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from piccole cose inutili

i mostri di unlikeness

rivista erbafoglio

: potresti parlare di letteratura elettronica... –

me

: “Ho iniziato il punto croce perché sono ossessivo.”

°.)-

possibili risposte al senso senza significato

(

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metto qui ↓ una versione tipograficamente diversa da quella pubblicata da erbafoglio per mere questioni tipografiche

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la versione pubblicata da erbafoglio è comunque visibile su archive.org

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ho dimenticato un ri-ferimento (sorry!); l'ho aggiunto in questa versione postuma )

copertina rivista erbafoglio nr. 30 aprile 2025

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i mostri di unlikeness è stato pubblicato su erbafoglio – rivista di cultura poetica – anno V, terza serie, n. 30 (aprile 2025), pp. 82-88

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la versione cartacea della rivista è disponibile da aprile 2025

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la versione digitale è disponibile da ottobre 2025

                                                                                                                              letteratura elettronica

 
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from Rob's cabinet of mboh?

Ai tempi dell'università, complice l'essere caduto nel tunnel di Final Fantasy XI con tutte le sue meccaniche assuefacenti da MMORPG, a poco a poco avevo preso l'abitudine di fare sempre più tardi la notte. Prima di cedere al sonno e andare a letto però, mi ritrovavo ad affacciarmi dalla finestra della mia stanza e guardare gli scorci del mio quartiere avvolti da un buio via via più flebile all'affacciarsi dell'aurora dal mare. A dirla tutta per lo più maledicevo il palazzo di fronte, alto giusto quel piano che bastava a tagliarmi la visuale di parte del centro storico e soprattutto della cattedrale, lasciandone scoperte giusto le punte delle guglie e della cupola. Però in quel palazzo, un paio di piani sotto al mio, c'era una per certi versi rassicurante certezza: ogni volta che tiravo fino a quell'ora, trovavo sistematicamente un uomo affacciato alla sua finestra. Abbastanza in là con gli anni, un viso da Novello Novelli un po' meno smunto, con indosso una canottiera bianca e un'immancabile sigaretta in mano, era sempre lì a compiere quello che probabilmente era il suo rito quotidiano post risveglio, anche se la sua vista sfortunatamente si limitava a un altro brutto palazzo costruito durante la speculazione edilizia degli anni '60 e alla strada sottostante. Flashforward di più di una dozzina d'anni, nel periodo post Covid. La stanza è ancora quella e io ho ripreso a fare sempre più tardi, arrivando spesso a vedere l'alba. Continuo a maledire il palazzo di fronte per la visuale di cui mi priva ma questa volta non vedo nessuno affacciarsi da quella finestra. Gli anni passati (e la pandemia) non lasciano spazio a tante spiegazioni alternative alla sua assenza.

Non ho mai interagito con lui, anche se forse in un occasione o due i nostri sguardi si sono incrociati per un istante, ma ammetto che un paio di volte sono andato a dormire chiedendomi chi fosse e immaginandomi quali storie potessero nascondersi dietro a quel volto da attore da commedia dallo sguardo malinconico. Ovviamente notte veniva fuori qualcosa di diverso e senza una conclusione, visto che il sonno rimandato troppo a lungo era lì pronto a prendermi...

All'epoca non lo sapevo ma, in senso molto lato, in qualche modo stavo anticipando lo spirito di un GDR indie che avrei scoperto molto più tardi e in cui di fatto si raccontano le vicende di una casa e della famiglia che la abita.

Sì, alla fine questo treno di pensieri nato dalla notizia di un lutto e dell'inevitabile sensazione di spaesamento per il tempo che passa è stato dirottato verso una stazione più comoda e familiare rispetto al riversare su internet un'intera catena di ricordi intimi, e quindi anche questo post è diventato un pretesto per parlare nuovamente di un gioco, come temo accadrà spesso. Se l'argomento non vi interessa potete saltare tutta la parte che segue e non vi perderete niente 😅

La casa sul confine dei ricordi...

House of Reeds di Sam Kabo Ashwell, di cui trovate qui la traduzione italiana fatta da Antonio Amato, è un gioco che potrebbe risultare decisamente atipico per chi da questo medium si aspetta avventure, combattimenti, punti esperienza, ecc. Quanto atipico? Giusto per fare un esempio, ɜ giocatorɜ non avranno un personaggio di loro “proprietà” ma sceglieranno di volta in volta quali personaggi vogliono in scena.

E il resto come funziona? Sintetizzando il più possibile un regolamento già breve, per cominciare le persone al tavolo stabiliranno assieme i cardini dell'ambientazione, dopo di che a turno contribuiranno a creare prima una mappa/planimetria della casa e infine il cast dei personaggi che la abitano. Una volta creata l'ambientazione si può cominciare a giocare: chi è di turno pescherà una carta con sopra uno spunto narrativo che dovrà essere portato in scena, quindi dirà in che stagione e in quale stanza ci troviamo, descrivendo anche un particolare che la rende diversa dal solito (e segnandolo nella planimetria se si tratta di qualcosa di sufficientemente importante e duraturo), chi è presente al suo interno e infine procederà con la narrazione.

Immagine di una carta spunto con scritto: Supporto - Mostra come i membri della famiglia si supportano a vicenda nelle avversità.

Una carta che idealmente dovrebbe spuntare nel “mazzo” di ogni famiglia

Quando tuttɜ ɜ giocatorɜ avranno narrato una scena, nella fiction sarà passato un anno; si aggiorneranno le età dei vari personaggi e si procederà a ricominciare il giro da capo e così via fino alla conclusione della giocata, che avverrà quando vorranno i giocatori (un buon momento per chiudere è dopo aver pescato carta Trasloco).

Fondamentalmente questo è tutto. Rispetto ad altri giochi senza GM però qui c'è un'ulteriore particolarità: anche se l'autore nelle 8 pagine scarse del manuale lo dà per scontato non specificandolo da nessuna parte, sarà solamente lə giocatorə di turno a narrare la scena senza assegnare personaggi ad altrɜ giocatorɜ o coinvolgerli per farli dialogare; l'interazione sta nel prendere quanto hanno già creato lɜ altrɜ ed espanderlo scena dopo scena.

...la stessa sempre, come tu la sai

Una cosa da tenere a mente è che la costante indiscussa di tutto il gioco è la casa. Grazie alle carte pescate potrebbe accadere che la famiglia si espanda o che perda qualche componente, o perfino che a un certo punto traslochi in blocco, ma qualsiasi cosa succeda, la casa sarà sempre lì, pronta ad accogliere ogni nuova famiglia che eventualmente la abiterà.

Va anche detto che in House of Reeds casa e famiglia sono concetti molto laschi: la casa può essere qualunque luogo vogliamo e la famiglia qualsiasi gruppo di persone che vive al suo interno. Una caverna e un gruppo di Neanderthal sono casa e famiglia? Certo che sì. Un laboratorio di ricerca sottomarino pieno di personale scientifico? Altrettanto. L'ultimo avamposto dell'umanità al confine con il Nulla e ɜ Guardianɜ che devono impedire che si espanda in quel che resta del mondo? E chi sono io per dirvi no?

Screenshot di un tavolo di Tabletop Simulator con su disegnata una planimetria di una stazione spaziale

E una roba ispirata a Star Trek ce l'abbiamo? (disegnata malissimo su Tabletop Simulator ma toccava accontentarsi)

Questa ampiezza delle due definizioni mi ha portato a osservare un curioso fenomeno in tutte le partite che ho giocato finora: l'approccio Out There ha sempre prevalso sul Down Here, cioè nessuna delle persone coinvolte ha scelto di ambientare la giocata nel mondo “reale” raccontando davvero la storia di una famiglia “normale”, ma piuttosto ha scelto sempre elementi fantastici o il più lontano possibile dalla quotidianità, e la cosa un po' mi dispiace.

Non fraintendetemi, anche “là fuori” sono venute fuori delle belle storie condivise; ricordo ancora con molto piacere la giocata in cui la casa era una nave pirata e la famiglia la sua ciurma, solo che più andavamo avanti più emergeva che quella nave era qualcosa di fuori dal tempo, destinata a navigare in mare aperto da e per chissà quanto, e che invece di trovare un approdo incontrava man mano navi sempre più moderne e potenti, ma anche se terrorizzata la ciurma veniva spinta a combattere dalla tonante voce di un capitano sempre chiuso nella sua cabina e che nessuno ricorda di aver mai visto di persona. La giocata si è conclusa col Trasloco, che in questo caso è stato il tanto agognato avvistamento della terra. Solo che una volta scesi si sono trovati di fronte a un'isola con uno strano fenomeno: due soli in direzione opposta, uno ormai al tramonto e l'altro al principio dell'alba. La ciurma sceglie di andare verso l'alba, tranne il nostromo che di ricominciare da capo non ha voglia e si incammina verso ovest, sperando di trovare la pace mentre osserva la nave ormai priva di equipaggio salpare verso chissà dove.

Capisco perfettamente perché in moltɜ preferiscano provare nel gioco di ruolo qualcosa di totalmente estraneo alla propria vita quotidiana, ma imho House of Reeds è il gioco giusto per lasciarsi andare e provare a giocare una storia che coinvolga anche un uomo attempato che inizia le sue giornate fumando affacciato a una finestra mentre guarda con espressione imperscrutabile la strada sottostante, che a volte c'è bisogno anche di toccare quelle corde ed è un peccato rinunciarci, un po' per partito preso, un po' per non uscire dalla propria comfort zone.

