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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_023-2025.jpg

l'aperitivo con le amiche in piazza Mazzini tirare mattina fumando sul divano lasciarti corteggiare andare tre mesi in Antartide suonare ai citofoni per poi scappare picchiare Vincenzo, troppo ladro per amare dire, fare, baciare, lettera e controvento, uno.

non ti identificare, non coincidere, zero.

le cose che apparivano banali quando eri signorina ed ora ti mancano, uno.

montagne che potresti anche scalare se ne valesse la pena, uno.

nemmeno per spiegarlo a uno.

dallo zero da cui sei uscita allo zero da cui uscirai pensi ad uno che uno non è mai.

 
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from Disattualizzando

Il girone delle Multinazionali. Al giorno d’oggi, la diffusione delle Multinazionali è agevolata dalla crescente Globalizzazione: trampolino di lancio per imprenditori avidi, fanatici ed arrivisti, mossi unicamente dal desiderio di guadagno ed espansione. Questi facoltosi potenti hanno sacrificato valori morali ed ideali, appartenenti al loro passato come semplici persone, per raggiungere la vetta. La tutela dell’ambiente e la libertà, persino quella dei propri dipendenti, sono spesso volutamente ignorate, in nome del successo e dell’ascesa sociale. Le unicità culturali dei diversi paesi, che andrebbero preservate e non contaminate, sono minacciate da un’espansione imprenditoriale egoistica e colonizzatrice. Il pensiero occidentale è la chiave per esportare tantissime aziende nel resto del Mondo, servendosi del malsano pretesto di voler condividere valori e benessere, spesso imposti e contrastanti con la cultura autoctona, definita erroneamente arretrata dagli approfittatori. Questa scusa per lo più ipocrita, è il doppio fondo di una volontà studiata per ampliare le fasce di mercato dei Grandi Commercianti che, una volta saturato il proprio mercato nei nostri paesi, sono partiti a conformare il resto del Mondo verso una sola cultura, verosimilmente la nostra. Immagine-blog-6 Il rischio più grave è l’omologazione culturale globale, che potrebbe cancellare le peculiarità delle società più lontane da noi. Il simbolo più evidente di questo meccanismo è il McDonald's: presente in ogni angolo del mondo, offre ovunque lo stesso sapore standardizzato e scadente. I suoi prezzi accessibili lo rendono attraente per tutti, anche per le fasce sociali più povere, vendendo cibo spazzatura al limite della tossicità. La qualità è di solito così scadente che potrebbe essere meno nocivo mangiare una volta a settimana, piuttosto che mangiare tutti i giorni in questo colosso industriale. In molti paesi del cosiddetto Terzo e Quarto Mondo, le persone che lavorano per queste multinazionali sono sottopagate, erano povere prima e continuano ad esserlo adesso. La stragrande maggioranza di loro, è costretta ad alimentarsi con la nostra spazzatura, propinata dalla stessa Multinazionale da cui dipendono. Il buon senso e la giustizia vengono sistematicamente ignorati, a favore delle logiche di mercato.
La globalizzazione ha davvero migliorato le nostre vite?... o piuttosto, quelle di chiunque non abbracci la cultura occidentale capitalista e consumistica? Da questo aspetto sicuramente no. Il successo di servizi come McDonald's si basa su velocità, accessibilità e comodità, e sono gli stessi motivi per cui siamo totalmente catturati dai sevizi di Amazon. Sono così efficienti e sbalorditivamente veloci che non si riesce a farne a meno.. Dovremmo però essere tutti più consapevoli degli effetti disastrosi che le multinazionali hanno sull’economia e sull’ambiente, basta consultare il proprio “dispensatore di cultura”, ma continuiamo a scegliere la comodità a discapito della nostra etica.
Il motivo per cui pochissime menti andrebbero contro questi meccanismi spettacolarmente attraenti, è racchiuso in una giustificazione tanto banale quanto pericolosa: “Tanto lo fanno tutti”. L’idea generale è che se qualcosa è condiviso da tutti, allora non può essere sbagliato. E’ un processo mentale così facile ed elementare che rende facile uniformarsi e che ci solleva, almeno in apparenza, dalla responsabilità morale. Siamo stati volutamente cresciuti secondo falsi valori e falsi ideali per renderci dei consumatori perfetti. Il nostro interesse è quasi unicamente seguire la folla, tralasciando il punto di partenza ed il punto di arrivo e soprattutto, se la destinazione possa essere catastrofica o no. Di conseguenza siamo tutti coinvolti, anche inconsapevolmente, nel sostenere un sistema corrotto e egoista. Viviamo in una realtà che non si ha mai avuto a cuore i bisogni del consumatore, si concentra piuttosto a rendere il consumatore stesso bisognoso ed assuefatto. Stiamo parlando di un sistema mondiale nato e studiato per essere incontrastabile, capace di sopravvivere a qualsiasi crisi o epoca futura. Siamo tutti responsabili equivale al fatto che nessuno lo sia, ma la più grande responsabilità resta nelle mani degli oligarchi del capitalismo, che ci hanno indottrinati con le loro strategie persuasive, come la costante pubblicità, alimentando le logiche di mercato.
Basta prestare attenzione ad una qualsiasi pubblicità. Una lontana soluzione potrebbe presentarsi solo se, a livello globale, trovassimo un motivo comune per far risuonare le nostre voci all’unisono e partecipare attivamente ad una lotta ideologica totale. Ognuno di noi, orientale o occidentale che sia, avrebbe le sue ragioni per combattere. Unirsi in un collettivo e vasto schieramento di opposizione è un modo per fare la differenza. Una soluzione individuale e riduttiva come tale, si cela fra le decisioni che prendiamo ogni giorno: la scelta quotidiana di non alimentare consapevolmente un sistema che riteniamo ingiusto.

 
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from piccole cose inutili

degenerative di Eugenio Tisselli 20 anni dopo. title track

           
ma anche trick

homepage. spiega il progetto Nel 2005 Tisselli costruì una pagina web che si corrompeva, un carattere alla volta, a ogni visita. un carattere a caso veniva distrutto o rimpiazzato quando il testo veniva letto. il codice html si decomponeva emergendo. interfaccia fratturata. lettore ferito

original page. quella corrotta anche per il paradosso: esiste se non guardo(?) [e sì, è stata già chiamata Schroedinger's cat interface]

(Tisselli ha fatto anche REGENERATIVE nel 2005, che ora suona così)

(troppo colorato per i miei gusti lol)




generAtIve. degenerative(regenerative)

“your visit will leave a permanent mark”

. amore) quindi mi chiedevo: come sarebbe degenerative ora?

ora che

post-digitale individuo walled garden tool – prestazione (gamification) analytic objects – prodotti/informazioni (calcolo) mandatory comfort [commercio] ethos of building&growth (sùbìto) nemico – ego (ES) care(less/free) answer (dolore medicalizzato) inferno dell'uguale vita -funzione (sanitized) dito -scelta (scelta senza azione: consumo), algoritmo non-cosa (infoma) : disponibile influenzabile prevedibile accessibile trasparente ascolto senza etica -sorveglianza prosa della compiacenza correlazione (calcolo) like informazioni (numeri/idee) – insegna – illustrazione comunicazione nuovo (evento) !—algofobia -anestesia)

algofilia -dolore = dono
apolitico-stanchezza (narcisismo, schiavitù volontaria) metafisica (poeima separato da poiesis) – astratto

/// come potrebbe essere ora?

– probabilmente il testo si autodistruggerebbe in automatico, in base ai dati sull'utente, non al caso (dove guarda, per quanto tempo, da dove ha fatto l'accesso, quanti anni ha etc.) – probabilmente ogni visita alimenterebbe il sistema, che decide cosa può restare e cosa può sparire, in base a parametri insondabili (credi di leggere, vieni letto) – probabilmente il testo scomparirebbe solo per l'utente, ma i dati resterebbero conservati altrove – il testo potrebbe dissolversi solo per alcuni utenti, in base a determinati parametri (cancellazione selettiva; privilegio/punizione) – la generazione sarebbe estetizzata/monetizzata: una piattaforma la venderebbe come esperienza interattiva, con logo e banner pubblicitari – probabilmente lo shock visivo alla jodi cederebbe il passo a un'interfaccia lucida chiarissima sterile piatta come una app bancaria; le sparizioni sarebbero fluide, seducenti, morbide, eleganti (nessuna rottura); i feedback finto-amichevoli – probabilmente delle easter egg/soglie come dono per la non performance, per la resa all'ascolto – ...

se dico che

sarebbe bello vedere come immaginate degenerative 20 anni dopo

tecnicamente sto facendo un

                            prompt

attesa: atteggiamento di piegarsi all'indisponibile
                             

la rinuncia è il tratto fondamentale dell'attesa priva di intenzioni

                                                        artists do not create objects, but create by way of objects                                                        

COME SI AGISCE

              qualcosa di non detto che pure circola                    
the dread of illness is the dread of losing
          &ensp management emozionale      

la morte è un particolare modo di essere

                                                       
la lentezza del timore che esita di fronte all'impossibile a farsi
                  scrivere è un gesto relazionale. non si insegna. si pratica                             &ensp

engage in your own monstruosity

        my visit our degeneration          

thingness of code


a proposito: 2025. sono pure 40 anni dalla mostra Les Immatériaux (Jean-Francis Lyotard, Centre Pompidou, Parigi)


ISPEZIONA – Justin Berner, Unhelpful Tools: Reexamining the Digital Humanities through Eugenio Tisselli’s degenerative and regenerative, electronic book review – Davin Heckman, James O'Sullivan, “your visit will leave a permanent mark”: Poetics in the PostDigital Economy, The Bloomsbury Handbook of Electronic Literature – James P Carse, Finite And Infinite Games, archive.org – Byung-Chul Han, Le non cose + La società senza dolore

____giorno44. l'ultimo

                                                       letteratura elettronica

 
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from kipple


Era il 1995 e a Napoli il Supermarket del Fumetto, a via Montesanto, viveva quelli tra i suoi anni migliori. L'ultima volta che ci son passato, era tutto chiuso e impolverato, niente fumetti, dei vecchi stavano giocando a carte attorno a un banchetto scassato; ora, credo, ci sia un locale di scommesse.

