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from Rob's cabinet of mboh?

O quella volta che un Cretino di Crescenzago, un ranocchio di vetro e una tigre di pezza, in bilico tra nostalgia e speranze, cercarono di ricreare l'humus adatto per giocare strani Giochi di Ruolo nel Fediverso e tirarono fuori un hashtag poco comprensibile ai più.

Se volete risparmiarvi i miei deliri e andare subito al sodo, ⬇ ⬇ Qui ⬇ ⬇ trovate il TL;DR di questo post.

In principio fu la Forgia

In un tempo remoto, almeno così si dice, alcune persone coraggiose decisero di ribellarsi alla tirannia dei draghi capitalisti e palazzinari dal gusto finto-medievale. Nella loro cerca salvifica decisero di edificare una Forgia che potesse fornire all'umanità gli strumenti per debellare i giochi brutti che per essere giocati necessitavano di un dozzilione di costosi supplementi, manco fossero le uscite di Esplorando il Corpo Umano senza neanche il modellino per futuri chirurghi e/o serial killer in omaggio.

L'umanità quindi si riunì, guardò alla Forgia e le sorrise amorevole.

Non rompeteci i coglioni, noi vogliamo D&D, la regola d'oro, le avventure pre-generate, i venti milioni di manuali che ripropongono sempre lo stesso gioco... E non provate a dire che un gioco senza GM, dadi e crescita numerica dei personaggi è un gioco di ruolo, luridi cani hippy! linea di un fumetto che partendo dalla citazione qui sopra punta verso l'immagine qui sottouna donna dall'espressione inquietante armata di torcia e forcone

angry mob” by hans s is licensed under CC BY-ND 2.0 .

(Nerd e geek in fondo sono sempre persone ragionevoli)

Principiò dunque a lapidarla e, quando le braccia indolenzite non le permisero più di dar seguito alla giusta indignazione, si disperse per tornare alle proprie case a giocare a D&D.

Dentro la Forgia calò un po' di mestizia – girarono perfino voci di danni cerebrali – ma questo non fermò i loro sforzi. Non tutto era perduto; un piccolo, minuscolo, gruppo tra coloro che evidentemente avevano scelto di non iscriversi a ingegneria non aveva mosso loro violenza e anzi sembrava perfino annuire alle loro parole. La speme non era ancora morta.

Poi successero altre cose, credo; non penso siano importanti al fine del racconto e poi me le sono dimenticate e come sarebbe a dire che siamo nel 2025, l'ultima volta che ho controllato era il 2012 e avevamo tutta quella storia del calendario Maya a preoccuparci e...

Abe Simpson seduto su un tronco che racconta una storia ai bambini attorno

“Dai nonno, raccontaci un'altra storia”
“Non vi abbasta mai” (cit)

La vera storia in breve

The Forge fu un forum rivoluzionario nato al cambio di millennio, dentro al quale si gettarono le basi per la maggior parte dei GdR indie moderni, in aperto contrasto col paradigma dominante di quelli che amiamo definire Giochi di Ruolo “tradizionali”.

A distanza di venticinque anni la maggior parte delle persone continua a giocare i giochi più mainstream, con il solo D&D che occupa la quasi totalità dello spazio all'interno di questo hobby; se però the Forge è nata è perché comunque, dispersa nel mare magnum di internet, c'era un po' gente a cui il mondo così com'era cominciava a star stretto e per farla breve da allora esiste una nicchia di strani giochi indipendenti che, pur rimanendo marginale, nel corso degli anni ha assunto sempre più peso. Essere una nicchia minoritaria all'interno di una nicchia solo un po' più grande però comporta dei problemi, in particolare riuscire a trovare altre persone della tua tribù con cui giocare. Un'impresa il più delle volte disperata, ma per fortuna internet è giunta in soccorso di chi non riusciva a trovare anime ludiche affini attorno a sé.

Nel più classico degli effetti domino, in Italia la rivoluzione messa in moto da The Forge portò alla creazione di un forum chiamato Gente Che Gioca, in cui si poteva discutere di quegli strani giochi che cominciarono ad arrivare anche qui da noi grazie a Narrattiva e ad altre case editrici indipendenti più piccole che si aggiunsero nel corso degli anni, ormai purtroppo per la maggior parte cadute come mosche.

Fu però quando Google provò a fare concorrenza a Facebook col suo google+ che le cose cambiarono notevolmente per il gioco online: le Communities tematiche e gli Hangouts che permettevano di fare chat video con più persone in contemporanea di quanto permettesse skype gratuitamente erano la combinazione perfetta per popolare di una nutrita comunità di giocatorɜ indie un social che veniva percepito da moltɜ come una città fantasma in quella che in realtà fu un'esagerata profezia auto-avverante. Nacque così la Community Gente Che G+ e finalmente in tantɜ cominciarono a giocare con altra gente dai gusti simili.

Back to the Future

o vedi che ti combinano dei pisquani con troppo tempo libero

Questo raffazzonato excursus nel passato più o meno spiega l'origine del cacofonico hashtag #GenteCheFediGioca – scusateci, ma almeno io a trovare dei nomi sono una pippa e morirò prima di chiedere aiuto a chatGPT 😅

Il perché l'abbiamo tirato fuori invece dipende da una conversazione su Livello Segreto con @cretinodicrescenzago e @lvl3GlassFrog, quando parlando di giochi che ci sarebbe piaciuto provare è nato l'insano proposito di riportare qui sul fediverso lo spirito di Gente Che G+. O morire provandoci (credo, in realtà non mi pare che alla fine si fosse accennato a un patto suicida ma sono anziano e potrei sbagliarmi).

Al momento abbiamo cominciato in piccolo tentando di organizzare qualche giocata inter nos direttamente su XMPP, ma OMEMO, severo dio della crittografia e della sincronizzazione, non ci è stato favorevole, scacciandoci con infamia e ignominia tra le braccia di un Discord ben felice di intrappolarci nel suo recinto proprietario.

Pazienza, non si può vincere tutte le battaglie; l'antico vaso andava portato in salvo, c'erano le cavallette, eravamo in crisi d'astinenza... non giudicateci por nuestra vida loca, l'importante era cominciare a giocare.

L'ambizione però è un po' più grande del ritrovarci giusto noi tre una volta la settimana o giù di lì: anche se non abbiamo ancora idea di come fare e quali piattaforme sarebbe meglio utilizzare, se fonderemo una band che raggiungerà il successo in breve tempo per poi bruciarsi quando cominceremo a drogarci pesantemente, idealmente ci piacerebbe trovare un modo per far incontrare chi vorrebbe giocare di ruolo ma ha gusti un po' diversi dal mainstream. Soprattutto vorremmo che sia nel fediverso, lontano da recinti proprietari in cui devi iscriverti a qualche canale anche solo per poter vedere che cosa si dice da quelle parti - sì, sto pensando principalmente alla piaga di Discord utilizzato come forum/wikipedia che è una cosa che ho sempre odiato e... ok, la smetto con le lamentele da vecchio.

Sì, ma quindi cosa giocate voi hippy abbraccia-alberi con le vostre sigarette allegre?

Come potete intuire, l'idea di fondo è appunto esplorare l'immenso mondo ludico che c'è oltre l'ingombrante montagna di D&D. Io e CretinoDiCrescenzago seguiamo il lato indie della Forza (qualsiasi cosa significhi), mentre GlassFrog ama particolarmente l'OSR.

Beninteso, questi sono i giochi che piacciono a noi tre ma chiaramente, se la cosa prendesse davvero piede, niente vi vieterebbe di proporre quel che più vi aggrada e giocarlo con altre persone interessate. Però ecco, diciamo che se finiste a giocare coi sottoscritti, è lecito che vi aspettiate di trovare qualcosa di molto più matto in culo di, che so, Vampiri.