In ogni caso questo è un GDR che merita a prescindere dall'approccio con cui lo volete giocare; dategli una chance se potete e scoprite che storie verranno fuori dalle vostre case.

Hashtag rilevanti: #RobsCabinetOfMemories, #RobsCabinetOfGDR, #GDRSegreto

 
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from KSGamingLife

Hollow Knight, recensito da un creator che non ama(va) Hollow Knight

Ci sono giochi di cui è difficile parlare bene. Ci sono giochi di cui è difficile parlare male. E poi ci sono giochi di cui è difficile parlare, specialmente perché il proprio parere dipende dalle circostanze in cui esso è stato formulato. Questo perché i giochi “importanti” ti toccano dentro, interagiscono col tuo stato d'animo, lo modificano, diventano parte attiva di ciò che sei durante l'avventura che ti fanno vivere, e lo restano per molto, molto tempo. C'è anche un altro concetto da considerare, ovvero che una cosa è vivere un videogioco per sé stessi, come esperienza individuale, come fanno (fortunatamente) la maggior parte dei videogiocatori, e tutt'altra cosa è utilizzare un videogioco come mezzo col quale generare intrattenimento per un pubblico. Nel primo caso, il gioco sta sul palco, e tu sei tra il pubblico, e decidi se applaudire o fischiare. Nel secondo caso, tu stai sul palco insieme al gioco, diventi un'altra variabile che fa applaudire o fischiare il pubblico che sta in platea, e se non vai d'accordo con l'altro ingombrante inquilino del palco è un grosso problema, specialmente considerando che tu non sei nessuno, e l'altro magari è famoso, universalmente apprezzato e acclamato. Forse, se non ti ci trovi bene, il problema sei tu. Anzi, è molto probabile, e notando il tuo disagio, la platea non mancherà di fartelo presente. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Estetica, design e poesia

Hollow Knight è un gioco bellissimo, dal punto di vista estetico. Non c'è zona che non abbia la propria identità, ma allo stesso tempo non c'è zona che non risulti armoniosa con le altre, perché il concetto che il gioco vuole esprimere è che Hallownest è un vero e proprio alveare, dove le creature trovano la propria casa e convivono sia con l'ambiente che con gli altri abitanti. È una metafora, che ci esprime la complessità e la fragilità di un mondo che, seppur alieno a noi, vale la pena salvare. Hollow Knight è un gioco che parla poco con le parole, ma tantissimo con le immagini. È criptico ma chiarissimo allo stesso tempo. La musica è parte integrante dell'aspetto grafico: precisa, mai invasiva, ma che collabora con ciò che vediamo con gli occhi al fine di esprimere un “mood” perfettamente coerente. Ci sono momenti in Hollow Knight dove l'impatto narrativo è comprensibile soltanto fermandosi a guardare, e ad ascoltare. La tristezza e la malinconia della City of Tears, l'opprimente strusciare di Deepnest, il mistero e l'anticipazione di Dirtmouth ci raccontano il luogo dove ci troviamo con chirurgica precisione senza pronunciare una sillaba. Certo, tutto ciò è chiaro e evidente se permetti a un gioco come Hollow Knight di parlarti, di raccontarti, di esprimerti questo suo “mood”. Non è qualcosa a cui il videogiocatore medio è abituato, specialmente considerando quanto solitamente si viene tenuti per meno, quanto le scelte registiche siano intente a farci notare gli elementi importanti e funzionali alla narrazione e lasciare il resto sullo sfondo. In Hollow Knight, ogni dettaglio è importante, ogni elemento grafico e sonoro ha un'importanza di lore e di gameplay. Il sound design è efficacissimo: quando vieni colpito, te ne accorgi inevitabilmente, e quell'istante di pausa nelle animazioni è sufficiente per permetterti di capire cosa hai sbagliato e ti permette di porti il problema su come non sbagliare la prossima volta. Allo stesso tempo, è immediatamente palese se ciò che stai colpendo sta subendo danni, o se è il caso di valutare una strategia differente. Naturalmente questo dialogo può avere luogo col giusto contesto. Ce ne sono tanti di adatti, ma di certo quello di trovarsi sullo stesso palco insieme al gioco, e con davanti il pubblico, non è un contesto che permette pause, riflessioni, introspezione. Questo perché il parere consolidato della “scienza” dell'entertainment sancisce che non puoi mai startene zitto, non puoi fermarti a riflettere, non puoi far passare neanche un secondo senza “dare spettacolo”, senza sforzarti di tenere il tuo pubblico con gli occhi incollati a te, specialmente considerando che il motivo per cui sono venuti nel tuo teatro è perché si aspettano che la tua presenza rappresenti un valore aggiunto rispetto al trascorrere il proprio tempo col tuo compagno di palco, estromettendoti dall'equazione. Che valore aggiunto dai, se ti fermi, zitto, e guardi? E ascolti? Un gioco come Hollow Knight è totalmente inadatto all'essere usato come strumento tramite il quale generare entertainment, specialmente se è la prima volta che lo giochi. Concentrandoti sul rapporto col pubblico, sei costretto a estromettere o quantomeno limitare il rapporto col videogioco, che sta parlando al pubblico ma soprattutto a te. E tu non lo ascolti, perché devi parlare, devi divertire, devi fare il giullare. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Elegia della difficoltà

Hollow Knight è difficilissimo. Ok, l'ho detto, potete skippare questa sezione. Ah, siete ancora qui? Ok, allora riflettiamo un attimo. Che cosa significa che un gioco è “difficile”? Hollow Knight è uno di quei giochi che vengono in mente quando si parla di giochi “difficili”. Senza dubbio è perché si tratta di un titolo molto celebre, come d'altronde anche l'altro che viene in mente nello stesso contesto: Dark Souls. Una volta lessi una bellissima e concisa analisi: “Dark Souls non è difficile. Semmai, è severo.” ed è assolutamente vero. Hollow Knight, come anche Dark Souls, non ti spiega cosa devi fare, quando, o perché. Ciascuno dei due giochi ti offre la possibilità di personalizzare fino a un certo punto la tua esperienza di gioco, ma chi comanda rimane il gioco, non il giocatore. È il giocatore che deve adattarsi, usando gli strumenti che gli vengono dati, per superare le sfide. Il gioco non si inginocchia mai, non si piega di fronte alla frustrazione del giocatore. Il gioco ti invita a provare un'altra strada, un'altra strategia, ma assiste impassibile: sei tu a dover cambiare, non lui. Questa è una importante lezione di vita. Se devi spaccare un blocco di marmo, puoi provare a prenderlo a testate: il blocco di marmo non ti dirà se è giusto oppure no. Sarà la tua testa dolorante a suggerirti che forse può essere una buona idea provare un piccone. O un martello con un cuneo. O una carica di tritolo. Tutte soluzioni che in quel contesto possono funzionare, ma se l'ostacolo fosse “trovare un cappello che calza bene” dovrai avere la prontezza di tornare a utilizzare la testa: con la carica di tritolo non riuscirai a portare a termine la missione. Hollow Knight è difficile perché ti costringe a identificare la difficoltà e ad agire di conseguenza. Però, questo si potrebbe dire di fronte a qualsiasi difficoltà, no? Insomma, più o meno. Ci sono giochi dove puoi usare la stessa tattica dall'inizio alla fine del gioco, e funziona sempre. Ci sono giochi dove premendo un tasto si vince, o poco ci manca. Giochiamo ai videogiochi perché vogliamo un'esperienza narrativa interattiva: una storia dove una nostra azione ha una conseguenza. Altrimenti, se non c'è interattività, non è più un gioco: sarà un libro, un film, una canzone, ma non è un videogioco. I giochi “difficili” ci mettono di fronte a una situazione dove sono sempre di più le azioni di noi giocatori a fare la differenza, mentre nei giochi “facili” sono le azioni del personaggio, per lo più automatizzate. Non c'è il tasto “premi qui per vincere” in Hollow Knight. Non c'è l'accumulare punti esperienza per fare più danno e sostenere più ferite, che peraltro nell'altro esempio di gioco “difficile”, Dark Souls, invece è presente. Il personaggio diventa solo marginalmente più potente dall'inizio alla fine della storia. Chi diventa immensamente più forte è il giocatore. Le sezioni di platforming sono una chiara dimostrazione: all'inizio, superare un piccolo puzzle dove se sbagli vai a finire su una punta acuminata non è banale. Verso la fine, riesci a superare il Path of Pain nel White Palace. Non è il personaggio che è diventato più bravo a saltare, e le punte acuminate fanno lo stesso, letale danno. Sei tu giocatore che con le tue azioni hai sortito una conseguenza, non solo nel mondo di gioco, ma perfino nel tuo mondo reale: sai benissimo di essere diventato più bravo, e sai benissimo che è tutto merito tuo. Ecco perché ci piacciono i giochi difficili, più sono difficili e meglio è: perché siamo certi che, con il giusto impegno e tempo, riusciremo a conquistare anche quella difficoltà, che inizialmente ci sembrerà impossibile. Non c'è pensiero più confortante di questo, e forse è per questo che giochiamo ai videogiochi difficili: per dimostrare a noi stessi che siamo capaci di migliorare, di diventare più bravi, più forti, che siamo capaci di crescere. Hollow Knight, dicevo, è difficilissimo. Questa caratteristica è parte del suo fascino. Provare, riprovare, riprovare, riprovare, riprovare e infine riuscire è un processo indigesto, intenso, frustrante, e spesso bruttissimo e noiosissimo da vedere. Lo spettatore medio non vuole vedere un giocatore cadere per 100 volte nello stesso buco. E allora la pressione aumenta, perché stai facendo del tuo meglio e stai cadendo comunque nel buco, e ogni volta che ci cadi ti incazzi un po' di più, e più ti incazzi e meno sopporti qualcuno che in chat magari animato da buoni propositi ti spiega come fare, o peggio qualcuno che non aspettava altro per prenderti per il culo, o ancora peggio vedi che il tuo stream va male in quanto non stai offrendo l'entertainment che il tuo pubblico vuole, quel “valore aggiunto” che cercano da te. E più ti incazzi, e più è facile cadere in quel buco. E più ci cadi, e più ti incazzi. E più ti incazzi, e meno ti concentri, e meno impari, e più cadi nel buco, e più gente se ne va dal tuo pubblico, qualcuno forse per sempre. Che brutta idea scegliere un gioco come Hollow Knight da condividere con un pubblico. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Una manciata di aghi nel pagliaio