Stava per uscire Neon Genesis Evangelion, ne avevamo letto sulle pubblicazioni con le anteprime. All'epoca c'erano queste pubblicazioni, magari anche corpose, distribuite gratuitamente come una sorta di cataloghi e non solo: anteprime, appunto. Sia come sia, sapevamo che sarebbe uscito Evangelion, sapevamo trattarsi di qualcosa di grosso (e diamine se lo è stato), Dynamic e fumetterie spingevano sulla sua pubblicità; nel caso specifico, parlo della proiezione di una VHS assemblata ufficialmente all'uopo, con degli estratti dalle prime due puntate.

Era un sabato pomeriggio, solitamente il sabato prendevamo l'autobus e ce ne andavamo in fumetteria. Non sempre, ma quella volta non si poteva mancare. La sala proiezione (un videoregistratore attaccato a un vecchio, pesante televisore da 25” al massimo) era stata allestita in un locale attiguo, sempre collegato alla fumetteria ma solitamente non accessibile ai clienti. Ci presentammo col giusto anticipo, per fortuna, la saletta era già alquanto affollata, poi si sarebbe riempita. Tutti seduti a terra, tutti probabilmente abituati a Mazinga & C.; quello che stavamo vedendo, però, al netto di ispirazioni, citazioni e discendenze, era altro. Era qualcosa che veniva dopo e andava oltre. Sapete? Quella storia del prima e del dopo, eccetera. Ci esaltammo.

Credo che nessuno dei presenti abbia poi dimenticato, abbia potuto dimenticare quel momento di comunione robotica.

Intanto, il tempo passa e io, non so altri, ho iniziato un po' a conteggiare i lustri da quella data. Un nuovo anno zero, insomma. 2000, 2005, 2010... ancora troppo vicini, forse. 2015, però, attenzione: son già passati 20 anni! Poi arriva il 2020, gli anni sono 25, un traguardo simbolico ma importante, tanto da poter usare una frazione di secolo. Ora che scrivo, è passato un altro lustro, gli anni sono 30 ed è una cifra che inizia a intimidire, una fetta abbondante di vita è stata mangiata, chissà quanto resta della torta. La fetta migliore, ecco, mangiata e digerita.

Dovessi esserci ancora nel 2030 (sempre avere dubbi, le certezze non appartengono agli esseri viventi), mi ritroverò a pensare a quel sabato pomeriggio di 35 anni prima, quando ero giovane e la torta sembrava ancora tutta intera.