Per inquadrarci meglio, ecco cosa abbiamo giocato nelle due one-shot che siamo riusciti a fare finora:

La Storia al Microscopio

Il primo incontro ci è servito prevalentemente a capire cosa provare e nel poco tempo rimasto abbiamo improvvisato una partita a Microscope di Ben Robbins, un gioco di ruolo frattale in cui raccontiamo la Storia (proprio nel senso di Historia, non di racconto) di un concetto che a inizio partita decideremo di esplorare, muovendoci nel corso della partita avanti e indietro nel tempo, zoomando come più ci aggrada tra Periodi, Eventi e Scene.

screenshot della partita a Microscope, con una serie concatenata di Periodi, Eventi e Scene

Nel caso dei vostri tre amichevoli pisquani del fediverso, le cronache riguardavano la caduta e la riunificazione di un impero accentratore

Non starò a parlarvi del gioco in dettaglio (magari vi ammorberò in futuro quando mi tornerà la voglia di riprendere a scrivere qualcosa su Log), ma già questo dovrebbe bastare a darvi un'idea di quanto strano sia.

A più di un anno di distanza dall'ultima partita (fatta sempre grazie a Livello Segreto con @janawhoopwhoop e @raxaes) c'è voluto un po' a perché riprendessi la mano, tant'è che alla fine siamo riusciti a fare giusto un giro completo del tavolo, ma alla fine l'importante è essere riusciti a far partire il tutto.

Fotogramma di Frankenstein Junior con Gene Wilder in primo piano con gli occhi spiritati

Ma allora... Si! Può! Fare!

i PisCani sbirri della Fede

Al secondo appuntamento GlassFrog ha facilitato Cani nella Vigna, gioco “giovanile” di Vincent Baker, l'autore del ben più celebre Apocalypse World.

illustrazione in bianco e nero di una fanciulla armata di revolver che si nasconde dietro delle botti da una figura minacciosa in controluce, anch'essa armata

Qui qualcunə ha voluto escalare la situazione

(illustrazione del manuale italiano di Claudia Cangini linkata direttamente dalla rete, che trovarne una è un'impresa)

Qui lascio che siano le parole di CretinoDiCrescenzago a descrivere il gioco in 500 caratteri:

Post by @cretinodicrescenzago@livellosegreto.it
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(mi sa che l'embedding dei toot pubblici silenziosi non li fa vedere direttamente, quindi vi tocca aprirlo)

Mettermi nei panni di una giovane sentinella della fede nel vecchio west è stata un'esperienza abbastanza straniante per quanto distante dalla realtà fosse, ma ammetto che più si ingranavamo e più il gioco mi ha preso.

È un peccato che il sistema dei conflitti utilizzato non sia stato più ripreso da altri giochi, che è decisamente interessante e non mi dispiacerebbe riaverci a che fare. Certo, richiede una quantità spropositata di dadi o tanto lavoro di annotazione dei risultati, ma per fortuna avevamo dalla nostra Tabletop Simulator e potevamo spammare dadi in quantità industriale... per una volta godiamoci uno dei pochi vantaggi di giocare online 😅

Uno sguardo nel futuro

Ovviamente abbiamo una lunga lista di giochi da provare quando riprenderemo a settembre.

Di alcuni, come Damn the Man, Save the Music! o House of Reeds ho già scritto qualcosa qui su Log; in futuro spero di aggiungerne altri (come quel Microfiction che spammo sempre), mentre altri ancora li lascerei descrivere direttamente a GlassFrog, che l'OSR non è proprio my cup of tea... 😅

In ogni caso sappiate che tra quel che il vitreo ranocchio vorrebbe giocare trovate Ultraviolet Grasslands, Vaults of Vaarn, We Deal in Lead o Cloud Empress.

Sì, ma alla fine che volete da me?

⬆ ⬆ No dai, non volevo saltare tutto, riportami all'inizio del post ⬆ ⬆

Ma niente; se ti piacciono i GdR pazzarielli che i Nerd Alpha perculano perché deviano dall'ortodossia D&Diana ma non hai con chi giocarli, se semplicemente odi D&D e vuoi fare piangere i Nerd Alpha, o se questo papello ha stuzzicato la tua curiosità e vuoi provare 'ste robe strane che citiamo, tieni d'occhio l'hashtag #GenteCheFediGioca, e incrocia le dita che se gli dei della forgia ci arridono magari riusciamo a dare vita a qualcosa di bello e far giocare un po' di gente qui sul fediverso :)

 
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from Ore liete


Mio padre, quando decise di portarci in villeggiatura per la prima volta, fu categorico: “se mi stanco della montagna, ci facciamo una decina di giorni e ce ne torniamo a casa. È sempre stato un tipo da mare, come mia sorella; il restante 50% della famiglia, invece, preferiva e preferisce la montagna. A me il mare piace, sia detto: mi piace guardarlo, mi piace l'atmosfera delle località di mare, mi piace camminare e averlo di lato; stare spiaggiati sulla sabbia in una calca di sconosciuti, a morir bruciati dal sole e accecati dal riverbero, a fare chissà cosa, proprio no.

Mio padre era impiegato comunale, autista di mezzi vari, e la montagna gli piacque così tanto che volle provare, per la prima volta questi “giorni di malattia” di cui tanto si parlava in certi ambienti. Niente di truffaldino, anzi: una leggera febbricola, accompagnata da sintomi collaterali vari, fu giudicata sufficiente dalla guardia medica per chiedere e ottenere quattro o cinque giorni di malattia. Questo era accaduto nel tardo pomeriggio di quel ferragosto.

Il giorno dopo, stavamo guardando il Palio di Siena nel piccolo televisorino da 12” che ci eravamo portati dietro: non che ne avessimo di più grandi, era l'unico che avevamo in casa, chiaramente in bianco e nero. Ero ancora abbastanza piccolo da trovare divertente il Palio, già dopo pochi anni iniziai a chiedermi cosa avessero fatto quei poveri cavalli per trovarsi lì, a fare quello che facevano. Bussarono alla porta ed erano i carabinieri.

Ebbi paura, che volevano? Era successo qualcosa a qualcuno? Qualcuno in famiglia aveva combinato un pasticcio di cui non sapevo nulla? No, fortunatamente, erano solo venuti a controllare, e mio padre davvero stava in pigiama, con la voce nasale e le medicine in giro.

Va bene, ma il 18 mattina dovete essere al lavoro: così si esaurirono rapidamente gli unici due giorni di malattia della vita lavorativa di mio padre. Ci avevano trovati, in un lampo, chiedendo un po' in giro, al barbiere che ci aveva accorciato i capelli qualche giorno prima, “stanno nella casa di...”.

Hanno fatto il loro dovere, non c'è nulla da dire in merito; tuttvia, ancora oggi ripenso a quella sollecitudine, con una punta di amarezza solcata da una striatura di facile populismo. Penso ai latitanti che latitano per decenni nel paese dove sono nati e dove sono sempre vissuti, con le istituzioni che sembrano brancolare nel buio e i compaesani ignari di tutto, dietro quel muro di omertà del Sud che al Nord si chiama dignitoso silenzio.

La faccenda si concluse con mio padre che diventò un pendolare della villeggiatura: tornava a casa e andava al lavoro, poi il venerdì sera ci raggiungeva e la domenica pomeriggio ripartiva.

E stare soli con nostra mamma era un'esperienza nuova, ma ugualmente bella. E quando tornava mio padre, era sempre una piccola festa.

Questo pendolarismo fu possibile solo nelle nostre villeggiature sul Matese, a circa 80 km da casa: in Abruzzo si sarebbe trattato di un viaggio di oltre 200 km, ogni volta, quindi facevano i nostri 15-18 giorni e tornavamo nella bruttura del nostro quotidiano.

 
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from Super Relax


Io vado piano e i miei motivi sono molteplici, il primo è che più di così non ce la faccio. Mi piacerebbe andare più forte, per arrivare più lontano nel tempo che mi è concesso per pedalare, ma la lentezza mi porta al secondo motivo: inseguire la prestazione ti fa perdere di vista tutto il resto.