Hollow Knight ha alcune scelte di game design un po' curiose. Mi rendo perfettamente conto che in tanti le difendano a spada tratta, ed è proprio questo il bello: non penso siano sbagliate o scorrette, penso che a me, personalmente, non facciano particolarmente impazzire. La prima, la più evidente, quella con cui si schiantano tutti: la mappa. Il fatto che la mappa di ciascuna zona in Hollow Knight inizi a essere gestita solo dopo averla acquistata da Cornipher e si aggiorni soltanto a un save point (raggiunto in vita, o in morte) è carino a livello di coerenza e “realismo”, ma è una scelta che rende il gioco artificialmente difficile, così anche il fatto che la bussola che permette di sapere dove ci troviamo nella suddedda mappa ci occupi uno slot dei charm. “Artificialmente” perché non si tratta di una difficoltà da superare, o meglio, è una limitazione imposta il cui superamento non rappresenta alcun premio, neanche la soddisfazione personale, o almeno questa è la mia percezione. È un elemento di frustrazione aggiuntivo, che pare qualcosa di implementato per il gusto di complicare l'esperienza di gioco. Altra scelta, diciamo, curiosa risiede nell'unica meccanica di personalizzazione del personaggio, ovvero i charm. I charm sono strani. Si tratta di potenziamenti che devi trovare in giro nella mappa, che influenzano marginalmente come il personaggio si comporta. Alcuni fanno schivare meglio e più spesso, altri allungano la portata dell'arma, altri aumentano il danno delle abilità o dell'attacco base. Non è un brutto sistema, anzi, è interessante che sia l'unico elemento di personalizzazione, ma in quanto tale rimane comunque molto limitato. I charm sono rilevanti, è vero, ma personalmente ritengo che lascino un po' l'amaro in bocca: potrebbero alterare davvero tanto la modalità di interazione col mondo di gioco, e invece salvo forse un paio non rappresentano gli stravolgimenti che potrebbero invece provocare. Il fatto è che comunque, essendo appunto l'unica modalità di personalizzazione, pur variando l'1% effettivamente la differenza si sente. Non so esprimere un parere finale su questa meccanica. Da un lato mi piace, dall'altro poteva essere molto di più. E il charm che permette di capire dove ti trovi nella mappa è orrendo. Il fatto è che giocando per la prima volta Hollow Knight avevo trovato tante cose in più che non riuscivo a sopportare. Avevo l'impressione di attraversare le piattaforme durante qualche salto complicato. Ero pronto a giurare che in tante istanze il nemico di turno non mi avesse veramente colpito, o che la posizione di qualche trappola fosse decisamente ingiusta. Ero fermamente convinto che la mappa fosse illeggibile, che il combattimento fosse noioso e monotono, che il platforming fosse solo e unicamente trial and error, che ci si perdesse in continuazione. Rigiocandolo, stavolta senza un pubblico, l'ho trovato molto più accessibile, molto più corretto, mai mi è capitato di subire danni senza sapere precisamente perché, e cosa dovessi fare la prossima volta per evitarlo (riuscirci ovviamente è un'altra storia!. Perché? Come può un gioco cambiare così tanto tra giocarlo da soli o giocarlo con (anzi, per) altri? Perché troviamo così difficile ammettere che le incomprensioni comunicative nel dialogo tra gioco e giocatore possono dipendere dal giocatore e dal rumore di fondo che lo circonda, fatto dalle aspettative del pubblico principalmente nel caso dei creator, piuttosto che ricadere sempre nelle stesse dinamiche di biasimare il gioco? O il controller, o “internet che lagga” e “la squadra avversaria che usa i cheat” se si trattasse di un gioco online? Hollow Knight mi ha mostrato incontrovertibilmente che si, magari nel pagliaio ci sono un po' di aghi, ma c'è anche un tronco di baobab, e il tronco in questione ero proprio io. O meglio, erano tutte quelle dinamiche che orbitano intorno al modo che mi sono imposto per generare intrattenimento utilizzando un videogioco. Forse, capire che questo modo di fare non va bene, mi ha reso un creator migliore. O per lo meno, mi ha reso conscio che la mia percezione di qualcosa che vedo per la prima volta sarà irrimediabilmente vessata dall'utilizzo che ne faccio. La reazione a una qualsiasi cosa non potrà mai essere veramente autentica se avviene per un pubblico, o per lo meno mai pari a quella che si avrebbe privatamente, anche perché chiunque abbia mai provato a creare intrattenimento sa benissimo che non basta puntarsi una telecamera in faccia, mettersi un microfono in bocca, e “giocare a un giochino”. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

L'originalità e la ripetizione

Non posso dire che la storia di Hollow Knight mi sia piaciuta. O meglio, probabilmente mi sarebbe piaciuta se prima non avessi giocato Dark Souls, e non avessi letto o guardato le altre storie a cui Hollow Knight si ispira. C'è una differenza interessante tra la storia ciclica raccontata in Hollow Knight e quella raccontata in Dark Souls, ed è un po' la differenza tra 1984 e Brave New World: in Dark Souls dobbiamo propagare quanto più possibile la falsa speranza rappresentata dalla fiamma, per mantenere più a lungo lo status quo, e in Hollow Knight dobbiamo combattere specificamente questa falsa speranza, di cui il regno è diventato schiavo. È difficile però non tracciare paralleli, anche perché come detto all'inizio, in questi anni se dici “videogioco difficile” ti viene in mente Dark Souls e Hollow Knight, principalmente. Ci sono anche tantissimi elementi di gameplay che li rendono simili: i falò e le panchine, la perdita di geo e la perdita delle anime quando si muore, le cure che richiedono tempo, il focus sui boss che rappresentano la vera metrica per sancire l'avanzamento lungo la storia, e molto altro. Sembra quasi voluto. Ovviamente, questi elementi non li ha inventati Dark Souls, ed è francamente ridicolo considerare Hollow Knight un souls-like, come è francamente ridicolo usare Hollow Knight come paragone per i metroidvania. Una volta ho letto in una recensione di Metroid Dread che il gioco si ispira a Hollow Knight, ovvero un gioco che si ispira a Super Metroid. Ma d'altronde non ci si può aspettare che un potenziale acquirente di un gioco in uscita abbia giocato Super Metroid, mentre per qualche motivo è più legittimo aspettarsi che abbia giocato Hollow Knight. Il problema però è che Hollow Knight non è un normale metroidvania. Certo, è un platform in 2d con focus sul combattimento e potenziamenti sequenzali che permettono di espandere le zone esplorabili. Però, tutti questi dettagli, tutti questi esempi di rilettura di elementi dati per assunto in questo genere, tutte queste particolarità che emergono solo quando lo si gioca attentamente, lo rendono un gioco maledettamente originale. Hollow Knight è un po' come quelle immagini che se le guardi con gli occhi socchiusi vedi qualcosa, mentre se ingrandisci l'immagine e guardi attentamente ti accorgi che il tuo cervello si stava inventando elementi che in realtà non ci sono, con una buona dose di pareidolia. La prima cosa che ho pensato quando ho avviato per la prima volta Hollow Knight è stata “Ok, vediamo cosa fa di diverso rispetto a Castlevania”, e così facendo mi sono rovinato l'esperienza, perché la mappa non è a quadretti e quindi è meno leggibile, perché non c'è la scelta delle armi e quindi è più monotono, perché non è in pixel art e quindi è più brutto, e via discorrendo. Stavo giocando a un gioco pensando a un altro. Ma sarò coglione? Il problema è che non siamo abituati all'originalità. Ovviamente, aggiungo: è parte della definizione di originalità. Però, per quanto sia ovvio, non riusciamo a definire qualcosa senza partire da ciò a cui somiglia. Quando uscì Doom venne definito “un'avventura in tre dimensioni”, e tutti i giochi “simili” che vennero dopo vennero chiamati “Doom-like” molto prima di essere naturalizzati in first person shooter, o fps. Così facendo, però, partiamo sempre e comunque da un punto di vista potenzialmente sbagliato: abbiamo ben chiaro in testa il paragone, e andiamo a caccia di ciò che questo gioco fa diversamente, negandoci di vedere il quadro nel suo insieme, fallendo nel considerare come tutti questi elementi definiscano un'identità a sé stante. Questo solitamente non è un grande problema: molti videogiochi sono proprio derivativi, ma quando ne spunta fuori uno veramente originale rischiamo di non accorgerci. E così anche in qualsiasi altra circostanza: di fronte a una nuova destinazione di viaggio tendiamo a paragonare il paesaggio con qualcosa di già visto, ascoltando un nuovo album di una band lo paragoniamo ai loro precedenti lavori, mangiando un piatto di pasta al sugo in un ristorante lo paragoniamo a come la faceva nostra nonna. Ci vuole uno sforzo non trascurabile a valutare le cose in quanto tali. Però non vorrei parlarvi di questo. Questa è una recensione di Hollow Knight.