 
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from Disattualizzando

Cosa ci rende esseri umani? Ognuno di noi potrebbe rispondere a questa domanda in modo diverso. E, anche dopo aver ascoltato le opinioni di una miriade di persone, ci sarà sempre qualcuno che, per originalità o fantasia, sarà capace di stupirci ancora.
Potrebbe sembrare una questione filosofica, scientifica o religiosa, ma la domanda che vi sto ponendo si riferisce solo a voi stessi e al vostro modo di approcciarvi alla vita, come partecipazione attiva all’esperienza umana. La soluzione mi porta a un immaginario talmente ampio e antico che ho difficoltà a inquadrarlo nella mia mente.
Eppure, guardando all’evoluzione, la risposta è semplice: siamo il risultato delle nostre origini. La nostra crescita come specie è dipesa da un solo, imprescindibile elemento: la Natura. IMG-1273 Un tempo, l’essere umano era molto più animale di quanto lo sia oggi, senza screditare le menti geniali e poliedriche che hanno abbattuto le barriere del tempo plasmando le nostre vite. Con “animale” intendo ciò che ci legava indissolubilmente alla Natura. Vivevamo in una situazione in cui la nostra sopravvivenza dipendeva dalla conoscenza e dal rispetto del pianeta: conoscere le peculiarità dei raccolti, le fasi lunari, il periodo di semina, era indispensabile per sopravvivere.
Era un’epoca “x”, un tempo non definito, più o meno lontano, ma certamente distante dalla nostra attuale dipendenza dalle tecnologie. Da qualche decennio, la trasmissione orale delle storie, la fatica di tramandare leggende e tradizioni, è stata soppiantata dalla tecnologia, cambiando completamente il nostro approccio alla conoscenza. Mi riferisco a un tempo in cui le grandi storie erano narrate soprattutto per ricordo o per sentito dire, rendendo l’origine di qualsiasi tradizione vicina e lontana, dinamica e costantemente mutabile. I nostri avi, non così diversi da noi, sapevano affascinarsi e stupirsi con grande facilità.
La loro vita era semplice ma dura. La nostra è confusa e complessa, a volte troppo facile, esagerata in ogni aspetto. Questo ci ammala psicologicamente e fisicamente. Oggi le grandi storie sono diventate facilmente reperibili, le troviamo ovunque, subito, e per questo abbiamo perso la capacità di stupirci e gioire ogni volta che ne abbiamo l’occasione.
Viviamo nell’epoca dell’Abbondanza – è una condizione che ci ha reso umani molto diversi; le nostre superficiali e viziate priorità hanno seppellito molti preziosi aspetti di un passato ormai dimenticato. In appena un secolo,ci siamo snaturalizzati a dismisura. Abbiamo cessato di essere legati alla Natura, cercando di diventare qualcos’altro di molto più subdolo e complesso, perdendo così la necessità di vivere in sintonia e in rispetto con l'ambiente circostante: abbiamo perso l’essenza stessa di ciò che ci rende umani, rendendoci irrimediabilmente infelici. Non sappiamo più cosa può renderci veramente felici.
La più grande rivoluzione comportamentale della nostra contemporaneità è definita dalle tecnologie smart. Questo nuovo aspetto invasivo e contaminante è diventato lo spartiacque di due epoche: il prima e il dopo. Ma per chi, come me, è nato già nel “dopo”, è difficile immaginare quanto saremmo potuti essere semplici, e semplicemente felici, senza il bisogno dell’abbondanza a caratterizzare la nostra quotidianità. L’odierno “essere umano” ha barattato le meraviglie della Natura con una malsana comodità e una consapevole ignoranza. Cosa ci rende esseri umani adesso?
Un tempo, procurarsi qualcosa di così semplice e indispensabile come il cibo, richiedeva fatica, intelligenza, attenzione. Ma il sistema attuale ha abbattuto ogni difficoltà, donandoci il piacere dell’Abbondanza: qualsiasi cosa desideriamo è a portata di scaffale, pronta e confezionata, e noi possiamo ignorare se sia una verdura di stagione o un animale che stiamo portando all’estinzione solo per distribuirlo nei nostri generici punti di rifornimento. Le tecnologie smart, oltre a non essere quasi mai usate per denunciare un meccanismo malsano e autodistruttivo, incentivano il consumo e lo spreco, un sistema pensato per arricchire pochi, a spese di tutti e di tutto.
Il rispetto dedicato alla Natura, unico fattore indispensabile per permetterci il nostro alto tenore di vita, è gravemente trascurato. Il nostro modo di ricambiare questa entità planetaria, che ci ha donato tutto ciò di cui abbiamo avuto bisogno, è la devastazione: la maggior parte della flora e fauna vengono trasferite nei supermercati, nati dalla nostra totale pigrizia e indifferenza. Il semplice e scontato supermercato, a cui tutti siamo abituati, è eticamente e moralmente sbagliato e disumano: crea una voluta ignoranza e un disequilibrio tra la società e le persone che la compongono. La consapevolezza data dalle nostre tecnologie smart, i nostri “distributori di conoscenza”, non ammette ignoranza e non giustifica il nostro comportamento egocentrico come specie animale. Siamo tutti consapevoli, me compreso.
Con ogni nostra scelta quotidiana che incrementa il nostro inattaccabile sistema autodistruttivo, scegliamo di voltare le spalle alle nostre origini. Alla domanda “Cosa ci rende esseri umani?”, rispondo con convinzione: siamo ciò che la Natura ci ha permesso di essere, e nutro un grande sentimento di debito da saldare con il Mondo. Un debito che si paga solo in un modo: proteggendo il Pianeta, sarà lui a provvedere alla preservazione delle nostre vite nei secoli e oltre. Preservare la Terra significa riconoscerci per ciò che siamo, abitanti e ospiti, trascurando la nostra malsana necessità di sentirci padroni.
***
Ciò che ci ha resi così diversi da come eravamo, e forse da come avremmo dovuto essere, è legato soprattutto alla tecnologia, che in brevissimo tempo ha mutato radicalmente le nostre abitudini e priorità. La nostra disumanizzazione è sicuramente iniziata prima della diffusione della tecnologia smart, ma con essa ha raggiunto l’apice economico e sociale.
I vertici del sistema hanno orchestrato una rapida trasformazione che ha avuto gravi ripercussioni sulla nostra vita, alimentando un infinito processo costantemente mutevole. La vita sociale si è spostata sugli schermi di computer e telefoni: interessi, passatempi e amicizie vengono consumati in un mondo filtrato. Questa esagerata necessità di adoperare continuamente la tecnologia ci ha resi dipendenti, schiavi di connessioni che però sono solo surrogati: non puoi sentirti solo finché fai parte di un gruppo WhatsApp. Oltre alla manipolazione comportamentale, lo scopo del sistema è il costante bombardamento pubblicitario, che crea bisogni utili solo all’apparenza, per renderci dei perfetti consumatori. La pubblicità è ovunque, ci dice cosa fare, cosa desiderare, come mostrarci, chi essere; più siamo uguali agli altri, più siamo accettati.
È così che nasce la competizione universale, una corsa senza senso verso un ideale esagerato. Il tuo ruolo determinerà la tua rispettabilità come persona. Per un uomo, il successo passa dall’auto costosa, dal telefono di ultima generazione, una carriera brillante, magari come imprenditore o avvocato, e da una compagna che ricalchi gli attuali canoni di bellezza. Una donna sa che, oltre a dover rispecchiare alcune precedenti caratteristiche, il suo valore è legato al suo corpo, la perfezione estetica è un dovere: solo la ragazza perfetta potrà avere la misera illusione di avere il mondo al proprio servizio. Seno troppo piccolo? O forse il sedere non è abbastanza rotondo? Da rifare. E quando la giovinezza inizia a svanire, resta solo la necessaria illusione di poterla comprare, chirurgicamente, per dimostrare a se stessa che non invecchia tanto velocemente quanto invecchia il mondo.
Tutti noi siamo corrotti da questi stimoli inutili, voluti per farci sentire sempre in difetto e renderci la vita impossibile, imprigionando i più deboli in un turbinio di imperfezioni. Queste imperfezioni vengono suggerite dal mondo umano stesso – siamo programmati per essere dei consumatori al servizio di chi ne trae profitto, come le grandi multinazionali che governano le pubblicità. Il miglior consumatore sarà sempre quello che sente l’estremo bisogno di avere ciò che ancora non ha, anche se potrebbe non servirgli a niente. I nostri smartphone non sono solo telefoni, ma hanno agito da catalizzatori al servizio di questi processi.
Vi rendo partecipi di una riflessione personale: Le persone che hanno vissuto i primi venti o trent’anni della loro vita nel “prima”, senza tutto questo, oggi sono comunque immerse nel sistema. Noi, che ci siamo nati dentro, quando saremo adulti, quando avremo cinquant’anni, sessanta, settanta... quando il mondo potrebbe essere completamente convertito alla fede delle tecnologie inutili: sapremo rinunciare alle più tossiche e invadenti? E se non ci riuscissimo? cosa resterebbe di noi e della nostra umanità?
***
Nella società odierna, il computer è diventato uno strumento indispensabile per la propria integrazione nel sistema, sia nella vita professionale che nella sfera personale: un’evoluzione più che giustificata per il pigro essere umano, da sempre incline alla comodità. Il nostro fidato Pc ha reso la vita più semplice, piú rapida, più autonoma. Anche la tecnologia smart è ormai considerata un bene di prima necessità.
Il nostro “telefono intelligente” ha amplificato le precedenti comodità, aggiungendo ben poco di inedito alle nostre vite, permettendoci di fare le stesse identiche cose di prima, ma in modo più veloce e seducente – eppure tutti abbiamo estremamente bisogno di possederne uno, due, tre... e poi la smart TV, lo smartwatch, gli occhiali smart. Siamo completamente assuefatti da questi strumenti, che ci rendono sempre piú pigri e rischiano di farci regredire in un sistema senza precedenti.
Eppure, le cose davvero importanti restano sempre le stesse: l’aria pulita, l’acqua incontaminata, la salvaguardia degli animali, la protezione dei ghiacciai. A livello sociale, abbiamo bisogno di sanità e istruzione di qualità, di una politica equa, dalla parte dei cittadini. Ma tutta questa comodità rischia di alterare le nostre priorità, facendoci dimenticare gli obiettivi comuni, smorzando il desiderio di reagire, di lottare, di ribellarci.
Un adolescente oggi ha bisogno di like, di visualizzazioni, di follower: ecco i nuovi valori. Questo processo, indotto su vasta scala, è un lavaggio del cervello orchestrato da pochi oligarchi che traggono profitto dal nostro disinteresse. Il modo migliore per vendere un prodotto è quello di creare un bisogno collettivo, anche se solo apparente. Ci sentiamo obbligati ad avere ciò che tutti gli altri hanno. Ma alle multinazionali non interessa davvero rendere le nostre vite più comode, più veloci e più facili. Vogliono solo vendere, e più diffuso è il prodotto, più ci guadagnano: in questa epoca il più venduto al mondo è proprio lo smartphone. E così abbiamo telefoni dotati di enormi prestazioni, totalmente sprecate per l’uso reale che ne facciamo. Anche il più povero sente il bisogno di investire centinaia di euro in uno strumento che spesso non comprende e non sfrutta appieno, ma quale interesse reale dovrebbe avere un consumatore verso uno strumento di cui ignora le vere potenzialità?
Servirebbe un’indifferenza collettiva, invece siamo spinti a possedere almeno uno. Il mondo si è così abituato all’esistenza di questo accessorio che, se smettessimo tutti di usarlo per qualche tempo, il sistema collasserebbe. Chiunque si senta obbligato ad avere uno smartphone costoso e di marca è vittima di un sistema che ci ha cresciuti come perfetti consumatori.
Se compriamo tutto ciò che la pubblicità ci propone, siamo davvero liberi? O siamo talmente condizionati da credere di esserlo, mentre scegliamo ciò che è già stato scelto per noi?
Non siamo più esseri umani: siamo consumatori, acquirenti potenziali. Io, almeno, vorrei sentirmi libero di dissociarmi da un sistema che non approvo, da una società che sfrutterebbe chiunque al posto mio.

 
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from Racconti spontanei che attraversano l'autore

Arrivo al bordo con domande che sono poco più che sibili Questa pace incatena, è una gabbia come questa pelle Le lacrime sono il linguaggio dell’addio improvviso Prima dell’odio c’è sempre amore frainteso prima dell’amore odio perdonato Bisogna riempirsi l’anima di questo orizzonte sconfinato e di una risata fragorosa che spezza il nostro silenzio

 
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from nomadank

L’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto è un poema che, dietro l’apparente celebrazione dell’eroismo guerriero, smaschera con ironia e tragicità le contraddizioni della mascolinità cavalleresca. La follia di Orlando, la violenza di Rodomonte, la gelosia di Rinaldo e la performatività di Sacripante rivelano un universo in cui l’identità maschile è costruita su un equilibrio precario: tra onore e fragilità, tra controllo e disperazione, tra amore idealizzato e possesso distruttivo. In un’epoca in cui il femminicidio è spesso l’esito estremo di una crisi dell’uomo di fronte all’autonomia femminile, il Furioso offre una riflessione anticipatoria su come la violenza di genere sia inscritta nel codice stesso della cavalleria.

Orlando: Femminicidio Mancato e Collasso dell’Io

La follia di Orlando scoppia quando scopre che Angelica, la donna che ha inseguito per tutto il poema, si è innamorata di Medoro, un umile fante saraceno. La sua reazione non è dolore, ma furia cieca: una crisi identitaria che lo trasforma in una forza distruttiva.

«Orlando, che gran tempo avea durato / invulnerabile, or sente aperto il fianco / da quel colpo mortale» (XXIII, 112)

Ariosto descrive la ferita non come fisica, ma psicologica: è il crollo di un uomo che aveva costruito la sua identità sul possesso di Angelica, simbolo del suo status di cavaliere. Orlando non la uccide—perché Angelica è già fuggita, sottraendosi al suo controllo—ma la sua violenza si riversa sul mondo circostante: sradica alberi, massacra animali, diventa una minaccia senza bersaglio. È il ritratto di una mascolinità che, privata del suo oggetto di dominio, si autodistrugge.