Relativamente alle velocità solite dei ciclisti, c'è una sorta di posizionamento immediatamente visibile a chiunque abbia un minimo di consapevolezza del mezzo: un ciclista da strada mi supererà sulla gravel, io supererò un rider in mountain bike (di solito). E sarò sorpassato da un collega in gravel, ma va bene così.

Gli appassionati di MTB sono forse scarsi? Assolutamente no; hanno un motivo più che valido per andare alla loro velocità: non gliene importa niente della velocità media e i tratti pianeggianti, o dalle pendenze scarse, non sono altro che momenti di raccordo tra una salita che non potrei affrontare o un tratto sconnesso e irregolare che non saprei affrontare.

Quando incontriamo un ciclista, non sappiamo quanti chilometri e dislivello abbia già percorso o dovrà percorrere. Non sappiamo se abbia dormito bene, si sia nutrendo regolarmente durante lo sforzo, se stia facendo un esercizio specifico, se sia lì per un KOM o per godersi il paesaggio e la libertà della bicicletta. Ai ciclisti lenti, e a quello che non vediamo, vada il nostro incoraggiamento.

Stamattina, calda domenica estiva, stavo facendo una delle mie salitelle solite, adatte a tutti, quando ho incontrato un ciclista visibilmente più lento di me; non mi sono soffermato troppo sulla bici, ma sembrava una sorta di gravel col manubrio flat, non erano gomme da MTB. L'ho superato, ci siamo salutati, io ho continuato il mio giro, lui il suo. Dopo un'oretta, ci siamo incontrati di nuovo, probabilmente al punto più alto delle nostre uscite. Su un passo, dove si scollina o si torna indietro, entrambi siamo tornati indietro. Mi ha rivolto un largo sorriso, ho contraccambiato, dicendomi “ora inizia la discesa”.

È stato un momento tenerissimo, ho capito che per lui quella salita era stata abbastanza impegnativa (ricordate: non sappiamo mai, con sicurezza, cosa ci sia dietro una pedalata) ma l'aveva superata, ora poteva godersi il riposo della discesa e il piacere del vento sulla pelle, in una giornata caldissima. Così come si era goduto il panorama in salita, alla sua giusta velocità.

Il ciclismo amatoriale, lontano da Strava e dai watt, è bello anche per questi momenti

 
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from khulewampe

Oggi vorrei parlare della storia del cosiddetto boicottaggio dell’esame di stato del secondo ciclo di istruzione e della conseguente repressione esplicita e implicita a cui abbiamo assistito a livello politico e mediatico. Per farlo, oltre al racconto della vicenda di attualità, aggiungerò due piccoli contributi: il mio esame di stato del 2005 e un film tedesco sceneggiato da Brecht nel 1932 (da cui deriva il nome di questo blog e il mio nickname).

Vent’anni fa, in Molise

Nel 2005 ero in quinta liceo scientifico e, un po’ come tuttə lə compagnə della mia classe, pensavo a come sarebbe andato l’esame di stato. Avevo in realtà tenuto una buona media dei voti nel triennio (tirata notevolmente su solo da due materie: matematica e fisica) e quindi avevo a disposizione il massimo dei crediti. Massimo che però, nel 2005, era di 20 punti. C’era molto da fare per arrivare a 60!

La prima prova, il tema di italiano, fu un colpo di fortuna: quando arrivo il foglio con le tracce ministeriali volevo spararmi, tra Dante e altri testi. Poi, per fortuna, l’ultima traccia sui 100 anni della teoria della relatività di Albert Einstein mi salvò la vita.

Feci quella. E così andò bene, 15 su 15. La seconda prova, come previsto, fu una passeggiata: 15 su 15 e aiutai pure tutta la mia 5D a combinare qualcosa (e aiutai anche la 5C…). La terza prova, quella più rognosa, anche andò abbastanza bene: sbagliai qualcosina e presi 13 su 15.

Insomma, alla fine degli scritti avevo già 62. Mi ricordo benissimo quando andai a Campobasso con alcunə della mia classe a vedere gli esiti degli scritti: ero inebriato dal fatto che fossi, praticamente, già diplomato! Quasi quasi…“e se non andassi all’orale?” Fu un pensiero che mi balenò in testa, lo ammetto. Non avevo proprio alcuna velleità di ottenere un voto alto, anche perché, onestamente, mi era davvero indifferente rispetto a ciò che avrei fatto qualche mese dopo (l’accesso al corso di laurea in astronomia a Bologna era libero e non esistevano test d’ingresso e TOLC, ma di questo ne parliamo un’altra volta).

Alla fine, ovviamente, era impossibile per me all’epoca trovare il coraggio di non andare all’orale. Quindi andai e me la cavai abbastanza bene.

Perciò in questi giorni del 2025, quando ho letto di due studentə che hanno deciso di fare, volontariamente, scena muta al loro esame di stato, ho cercato di immaginare dove avessero trovato il coraggio. Mi sembrava impossibile l’avessero fatto. Poi mi sono detto che forse l’avevano trovato il coraggio perché, dopo anni, non ne potevano più e volevano farlo sapere al mondo intero.

Con una protesta pacifica e plateale, con delle ragioni profondamente politiche dietro.

Diplomati e “mazziati”: cos’è successo in questi giorni a chi ha boicottato l’esame di stato

Anche Gianmaria Favaretto, a Padova, aveva 62 già prima dell’orale. E il giorno della sua prova orale ha preso coraggio e ha deciso non rispondere alle domande della commissione (alla fine però ci sarà un compromesso sullo svolgimento dell’esame e arriverà a 65/100). Ha portato la sua protesta in sede d’esame perché per lui «l’esame di maturità per me è una sciocchezza, non rispecchia la reale capacità dei ragazzi, figuriamoci la loro maturità». E inoltre: «in classe c’è molta competizione. Ho visto compagni diventare addirittura cattivi per un voto».

Maddalena Bianchi, a Belluno, ha portato una protesta simile il giorno del suo orale, poiché con i voti degli scritti era già promossa. All’orale ha detto che protestava per andare contro «i meccanismi di valutazione scolastici, l'eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente».

Per prima cosa bisogna fare tanto di cappello a questə ragazzə: hanno avuto davvero un coraggio fuori dal comune. Del resto, per contrastare lo status quo di questi tempi serve fare qualcosa di straordinario.

E infatti la prova definitiva dell’importanza della loro protesta è arrivata a stretto giro con le dichiarazioni del ministro dell’istruzione Valditara: chi in futuro boicotterà l’esame, come hanno fatto Favaretto e Bianchi, verrà bocciato. Taaaac. Intervistato da Fanpage.it il ministro aggiunge una dichiarazione, a mio avviso, sconcertante. Alla domanda “Perché pensate a una misura così dura?” la risposta di Valditara è stata:

Dura? È una misura necessaria. Atteggiamenti che deliberatamente intendano boicottare gli esami sono offensivi verso il lavoro dei commissari, e sono offensivi nei confronti di quei compagni che hanno studiato e si sono impegnati. Sono anche offensivi verso la scuola, che è una cosa seria.

Repressione totale dal cuore del sistema

Quindi, anziché mettersi in ascolto delle istanze portate avanti da Favaretto e Bianchi, il governo decide di reprimere subito questa manifestazione coraggiosa, ma tutto sommato pacifica, di dissenso. Mi sarei aspettato un commento più sprezzante, à la mangino brioche di mariantonettiana memoria, ovvero qualcosa come “se a loro sta bene buttare via un potenziale 100 e lode, che facciano pure”.

Invece no. Repressione. E sapete perché? Perché la protesta ha colpito al cuore del sistema.

L’esame di stato è stata un’idea del primo governo fascista, nel 1923, con il ministro dell’istruzione Giovanni Gentile. Innanzitutto si chiamava esame di maturità e si trattava di un esame tostissimo (ne ho parlato in questo post su Instagram, dateci un’occhiata se volete approfondire). L’idea di fondo era quella di selezionare la classe dirigente. Gli stessi fascisti, pensate, qualche hanno dopo hanno dovuto un po’ ammorbidirlo, per dire, a causa dell’incredibile tasso di persone bocciate nei primi anni.