Vi parlo di Hollow Knight

Il fatto è che io non saprei proprio parlarvi di Hollow Knight. Non è un gioco normale. Non è stata un'esperienza che posso descrivere senza parlare anche di tutto ciò che c'è girato intorno, tutte le considerazioni che mi ha obbligato ad affrontare. In giro si legge “Voto: 10”. Io i voti non li ho mai sopportati. Come si fa a riassumere con un numero un'esperienza interattiva, una narrazione in cui una parte di noi si stacca e diventa parte della storia stessa, un percorso a ostacoli al quale ci sottoponiamo di nostra sponte per il puro gusto di dimostrarci di essere in grado di superarlo? Ci sono tanti giochi come Hollow Knight. C'è chi vi potrebbe raccontare la stessa esperienza parlandovi di qualsiasi altro gioco, o addirittura di un libro, di una canzone, di un film, di un qualsiasi ricordo sul quale si decide di tornare, col sospetto che da un punto di vista diverso si scopra qualche altro dettaglio. Hollow Knight è ciò che mi ha insegnato che devo continuativamente mettere in discussione il mio punto di vista. Devo fare attenzione a come valuto qualcosa, perché il contesto di fruizione di un'opera è importante quanto l'opera stessa. Devo ricordarmi che quando sono seduto in una stanza da solo sono un persona, e quando sono di fronte a una platea sono un'altra persona. Non posso sapere se Hollow Knight vi provocherà le stesse riflessioni. Probabilmente no. Ma era proprio di questo che volevo parlarvi. Questa non era affatto una recensione di Hollow Knight.

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_022-2025.jpg

Invecchiamo ed ogni cosa si fa più faticosa mi duole sempre qualcosa la pallocca addominale è andata a farsi benedire, mi son perso un bicipite il collo s'incricca non sento una cippa dall'orecchia sinistra.

Ma tu diventi ogni giorno più bella ed io darei ancora e ancora il mio regno per la tua mela.

Invecchiamo ed ogni foglio fotocopiato è un foglio bianco di meno mi fa male la schiena e la pallocca culturale non vale più nemmeno la pena, mi perdo il discorso opino a casaccio non ricordo una sega e l'orgoglio mi frega.

Ma tu diventi ogni giorno più bella ed io darei ancora e ancora il mio regno per la tua mela.

Invecchiamo ed è meglio non pensarci troppo mi fa male il corpo e la pallocca mistica scende dalla croce per andare su Marte, le idee fanno girotondo i concetti emersi ritornano a fondo non capisco nemmeno come mi chiamo.

Ma tu diventi ogni giorno più bella ed io darei ancora e ancora il mio regno per la tua mela.

 
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from piccole cose inutili

ergon logos di molleindustria su twine

versione statica, no musica, ita

solo...

quelle ()

SONO UN EROE SONO IL TUO EROE NEMICI PREVEDIBILI E MINACCE PREVEDIBILI TUTTO INTORNO A ME

A fast paced interactive storytelling piece that tries to be a meta-platform game based on the stream of consciousness of [...]

[...] it fails miserably [...]

[...] becomes a piece [...]

[...] non-linear kinetic visual [...]

VERTIGINE UN DILEMMA MORALE RIPRODUCIBILE MECCANICAMENTE

unidentified game object


il sito di molleindustria dove scaricare l'originale https://www.molleindustria.org/ergon_logos/ergon_logos.html

video dell'originale caricato da molleindustria 1 https://youtu.be/E0jWkF-TyWw

pagina archivio blog con breve descrizione e link https://www.molleindustria.org/node/283/

una versione dell'originale che si può provare online https://flashmuseum.org/ergon-logos/

versione twine zip su archive.org 2 https://archive.org/details/ergon_logos

versione twine che si può provare online https://media.textadventures.co.uk/games/9TzT0QlT6UCUgViy1hbLpA/ergon_logos.html

su 2 anche screenshot, schemi (che avevo fatto tempo fa, infatti alcune cose sono cambiate rispetto a quello che si vede nel 1) e il video riportato sopra

} ... {

traduzioni

(bifo legge una code poem)

fetish font

                                                                                                                                                                letteratura elettronica

 
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from archivio pop


Cambiare il comportamento del tasto ALT. Subito.

Di default, Linux Mint (e, immagino, anche altre distro) gli assegna il potere di trascinare la finestra in giro per il desktop, con la pressione associata del click sinistro; ebbene, qualcuno in alto ha deciso che, statisticamente, sia più frequente che usare il modificatore ALT assieme al mouse.

“Eh, di sicuro sarà un problema solo tuo: starai usando Windows in una VM o una robaccia, sempre di Windows, (non)emulata in Wine”.

No. Anche con Blender: provate a selezionare un edge loop con ALT+LMB, poi sappiatemi dire.

Quindi, per evitare di impazzire, procedura in Mint Cinnamon, non so altrove: tasto super, cercate finestre, andate in comportamento e in tasto speciale di spostamento e ridimensionamento finestre dimenticate ALT e impostate SUPER.

 
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from archivio pop


Aprile 2025. Viviamo tempi in cui sarebbe preferibile non dipendere da colossi che potrebbero diventare ostili da un momento all'altro, tagliandoci i rubinetti. In realtà, saremmo noi a dover tagliar loro i rubinetti, un processo non istantaneo ma possibile, un passo alla volta.

La nostra casella Gmail, che usiamo da anni, è bellissima, capiente, funziona bene, tutto quel che ci pare ma, ormai, penso ci si trovi davanti un dilemma etico. Dove spostarsi? Le alternative gratuite più gettonate, da diversi anni, sono Tuta e Proton Mail: ce ne sono altre, sempre gratuite, probabilmente meno attente alla privacy. Non sono qui per fare comparazioni, il web ne è pieno e non avrete problemi a farvene un'idea: in linea di massima, i piani gratuiti si equivalgono e i contro sono abbastanza condivisi.

Ecco, i contro, molti dei quali riconducibili ai rispettivi piani gratuiti: – lo spazio disponibile è limitato; – le interfacce non sono una copia esatta di quella che abbiamo usato per lustri (ma ci si abitua); – la personalizzazione globale, con filtri, risposte automatiche, inoltri, etichette ecc., non è assolutamente paragonabile; – la funzione di ricerca è lenta/potrebbe non funzionare come ci si aspetterebbe; – usano applicazioni proprietarie e non si possono usare direttamente in client esterni, come Thunderbird; – i termini di uso parlano esplicitamente di un solo account per utente, ma l'utilizzo di account multipli è consentito entro limiti non precisamente delineati, che lasciano il ban a loro discrezione; – bisogna loggare periodicamente, altrimenti l'account è considerato inattivo e può essere chiuso.

Visto l'uso da privato, mi sono adeguato, forse assuefatto alle limitazioni e l'unica cosa a infastidirmi davvero è la vaghezza sugli account multipli e l'inattività. Allo spazio disponibile rispondo cancellando rapidamente le email appena diventano inutili, pratica che contribuisce anche a mitigare la lentezza della ricerca. Per filtri e etichette, pazienza: anche su Gmail non ne facevo usi particolari, quindi non sono limitazioni che personalmente reputo troppo impattanti. Le app sul telefonino le ho scaricate, pazienza, (quella di Tuta Mail è disponibile anche su F-droid) sui computer uso l'interfaccia web.

Ok, ma come staccarsi da una vecchia casella? Nel mio caso, essendo abbastanza puntiglioso, ho trovato fondamentale tenere traccia, in qualche modo, di tutti i miei account e della correlazione con le diverse email. Strumenti utilizzati: un foglio di calcolo qualsiasi e le etichette su KeepassXC, il mio password manager di fiducia. L'account vecchio non va chiuso: le email in entrata ci aiutano a tener conto delle vecchie iscrizioni, in modo da poterle poi spuntare una a una. Sta a voi decidere se inoltrare o meno queste email alla nuova casella, io ho saltato questo passaggio e ho usato il foglio di calcolo.

Nello specifico, le colonne sono: Nome – Categoria – Email – Url – Note. In Nome, oltre appunto al nome del servizio, c'è anche quello dell'account, in caso di account multipli. Categoria indica la relativa cartella che uso nei segnalibri dei browser e che ha la stessa denominazione di quella usata in KeePassXC. Email, ovviamente, è la casella associata al servizio, **Url il sito collegato e Note è una colonna che uso poco o niente, ma qualcuno potrebbe trovarne un uso più intenso. Nome e email sono le categorie fondamentali, il resto è superfluo; poterle ordinare in ordine alfabetico è la parte essenziale di questa pratica, in modo da poter tenere d'occhio facilmente sia gli account multipli sullo stesso servizio (ordinando per nome), sia le singole email associate ai diversi servizi (ordinando per email). Certo, c'è un discreto lavoro da fare all'inizio, poi si tratta solo di aggiungere gli account creati successivamente o disfarsi di quelli cancellati: come specificato in apertura, non è una guida istantanea alla migrazione e non penso possano esisterne.