Se Angelica fosse rimasta nelle sue mani, sarebbe diventata una vittima? Il testo lascia intendere di sì: la logica cavalleresca non ammette il rifiuto. La follia di Orlando è la crisi di un sistema in cui l’amore è possesso, e il possesso è legittimato dall’onore.

Rodomonte: La Violenza come Fondamento dell’Identità

Rodomonte, il guerriero saraceno, incarna una mascolinità ancora più tossica: la sua forza si fonda sulla negazione di ogni vulnerabilità. Quando la principessa Doralice lo tradisce per Mandricardo, la sua reazione è immediata:

«Non la vuol udir più; tronca il parlare / con la spada crudel, che le divide / la testa dal bel collo» (XXIX, 48)

Doralice muore perché ha osato sfidare il suo controllo. Rodomonte non cade in follia come Orlando: la sua violenza è lucida, sistematica. È il femminicidio come atto di riaffermazione patriarcale, dove l’uomo, anziché affrontare la propria fragilità, elimina fisicamente la donna che lo ha “umiliato”.

Rinaldo e Sacripante: Gelosia e Performance Vuota

Anche Rinaldo, eroe cristiano, è dominato dalla gelosia quando crede che Angelica ami Orlando. La sua ossessione lo rende ridicolo, dimostrando come l’etica cavalleresca sia spesso una maschera per insicurezze profonde.

Sacripante, re di Circassia, è ancora più patetico: si vanta di essere il più grande cavaliere, ma ogni sua azione è una performance vuota, un tentativo disperato di confermare un’identità che non regge alla prova dei fatti. Quando Angelica lo manipola con falsi sorrisi, lui ci casca ogni volta, perché ha bisogno di credere al proprio mito.

Il Furioso come Specchio della Crisi Maschile

Ariosto non offre soluzioni, ma mostra le crepe nel sistema. I suoi uomini—eroi sulla carta—sono fragili, violenti, ridicoli. Le donne (Angelica, Bradamante, Marfisa) spesso li superano in astuzia, coraggio e autonomia.

Oggi, in un’epoca di ridefinizione delle identità di genere, il Furioso ci ricorda che la violenza maschile non nasce dalla forza, ma dalla paura: paura di perdere controllo, paura di non essere più “eroi”. Se Orlando avesse accettato il rifiuto di Angelica, se Rodomonte avesse elaborato il tradimento invece di uccidere, forse il poema sarebbe stato meno tragico—e forse anche la nostra società lo sarebbe.

Il femminicidio non è un eccesso della mascolinità: è la sua logica estrema. Ariosto, con la sua ironia, ce lo ha mostrato cinque secoli fa. Sta a noi, oggi, smettere di riderne e cominciare a decostruirla.

 
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from Le ricette di Kenobit

Dopo avervi proposto la ricetta del ragù “di mia nonna”, vi propongo il mio. Questa ricetta è frutto di qualche anno di esperimenti, per ricreare una consistenza e un sapore il più possibile vicina a quella di un ragù di carne. Il risultato, anche a detta di onnivori non esattamente amici della causa vegana, è sbalorditivo. “Se non me l'avessi detto, avrei creduto che fosse di carne.”

Ve la scrivo, un po' per regalarvela, un po' perché è finalmente venuta come dico io e non voglio dimenticarmela. Mentre quello di mia nonna era un ragù sostanzialmente bianco, colorato dal vino rosso, questo è un più contemporaneo ragù con pomodoro.

ragù

Ingredienti
Olio d’oliva Sedano Cipolla Carota Porro Lenticchie Bocconcini di soia* Una manciata di porcini secchi Un bicchiere di bianco Salsa di soia Brodo di cottura delle lenticchie Rosmarino, salvia, alloro Gomasio** Paprika affumicata Sale Pepe

* Nella ricetta precedente ho usato il granulare. Qui ho scelto intenzionalmente la grana più grossa.
** Io lo faccio in casa, ci vogliono pochi minuti e lascia un profumo buonissimo. Tostate in un pentolino 10 cucchiaini di sesamo finché non iniziano a scoppiettare e a essere fragranti. Toglieteli dal fuoco e “tostate” un cucchiaino di sale integrale. Il sale non si tosta, ovviamente, ma perde umidità. Mettete tutto in un pestello e macinate.

PREPARAZIONE
Il nostro macinato sarà composto al 40% di lenticchie, 40% di soia e 20% di funghi. Più o meno, andate a occhio.

Cominciamo dalle lenticchie. Mettete le lenticchie in una pentola con acqua fredda, aggiungete la parte verde del porro, il sedano, una carota, una cipolla, l'alloro, la salvia e il rosmarino. Vogliamo che cuociano in un buon brodo, sia per insaporirle, sia perché quel brodo ci tornerà utile. Portate a ebollizione e cuocete fino a quando non saranno cotte (a seconda della varietà che usate, circa 30 minuti), salando il brodo circa cinque minuti prima che siano pronte, verso la fine. Togliete le lenticchie dal brodo e mettetele da parte.

Ora tocca ai bocconcini di soia. Reidratateli finché non saranno morbidi, seguendo le istruzioni sulla confezione (di solito basta qualche minuto in acqua bollente). Scolateli e strizzateli per rimuovere più acqua possibile.

Mettete i funghi porcini in ammollo. NON BUTTATE L'ACQUA. Quando saranno morbidi, toglieteli dall'acqua e conservatela. In seguito la filtreremo.

Prepariamo il macinato! Se ne avete uno a disposizione, vi consiglio un robot da cucina, ma va bene anche un frullatore, o nel peggiore dei casi un coltello e un po' di pazienza. Frullate a rate: prima la soia, poi le lenticchie, poi i funghi. Unite tutto in una ciotola, mescolate bene e aggiungete i sapori: paprika affumicata, pepe, gomasio e un po' di salsa di soia. Se siete indecisx, ricordatevi che questo macinato non è fatto di carne cruda, e che quindi lo potete tranquillamente assaggiare. Vogliamo che sia saporito, ma non eccessivamente, perché poi prenderà altro sapore in cottura. Lasciamolo marinare un attimo mentre prepariamo il soffritto.

Normalmente farei un soffritto con sedano, cipolla e carota, ma ieri ho inavvertitamente messo l'ultimo pezzo di sedano nel brodo, quindi l'ho sostituito con il porro. Si è rivelata una scelta vincente, a sorpresa. Tritate finemente cipolla, carota e parte bianca del porro e mettete a soffriggere in abbondante olio di oliva.

Nota sull'olio: abbondate. Il ragù è una ricetta resa speciale dalla sua parte grassa, che nella carne è molto pronunciata. Nei funghi, nella soia e nelle lenticchie non ce n'è quasi, quindi compenseremo a più riprese con l'olio.

Dopo aver soffritto per cinque minuti, unite il macinato e fatelo abbrustolire a fiamma viva. Da qui in poi, faremo finta di essere alle prese con un ragù tradizionale. Fatelo dorare per una decina di minuti, girandolo regolarmente, e poi sfumate con un bicchiere di vino bianco. Una volta che sarà evaporata la parte alcolica del vino (fidatevi del vostro naso!) unite i pelati e un po' del loro succo. Schiacciateli con cura, aggiungete un paio di mestoli di brodo delle lenticchie e cuocete per circa un'ora, assaggiando di tanto in tanto. Il ragù sarà pronto quando si sarà ritirata buona parte del liquido. A circa metà cottura, assaggiate la sapidità e aggiungete un generoso giro d'olio e un po' di salsa di soia. Senza esagerare! Ricordate che la riduzione della parte acquosa intensificherà la parte sapida. A dieci minuti dalla fine, ripetete l'operazione: olio e, se necessario, altra salsa di soia.

Ho indicato come tempo di cottura un'ora, ma nulla vi vieta di tenerlo un po' di più, a fiamma bassa. L'importante è che non bruci!

Otterrete un ragù denso, perfetto anche da conservare in un vasetto. Quando lo servite, vi basterà aggiungere un po' di acqua di cottura della pasta se volete una mantecatura più cremosa. Buon appetito!

 
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from kipple


Discussione ritrita che si ripresenta periodicamente, con gli autori che ci si mettono d'impegno per riesumare cose che meriterebbero un oblio rasserenatore.

La mia posizione in merito era relativamente accomodante, con un limite abbastanza vago su quel che l'autore pensa fuori dalle sue opere, dai sui libri, dalle sue canzoni, dai suoi film, dai suoi videogiochi, dalle sue esternazioni pubbliche; tuttavia, il tempo ci cambia, il mondo dovrebbe cambiare e io ne ho approfittato per cambiare idee. Ho abbassato enormemente la mia soglia di sopportazione, ho capito che non è più il caso di far finta di nulla, di giustificare posizioni inconciliabili con la mia etica nel nome del genio o, semplicemente, di qualcosa che mi andava a genio.

Parto avvantaggiato dal fatto che non ho idoli viventi, non metto nessuno sui piedistalli e, se proprio devo guardare a una personalità famosa, assolutamente meglio puntare su qualcuno morto da un pezzo, di cui si è saputo quel che si doveva sapere, perché, diciamolo: all'inizio sembrano tutte brave persone e salutano sempre, poi si rivelano.

