo potevi fare anche prima in maniera meno immediata. Per scattare una foto si usava una macchina fotografica. Per inviare un messaggio, si ricorreva agli SMS. Per leggere le email, si apriva il computer. Per giocare, esistevano decine di piattaforme diverse. Per ascoltare musica, c’erano lo stereo, il giradischi, il mangiacassette, la radio, il lettore mp3. Il significato delle parole si cercava sul dizionario. Il giornale lo si comprava in edicola. Per trovare un numero di telefono, si sfogliavano le Pagine Bianche o le Pagine Gialle. La TV via cavo offriva programmi adatti a ogni età e gusto: cartoni, documentari, serie, film per tutti.
Ciò che ritengo sia il grande cambiamento è la nostra condizione: più la tecnologia diventa smart, più noi possiamo permetterci di essere superficiali. Abbiamo l’estremo bisogno di qualcosa che non dovrebbe essere indispensabile, ma che lo è già diventato. Se racchiudiamo in un solo accessorio tutto ciò che ci rappresenta, dagli interessi alle passioni e passatempi, allora sarà impossibile separarsene. Non sapremmo più vivere senza.
Lo smartphone è diventato indispensabile solo perché abbiamo delegato ad esso tutto ciò era già essenziale prima della sua esistenza. Ad esempio, si potrà accedere alla propria Tessera Sanitaria tramite app, così da non doverla più portare con sé. Ma mentre la tessera sanitaria è davvero indispensabile, lo smartphone non lo è. Ora sì: la tessera sparirà, lo smartphone diventerà irrinunciabile. È diventato un bene di prima necessità e questo lo rende esponenzialmente commerciabile: ogni individuo, di qualsiasi età, ceto, stato o cultura, potrà possederne uno. Potrebbe essere un complotto andato a buon termine, voluto dalle dalle multinazionali e dagli oligarchi per consolidare il loro dominio globale.
Per dimostrare la mia pesante ed accusatoria teoria del “complotto del telefono intelligente”, vi invito a ragionare sulle abitudini dell’ultimissima generazione. Da bambino, mi distraevo con la televisione, ma era una televisione molto diversa. Oggi, canali come Boing o Cartoon Network trasmettono pubblicità tempestate di riferimenti agli smartphone, creando un prematuro sentimento di necessità, per indottrinare fin da giovane età i consumatori del domani. Questo complotto, indiretto e puramente psicologico, garantisce alle multinazionali il podio economico e, per raggiungere i propri obiettivi egoistici, continueranno ad approfittare di ogni strumento disponibile. L'indipendenza dei bambini da accessori superflui è minacciata dalle logiche di mercato. Non siamo sempre consapevoli di questi subdoli meccanismi economici e psicologici, né possiamo dimostrarli su larga scala, ma possiamo quanto meno renderci conto dei grandi cambiamenti e dei pericolosi risultati nella nostra quotidianità.
Anche chi ha grandi difficoltà economiche si sente in dovere di possedere uno smartphone. Siamo indotti psicologicamente a volerlo. “Loro ce l’hanno e io no” “Senza di quello, sarò tagliato fuori” “Se non ce l’ho, non mi farò mai degli amici” “Senza, valgo meno di niente” … “Ora che ce l’ho, posso mostrarlo agli altri” “Ora posso fare tutto quello che voglio” … senza sapere o considerare che potevo farlo anche prima, sebbene meno comodamente.
L’invidia e l’insicurezza, nelle logiche di mercato, sono gli strumenti più efficaci verso di noi, l’ultimo gradino della società. Prima di essere persone, siamo consumatori, numeri in un database che non si ferma mai e che ci controlla, un insieme di algoritmi al servizio degli oligarchi. Hanno bisogno di influenzare le nostre scelte, decisioni, passioni e necessità, altrimenti smetteremmo di essere tali. E così ci sentiamo in dovere di avere un accessorio da centinaia, se non migliaia, di euro che, per le sue potenzialità e dato come lo usiamo, è spesso inutile o si avvicina ad esserlo… Perchè? Perché non sempre siamo padroni delle nostre scelte.

 
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from Le ricette di Kenobit

I ravioli mi piacciono tanto anche se sono un po’ laboriosi da preparare. Anzi, forse mi piacciono proprio perché richiedono tempo e cura, e perché mi ricordano quando li preparava la mia nonna. Ho ereditato il suo “raviolamp” e quando lo vedo ricordo i pomeriggi in cui stavo in cucina con lei a guardare la tv mentre li preparava. I più buoni erano quelli che le prendevo di nascosto, sapendo che mi vedeva benissimo. Lei li faceva ripieni di carne, con l’avanzo del bollito, un po’ di prosciutto o mortadella, uova e parmigiano. Da quando ho fatto la scelta vegana, mi è capitato di fare ravioli a base di erbe, ma era da un po’ che sentivo il bisogno di un ripieno che mi ricordasse quelli della nonna. Ieri ho lanciato il cuore oltre l’ostacolo e sono venuti benissimo. Li scrivo qui per condividerli e per ricordarmeli.