Con KeePassXC, il procedimento è analogo. Nel corso dei mesi, perché è una cosa che ho fatto un poco alla volta, ancora una volta, ho creato tutti i gruppi con gli stessi nomi usai nei segnalibri, poi ho assegnato alle varie voci le etichette con l'email usata per la registrazione. Visto che la ridondanza non è mai abbastanza, alle note ho pure aggiunto il testo “emailindirizzo@email.associato”, in modo da poterle ritrovare con la funzione cerca, nel caso avessi dimenticato di impostare l'etichetta.

Con queste pratiche, e assicurandosi di aggiornare tutto con regolarità, controllare la situazione è molto facile. Esisteranno metodi migliori, ma questo è l'unico a essermi venuto in mente e, nonostante il tempo speso inizialmente e la voluta ridondanza, posso certificarne la validità. Se siete programmatori, probabilmente, potrete crearvi soluzioni più personalizzate, ma io sono e rappresento l'utente qualsiasi e mi affido a soluzioni create da altri.


Queste sono le mie proposte usando solo strumenti gratuiti, se proprio si vuole passare a un livello superiore di personalizzazione è necessario prendere e usare un dominio personale. La spesa non è enorme, per un .eu si tratta di 5-7 euro annui a seconda del registrar, per un .com o .net la cifra approssimativamente raddoppia.

Il metodo più veloce per personalizzare le email, col dominio personale, è un semplice redirect, del tipo email@dominio.mio –> casellavera@proton.me. Solitamente, è un'operazione fattibile direttamente dal sito web del registrar (ne confermo la presenza su Namecheap, sarà lo stesso per altri fornitori). In questo modo, è possibile creare tutti gli indirizzi necessari e inoltrarli a differenti caselle, se non addirittura aggiungendo un catch-all, ovvero la possibilità di intercettare qualsiasi termine prima della chiocciola e indirizzarlo, però, a una sola casella reale.

Come sempre, prima i contro e, in realtà, di rilevante me ne viene solo uno: col semplice redirect, e senza spendere un centesimo aggiuntivo o appoggiarsi a un servizio esterno, riceverete tranquillamente le email all'indirizzo designato, ma nell'eventuale reply l'email vera sarà in chiaro. Nel caso vogliate comunque appoggiarvi a Gmail, potrete aggiungere l'email personalizzata come alias, ma il ricevente molto probabilmente sarà informato del cambiamento arbitrario dell'intestazione: alcuni provider lo segnalano chiaramente.

Senza spendere un centesimo aggiuntivo, appoggiarsi a un servizio esterno e usare un'email con dominio personalizzato perfettamente funzionante in entrata e in uscita: sto parlando di Zoho Mail, ma non so nulla del lato privacy e non se ne parla granché in rete. Quel che è certo, è il numero di cellulare obbligatorio per la registrazione, cosa che farà giustamente storcere più di qualche naso e che non depone certamente a favore.

Se siamo tra quelli che non vogliono concedere il numero di telefono per mandare un'email, una soluzione è Simplelogin, un servizio di anonimizzazione email acquisito qualche tempo fa da Proton; il piano gratuito possiamo farcelo bastare. L'utilizzo principale è quello della creazione di alias anonimi da associare a una o più caselle postali, ma è possibile anche collegare il proprio dominio per usare i nostri indirizzi personali.
Per far ciò, dovremo aggiungere diverse voci ai campi DNS del nostro registrar, coi valori indicatici da Simplelogin: MX, SPF, DKIM e DMARC. Fatto questo, le email spedite a email@dominio.mio giungeranno alle caselle vere che ci saremo premurati di impostare.

Per rispondere alle email come se stessimo effettivamente scrivendo da email@dominio.mio, la procedura non è automatica: dobbiamo copiarci il reverse alias restituito da Simplelogin e usarlo come destinatario dell'email. Non lo sto spiegando bene, ma è più facile da farsi che da dirsi. Video ufficiale della procedura.

Ok, sto straparlando, è il momento di chiudere e di chiudere con il pro più evidente della soluzione dominio personalizzato: finché paghiamo il registrar, nessuno può buttarci giù un indirizzo email: possono chiuderci Gmail, Tuta, Proton, ma possiamo riassociare i nostri indirizzi a nuove caselle.


Il fantastico mondo dei servizi a pagamento aprirebbe le porte a differenti livelli di comodità: alcuni provider si occupano di acquisto e rinnovo del dominio, non servono particolari magheggi per reindirizzare e mascherare le intestazioni, lo spazio a disposizione sarà maggiore e così via. Penso a soluzioni come Posteo, Mailbox, Startmail, oltre a Tuta e Proton, di cui si è già parlato. Le discussioni in rete non mancano.

 
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from Not My World

There are moments when you stop to think about what you’re doing. Yes, when you're young it happens, often even, but at fifty it’s either a misfortune or a luxury.

I have always worked in the internet/communication/web field, first as a technician, then as head of digital, digital marketer, digital strategist, all that stuff, you know.

Like many others, I believed in the value of communication, including commercial communication, made from the bottom up, by users for users, through a medium developed to be a level playing field, capable of fostering connections.

Over the course of these almost 30 years I have experienced a whirlwind of announcements, technologies, buzz words, from the very first e-commerce sites to sites built in Flash, from newsgroups to social networks, from permission marketing to the invasion of memes.

With each turn of the wheel, everything became faster, and more difficult. The dream of a distributed media, of everyone and no one, shattered with the emergence of large platforms first, and then with algorithmization.

These changes were all made in the name of efficiency and ROI, and have claimed many victims: art directors, copywriters and designers have been replaced – and not supported – by hordes of tireless number crunchers, analysts, specialists in some very private ADV platform, social media managers and SEO experts.

Over the years I believed, or told myself, a pathetic lie, that marketing in this century could be the means to create a dialog between brands and people, to help companies sell their products, but also help users find the answers that best suit their needs, maybe even amaze them, entertain them, making them feel part of the journey.

It was a lie, like that of capitalism with a human face of Google’s “don’t be evil”. It was all smoke and mirrors, and I clearly got fooled.

Many things happened, including Covid, the war in Ukraine, the floods in Romagna and, on a personal note, also a very patient wife and a daughter who is about 13 years old. We can certainly say that it was an intense time, during which I ended up working on the organization and promotion of large events in the field of digital innovation.

Innovation that is no longer what I had hoped it would be. But even the world does not resemble what I had somehow imagined it could become. All in all, between one stomach ache and the next, I was just getting by. The hype for blockchain, web 3.0, NFTs passed, and luckily also rather quickly.

Then one fine day ChatGPT arrived. I am and remain a nerd and a geek, with a good technical background, so obviously this novelty initially galvanized me. I mean, as an old fan of Star Trek and Asimov, being able to finally talk to a computer in a natural way is a big deal.

From that moment on it’s been a wild ride, which has started to overwhelm everything and everyone and is taking us to places I sincerely wish I didn’t know about. Before anyone gets upset, yes, I’m talking about LLMs and generative AI and no, I’m not talking about expert systems used in medicine, aerospace, science.

I don’t want to beat around the bush: Generative AI is bad, it’s useless, it’s immoral and should be heavily restricted, if not completely banned.

I won’t go into an anti-capitalist analysis here, although it would be important to do so, because I don’t even think that's the real point of the matter.

Recently, OpenAI released a model that is particularly good with images, coherence, lettering and other technical marvels, which are certainly admirable. It consciously did this by removing many of the façade filters that prevented you from creating images in the style of a particular author or franchise. I would be lying if I didn’t admit that seeing social media, already full of AI Slobs, completely invaded by images in the Studio Ghibli style, literally made me sick to my stomach.

To paraphrase Miyazaki, who in unsuspecting times said “this technology is an insult to life itself”, the misappropriation of the incredible craftsmanship of Studio Ghibli’s works, only to be remixed into horrible memes for the use of the social media manager or content creator on duty, is an insult to intellectual honesty and morality, and a real crime.

The ongoing farce of the democratization of creativity is simply ridiculous, a statement that simply doesn’t make any sense.

As a former colleague of mine, a very talented illustrator, used to say, why focus efforts and investments on deliberately attacking creative work? This applies to images, but also to music and text; what sense does it make, what concrete and real need does it respond to?

LLMs are elaborate stochastic machines that could have fantastic uses, for example to make the lives of the visually impaired and disabled easier, or to automate “low” tasks to really free up time to dedicate to creative thinking. And yet, no. We create machines that can continuously regurgitate texts, music, newsletters, visuals, press releases, videos, social posts, to literally fill the entire internet with shit, with deleterious effects on the public and on the perception of reality.

What’s more, this stuff pollutes the brain to such an extent that, in my personal experience, rather than valuing the work of an expert and competent team, at the first iteration you take for granted any block of tokens vomited up by the LLM at hand.