Questo retaggio fascista, decisamente ammorbidito e modificato, lo abbiamo ancora oggi. E l’idea che c’è dietro è ancora quello di selezionare, classificare. Idea che, peraltro, permea ogni secondo della vita scolastica con i suoi voti, le note disciplinari, le sospensioni, il voto in condotta. Favaretto e Bianchi hanno puntato il dito contro questo. Infatti loro due sono esempi di studenti che tutto sommato andavano bene a scuola, avevano buoni voti e hanno fatto anche buone prove scritte all’esame. Favaretto e Bianchi hanno usato il loro privilegio di persone già tecnicamente diplomate per parlare anche a nome dellə loro compagnə di scuola che invece hanno dovuto sostenere l’orale con tutti i crismi perché il diploma era ancora da guadagnare.

Favaretto e Bianchi hanno fatto notare, con la loro protesta, che a scuola germogliano i semi di ciò che poi, fuori nella società, è causa di disuguaglianze e problemi: competitività, meritocrazia, meccanismi valutativi per qualsiasi cosa per cui si ha la pretesa che sia “misurabile”. Dovrebbe farci riflettere davvero tanto il fatto che siano state due persone di 19 anni a far emergere con forza questi aspetti per cui noi adulti ormai ci abbiamo fatto il callo come se fosse inevitabile. Loro hanno detto, per un attimo, “basta” e hanno rinunciato alla consuetudine, a un momento che per tantissimə altrə studenti è stata una giornata di festa e gioia.

Solidarietà negativa a tutto campo

Ma se la reazione del governo è tutto sommato comprensibile, in quanto difensore supremo dell’autoritarismo insito nelle nostre istituzioni educative e non, un po’ meno comprensibile è stata la reazione di docenti e società “civile”. Alcune persone, bisogna dirlo, hanno solidarizzato con lə studenti e hanno chiesto al governo di ascoltare le ragioni di cui si sono fattə portavoce Favaretto e Bianchi; ma una grossa fetta di persone ha insistito su due aspetti su cui vorrei soffermarmi con voi: la solidarietà negativa e la necessità di adattarsi.

La solidarietà negativa è stata espressa da quelle persone che hanno detto: “va beh, ci siamo passatə tuttə, non vedo perché non ci debbano passare anche loro”. A me sembra assurdo sentire ragionamenti del genere. Semmai è il contrario: proprio perché io ho sofferto, allora non voglio che altre persone soffrano. Evidentemente sono io a pensare nel modo sbagliato.

La necessità di adattarsi invece è stato espressa da quelle persone che hanno detto: “Eh, ma poi voglio vederli questə quando vanno nel mondo del lavoro!”. Questo tipo di commento, secondo me, è ancora più feroce della solidarietà negativa perché ci si aspetta un’inevitabile gigantesca sofferenza futura per chi oggi è studente. E di chi è la colpa? Della scuola, ovviamente, perché non prepara al mondo che c’è la fuori.

E qui veniamo alla nota dolente: questa è anche la posizione di moltə docenti. E infatti per questo, così chiudiamo il cerchio, è il motivo per cui Favaretto e Bianchi hanno protestato. Infatti spesso, a scuola, moltə docenti si lamentano del fatto che lə studenti prendano male un voto negativo come 3 o 4. “Dovrebbero abituarsi alla vita fuori dalla scuola, è un modo per imparare a crescere!” il commento che ho sentito più spesso nelle aule insegnanti dalla bocca dellə miə colleghə. Ma questo è esattamente ciò che hanno detto Favaretto e Bianchi: la scuola allena alla competizione, insegna ad adattarsi tramite i meccanismi di valutazione in uso. È proprio questo il punto!

Una crepa nello status quo

Questo è il motivo per cui nessunə ha veramente prestato attenzione a queste proteste. Perché Favaretto e Bianchi hanno creato una crepa nello status quo. Ma lo status quo siamo noi: ripensare ai meccanismi di valutazione, al motivo per cui valutiamo e al come lo facciamo, allora dobbiamo ripensare anche alle nostre vite, al motivo per cui insegniamo a scuola, fare pura pratica di autocoscienza e guardare in faccia il mondo che ci circonda per immaginarne uno diverso. Fare questo, per tantissime persone, costa. Non è indolore. Vuol dire mettere in discussione una vita intera, tanti privilegi e soprattutto ridiscutere il futuro individuale che, giorno dopo giorno, ogni persona si sta costruendo solo ed esclusivamente per sé stessa. Anche lavorare in una scuola competitiva, che seleziona e reprime, pur sembrando un lavoro per la collettività, in realtà non fa altro che cristallizzare il mondo in cui determinate persone hanno determinati lavori, posizioni e privilegi.

In questo quadro di manutenzione dello status quo, chi non vuole scalfire la situazione generale pur sembrando mostrare un minimo di empatia animato dalle migliori intenzioni, in realtà svela il suo lato più repressivo.

È stato il caso di docenti-influencer molto famosi che pur riconoscendo le ragioni del boicottaggio dell’esame di stato, hanno avuto da ridire su come è stata fatta la protesta. E questo credo sia qualcosa di assurdo. Docenti che sui social hanno milioni di follower, anche mostrando una loro certa visione della scuola, hanno anche la pretesa di spiegare allə studenti come avrebbero dovuto protestare per avere un risultato “più efficace” (secondo loro…).

Oppure, addirittura, un docente molto seguito ha scritto un post per dire “che è facile protestare quando hai già 60”. Non ci sono parole. Non vi metto i link, li potete trovare su Instagram (per le prossime 24 ore anche nelle storie del mio profilo…).

Chi cambierà il mondo, allora?

Tutto questo mi ha ricordato un film che ho visto nel 2021 al festival del Cinema Ritrovato organizzato ogni anno dalla Cineteca di Bologna. Era una mattina di giugno e quell’anno non ero commissario dell’esame di stato perché non avevo avuto una classe quinta e, causa pandemia, tuttə lə commissariə erano interne. Una di quelle mattine di fine giugno quindi mi svegliai presto e decisi di andare a vedere un film tedesco che mi aveva incuriosito: Khule Wampe. Sembrava interessante per diversi motivi: era sceneggiato da Bertolt Brecht ed era stato realizzato nel 1932, pochi mesi prima dell’avvento del nazismo in Germania.

Nell’ultima scena, durante un viaggio in treno, si discute di economia internazionale e prezzi del caffé brasiliano. La discussione si accende perché ci sono persone di varie estrazioni sociali. Le persone, per capirci vista l’epoca, borghesi discutono delle strategie per avere un caffé a prezzo basso e addirittura una persona arriva a pensare che la soluzione è colonizzare il Brasile! Un ragazzo, per capirci, proletario, che viaggiava con un gruppo di amici proletari, si lamenta perché il borghese dice sempre “noi” mentre a lui sembra che ci sia una evidente disuguglianza nello stato delle cose. Il dibattito si accende, vola qualche offesa. Quando gli animi si placano, si vedono altre persone provare a discutere del prezzo del caffé ma emerge la rassegnazione perché, dice un viaggiatore a un suo compagno di viaggio sul treno “non saremo noi due a cambiare il mondo”.

Allora il ragazzo proletario di prima precisa che sul treno nessuno di loro cambierà il mondo, soprattutto il personaggio borghese con cui aveva litigato perché al borghese “piace il mondo così com’è”. A questo punto il borghese chiede al gruppo di proletari: “E allora chi cambierà il mondo?”. E qui, una ragazza proletaria risponde decisa: “Lo cambieranno coloro a cui questo mondo ora non piace!”.

Smascheriamo lo status quo e pensiamo alle alleanze

Questa scena scritta da Brecht riesce a colpire diritto al cuore della faccenda. C’è chi difende lo status quo perché gode di privilegi e benefici e chi invece subisce l’oppressione dello stato delle cose e tenta di cambiare il mondo. Naturalmente, chi cambierà il mondo lo farà in un modo che non piacerà a chi difende lo status quo.