Questo non significa che non abbia modelli di riferimento o non conosca gente degna di fiducia quasi illimitata: è gente comune, però, attenzione. Persone anche con un profilo pubblico, ma naturalmente capaci di relazionarsi da pari, che non è una cosa scontata per le celebrità.

Non avendo davvero idoli viventi, non mi aspetto altre grosse delusioni. Sono legato particolarmente a Stephen King per una serie di questioni, una delle quali (materiale per un altro scritto) abbastanza estranea al fatto che i suoi libri mi piacciano o meno. Diciamo lo scrittore della vita, anche se commerciale, ripetitivo, tutto quello che gli si addebita. Non sono un lettore colto e educato.

Ebbene, dovesse svalvolare anche lui? Non mi strapperò i capelli, non avendo materiale da strappare. Non venderò con sdegno tutti i suoi libri, perché li ho già venduti: per soldi, mi servivano, non li avrei riletti, lo spazio in casa è per i ricchi, li leggeranno altri.

Riassumo: puoi produrre quel che ti pare, la più grande opera della storia dell'umanità, ma posso strappare quel contratto di complicità in qualsiasi momento, con qualche rimpianto solo temporaneo, perché il tempo passa.

 
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from D𝕚ⓈѕⓄᶰA𝐧ℤⒺ

𝗜𝗟 𝗡𝗘𝗠𝗜𝗖𝗢 𝗣𝗨𝗕𝗕𝗟𝗜𝗖𝗢 Accusati di essere un concreto pericolo per la salute e per l'incolumità pubblica. Accusati di creare disordini, violenza e abusi. Chi partecipa ad un rave party è complice di un reato! Chi lo organizza è marchiato come un criminale con pene fino a 6 anni di carcere.

Più concretamente: chi organizza una festa senza permesso rischia la stessa pena di chi sottrae un minore in affidamento, di chi causa un incendio doloso, di chi possiede armi da fuoco senza permesso o di chi causa lesioni personali gravi.

Forse bisognerebbe alzare lo sguardo dallo smartphone e guardare la realtà.

È dentro e fuori dai club e dai locali del centro città che avvengono abusi e riciclaggio. È durante le partite di calcio che migliaia di tifosi spaccano e imbrattano i centri cittadini. (e non durante rave party nelle periferie dimenticate) È lo stesso Stato che attenta alla salute pubblica guadagnando dalla vendita di alcol e sigarette. È la scuola pubblica di vostra figlia che attenta alla sua incolumità crollando a pezzi. È il vostro amico maresciallo (quello che vi toglie le multe) che da l'ordine di manganellare persone che ballano e studenti che manifestano per la pace o per il clima. (E che avrà l'avvocato pagato dallo stato per difendersi dalle accuse di eccesso di violenza.)

L’ATTUALE GOVERNO AUTORITARIO REPRIME OGNI FORMA DI DISSENSO. ANCHE BALLARE SENZA PERMESSO È UN REATO PUNITO CON LA VIOLENZA.

ATTENTO A NON PENSARE TROPPO LIBERAMENTE. IL PROSSIMO RICERCATO POTRESTI ESSERE TU!

 
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from piccole cose inutili

i mostri di unlikeness

rivista erbafoglio

: potresti parlare di letteratura elettronica... –

me

: “Ho iniziato il punto croce perché sono ossessivo.”

°.)-

possibili risposte al senso senza significato

(

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metto qui ↓ una versione tipograficamente diversa da quella pubblicata da erbafoglio per mere questioni tipografiche

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la versione pubblicata da erbafoglio è comunque visibile su archive.org

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ho dimenticato un ri-ferimento (sorry!); l'ho aggiunto in questa versione postuma )


copertina rivista erbafoglio nr. 30 aprile 2025

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i mostri di unlikeness è stato pubblicato su erbafoglio – rivista di cultura poetica – anno V, terza serie, n. 30 (aprile 2025), pp. 82-88

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la versione cartacea della rivista è disponibile da aprile 2025

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la versione digitale è disponibile da ottobre 2025

                                                                                                                              letteratura elettronica

 
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from Rob's cabinet of mboh?

Ai tempi dell'università, complice l'essere caduto nel tunnel di Final Fantasy XI con tutte le sue meccaniche assuefacenti da MMORPG, a poco a poco avevo preso l'abitudine di fare sempre più tardi la notte. Prima di cedere al sonno e andare a letto però, mi ritrovavo ad affacciarmi dalla finestra della mia stanza e guardare gli scorci del mio quartiere avvolti da un buio via via più flebile all'affacciarsi dell'aurora dal mare. A dirla tutta per lo più maledicevo il palazzo di fronte, alto giusto quel piano che bastava a tagliarmi la visuale di parte del centro storico e soprattutto della cattedrale, lasciandone scoperte giusto le punte delle guglie e della cupola. Però in quel palazzo, un paio di piani sotto al mio, c'era una per certi versi rassicurante certezza: ogni volta che tiravo fino a quell'ora, trovavo sistematicamente un uomo affacciato alla sua finestra. Abbastanza in là con gli anni, un viso da Novello Novelli un po' meno smunto, con indosso una canottiera bianca e un'immancabile sigaretta in mano, era sempre lì a compiere quello che probabilmente era il suo rito quotidiano post risveglio, anche se la sua vista sfortunatamente si limitava a un altro brutto palazzo costruito durante la speculazione edilizia degli anni '60 e alla strada sottostante. Flashforward di più di una dozzina d'anni, nel periodo post Covid. La stanza è ancora quella e io ho ripreso a fare sempre più tardi, arrivando spesso a vedere l'alba. Continuo a maledire il palazzo di fronte per la visuale di cui mi priva ma questa volta non vedo nessuno affacciarsi da quella finestra. Gli anni passati (e la pandemia) non lasciano spazio a tante spiegazioni alternative alla sua assenza.

Non ho mai interagito con lui, anche se forse in un occasione o due i nostri sguardi si sono incrociati per un istante, ma ammetto che un paio di volte sono andato a dormire chiedendomi chi fosse e immaginandomi quali storie potessero nascondersi dietro a quel volto da attore da commedia dallo sguardo malinconico. Ovviamente notte veniva fuori qualcosa di diverso e senza una conclusione, visto che il sonno rimandato troppo a lungo era lì pronto a prendermi...

All'epoca non lo sapevo ma, in senso molto lato, in qualche modo stavo anticipando lo spirito di un GDR indie che avrei scoperto molto più tardi e in cui di fatto si raccontano le vicende di una casa e della famiglia che la abita.

Sì, alla fine questo treno di pensieri nato dalla notizia di un lutto e dell'inevitabile sensazione di spaesamento per il tempo che passa è stato dirottato verso una stazione più comoda e familiare rispetto al riversare su internet un'intera catena di ricordi intimi, e quindi anche questo post è diventato un pretesto per parlare nuovamente di un gioco, come temo accadrà spesso. Se l'argomento non vi interessa potete saltare tutta la parte che segue e non vi perderete niente 😅

La casa sul confine dei ricordi...

House of Reeds di Sam Kabo Ashwell, di cui trovate qui la traduzione italiana fatta da Antonio Amato, è un gioco che potrebbe risultare decisamente atipico per chi da questo medium si aspetta avventure, combattimenti, punti esperienza, ecc. Quanto atipico? Giusto per fare un esempio, ɜ giocatorɜ non avranno un personaggio di loro “proprietà” ma sceglieranno di volta in volta quali personaggi vogliono in scena.

E il resto come funziona? Sintetizzando il più possibile un regolamento già breve, per cominciare le persone al tavolo stabiliranno assieme i cardini dell'ambientazione, dopo di che a turno contribuiranno a creare prima una mappa/planimetria della casa e infine il cast dei personaggi che la abitano. Una volta creata l'ambientazione si può cominciare a giocare: chi è di turno pescherà una carta con sopra uno spunto narrativo che dovrà essere portato in scena, quindi dirà in che stagione e in quale stanza ci troviamo, descrivendo anche un particolare che la rende diversa dal solito (e segnandolo nella planimetria se si tratta di qualcosa di sufficientemente importante e duraturo), chi è presente al suo interno e infine procederà con la narrazione.

Immagine di una carta spunto con scritto: Supporto - Mostra come i membri della famiglia si supportano a vicenda nelle avversità.

Una carta che idealmente dovrebbe spuntare nel “mazzo” di ogni famiglia

Quando tuttɜ ɜ giocatorɜ avranno narrato una scena, nella fiction sarà passato un anno; si aggiorneranno le età dei vari personaggi e si procederà a ricominciare il giro da capo e così via fino alla conclusione della giocata, che avverrà quando vorranno i giocatori (un buon momento per chiudere è dopo aver pescato carta Trasloco).