It’s no longer my world, it’s not what I wanted and imagined, and it’s not what I want for my daughter, who at this moment is a volcano of creativity, and to whom I MUST tell, a moral duty, that this creativity must be cultivated, cared for and trained with effort, and that this path, made up of ups and downs, frustration and enlightenment, represents the value of what she creates.

For this reason, I have decided that, from now on, also and above all at work, I will refuse to use Generative AI tools and, within the scope of my responsibilities, I will never endorse the use of these tools to generate content of any kind.

I could be accused of Luddism, or of being an idiot who can’t keep up with the times. It may be so, but this doesn’t change the substance: Generative AI is a danger to humanity.

ADSR adsr@distruzione.org

P.S. Here are some links to dig deeper, I’ve put some of them throughout the text, but I’ll summarize them all below, for convenience:

https://tante.cc/2025/03/28/vulgar-display-of-power/ https://www.404media.co/ai-slop-is-a-brute-force-attack-on-the-algorithms-that-control-reality/ https://thelibre.news/foss-infrastructure-is-under-attack-by-ai-companies/ https://www.theatlantic.com/technology/archive/2025/03/libgen-meta-openai/682093/ https://www.theverge.com/news/630079/openai-google-copyright-fair-use-exception https://attivissimo.me/2025/03/24/podcast-rsi-con-lia-la-teoria-dellinternet-morta-si-sta-avverando/ https://affordance.framasoft.org/2025/03/dans-le-retroviseur-doverton-casser-vite-et-bouger-des-trucs/ https://aial.ie/pages/aiparis/

P.P.S. I would have wanted to sign this post. But it’s not an easy thing.

 
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Siamo a Valle Marina, una delle frazioni di Monte San Biagio. Una zona di campagna, senza attrazioni particolari ma dove è molto piacevole pedalare, affrontando pendenze poco impegnative (generalmente), circondati da una natura non eccessivamente antropizzata, con pochi agglomerati veri e propri di abitazioni che cedono presto il passo alle singole abitazioni.

Che si provenga da Fondi, Terracina o Monte San Biagio, l’accesso principale è sempre lo stesso: l’incrocio che dalla SS 7 Appia immette in via Macchioni, all’altezza del cimitero di Monte San Biagio. Volendo, da Terracina è possibile accedere sia da via Epitaffio, strada non asfaltata, che da via di Mezzo, 500 metri più avanti. Provenendo da Fondi, è possibile evitare la maggior parte del tratto sulla statale seguendo due percorsi: il primo, consiste nella sequenza via San Magno, via Rene, via Provinciale San Magno, viale Europa e, infine, 2,7 km di statale, fino a via Macchioni.
L’altra strada passa per le vie parallele ai binari: via della Ferrovia, via Sotto Ferrovia, via Parallela della Stazione e, infine, via Bufalari per immettersi sulla SS 7, tornare indietro di circa 300 metri e poi inserirsi in via Macchioni.
Ahinoi, questa opzione prevede possibili incontri con cani, mi è capitato di imbattermi in due maremmani: uno tranquillo e disinteressato, l’altro scappato da una recinzione e molto aggressivo, che ha tentato di aggredirmi nonostante fosse presente il proprietario, che cercava di calmarlo senza alcun risultato.

Il tratto iniziale, via Macchioni, è sostanzialmente pianeggiante, con qualche salita e discesa di lieve entità. Arrivati alla rotonda, per avvicinarci alla destinazione di oggi dobbiamo girare a sinistra, oltrepassare il ponticello della ferrovia, girare ancora a sinistra e procedere fino all’incrocio con via Chivi e seguire questa strada fino a raggiungere, appunto, via Epitaffio.

La torre dell’epitaffio è la nostra meta; vi troviamo una piccola area di ristoro con un paio di tavoli e una panchina, a pochi metri da una stradina nel bosco che fa parte della via Francigena.

Cosa portarsi dietro:
– Borraccia;
– Crema solare, si pedala lontani dall’ombra per buona parte del percorso;
– Coccodrilli o orsetti gommosi per un pizzico di dolcezza ma, prima ancora, spizzichi di carboidrati e zuccheri.

Terreno e altimetria:
Il breve tratto che ci interessa non è adatto alle bici da strada: almeno una gravel, meglio una MTB. Si pedala sulla ghiaia per buona parte del tempo, ma alcuni tratti sono abbastanza critici per la presenza di ciottoli di dimensioni importanti, uniti alla velocità sostenuta offerta gratuitamente dalle discesine pepate.
Molto facile cadere, se non si è abbastanza padroni del mezzo: solo per puro caso non son caduto più volte e, quando qualcosa mi ha detto che sarei rovinato a terra di sicuro, mi son fermato bruscamente per mettere i piedi a terra, la qual cosa è avvenuta contemporaneamente a un salto di catena.
Col senno di poi, ho rifatto quelle parti, al ritorno, spingendo a mano la bicicletta. Non sono un esperto e non ho voluto fare l’eroe.

Potenziali imprevisti, pericoli e cani aggressivi:
Niente di particolare da segnalare, oltre alle difficoltà già descritte.
Non incontrerete gruppi di ciclisti, probabilmente non ne incontrerete neanche uno, se non dopo esser tornati sulla SS 7; in ogni caso, non si è in mezzo al nulla e ci sono case abitate lungo tutto il tragitto.
Cani aggressivi non ne ho mai incontrati, anzi: fate attenzione a eventuali gatti e cani di piccola sdraiati in mezzo alla strada, intenti a godersi la tranquillità del posto.

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La salita per Lenola è una costante di parecchi giri in bicicletta della zona, sia per la salita in sé che come tratto di trasferimento, per raggiungere Lenola e poi proseguire per altre mete, come Vallecorsa, Castro dei Volsci e, in questo caso, Pico.

La salita vera e propria inizia all’incrocio tra la SR 637, via Provinciale per Lenola, e via Sant’Oliva, ovvero la SP 94 che inizia a Monte San Biagio, all’altezza del ristorante “Al Boschetto”.
Provenendo dalla zona di Terracina, è possibile percorrere la via Appia, SS 7, fino, appunto, a Monte San Biagio e la SP 94, oppure procedere sempre sulla statale fino a Fondi e all’intersezione con la SR 637 che, appunto, porta alla salita.
Dal centro di Fondi, oltre che dalla SR 637, è possibile iniziare dalla salita del Cocuruzzo, continuando poi per via Sagliutola e, infine, per la Provinciale per Lenola.

La strada di elezione, comunque, è quella che inizia dall’incrocio con via Sant’Oliva, ed è pure il tratto ufficialmente contemplato su Strava. Ci troviamo su una classica strada provinciale del Centro-Sud, piuttosto larga, in questo caso, solitamente sempre con un lato esposto al sole fino a Lenola. Qualche curvone e poche curve, nessuna delle quali realmente chiusa, ci conducono senza possibilità di errore fino alla fine della salita, all’incrocio di Lenola. Prendendo la strada a destra, inizia la via che ci avvicina a Pico, sostanzialmente una lunga discesa inframezzata da tratti in salita, fino all’incrocio nel punto dove la provincia di Latina cede il passo a quella di Frosinone. A destra, Campodimele e Itri; a sinistra, Pico, ed è li che continuiamo.
La ricetta è invariata: discese, salite, ancora discese, poi l’ultimo tratto in salita ci porta in paese.

Dopo aver oltrepassato la parte più recente, possiamo svoltare a destra e avventurarci nel borgo vero e proprio, ma è un itinerario che merita sicuramente di essere percorso a piedi. Proseguendo a sinistra, invece, ci ritroviamo dopo poco alla fine del comune, sulla strada per San Giovanni Incarico; io, invece, ho percorso la strada al contrario e son tornato a casa.

Cosa portarsi dietro:
– Borraccia;
– Crema solare, si pedala lontani dall’ombra per buona parte del percorso;
– Coccodrilli o orsetti gommosi per un pizzico di dolcezza ma, prima ancora, spizzichi di carboidrati e zuccheri.

Fontanelle:
Dovrebbero essercene diverse a Pico, ho conoscenza diretta solo di quella in cima alla salita dopo la casa comunale. Ce ne saranno anche nella parte urbanizzata di Lenola, zona non toccata da questo giro.

Terreno e altimetria:
Il piatto forte del percorso è, ovviamente, la salita di Lenola: 7,5 km a una pendenza media del 4,4%, secondo Strava. Le percentuali più frequenti oscillano dal 4 al 6%, con qualche impennata in prossimità dei tornanti, attorno al 7-8% per qualche decina di metri.
Approssimativamente, sono queste le pendenze che affronteremo lungo tutto il percorso, quindi non sono richiesti rapporti particolarmente agili. Bici da strada, gravel o mountain bike, tutto fa brodo.
L’asfalto, anche stavolta, non è dei migliori, specie nel tratto tra Lenola e Pico: crepe, rattoppi su rattoppi, preparatevi a qualche sobbalzo di troppo.

Potenziali imprevisti, pericoli e cani aggressivi:
Vi capiterà di sicuro di incontrare numerosi ciclisti, specie nei giorni festivi: in caso di imprevisti, dovreste poter contare su qualche anima pia.
Molte zone antropizzate nel percorso, non si pedala in una landa desolata.
Non ho mai incontrato cani aggressivi o anche solo fastidiosi, ma attenzione a eventuali attraversamenti di volpi o cinghiali.