Questo è un dato di fatto: a cambiare la scuola non saranno i ministri e, purtroppo, non saremo neanche noi prof. A cambiare la scuola saranno coloro a cui non piace veramente, coloro che sognano una scuola diversa. Coloro che, per svariati motivi, la scuola vuole tenere fuori, emargina, declassa. Solo loro potranno cambiare le cose.

Forse siamo molto lontanə anche solo dall’immaginare un mondo diverso, migliore. Ma la protesta di Favaretto e Bianchi è stata davvero efficace perché loro due hanno usato il loro di privilegio di persone non emarginate dal sistema scolastico e lo hanno messo al servizio di una discussione più ampia, con coraggio. La loro protesta ha infatti, non a caso, immediatamente messo in crisi lo status quo e ha richiesto un intervento immediato e totalmente repressivo dell’autorità. Questo per capire quanto fosse precisa e giusta la loro modalità di protesta, malgrado ciò che dicono boomer e professori boomer in giro sui social network.

In fondo, le proteste di Favaretto e Bianchi hanno fatto la cosa più importante di tutte: hanno smascherato lo status quo, hanno costretto chi si stringe attorno ai propri privilegi a uscire allo scoperto.

Quindi in realtà ciò che è accaduto è stato un modo utile per far scoprire ancora di più le carte a coloro il cui mondo piace così com’è. Grazie a proteste di questo tipo è più facile capire quali sono le persone che difendono lo status quo per i loro interessi e quali sono le persone con cui invece lavorare insieme per tentare di costruire le alleanze che porteranno alla creazione di nuove prassi da usare nel mondo che cambieremo. La protesta di Favaretto e Bianchi ha dimostrato che c’è una crepa, una faglia, in cui possiamo immergerci per iniziare a immaginare un mondo nuovo e che ci sono tante persone che hanno voglia di attraversare insieme questo spazio.

 
Continua...

from Ore liete


Non so, effetto Mandela o allucinazione collettiva in famiglia? Fatto sta che credevamo quella forra fosse in località Sprecavitelli. Non sapevamo neanche fosse una forra, per noi era un generico burrone. La vera Sprecavitelli è una località nei pressi del Lago Matese, mentre il ponte di Arcichiaro, questo il vero nome, svetta sul torrente Quirino, che siamo sicuri di non aver mai visto. Per gestire queste acque, successivamente, è stata costruita una diga, di cui non so granché, a parte il fatto che sembra i lavori siano iniziati a fine anni Novanta e completati all'italiana, solo parzialmente, almeno fino al 2023.

Allego un paio di foto d'epoca, della mia epoca, così ci togliamo il pensiero e potete smettere di leggere. Scattate con la mia solita reflex delle vacanze, classicamente 36 esposizioni da far durare dalle due alle quattro settimane.

Imbocco di una brevissima galleria, visibile a destra un tratto di strada e a sinistra l'esterno della stessa che si sporge sul vuoto ed è caratterizzata da alcune piante che crescono sulla nuda roccia.

Protagonista della foto, la brevissima galleria che introduce al ponte, sulla SP 331, Strada Provinciale del Matese, in territorio già molisano, nello specifico territorio di Guardiaregia. Proprio Guardiaregia era, probabilmente, la meta di queste nostre escursioni in Molise, una regione vicina ma che non ci siamo mai presi la briga di esplorare, se non per visita a Venafro, Isernia, Bojano e Castelpetroso.

Sporgendoci dal lato roccioso, l'impatto era impressionante, abituati come eravamo a panorami ben più cittadini: una profonda fenditura tra le rocce, un dislivello tale da dare le vertigini e esercitare quella morbosa attrazione per il vuoto, non penso sia solo una questione mia. Credo sia un panorama interessante e pericoloso anche per gente più avvezza a montagne più imponenti.

Profonda forra caratterizzata da una vegetazione alquanto scarsa, in una vecchia foto

Ebbene, per molto tempo ho cercato quella galleria su Maps, per ripercorrere almeno immaginariamente quella strada sospesa su un piccolo, relativo nulla, per rivivere quei momenti ancora una volta, perché non sarà giusto abbandonarsi ai ricordi, ma capita che i ricordi siano l'unico sprone a continuare. Non sono mai riuscito a risalire al punto, intenzionalmente: in molti casi, quando si cerca una cosa e non la si trova, si sta cercando nel posto sbagliato; era uno di quei casi, e da un caso è arrivata la soluzione.

Ho una bicicletta e sogno di usarla per viaggiare, al momento è assolutamente impossibile. Dovessi vivere abbastanza a lungo, perché non si sa mai, nella migliore delle ipotesi ne avrò la possibilità quando non avrò più forza per pedalare e permettermi certe distanze. Non che oggi percorra chissà quanti chilometri, ma ho diversi limiti a cui attenermi, la libertà può essere costretta da troppe pareti.

Stavo fantasticando sul percorso da fare per pedalare fino a San Gregorio Matese: tragitto fattibilissimo, in un giorno, da una persona allenata e io non sono quella persona, quindi dovrei spezzare in due. Il problema è la salita finale, circa 11 km con una pendenza media del 5,5% circa, potrei farcela ma c'è un “ma”. Più di uno, in realtà: la salita è alla fine del percorso, quindi ci arriverei già stanco, la soluzione potrebbe essere quella di sopra, ovvero fare due tappe. Il “ma” grosso, diciamo il MA, sta nell'irregolarità della pendenza e l'ostacolo insormontabile sarebbe uno strappo di circa 400 metri al 14% medio e punte del 18%, a cui seguirebbero altri strappetti analogamente ripidi ma brevi. Non avrei la condizione fisica per quello strappo, dovrei scendere e spingere su una strada stretta.

Come le so queste cose, dov'è che vado a fantasticare? Su Komoot, per esempio: è l'universo immaginario delle cose che mi piacerebbe fare e non farò mai. E sto fantasticando di tornare a Piedimonte, Castello, passare San Gregorio e raggiungere il lago, ormai ho perso la speranza di individuare la finta Sprecavitelli. Complice una zoomata non richiesta (ancora il caso), la mappa si rimpicciolisce e mi appaiono le altre icone dei punti di interesse, una delle quali con la dicitura “Ponte del Diavolo (Arcichiaro)”: di ponti del diavolo ne è pieno il mondo, ma fammici guardare... ed eccolo lì, il posto non può essere che questo. La vegetazione è più folta che nella mia testa e in quelle due foto, scopro che sotto c'è una diga, parte della montagna è stata grattata per ricavarne materiale da costruzione, i guardrail sono rinforzati nello scopo da griglie di contenimento. Cambiamenti estetici, l'essenza del ricordo è immutata.

 
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from khulewampe

Quando mi trovo a fare, ogni tanto, serate di divulgazione scientifica, una delle domande più gettonate è sempre: cosa c’era prima del Big Bang?

Il Big Bang, traducibile in italiano come Grande Botto, è un termine che spesso usiamo per riferirci alla “nascita” del nostro Universo. Tecnicamente, il termine più corretto da usare sarebbe Teoria del Big Bang. Questo perché, sempre tecnicamente, l’universo non è iniziato né con un botto né tantomeno con un’esplosione. Tuttavia in passato (ma ancora oggi a volte) sia i libri scolastici sia grandi personaggi della comunicazione scientifica hanno perseverato più volte con il concetto di “esplosione” per descrivere come è iniziato l’universo.

Parliamo un attimo della teoria del Big Bang

Mettiamo in ordine alcuni fatti, allora. Oggi sappiamo che sicuramente l’Universo ha avuto un inizio, precisamente 13,79 miliardi di anni fa. Lo sappiamo grazie ai dati della radiazione cosmica di fondo raccolti dal satellite ESA Planck del 2018. Non starò oggi a parlare della radiazione cosmica di fondo, ma vi basta sapere che si tratta dell’evidenza scientifica numero uno della Teoria del Big Bang, di cui parlerò brevemente tra pochissimo.