Fondamentalmente questo è tutto. Rispetto ad altri giochi senza GM però qui c'è un'ulteriore particolarità: anche se l'autore nelle 8 pagine scarse del manuale lo dà per scontato non specificandolo da nessuna parte, sarà solamente lə giocatorə di turno a narrare la scena senza assegnare personaggi ad altrɜ giocatorɜ o coinvolgerli per farli dialogare; l'interazione sta nel prendere quanto hanno già creato lɜ altrɜ ed espanderlo scena dopo scena.

...la stessa sempre, come tu la sai

Una cosa da tenere a mente è che la costante indiscussa di tutto il gioco è la casa. Grazie alle carte pescate potrebbe accadere che la famiglia si espanda o che perda qualche componente, o perfino che a un certo punto traslochi in blocco, ma qualsiasi cosa succeda, la casa sarà sempre lì, pronta ad accogliere ogni nuova famiglia che eventualmente la abiterà.

Va anche detto che in House of Reeds casa e famiglia sono concetti molto laschi: la casa può essere qualunque luogo vogliamo e la famiglia qualsiasi gruppo di persone che vive al suo interno. Una caverna e un gruppo di Neanderthal sono casa e famiglia? Certo che sì. Un laboratorio di ricerca sottomarino pieno di personale scientifico? Altrettanto. L'ultimo avamposto dell'umanità al confine con il Nulla e ɜ Guardianɜ che devono impedire che si espanda in quel che resta del mondo? E chi sono io per dirvi no?

Screenshot di un tavolo di Tabletop Simulator con su disegnata una planimetria di una stazione spaziale

E una roba ispirata a Star Trek ce l'abbiamo? (disegnata malissimo su Tabletop Simulator ma toccava accontentarsi)

Questa ampiezza delle due definizioni mi ha portato a osservare un curioso fenomeno in tutte le partite che ho giocato finora: l'approccio Out There ha sempre prevalso sul Down Here, cioè nessuna delle persone coinvolte ha scelto di ambientare la giocata nel mondo “reale” raccontando davvero la storia di una famiglia “normale”, ma piuttosto ha scelto sempre elementi fantastici o il più lontano possibile dalla quotidianità, e la cosa un po' mi dispiace.

Non fraintendetemi, anche “là fuori” sono venute fuori delle belle storie condivise; ricordo ancora con molto piacere la giocata in cui la casa era una nave pirata e la famiglia la sua ciurma, solo che più andavamo avanti più emergeva che quella nave era qualcosa di fuori dal tempo, destinata a navigare in mare aperto da e per chissà quanto, e che invece di trovare un approdo incontrava man mano navi sempre più moderne e potenti, ma anche se terrorizzata la ciurma veniva spinta a combattere dalla tonante voce di un capitano sempre chiuso nella sua cabina e che nessuno ricorda di aver mai visto di persona. La giocata si è conclusa col Trasloco, che in questo caso è stato il tanto agognato avvistamento della terra. Solo che una volta scesi si sono trovati di fronte a un'isola con uno strano fenomeno: due soli in direzione opposta, uno ormai al tramonto e l'altro al principio dell'alba. La ciurma sceglie di andare verso l'alba, tranne il nostromo che di ricominciare da capo non ha voglia e si incammina verso ovest, sperando di trovare la pace mentre osserva la nave ormai priva di equipaggio salpare verso chissà dove.

Capisco perfettamente perché in moltɜ preferiscano provare nel gioco di ruolo qualcosa di totalmente estraneo alla propria vita quotidiana, ma imho House of Reeds è il gioco giusto per lasciarsi andare e provare a giocare una storia che coinvolga anche un uomo attempato che inizia le sue giornate fumando affacciato a una finestra mentre guarda con espressione imperscrutabile la strada sottostante, che a volte c'è bisogno anche di toccare quelle corde ed è un peccato rinunciarci, un po' per partito preso, un po' per non uscire dalla propria comfort zone.

In ogni caso questo è un GDR che merita a prescindere dall'approccio con cui lo volete giocare; dategli una chance se potete e scoprite che storie verranno fuori dalle vostre case.

Hashtag rilevanti: #RobsCabinetOfMemories, #RobsCabinetOfGDR, #GDRSegreto

 
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from KSGamingLife

Hollow Knight, recensito da un creator che non ama(va) Hollow Knight

Ci sono giochi di cui è difficile parlare bene. Ci sono giochi di cui è difficile parlare male. E poi ci sono giochi di cui è difficile parlare, specialmente perché il proprio parere dipende dalle circostanze in cui esso è stato formulato. Questo perché i giochi “importanti” ti toccano dentro, interagiscono col tuo stato d'animo, lo modificano, diventano parte attiva di ciò che sei durante l'avventura che ti fanno vivere, e lo restano per molto, molto tempo. C'è anche un altro concetto da considerare, ovvero che una cosa è vivere un videogioco per sé stessi, come esperienza individuale, come fanno (fortunatamente) la maggior parte dei videogiocatori, e tutt'altra cosa è utilizzare un videogioco come mezzo col quale generare intrattenimento per un pubblico. Nel primo caso, il gioco sta sul palco, e tu sei tra il pubblico, e decidi se applaudire o fischiare. Nel secondo caso, tu stai sul palco insieme al gioco, diventi un'altra variabile che fa applaudire o fischiare il pubblico che sta in platea, e se non vai d'accordo con l'altro ingombrante inquilino del palco è un grosso problema, specialmente considerando che tu non sei nessuno, e l'altro magari è famoso, universalmente apprezzato e acclamato. Forse, se non ti ci trovi bene, il problema sei tu. Anzi, è molto probabile, e notando il tuo disagio, la platea non mancherà di fartelo presente. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Estetica, design e poesia

Hollow Knight è un gioco bellissimo, dal punto di vista estetico. Non c'è zona che non abbia la propria identità, ma allo stesso tempo non c'è zona che non risulti armoniosa con le altre, perché il concetto che il gioco vuole esprimere è che Hallownest è un vero e proprio alveare, dove le creature trovano la propria casa e convivono sia con l'ambiente che con gli altri abitanti. È una metafora, che ci esprime la complessità e la fragilità di un mondo che, seppur alieno a noi, vale la pena salvare. Hollow Knight è un gioco che parla poco con le parole, ma tantissimo con le immagini. È criptico ma chiarissimo allo stesso tempo. La musica è parte integrante dell'aspetto grafico: precisa, mai invasiva, ma che collabora con ciò che vediamo con gli occhi al fine di esprimere un “mood” perfettamente coerente. Ci sono momenti in Hollow Knight dove l'impatto narrativo è comprensibile soltanto fermandosi a guardare, e ad ascoltare. La tristezza e la malinconia della City of Tears, l'opprimente strusciare di Deepnest, il mistero e l'anticipazione di Dirtmouth ci raccontano il luogo dove ci troviamo con chirurgica precisione senza pronunciare una sillaba. Certo, tutto ciò è chiaro e evidente se permetti a un gioco come Hollow Knight di parlarti, di raccontarti, di esprimerti questo suo “mood”. Non è qualcosa a cui il videogiocatore medio è abituato, specialmente considerando quanto solitamente si viene tenuti per meno, quanto le scelte registiche siano intente a farci notare gli elementi importanti e funzionali alla narrazione e lasciare il resto sullo sfondo. In Hollow Knight, ogni dettaglio è importante, ogni elemento grafico e sonoro ha un'importanza di lore e di gameplay. Il sound design è efficacissimo: quando vieni colpito, te ne accorgi inevitabilmente, e quell'istante di pausa nelle animazioni è sufficiente per permetterti di capire cosa hai sbagliato e ti permette di porti il problema su come non sbagliare la prossima volta. Allo stesso tempo, è immediatamente palese se ciò che stai colpendo sta subendo danni, o se è il caso di valutare una strategia differente. Naturalmente questo dialogo può avere luogo col giusto contesto. Ce ne sono tanti di adatti, ma di certo quello di trovarsi sullo stesso palco insieme al gioco, e con davanti il pubblico, non è un contesto che permette pause, riflessioni, introspezione. Questo perché il parere consolidato della “scienza” dell'entertainment sancisce che non puoi mai startene zitto, non puoi fermarti a riflettere, non puoi far passare neanche un secondo senza “dare spettacolo”, senza sforzarti di tenere il tuo pubblico con gli occhi incollati a te, specialmente considerando che il motivo per cui sono venuti nel tuo teatro è perché si aspettano che la tua presenza rappresenti un valore aggiunto rispetto al trascorrere il proprio tempo col tuo compagno di palco, estromettendoti dall'equazione. Che valore aggiunto dai, se ti fermi, zitto, e guardi? E ascolti? Un gioco come Hollow Knight è totalmente inadatto all'essere usato come strumento tramite il quale generare entertainment, specialmente se è la prima volta che lo giochi. Concentrandoti sul rapporto col pubblico, sei costretto a estromettere o quantomeno limitare il rapporto col videogioco, che sta parlando al pubblico ma soprattutto a te. E tu non lo ascolti, perché devi parlare, devi divertire, devi fare il giullare. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Elegia della difficoltà