Variazioni del percorso:
Nessuna rilevante, se volete percorrere il tratto classico; tuttavia, è possibile raggiungere Lenola seguendo percorsi alternativi, come per esempio da via delle Fate, via Vignolo o dalla contrada di Passignano. Sono strade sicuramente meno trafficate, con maggiori possibilità di incontrare animali vaganti e con uno o più tratti in forte pendenza.

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from D𝕚ⓈѕⓄᶰA𝐧ℤⒺ

𝗙𝗔𝗞𝗘 𝗡𝗘𝗪𝗦

Il potere distruttivo, rivelatore, caustico, ironico delle fake news.

Prima di Internet, prima che diventassero strumento di disinformazione di massa nel mare delle notizie che navigano in rete senza controllo; venne utilizzato abilmente negli anni 90, come strumento artistico e politico, per beffarsi di stampa, televisioni e tutto il sistema dell' informazione. In nome di una cultura del sabotaggio, si contestavano i media e l'invasività delle pubblicità.

Da persone scomparse, a culti demoniaci e violenze mai esistite, che crearono un vero e proprio fenomeno di isteria di massa, prima di essere svelati di fronte all'indignazione dei più. Dimostrando al tempo stesso quanto la sete di notizie dei media è tale da divulgare qualsiasi informazione senza la minima certezza.

Tra le azioni più incredibili che riguardano il culture jamming c'è sicuramente la copia del sito Vaticano nel 1998 che coinvolse 200.000 visitatori per un totale di 4 milioni di accessi.

“Abbiamo acquistato il nome di dominio Vaticano.org e fatto una copia del sito web ufficiale della Santa Sede. Il nuovo sito web era visivamente identico a quello ufficiale, ma conteneva piccole ma significative modifiche nascoste tra i testi sacri, che ci hanno permesso di satireggiare e correggere l'identità della Santa Sede, esaltando l'amore libero, le droghe leggere e l'attivismo online.[...] Il tutto inserito tra le righe di encicliche papali, citate con precisione.

Dal momento in cui Vaticano.org è andato online, un flusso enorme di visitatori si è riversato sul sito web parodia, trascorrendo migliaia di ore a leggere testi modificati con proclami eretici, parole inventate, errori imperdonabili e canzoni di band di teeny-bopper.” (0100101110101101.org)

L'ingegno che era dietro queste operazioni era tale da trasformarle in opere d'arte sovversiva e partecipativa, dove lo spettatore stesso prende parte alla scena e alle sue modificazioni poiché interagisce con essa.

“Un'opera d'arte, in rete o no, non può essere interattiva di per se, sono le persone che devono usarla interattivamente, è lo spettatore che deve usare un'opera in un modo imprevedibile. Copiando un sito, stai interagendo con esso lo stai riutilizzando per esprimere dei contenuti che l'autore non aveva previsto. Interagire con un'opera d'arte significa essere fruitore/artista simultaneamente; i due ruoli coesistono nello stesso momento. Per cui dovremmo parlare di meta-arte, di caduta delle barriere nell'arte; lo spettatore diventa un'artista e l'artista diventa spettatore: un testimone privo di potere su ciò che accade al suo lavoro.” (0100101110101101.org)

I media moderni hanno compreso il potere partecipativo della massa: diffondendo contenuti accattivanti, capaci di generare estremo stupore o profonda indignazione, riescono ad ampliare la diffusione delle loro notizie, poiché ogni condivisione aggiunge il punto di vista del trasmettitore, spesso incurante della veridicità del contenuto. Se un tempo lo spettatore poteva interagire con un’opera d’arte in modo imprevedibile, oggi la decontestualizzazione di frasi, immagini o parole viene utilizzata per provocare reazioni calcolate, prevedendo esattamente l’effetto della catena di ri-condivisioni.

La società contemporanea vive in uno stato costante di isteria, e i mezzi di (dis)informazione, insieme ai social media, riflettono un meccanismo che asseconda l’impazienza collettiva di ottenere risposte rapide e rassicuranti di fronte a eventi controversi. Si tende a individuare un colpevole immediato, un capro espiatorio che soddisfi il bisogno di ordine, trascurando dettagli e sfumature che potrebbero ribaltare l’intera narrazione. È invece fondamentale sviluppare uno sguardo critico sulle informazioni, coltivare la volontà di approfondire e ricostruire il contesto.

 
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from Super Relax


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La zona di San Vito, nel territorio di Monte San Biagio, è ottima per pedalare nella natura, con percorsi in grado di soddisfare più tipologie di ciclisti.
Nel giro odierno, ho raggiunto la celebre Sughereta, proseguendo per via San Candido (attenzione alla breve rampa finale, con pendenze superiori al 17%), via Limatella e via Durante, la strada che conduce a uno degli alberi monumentali del Lazio, un leccio dalle dimensioni davvero ragguardevoli per la sua specie.

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from Not My World

Ci sono momenti in cui ti fermi e rifletti su quello che stai facendo. Sì, quando si è giovani capita, anche spesso, ma a cinquant'anni o è una disgrazia, o è un lusso.

Lavoro in ambito internet/comunicazione/web da sempre, prima come tecnico, poi come head of digital, digital marketer, digital strategist, insomma, quelle robe lì, avete capito.

Ho creduto, come tanti, nel valore di una comunicazione, anche commerciale, fatta dal basso, fatta da utenti per utenti, attraverso un media nato per essere paritario, capace di creare connessioni.

Nel corso di questi quasi 30 anni ho vissuto una girandola di annunci, tecnologie, buzz word, dai primissimi e-commerce ai siti in flash, dai newsgroup ai social, dal permission marketing all'invasione dei meme.

Ad ogni giro di giostra tutto è diventato più veloce, più difficile, il sogno di un media distribuito, di tutti e di nessuno, si è infranto con l'emergere delle grandi piattaforme prima, con l'algoritmizzazione poi.

Questi passaggi, tutti compiuti nel sacro nome dell'efficienza e del ROI, hanno mietuto vittime eccellenti, art director, copy, designer, sostituiti – e non affiancati – da orde di infaticabili uomini dei numeri, analisti, specialisti in una qualche piattaforma, privatissima, di ADV, social media manager e SEO expert.

Nel corso degli anni ho creduto a, o mi sono raccontato, una patetica bugia, quella che il marketing di questo secolo potesse essere il mezzo per far dialogare brand e persone, per aiutare le aziende sì, a vendere i prodotti, ma anche gli utenti a trovare le risposte più adatte ai propri bisogni, magari stupendoli, intrattenendoli, facendoli diventare parte del viaggio.

Era una Bugia, come quella del capitalismo dal volto umano del “don't be Evil” di Google. Specchi per le allodole, e io sono chiaramente un'allodola.

Sono successe tante cose, compreso il Covid, la guerra in Ucraina, le alluvioni in Romagna e, rimanendo sul personale, anche una moglie assai paziente e una figlia, che va per i 13 anni.

Possiamo sicuramente dire che sia stato un periodo intenso, durante il quale sono finito ad occuparmi di promozione di eventi, grossi, in ambito innovazione digitale.

Innovazione che appunto non era già più quella che avevo sperato fosse. Ma manco il mondo assomiglia a quello che in qualche modo mi ero immaginato potesse diventare.

Tutto sommato, tra un mal di stomaco e l'altro, giocavo a tirare avanti. Sono passati gli hype per la blockchain, per il web 3.0, per gli NFT, e per fortuna anche abbastanza in fretta.

Poi un bel giorno si presenta ChatGPT. Sono e rimango comunque un nerd e un geek, con una buona base tecnica, per cui ovviamente questa novità mi ha inizialmente galvanizzato. Voglio dire, da vecchio fan di Star Trek e di Asimov, poter finalmente dialogare con un computer in maniera naturale è tanta roba.

Da quel momento in poi è stata una corsa assurda, che ha iniziato a travolgere tutto e tutti e che ci sta portando in luoghi che avrei preferito sinceramente non conoscere.

Prima che qualcuno si inalberi, sì, sto parlando degli LLM e dell'AI Generativa e NO, non sto parlando dei sistemi esperti in uso in ambito medico, aerospaziale, scientifico.

Non voglio girarci attorno più di tanto, l'AI Generativa è un male, non serve a nulla, è immorale e andrebbe fortemente limitata, se non vietata completamente.

Non starò qui a fare una disanima anti capitalista, che comunque sarebbe importante fare, perché non penso neanche che sia il vero punto della questione.

In questi giorni OpenAI ha rilasciato un modello particolarmente bravo con le immagini, le coerenze, il lettering e altre meraviglie tecniche, sicuramente ammirevoli.

Consapevolmente lo ha fatto levando molti di quei filtri di facciata che ti impedivano di creare immagini nello stile di un particolare autore o di un determinato franchise.

Direi una bugia se non ammettessi che vedere i social, già pieni di AI Slob, completamente invasi da immagini in stile Studio Ghibli, mi ha fatto letteralmente ribaltare lo stomaco.

Parafrasando Miyazaki, che in tempi non sospetti ha detto “questa tecnologia è un insulto alla vita stessa”, l'appropriazione indebita dell'incredibile lavoro artigianale delle opere dello studio Ghibli, per essere rimiscelato in orribili meme ad uso del social media manager o del content creator di turno, è un insulto all'onestà intellettuale, alla morale e un crimine vero e proprio.