Infatti, negli anni Venti del secolo scorso non si conoscevano molte cose sull’universo. Non si sapeva neanche se quella che oggi sappiamo essere la Galassia di Andromeda fosse davvero un’altra galassia oppure no. Però in quel periodo avvennero due cose fondamentali: da una parte Albert Einstein aveva messo a punto la teoria della Relatività, teoria che si poteva applicare a tutto l’universo in quanto capace di descrivere come funziona la gravità su distanze molto grandi; dall’altra parte, grazie allo sviluppo tecnologico, si è avuta la possibilità di avere strumenti molto precisi per misurare le distanze delle galassie (che, all’epoca, ancora non sapevamo fossero tali).

Alla fine, nel 1924, l’astronomo americano Edwin Hubble dimostrò che Andromeda era un’altra galassia e quindi l’Universo era fatto di tante galassie come la nostra; poi nel 1929, Hubble dimostrò che le galassie si allontanano da noi. Quest’ultimo fatto, apparentemente inspiegabile, trovava un quadro teorico proprio nella teoria di Einstein: le galassie si allontanano non perché si muovono loro, bensì perché è lo spazio in mezzo a espandersi.

Pazzesco. Eppure una teoria che sembra così assurda spiega perfettamente i dati di Hubble. Altre teorie non sono capaci di farlo.

Non solo: Georges Lemaitre, un prete belga con un PhD in astrofisica, formulò in quegli anni una teoria ulteriore: se l’Universo oggi si espande e le galassie si allontanano, allora vuol dire che in passato le galassie dovevano essere molto più vicine, quindi l’Universo doveva essere molto più denso di oggi…

Questa idea non fu accettata dalla comunità scientifica dell’epoca. Lo scienziato inglese Fred Hoyle per esempio non poteva accettare l’idea che in passato l’universo fosse una specie di “uovo primordiale” ultra-denso (come diceva Lemaitre) e quindi ipotizzò un’altra teoria: secondo Hoyle l’Universo non era più denso in passato e meno denso oggi, ma è sempre stato così come lo vediamo, con la stessa densità. Per bilanciare il calo di densità di galassie a causa dell’espansione, secondo Hoyle ogni tanto nell’Universo si forma (dal nulla!) un po’ di materia. Secondo questa teoria, l’Universo vive in un perenne Stato Stazionario.

Pazzesca teoria anche questa, vero? Eppure andò per la maggiore.

Da dove nasce il nome “Big Bang”?

Addirittura, pensate, Hoyle il 28 marzo 1948 alle 18:30 ora di Londra rilasciò un’intervista alla BBC Radio dove stigmatizzò fortemente la teoria di Lemaitre e inventò, per l’occasione, anche un nomignolo per la teoria del prete belga. Disse Hoyle: “earlier theories… were based on the hypothesis that all the matter in the universe was created in one big bang at a particular time in the remote past.” che tradotto suona così “le precedenti teorie [Hoyle già dava per scontata che la sua teoria fosse giusta – nda] erano basate sull’ipotesi che la materia nell’Universo fosse creata in un grande botto in un particolare istante del remoto passato”.

Ecco! Il nome teoria del Big Bang quindi non viene dalle persone che hanno lavorato su questa teoria, ma proviene dal suo principale detrattore.

Alla fine però risultò che Hoyle aveva torto: nel suo Universo stazionario non c’è spazio per una radiazione cosmica di fondo (di cui vi parlerò un’altra volta), la quale invece era perfettamente prevista nella teoria, cosiddetta, del Big Bang. Quando nel 1964 la radiazione cosmica di fondo fu osservata arrivò il momento in cui la comunità scientifica finalmente accettò la teoria di Georges Lemaitre come la teoria più accredidata a spiegare l’origine dell’Universo.

Che cosa c’era prima del Big Bang?

Quindi eccoci qua: al momento riteniamo che l’Universo non sia stato sempre così come lo vediamo, bensì abbia avuto un’origine nel passato e fosse più denso allora rispetto a oggi (a causa dell’espansione). Non sappiamo esattamente come sia nato l’Universo e non sappiamo neanche se l’Universo è finito o infinito in realtà. Sappiamo solo che l’Universo ha avuto un inizio e che in passato la densità era altissima e quindi, di conseguenza, anche le temperature erano elevatissime. Per semplicità, oggi, chiamiamo questa teoria come il modello Big Bang, ma dobbiamo essere consapevolə che non si tratta di un’esplosione e soprattutto che siamo ancora molto ignoranti su un sacco di cose.

Ma se la teoria del Big Bang comunque ci dice che l’Universo ha avuto un inizio nel tempo, viene spontaneo chiedersi: che cosa c’era prima? Comunque, la risposta più bella che si può dare a questa domanda è, per una volta, un’altra domanda: se il tempo inizia con il cosiddetto Big Bang, ha senso parlare di un prima?

Beh, innanzitutto, bisogna accettare un fatto: anche se ci fosse stato qualcosa prima, non avrebbe potuto in alcun modo influenzare il dopo, perché il tempo per come lo conosciamo ha avuto inizio proprio con l’inizio a cui conduce la teoria del Big Bang. Ora, di sicuro qui abbiamo a che fare con qualcosa che scava in profondità della nostra esperienza umana. Noi viviamo nel tempo e ci sembra impossibile pensare a un tempo senza tempo. D’altra parte, anche solo immaginare che tutto ciò che ci circonda non sia esistito per sempre, ecco, aggiunge un tocco di inquietudine e provvisorietà alla nostra già fragile esperienza umana.

Pensiamo mai al prima?

C’è da dire, però, che è davvero notevole che la mente umana sia stata in grado di concepire una teoria che fissa l’inizio del tempo. Come molti aspetti scientifici, alla fine sono le cose che osserviamo nell’Universo a metterci dei paletti; al momento, per quanto incredibile possa essere, ciò che vediamo nell’Universo ci dice che il tempo ha avuto un inizio. Per quanto pazzesco possa essere, c’è stato un istante della storia dell’Universo che probabilmente non ha avuto un istante precedente.

Ma è davvero pazzesco per l’esperienza umana? Forse ciò che dice la teoria del Big Bang è molto più vicino a ciò che viviamo ogni giorno di quanto pensiamo. Prendiamo, per esempio, questa citazione dal libro L’amica geniale di Elena Ferrante, Lenù riporta un pensiero molto profondo elaborato dalla sua amica Lila:

“Ritornò così il tema del “prima”, ma in modo diverso che alle elementari. Disse che non ne sapevamo niente, né da piccole né adesso, che perciò non eravamo nella condizione di capire niente, che ogni cosa del rione, ogni pietra o pezzo di legno, qualsiasi cosa, c’era già prima di noi, ma noi eravamo cresciute senza rendercene conto, senza mai nemmeno pensarci. Non solo noi. Suo padre faceva finta che non c’era mai stato niente prima. Lo stesso faceva sua madre, mia madre, mio padre, anche Rino. Eppure la salumeria di Stefano prima era la falegnameria di Peluso, il padre di Pasquale. Eppure i soldi di don Achille erano stati fatti prima. E così anche i soldi di Solara. Lei aveva fatto la prova con suo padre e sua madre. Non sapevano niente, non volevano parlare di niente. Niente fascismo, niente re. Niente soprusi, niente angherie, niente sfruttamento.”

Al contrario del sentimento popolare nei confronti del Big Bang, dove il prima è quasi un’ossessione, un mistero da risolvere, quasi fossimo tuttə assetatə di conoscenza, in questo frammento del libro di Ferrante il prima, invece perfettamente alla portata di chiunque, subisce un forte rimosso che indurisce lo stato, direi fortemente stazionario, delle cose. Quasi una rivincita per la teoria di Hoyle.

Il Big Bang a scuola

La negazione del prima non è solo un problema di Lila. È anche un problema di noi insegnanti. Quando entriamo in classe a settembre possono accadere due situazioni: 1) è la prima volta che vediamo quella classe; 2) abbiamo visto l’ultima volta quella classe all’inizio di giugno. Partiamo dal caso 1), quello che conosco meglio in quanto precario alla secondaria di secondo grado. In questo caso io imparo a conoscere delle nuove persone, di cui non so nulla veramente della loro vita scolastica e neanche del loro essere umani ogni giorno. Questo prima non è mai davvero oggetto di riflessione didattica. Chi entra in classe, davanti allə prof, deve essere solo pronto per il dopo: non è contemplato avere avuto una vita fino a quel momento.