Hollow Knight è difficilissimo. Ok, l'ho detto, potete skippare questa sezione. Ah, siete ancora qui? Ok, allora riflettiamo un attimo. Che cosa significa che un gioco è “difficile”? Hollow Knight è uno di quei giochi che vengono in mente quando si parla di giochi “difficili”. Senza dubbio è perché si tratta di un titolo molto celebre, come d'altronde anche l'altro che viene in mente nello stesso contesto: Dark Souls. Una volta lessi una bellissima e concisa analisi: “Dark Souls non è difficile. Semmai, è severo.” ed è assolutamente vero. Hollow Knight, come anche Dark Souls, non ti spiega cosa devi fare, quando, o perché. Ciascuno dei due giochi ti offre la possibilità di personalizzare fino a un certo punto la tua esperienza di gioco, ma chi comanda rimane il gioco, non il giocatore. È il giocatore che deve adattarsi, usando gli strumenti che gli vengono dati, per superare le sfide. Il gioco non si inginocchia mai, non si piega di fronte alla frustrazione del giocatore. Il gioco ti invita a provare un'altra strada, un'altra strategia, ma assiste impassibile: sei tu a dover cambiare, non lui. Questa è una importante lezione di vita. Se devi spaccare un blocco di marmo, puoi provare a prenderlo a testate: il blocco di marmo non ti dirà se è giusto oppure no. Sarà la tua testa dolorante a suggerirti che forse può essere una buona idea provare un piccone. O un martello con un cuneo. O una carica di tritolo. Tutte soluzioni che in quel contesto possono funzionare, ma se l'ostacolo fosse “trovare un cappello che calza bene” dovrai avere la prontezza di tornare a utilizzare la testa: con la carica di tritolo non riuscirai a portare a termine la missione. Hollow Knight è difficile perché ti costringe a identificare la difficoltà e ad agire di conseguenza. Però, questo si potrebbe dire di fronte a qualsiasi difficoltà, no? Insomma, più o meno. Ci sono giochi dove puoi usare la stessa tattica dall'inizio alla fine del gioco, e funziona sempre. Ci sono giochi dove premendo un tasto si vince, o poco ci manca. Giochiamo ai videogiochi perché vogliamo un'esperienza narrativa interattiva: una storia dove una nostra azione ha una conseguenza. Altrimenti, se non c'è interattività, non è più un gioco: sarà un libro, un film, una canzone, ma non è un videogioco. I giochi “difficili” ci mettono di fronte a una situazione dove sono sempre di più le azioni di noi giocatori a fare la differenza, mentre nei giochi “facili” sono le azioni del personaggio, per lo più automatizzate. Non c'è il tasto “premi qui per vincere” in Hollow Knight. Non c'è l'accumulare punti esperienza per fare più danno e sostenere più ferite, che peraltro nell'altro esempio di gioco “difficile”, Dark Souls, invece è presente. Il personaggio diventa solo marginalmente più potente dall'inizio alla fine della storia. Chi diventa immensamente più forte è il giocatore. Le sezioni di platforming sono una chiara dimostrazione: all'inizio, superare un piccolo puzzle dove se sbagli vai a finire su una punta acuminata non è banale. Verso la fine, riesci a superare il Path of Pain nel White Palace. Non è il personaggio che è diventato più bravo a saltare, e le punte acuminate fanno lo stesso, letale danno. Sei tu giocatore che con le tue azioni hai sortito una conseguenza, non solo nel mondo di gioco, ma perfino nel tuo mondo reale: sai benissimo di essere diventato più bravo, e sai benissimo che è tutto merito tuo. Ecco perché ci piacciono i giochi difficili, più sono difficili e meglio è: perché siamo certi che, con il giusto impegno e tempo, riusciremo a conquistare anche quella difficoltà, che inizialmente ci sembrerà impossibile. Non c'è pensiero più confortante di questo, e forse è per questo che giochiamo ai videogiochi difficili: per dimostrare a noi stessi che siamo capaci di migliorare, di diventare più bravi, più forti, che siamo capaci di crescere. Hollow Knight, dicevo, è difficilissimo. Questa caratteristica è parte del suo fascino. Provare, riprovare, riprovare, riprovare, riprovare e infine riuscire è un processo indigesto, intenso, frustrante, e spesso bruttissimo e noiosissimo da vedere. Lo spettatore medio non vuole vedere un giocatore cadere per 100 volte nello stesso buco. E allora la pressione aumenta, perché stai facendo del tuo meglio e stai cadendo comunque nel buco, e ogni volta che ci cadi ti incazzi un po' di più, e più ti incazzi e meno sopporti qualcuno che in chat magari animato da buoni propositi ti spiega come fare, o peggio qualcuno che non aspettava altro per prenderti per il culo, o ancora peggio vedi che il tuo stream va male in quanto non stai offrendo l'entertainment che il tuo pubblico vuole, quel “valore aggiunto” che cercano da te. E più ti incazzi, e più è facile cadere in quel buco. E più ci cadi, e più ti incazzi. E più ti incazzi, e meno ti concentri, e meno impari, e più cadi nel buco, e più gente se ne va dal tuo pubblico, qualcuno forse per sempre. Che brutta idea scegliere un gioco come Hollow Knight da condividere con un pubblico. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Una manciata di aghi nel pagliaio

Hollow Knight ha alcune scelte di game design un po' curiose. Mi rendo perfettamente conto che in tanti le difendano a spada tratta, ed è proprio questo il bello: non penso siano sbagliate o scorrette, penso che a me, personalmente, non facciano particolarmente impazzire. La prima, la più evidente, quella con cui si schiantano tutti: la mappa. Il fatto che la mappa di ciascuna zona in Hollow Knight inizi a essere gestita solo dopo averla acquistata da Cornipher e si aggiorni soltanto a un save point (raggiunto in vita, o in morte) è carino a livello di coerenza e “realismo”, ma è una scelta che rende il gioco artificialmente difficile, così anche il fatto che la bussola che permette di sapere dove ci troviamo nella suddedda mappa ci occupi uno slot dei charm. “Artificialmente” perché non si tratta di una difficoltà da superare, o meglio, è una limitazione imposta il cui superamento non rappresenta alcun premio, neanche la soddisfazione personale, o almeno questa è la mia percezione. È un elemento di frustrazione aggiuntivo, che pare qualcosa di implementato per il gusto di complicare l'esperienza di gioco. Altra scelta, diciamo, curiosa risiede nell'unica meccanica di personalizzazione del personaggio, ovvero i charm. I charm sono strani. Si tratta di potenziamenti che devi trovare in giro nella mappa, che influenzano marginalmente come il personaggio si comporta. Alcuni fanno schivare meglio e più spesso, altri allungano la portata dell'arma, altri aumentano il danno delle abilità o dell'attacco base. Non è un brutto sistema, anzi, è interessante che sia l'unico elemento di personalizzazione, ma in quanto tale rimane comunque molto limitato. I charm sono rilevanti, è vero, ma personalmente ritengo che lascino un po' l'amaro in bocca: potrebbero alterare davvero tanto la modalità di interazione col mondo di gioco, e invece salvo forse un paio non rappresentano gli stravolgimenti che potrebbero invece provocare. Il fatto è che comunque, essendo appunto l'unica modalità di personalizzazione, pur variando l'1% effettivamente la differenza si sente. Non so esprimere un parere finale su questa meccanica. Da un lato mi piace, dall'altro poteva essere molto di più. E il charm che permette di capire dove ti trovi nella mappa è orrendo. Il fatto è che giocando per la prima volta Hollow Knight avevo trovato tante cose in più che non riuscivo a sopportare. Avevo l'impressione di attraversare le piattaforme durante qualche salto complicato. Ero pronto a giurare che in tante istanze il nemico di turno non mi avesse veramente colpito, o che la posizione di qualche trappola fosse decisamente ingiusta. Ero fermamente convinto che la mappa fosse illeggibile, che il combattimento fosse noioso e monotono, che il platforming fosse solo e unicamente trial and error, che ci si perdesse in continuazione. Rigiocandolo, stavolta senza un pubblico, l'ho trovato molto più accessibile, molto più corretto, mai mi è capitato di subire danni senza sapere precisamente perché, e cosa dovessi fare la prossima volta per evitarlo (riuscirci ovviamente è un'altra storia!. Perché? Come può un gioco cambiare così tanto tra giocarlo da soli o giocarlo con (anzi, per) altri? Perché troviamo così difficile ammettere che le incomprensioni comunicative nel dialogo tra gioco e giocatore possono dipendere dal giocatore e dal rumore di fondo che lo circonda, fatto dalle aspettative del pubblico principalmente nel caso dei creator, piuttosto che ricadere sempre nelle stesse dinamiche di biasimare il gioco? O il controller, o “internet che lagga” e “la squadra avversaria che usa i cheat” se si trattasse di un gioco online? Hollow Knight mi ha mostrato incontrovertibilmente che si, magari nel pagliaio ci sono un po' di aghi, ma c'è anche un tronco di baobab, e il tronco in questione ero proprio io. O meglio, erano tutte quelle dinamiche che orbitano intorno al modo che mi sono imposto per generare intrattenimento utilizzando un videogioco. Forse, capire che questo modo di fare non va bene, mi ha reso un creator migliore. O per lo meno, mi ha reso conscio che la mia percezione di qualcosa che vedo per la prima volta sarà irrimediabilmente vessata dall'utilizzo che ne faccio. La reazione a una qualsiasi cosa non potrà mai essere veramente autentica se avviene per un pubblico, o per lo meno mai pari a quella che si avrebbe privatamente, anche perché chiunque abbia mai provato a creare intrattenimento sa benissimo che non basta puntarsi una telecamera in faccia, mettersi un microfono in bocca, e “giocare a un giochino”. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