La farsa, che ancora risuona, della democratizzazione della creatività è semplicemente ridicola, è una affermazione che banalmente non ha alcun senso.

Come diceva una mia ex-collega, bravissima illustratrice, perché mai concentrare gli sforzi e gli investimenti per attaccare deliberatamente il lavoro creativo? Vale per le immagini, ma vale per la musica, il testo; che senso ha, a quale bisogno concreto e reale risponde?

Gli LLM sono elaborate macchine stocastiche, che potrebbero avere utilizzi fantastici, ad esempio per rendere la vita di ipovedenti e disabili più agevole, oppure per automatizzare compiti “bassi” per liberare davvero il tempo da dedicare al pensiero creativo.

E invece no. Creiamo macchine che possano vomitare a ciclo continuo testi, musiche, newsletter, visual, comunicati stampa, video, post social, per riempire di letterale merda tutta l'internet, con effetti deleteri sul pubblico e sulla percezione della realtà.

Non solo, sta roba inquina talmente il cervello che, esperienza personale, piuttosto di valorizzare il lavoro di un team esperto e competente, si prende per buono, alla prima iterazione, qualsiasi blocco di token vomitato dall'LLM di turno.

Non è più il mio mondo, non è quello che volevo e immaginavo, e non è quello che voglio per mia figlia, che in questo momento è un vulcano di creatività, e a cui DEVO raccontare, un dovere morale, che questa creatività va coltivata, curata e allenata con fatica, e che quel percorso, fatto di alti e bassi, di frustrazione e illuminazione, rappresenta il valore di quel che crea.

Per questo ho deciso che, da questo momento, anche e soprattutto sul lavoro, mi rifiuterò di usare strumenti di AI Generativa e, nell'ambito delle mie competenze, non avvallerò mai l'uso di questi strumenti per generare contenuti di qualsiasi tipo.

Potrei essere tacciato di Luddismo, o di essere un rincoglionito che non sa stare al passo con i tempi. Può essere, ma questo non cambia la sostanza: l'AI Generativa è un danno per l'umanità.

ADSR adsr@distruzione.org

P.S. Qualche link di approfondimento, alcuni li ho sparsi nel testo, ma li riepilogo tutti qui sotto, per comodità. https://tante.cc/2025/03/28/vulgar-display-of-power/

https://www.404media.co/ai-slop-is-a-brute-force-attack-on-the-algorithms-that-control-reality/

https://thelibre.news/foss-infrastructure-is-under-attack-by-ai-companies/

https://www.theatlantic.com/technology/archive/2025/03/libgen-meta-openai/682093/

https://www.theverge.com/news/630079/openai-google-copyright-fair-use-exception

https://attivissimo.me/2025/03/24/podcast-rsi-con-lia-la-teoria-dellinternet-morta-si-sta-avverando/

https://affordance.framasoft.org/2025/03/dans-le-retroviseur-doverton-casser-vite-et-bouger-des-trucs/

https://aial.ie/pages/aiparis/

P.P.S Avrei voluto firmare questo post. Ma non è cosa semplice.

 
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from piccole cose inutili

al MIAI

il 22 marzo 2025 ho preso il treno,

mare dal treno per Rende
anche se mi viene ancora il panico a stare tra le persone

tocca le immagini per andare ▽

locandina inaugurazione MIAI il foglio sulla porta del bagno, il foglio sullo specchio del bagno, l'installazione nel bagno, l'installazione all'ingresso, un bambino che sbircia dal buco di una scheda perforata, un padre che gioca a Pong con il figlio, una bambina alle prese con un cabinato, i bambini e le bambine che piangono perché non vogliono andare via, anche se sono le undici di sera, il soffitto, le riviste, la biblioteca [la copia fisica del catalogo di cybernetic serendipity ç.°], una cosa su Auschwitz che non sapevo, lo SNES come quello che ho ritrovato, l'adattatore dei giochi del game boy che non ho ritrovato (ancora), disegni proiettati in tempo reale, palinsesti di poster, Frankensteins in laboratorio, scatole che si svuotano, le persone che mi hanno ospitato, la spilletta ricamata (...)

  } interagire con le opere usando l'hardware per/con cui furono progettate; mettere una tenda nella biblioteca e leggere tutti i libri e provare a programmare le vecchie opere dei cataloghi e a moddarle e a; fare girare opere più recenti su macchine vecchie; }

[il discorso di Tea Fonzi sui musei (sul canale peertube di kenobit), l'importanza di interagire, l'archeologia che vive, nusuth (...)]

(

video e foto dell'inaugurazione del MIAI su

archive.org)

 
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from kipple


Non sono un adoratore di Pino. Mi piace ascoltare le sue canzoni quando capita, alcune le reputo enormi, ma non è tra gli autori che voglio riascoltare e riascoltare. Inoltre, sono un suo conterraneo, ma con quella terra ho un rapporto più conflittuale, un conflitto che si intensifica col tempo ma che, probabilmente, giungerà alla pace prima o poi. Nel senso che mi pacificherò e rinnegherò per sempre quegli anni e quei luoghi della mia vita, perché sono storie che meritano solo questo.

Qualche volta, periodicamente, sento il bisogno di mettere per iscritto il mio rapporto, appunto, con Napoli e la sua provincia; nella mia testa sarebbe un testo di fuoco, una lunga tirata ricca di fervore e passione, poi penso (sempre periodicamente) che non ne vale la pena e che per Napoli e provincia ho già sprecato troppa della mia vita. E poi, a che pro? Pino Daniele ha già detto tutto quello che c'era da dire e meglio di come potrei farlo io in diecimila parole e diecimila anni.

NapulƏ è 'na carta sporcƏ e nisciunƏ sƏ nƏ 'mportƏ e ognunƏ aspettƏ 'a ciortƏ.

Tutto il resto è superfluo, l'unico mio contributo possibile è l'aggiunta degli schwa, perché il napoletano è il dialetto (o la lingua, distinzione di cui si occupano gli studiosi, io propendo per il primo) degli schwa e bisogna metterselo in testa e usarli.

Negli anni Novanta, facevo le superiori e c'era un amico, lui, adoratore di Pino Daniele. Aveva la macchina, in quanto pluriripetente, e in macchina aveva le cassette, chiaramente Mixed by Erry: va bene l'adorazione, ma fino a quando non deve scontrarsi col vile denaro. E una cassetta di Pino, il Pino per antonomasia, era sempre nell'autoradio. Lo stereo, quello lì.

L'amico, tuttavia, non si stancava di ripeterlo a caso nel corso dei mesi e delle discussioni: Pino Daniele non è più quello di una volta, si è commercializzato.
Non ho mai approfondito e non gliel'ho mai chiesto, ipotizzo che il punto di rottura sia stato l'album Che Dio ti benedica. Lettore di passaggio arrivato sin qui, sappi che il mio amico non era l'unico a pensarla così e, estendendo il discorso a qualsiasi musicista sulla terra, ci sarà sempre un momento, ci sarà sempre qualcuno a dire di lui “è diventato commerciale”. È il modo più immediato ed efficace per diventare esperti di musica.

Io, che esperto di musica non sono, penso che l'unico modo per non diventare commerciali sia scriversi i pezzi, arrangiarseli e ascoltarseli in cuffia, da solo, o portarli in giro gratuitamente. Diversamente, perché di qualcosa si deve campare questa presunta commercializzazione è una delle prime fasi del processo. Non è neanche scolpito nella pietra il fatto che l'artista voglia, artisticamente, morire così come è nato, ne abbia la forza o l'ispirazione; non essendo un artista, non devo preoccuparmene, una preoccupazione in meno.

Con l'amico ogni tanto ci si scrive su Whatsapp (non è il tipo da usare mezzi più sani), la prossima volta potrei chiedergli se il suo pensiero sia cambiato nel tempo. Solo quando sarà, però, perché con gli amici di scuola è, solitamente, meglio tenere una certa distanza.

 
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from ion-jam

Cous cous fave, cipolle e zucchine

Ogni anno, in questo periodo, inizia la mia dipendenza dalle fave: sanno di viaggi in macchina con mio padre, che le mangiava, crude, mentre guidava.

Quest'anno ho deciso di superarmi e, visto il chilo di fave comprate da mia madre, ho deciso di provare a cucinarle: qualche volta ha provato a farlo lei e non mi sono piaciute, le ho sempre mangiate crude; ma ho pensato che il mio modo zerosbatti di cucinarle potesse dare loro un tocco in più.

Ingredienti: ovviamente le fave fave FAVEEEEE; zucchine; cipolla; cous cous.

Procedimento: ho preparato il cous cous a parte, direttamente nel mio porta pranzo per l'università, coprendolo semplicemente di acqua calda e aspettando. Per quanto riguarda il magico, incredibile, condimento, ho tagliato mezza cipolla e l'ho fatta soffriggere per bene; poi, ho aggiunto le zucchine e le fave fresche. Da questo momento in poi ho solo aspettato e, ogni tanto, girato tutto in padella. Quando le zucchine mi sono sembrate quasi pronte (tanto si sarebbero cotte ancora un po' nel microonde il giorno dopo), senza pormi il problema della cottura delle fave (tanto si possono mangiare anche da crude!), ho mescolato tutto con il cous cous.

Il giorno dopo era buonissimo! (Solo ed esclusivamente grazie alle fave)

 
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