In sostanza, ogni giorno di scuola è un Big Bang: ogni giorno si creano nuove condizioni di partenza per affrontare l’evoluzione dei giorni successivi. È quello che è successo prima? Come nella teoria del Big Bang, il prima non può più influenzare il dopo. Frasi come “Prof, ma io ho studiato…e tanto!” non hanno alcun potere di influenza se alla verifica hai preso 4. Perché quel votaccio è il nuovo Big Bang. E così noi prof ci dimentichiamo anche che, anche con le migliori intenzioni, ogni mattina, quando entriamo in classe, non sappiamo nulla di ciò che è successo il pomeriggio precedente alle persone che abbiamo davanti e che ogni giorno crescono e scoprono il mondo: tutto il focus è sulla “lezione”. Per la scuola del Big Bang tutto questo non importa: ogni mattina riparte il tempo della lezione, non importa più il prima. Anche nel caso 2) il prima viene trascurato. In questo caso si trascura tutta l’estate, tutte l’incredibile varietà di emozioni, sensazioni, nel bene e nel male, che possono aver sperimentato durante la stagione senza scuola. A settembre si riparte: Big Bang!

Eppure i rapporti, le relazioni, i corpi, tutto ciò ha un prima che non può essere trascurato quando si entra in aula. Georges Lemaitre sarebbe fiero di noi che ogni giorno, pur senza magari avere troppe conoscenze di astrofisica, mettiamo in pratica ciò che dice la teoria del Big Bang: c’è un sempre un nuovo inizio e quell’istante non conosce un istante precedente.

Naturalmente qui non sto facendo un discorso contro chi insegna. È chiaro che noi prof ce la mettiamo veramente tutta per andare contro il Big Bang scolastico. Ma la scuola sembra essere stata plasmata proprio per creare dei continui Big Bang: a volte è solo l’estate, si cresce, si cambia; a volte sono lə docenti che cambiano, perché precariə; a volte cambia la scuola, a volte il grado, a volte lə compagnə di classe. Tutti eventi che invece di essere visti come un flusso temporale di eventi connessi, la scuola e la società ci abituano a vedere sempre e solo come “nuovi inizi”, come tanti piccoli Big Bang, appunto.

Un triste esempio: il genocidio palestinese

Perché il prima ha sempre un suo importante peso specifico. Non solo nel nostro piccolo della scuola, ma anche in un contesto più ampio, nel contesto della Storia. L’umanità deve sempre fare i conti con il prima, anche quando decide, coscientemente, di rimuoverlo. Un caso eclatante e recente di questa rimozione collettiva è avvenuto con la questione palestinese, dove una narrazione capziosa e prettamente coloniale, ha deciso di fissare l’inizio di tutti i guai al 7 ottobre 2023.

Ovviamente sappiamo tuttə benissimo che esiste un prima fondamentale nella questione palestinese, un contesto temporale fondamentale per comprendere che in questa storia c’è sempre stato un solo popolo oppresso, quello palestinese; un prima che viene rimosso proprio come, per certi versi, fanno gli abitanti del rione ne L’amica geniale; un prima che, invece, Lila cerca di far emergere perché ritiene necessario per innescare un cambiamento dello stato delle cose. Invece, nel caso della questione palestinese, la narrazione coloniale ha deciso di usare un surrogato della teoria del Big Bang e far nascere tutti i problemi il 7 ottobre 2023, dimenticando ciò che è stato prima e molto prima, dimenticando l’occupazione illegale israeliana e il regime di apartheid a cui è sottoposto il popolo palestinese da decenni.

E la scelta di usare un Big Bang, dimenticando il prima, di volta in volta nel corso degli anni, ci ha reso e ci rende sempre più complici di quello che è un vero e proprio genocidio in atto in diretta sui nostri smartphone.

Avere tempo per un nuovo tempo

La teoria del Big Bang è una teoria che prova a descrivere come funziona ed evolve tutto l’universo. Questa teoria, almeno per come è fatta ora, ci impone di farci domande sul concetto di tempo. Molto più precisamente, l’esistenza di un istante iniziale sembra a noi inconcepibile: l’idea di un Universo che non sia sempre esistito ci mette a profondo disagio. Eppure, incredibilmente, quando parliamo di fatti più umani non esitiamo a dimenticarci di ciò che accaduto prima. Decidiamo, proprio come fa l’Universo a nostra insaputa, di fissare arbitrari punti di partenza come ci fa più comodo, nelle relazioni, a scuola, persino nella Storia, sensibile più di ogni altro contesto alla scelta di inizi arbitrari.

Nei fatti, ciò che fa la teoria del Big Bang è farci riflettere sul concetto stesso di tempo nella sua versione antropocentrica. L’esperienza umana, a qualsiasi livello, è costellata di prima e dopo, causa ed effetto senza soluzione di continuità e in modo estramemente complesso.

In questo senso, assurdo che – per quanto ne sappiamo oggi – l’Universo stesso abbia un arbitrario istante iniziale ci spiazza e ci ricorda che, per quanto tendiamo in tutti i modi di curvare il flusso temporale dei fatti sul nostro pianeta, in realtà siamo solo figliə impotenti del tempo che scorre. Non solo dobbiamo riflettere sul concetto di tempo e tener conto del prima, ma forse dovremmo anche iniziare finalmente a immaginare come coltivare rapporti, tra persone e tra popoli, dove non esiste la necessità di fissare un punto di inizio che azzera il prima, ma che siano capaci di inserirsi in un flusso temporale in cui il passato agisce in ogni istante.

Anche in questo dovremmo imparare dall’Universo: perché nonostante esso contenga un istante iniziale insormontabile, tuttavia tutto ciò che vediamo oggi manifesta un profondo legame evolutivo con il suo passato. Tutto il contrario di ciò che facciamo noi, purtroppo continuamente proiettati a decostruire il passato al fine di dimenticarlo, nelle relazioni, a scuola, nella Storia.

 
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from ...ma di' soltanto una parola.

Una premessa doverosa.

Dato che qualcuno potrebbe anche incappare in quanto scrivo, meglio precisare che:

1) scrivo per me, per una necessità di “mettere ordine”.

2) scrivo delle mie esperienze personali nella ricerca della fede.

3) scrivo di teologia perché mi appassiona. Precisamente scriverò dei miei studi di teologia.

Quindi: non desidero mettermi in cattedra, diffondere verità assolute o insegnare niente a nessuno, ma se vorrete parlare con me di ciò che scrivo, ne sarò immensamente felice.

Due note su di me: 56 anni, collaboratrice scolastica, diplomata in Ragioneria. Neanche una parola di inglese. Rapporto tumultuoso con la tecnologia. A dire poco...

Visto: lo dicevo che non bisogna prendermi sul serio! :–)

Un abbraccio al mondo.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Per la prima volta mi servo di questo blog per mettere in ordine fatti puramente miei personali, senza pretesa di estrapolarne ramificazioni sistemiche.