L'originalità e la ripetizione

Non posso dire che la storia di Hollow Knight mi sia piaciuta. O meglio, probabilmente mi sarebbe piaciuta se prima non avessi giocato Dark Souls, e non avessi letto o guardato le altre storie a cui Hollow Knight si ispira. C'è una differenza interessante tra la storia ciclica raccontata in Hollow Knight e quella raccontata in Dark Souls, ed è un po' la differenza tra 1984 e Brave New World: in Dark Souls dobbiamo propagare quanto più possibile la falsa speranza rappresentata dalla fiamma, per mantenere più a lungo lo status quo, e in Hollow Knight dobbiamo combattere specificamente questa falsa speranza, di cui il regno è diventato schiavo. È difficile però non tracciare paralleli, anche perché come detto all'inizio, in questi anni se dici “videogioco difficile” ti viene in mente Dark Souls e Hollow Knight, principalmente. Ci sono anche tantissimi elementi di gameplay che li rendono simili: i falò e le panchine, la perdita di geo e la perdita delle anime quando si muore, le cure che richiedono tempo, il focus sui boss che rappresentano la vera metrica per sancire l'avanzamento lungo la storia, e molto altro. Sembra quasi voluto. Ovviamente, questi elementi non li ha inventati Dark Souls, ed è francamente ridicolo considerare Hollow Knight un souls-like, come è francamente ridicolo usare Hollow Knight come paragone per i metroidvania. Una volta ho letto in una recensione di Metroid Dread che il gioco si ispira a Hollow Knight, ovvero un gioco che si ispira a Super Metroid. Ma d'altronde non ci si può aspettare che un potenziale acquirente di un gioco in uscita abbia giocato Super Metroid, mentre per qualche motivo è più legittimo aspettarsi che abbia giocato Hollow Knight. Il problema però è che Hollow Knight non è un normale metroidvania. Certo, è un platform in 2d con focus sul combattimento e potenziamenti sequenzali che permettono di espandere le zone esplorabili. Però, tutti questi dettagli, tutti questi esempi di rilettura di elementi dati per assunto in questo genere, tutte queste particolarità che emergono solo quando lo si gioca attentamente, lo rendono un gioco maledettamente originale. Hollow Knight è un po' come quelle immagini che se le guardi con gli occhi socchiusi vedi qualcosa, mentre se ingrandisci l'immagine e guardi attentamente ti accorgi che il tuo cervello si stava inventando elementi che in realtà non ci sono, con una buona dose di pareidolia. La prima cosa che ho pensato quando ho avviato per la prima volta Hollow Knight è stata “Ok, vediamo cosa fa di diverso rispetto a Castlevania”, e così facendo mi sono rovinato l'esperienza, perché la mappa non è a quadretti e quindi è meno leggibile, perché non c'è la scelta delle armi e quindi è più monotono, perché non è in pixel art e quindi è più brutto, e via discorrendo. Stavo giocando a un gioco pensando a un altro. Ma sarò coglione? Il problema è che non siamo abituati all'originalità. Ovviamente, aggiungo: è parte della definizione di originalità. Però, per quanto sia ovvio, non riusciamo a definire qualcosa senza partire da ciò a cui somiglia. Quando uscì Doom venne definito “un'avventura in tre dimensioni”, e tutti i giochi “simili” che vennero dopo vennero chiamati “Doom-like” molto prima di essere naturalizzati in first person shooter, o fps. Così facendo, però, partiamo sempre e comunque da un punto di vista potenzialmente sbagliato: abbiamo ben chiaro in testa il paragone, e andiamo a caccia di ciò che questo gioco fa diversamente, negandoci di vedere il quadro nel suo insieme, fallendo nel considerare come tutti questi elementi definiscano un'identità a sé stante. Questo solitamente non è un grande problema: molti videogiochi sono proprio derivativi, ma quando ne spunta fuori uno veramente originale rischiamo di non accorgerci. E così anche in qualsiasi altra circostanza: di fronte a una nuova destinazione di viaggio tendiamo a paragonare il paesaggio con qualcosa di già visto, ascoltando un nuovo album di una band lo paragoniamo ai loro precedenti lavori, mangiando un piatto di pasta al sugo in un ristorante lo paragoniamo a come la faceva nostra nonna. Ci vuole uno sforzo non trascurabile a valutare le cose in quanto tali. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Vi parlo di Hollow Knight

Il fatto è che io non saprei proprio parlarvi di Hollow Knight. Non è un gioco normale. Non è stata un'esperienza che posso descrivere senza parlare anche di tutto ciò che c'è girato intorno, tutte le considerazioni che mi ha obbligato ad affrontare. In giro si legge “Voto: 10”. Io i voti non li ho mai sopportati. Come si fa a riassumere con un numero un'esperienza interattiva, una narrazione in cui una parte di noi si stacca e diventa parte della storia stessa, un percorso a ostacoli al quale ci sottoponiamo di nostra sponte per il puro gusto di dimostrarci di essere in grado di superarlo? Ci sono tanti giochi come Hollow Knight. C'è chi vi potrebbe raccontare la stessa esperienza parlandovi di qualsiasi altro gioco, o addirittura di un libro, di una canzone, di un film, di un qualsiasi ricordo sul quale si decide di tornare, col sospetto che da un punto di vista diverso si scopra qualche altro dettaglio. Hollow Knight è ciò che mi ha insegnato che devo continuativamente mettere in discussione il mio punto di vista. Devo fare attenzione a come valuto qualcosa, perché il contesto di fruizione di un'opera è importante quanto l'opera stessa. Devo ricordarmi che quando sono seduto in una stanza da solo sono un persona, e quando sono di fronte a una platea sono un'altra persona. Non posso sapere se Hollow Knight vi provocherà le stesse riflessioni. Probabilmente no. Ma era proprio di questo che volevo parlarvi. Questa non era affatto una recensione di Hollow Knight.

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_022-2025.jpg

Invecchiamo ed ogni cosa si fa più faticosa mi duole sempre qualcosa la pallocca addominale è andata a farsi benedire, mi son perso un bicipite il collo s'incricca non sento una cippa dall'orecchia sinistra.

Ma tu diventi ogni giorno più bella ed io darei ancora e ancora il mio regno per la tua mela.

Invecchiamo ed ogni foglio fotocopiato è un foglio bianco di meno mi fa male la schiena e la pallocca culturale non vale più nemmeno la pena, mi perdo il discorso opino a casaccio non ricordo una sega e l'orgoglio mi frega.

Ma tu diventi ogni giorno più bella ed io darei ancora e ancora il mio regno per la tua mela.

Invecchiamo ed è meglio non pensarci troppo mi fa male il corpo e la pallocca mistica scende dalla croce per andare su Marte, le idee fanno girotondo i concetti emersi ritornano a fondo non capisco nemmeno come mi chiamo.

Ma tu diventi ogni giorno più bella ed io darei ancora e ancora il mio regno per la tua mela.

 
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from piccole cose inutili

ergon logos di molleindustria su twine

versione statica, no musica, ita

solo...

quelle ()

SONO UN EROE SONO IL TUO EROE NEMICI PREVEDIBILI E MINACCE PREVEDIBILI TUTTO INTORNO A ME

A fast paced interactive storytelling piece that tries to be a meta-platform game based on the stream of consciousness of [...]

[...] it fails miserably [...]

[...] becomes a piece [...]

[...] non-linear kinetic visual [...]

VERTIGINE UN DILEMMA MORALE RIPRODUCIBILE MECCANICAMENTE

unidentified game object


versione twine che si può provare online https://piccole-cose-inutili.github.io/ergon-logos-twine/ergon_logos.html

il sito di molleindustria dove scaricare l'originale https://www.molleindustria.org/ergon_logos/ergon_logos.html

video dell'originale caricato da molleindustria 1 https://youtu.be/E0jWkF-TyWw

pagina archivio blog con breve descrizione e link https://www.molleindustria.org/node/283/

una versione dell'originale che si può provare online https://flashmuseum.org/ergon-logos/

versione twine zip su archive.org 2 https://archive.org/details/ergon_logos

su 2 anche screenshot, schemi (che avevo fatto tempo fa, infatti alcune cose sono cambiate rispetto a quello che si vede nel 1) e il video riportato sopra

} ... {

traduzioni

(bifo legge una code poem)

fetish font

                                                                                                                                                                letteratura elettronica

 
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