Ingredienti (dosi per circa tre persone)

Per la pasta: – 150 grammi di semola rimacinata di grano duro – 50 grammi di farina di lenticchie rosse (ma va bene una qualunque farina di legume, tipo i ceci) – un cucchiaino di curcuma – un cucchiaio di olio d’oliva – un pizzico di sale – acqua tiepida

Per il ripieno: – 100 grammi di soia texturizzata (bocconcini) – una manciata di funghi shitake freschi (se non li avete, vanno bene anche secchi e ammollati, o dei porcini, che però costano di più) – un cucchiaio di miso – una patata grossa lessa – 20 grammi di noci (solo il gheriglio) – salsa di soia

Per la crema di funghi: – Una cipolla – Abbondanti pleorotus – Qualche finferlo – Qualche shitake – Un pezzettino di rosmarino – Margarina – Olio d’oliva – Latte di soia non zuccherato (in generale va bene qualsiasi fungo abbiate per le mani, ma visto che andremo a frullare il tutto non metteteci nulla di troppo pregiato)

PREPARAZIONE Mescolate gli ingredienti dell’impasto, aggiungete acqua tiepida e lavorate fino ad avere un impasto omogeneo. State indietro con l’acqua, vogliamo un impasto meno idratato possibile. Chiudete bene la massa in della pellicola trasparente e lasciatela riposare in frigo per almeno mezz’ora.

Nel frattempo, dedichiamoci al ripieno. Fate ammollare la soia come indicato sulla confezione (di solito basta coprirla di acqua bollente per una ventina di minuti), poi strizzatela benissimo e mettetela in un frullatore/food processor. Mettetela nella terrina dove avrà dimora il nostro ripieno. Frullate allo stesso modo i funghi e le noci. Aggiungete il tutto alla terrina, insieme a un cucchiaio di miso (abbiate l’accortezza di amalgamarlo bene) e alla patata schiacciata. Mescolare tutto e aggiungere salsa di soia a gusto, finché il ripieno non sarà saporito quanto basta. Assaggiatelo senza paura, non contiene carne cruda né cose che possono farvi del male. Il ripieno è pronto quando dovete fare appello alla vostra forza di volontà per non mangiarlo a cucchiaiate come se fosse un Fruttolo. Mettetelo a riposare in frigo.

Prepariamo la crema di funghi. Tagliate grossolanamente i vostri funghi e buttateli in padella insieme a un po’ di sale, una cipolla e al rosmarino, in abbondante olio d’oliva. Inizialmente butteranno fuori dell’acqua, poi inizieranno a rosolare per bene. Praticate un po’ di coraggio della padella e fateli bruciacchiare lievemente. Niente paura, è letteralmente impossibile cuocerli troppo. Quando sono ben cotti e saporiti quanto basta, metteteli nel frullatore, aggiungete la margarina e frullate. Aggiungete il latte di soia a poco a poco, fino a ottenere una consistenza cremosa, ma non troppo liquida (anche perché in mantecatura aggiungeremo un po’ di acqua di cottura).

Ora tiriamo la pasta per i ravioli. Io ho usato una vecchia macchina Imperia (che la nonna chiamava “la nonna papera”), ma potete cavarvela anche con un mattarello. L’impasto riposato dovrebbe permettervi di tirare una sfoglia molto sottile. Assemblate i ravioli con il metodo che preferite. Io ho usato lo stampo raviolamp, ma potete fare dei quadrati da richiudere a triangolo, dei cerchi, dei cappelletti, delle strisce lunghe da ripiegare longitudinalmente. Insomma, i ravioli. Ci sono mille metodi, basta solo farci la mano. Ricordate che anche se vi vengono brutti saranno comunque buonissimi.

Cuocete i ravioli (se sono appena fatti basteranno un paio di minuti, nel dubbio assaggiate), poi fateli rapidamente saltare nella crema di funghi, che avrete allungato con un filo di acqua di cottura. Ovviamente potete fare gli stessi ravioli con tutte le salse che volete, ma la variante di funghi ai funghi con funghi e contorno di funghi ha riscosso molto successo.

ravioli

 
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