Ieri con l'associazione ludica cui partecipo abbiamo svolto qui a Milano (o meglio, nel verde sobborgo di Cologno Monzese) la quinta LudiCon, una due giorni di partite a giochi di società auto-organizzata e autogestita, e per la prima volta ci abbiamo pure inserito una conferenza divulgativa di game design (quando sarà disponibile in streaming, inserirò qui il link). Ne sono uscito assai soddisfatto, giacché nel corso della convention mi sono goduto quattro appaganti partite ad altrettanti giochi di ruolo:

  • Il quarto collaudo di Sogni di Luce e Tenebra, un mio pacchetto di regole aggiuntivo per Archipelago, grazie al quale giocare le atmosfere dei romanzi dark fantasy di Tanith Lee. Finalmente il nucleo centrale del pacchetto è pronto e funzionante e posso pensare di espanderlo un po' e predisporne la pubblicazione.
  • Una partita a Dawn of the Orcs in lingua inglese, perché facilitava il gioco una coppia italo-yankee, al termine della quale abbiamo dissezionato assieme tutto il potenziale lasciato inespresso da un design approssimativo e poco sistematico... e dopodiché la cosa è spontaneamente escalata in uno scambio di considerazioni sulla didattica e la letteratura di genere.
  • Poche settimane dopo essermi rigiocato il mio amato Lady Balckbird dal ciclo dei Tales from the Wild Blue Yonder, finalmente ho provato il gioco prequel Lord Scurlock... e ho recitato un androide elettroplasmico in lite di eredità con la sorella strega e il fratello pirata dei cieli. È stato estremamente appagante infilare tutto il mio autismo nel povero robot “socialmente inetto” in mezzo alle cospirazioni da “umani normali”.
  • In totale improvvisata, ho rispolverato Microfiction (la casa editrice ha chiuso ma è ancora reperibile qui), un titolo di cui sono stato playtester e conosco come le mie tasche ma non proponevo da tempo, e ne abbiamo ricavato una miniserie sword & sorcery all'insegna del trash, con ampie ed estese parodie (se non proprio satire?) di quella cinemtografia pop anni Ottanta che piace fin troppo ai millenial conservatori.

E alle quattro partite, aggiungiamo infinite chiacchiere inerenti lo stato del design del medium GDR ad oggi; la possibilità di tassonomizzare i giochi di ruolo fra giochi OSR e “giochi non OSR e quindi per persone finocchie” (spoiler: fa ridere perché la sottocultura OSR è spaccata fra uomini GenX reazionari e donne transgenere neurodivergenti); le disfunzioni di un'accademia che si finge progressista come specchio per allodole per nascondere la sua piena adesione al capitalismo; la discreta qualità hardware della Nintendo Switch 1 Lite; la socializzazione con una conoscente (via via sempre più amica) che condivide con me neurodivergenza e gusti ludici; gli aggiornamenti sui casi della vita di persone che non incrociavo da anni (menzione speciale alla conoscente che ha iniziato la terapia ormonale per la transizione di genere ed è raggiante di “seconda pubertà” estrogenica <3 ).

E qui viene il momento bello, il momento in cui ho fatto un bilancio. Durante questa convention, ho riso come un matto davanti alle affettuose imitazioni caricaturali che un conoscente (via via sempre più un amico) fa dei miei manierismi più astrusi, per poi abbracciarmi; persone nuove mi hanno definito estremamente interessante, grazie alle riflessioni e ai contenuti che ho portato nella conversazione; ho partecipato a ragionamenti sofisticati di analisi del design, dissezionando regolamenti e l'interazione fra le loro parti mobili, proprio come da novellino vedevo fare agli “anziani”; e soprattutto, durante l'ultima cena mi sono seduto spalla a spalla con un pischello del 2004 che si è trovato ad assimiliare aneddoti e ritualità condivise da tutta la comitiva, risalenti, in alcuni casi, addirittura a 15 anni fa... e in alcuni di questi aneddoti appariva pure il me ventenne appena entrato nel giro.

Insomma, la cosa più bella che mi porto a casa da queste giornate è la sensazione di volere molto bene al me stesso ventenne, che per dieci anni ha abitato l'ambiente ludico con tante gaffe, tanti incespichi, tanti buchi nell'acqua, tante fasi alterne, ma sempre con umiltà, curiosità e propositività (e questo voglio riconoscermelo): ho seminato bene per dieci anni, e ora mi porto a casa un bel raccolto, a distanza di un mese e mezzo circa dal mio trentesimo compleanno, un trentesimo compleanno che mi vedrà dotato di contratto indeterminato e casa di proprietà, in un territorio che amo e dove sto cercando di seminare bene, ieri come oggi. Se ripenso al me stesso timido e impacciato e spesso insicuro del tardo 2015-inizio 2016, non posso che essere fiero di lui e della strada che ha fatto, negli hobby culturali come nella militanza sociale (che poi per me si intrecciano assieme nella Controcultura con la maiuscola, e formano un tutt'uno).

Per altro, proprio in quegli anni tre mie canzoni del cuore erano, in ordine di pubblicazione, “It's Time” (Imagine Dragons), “Wake Me Up” (Aloe Blacc) e “Top of the World” (Greek Fire): tre canzoni scoperte in quanto colonne sonore ufficiali o ufficiose di film e cartoni animati del periodo, in particolare La leggenda di Korra e Noi siamo infinito; tre canzoni che parlano della transizione da una fase a un'altra, della malinconia di abbandonare ciò che è noto e confortevole, dell'energia positivamente strafottente di gettarsi nelle nuove sfide, dell'irrequietezza languorosa di barcamenarsi in un equilibrio nuovo, della determinazione di non abbandonare né il passato che ci ha dato forma né i sogni prescelti come bussola del proprio futuro... tre canzoni che inserii in una playlist per il mio partner di fine università (nonché mia prima relazione romantica), il quale mi pronosticò un bel futuro, una volta diventato wiser and older (citando “Wake Me Up”). Ora che i primi capelli grigi mi sono arrivati, e sono stato definito “un saggio della montagna” e “un ottimo cartomante”, mi permetto di riconoscermi che un pezzo del viaggio bello denso di cose l'ho completato con successo, arricchendo la comunità attorno a me, e posso iniziare la nuova fase citando un'altra canzone del cuore di dieci anni fa: “Go ahead and tell everybody I'm the man. Yes, I am.”

 
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from Warp

Ciao Livello Segreto, buondì. In queste torride giornate abbiamo pensato bene di tirar fuori un argomento in grado di sollazzare al meglio i nostri freschi cervelli: come gestire i contenuti fatti in AI nel nostro angolo di Fediverso.

Aldilà di quella che è stata poi la decisione presa ci tengo a sottolineare come sia estremamente felice e soddisfatto di questo thread: https://livellosegreto.it/@ed/114879077658852032

Non tanto per la posizione delle risposte (beh, un po' sì a dirla tutta), ma soprattutto per il fatto che fossero motivate e con spunti interessantissimi.

Però sì, dai, va detto che si gongola un po' quando in occasioni come queste ci si rende conto che forse un posto popolato da persone con idee e ideali simili siamo riusciti tutt3 insieme a tirarlo in piedi.

Andiamo al sodo.

I contenuti generati con AI non sono in linea con i valori attorno a cui è nato Livello Segreto e vi invitiamo a non postarli.

Questo non significa che chi li pubblica verrà bannato per direttissima, ma che: 1. si scoraggiano le persone a pubblicare qualcosa di simile (lo spazio sul server non è infinito e preferiamo che venga usato per cose umane che da AI) 2. se proprio dovete pubblicare qualcosa di simile (per far passare un punto o per mostrare qualcosa) usate il CW. 3. ci riserviamo di richiedere la rimozione di eventuali contenuti simili qualora lo ritenessimo sensato (lato admin/mod, ma anche lato comunitario: i report funzionano e vi invitiamo nuovamente ad usarli)

I discorsi sull'AI vanno benissimo – anche senza CW –, ma vi chiediamo di usare gli hashtag #ai e #ia così da permettere a chi volesse di silenziarli preventivamente.

È tutto, ora possiamo tornare a parlare di quanto sia bello fare il bagno in un laghetto fresco (o almeno pensarci così da avere un po' di frescura nel cervello).

Dubbi, domande o perplessità: scriveteci. Ed & Kenobit

 
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from Super Relax


Sono tornato da poco da un'uscita infrasettimanale in super relax, di quelle che mi si addicono e che vorrei moltiplicare.
Un'uscita con poche decine di metri di dislivello, al passo spedito di noi ciclisti di poche pretese alle prese con pianure deserte: 25 km/h di media e ci sembra di volare, tutta la velocità in più è in eccesso.

Il giorno non è ancora rovente, siamo sui 28°, non soffia più che un venticello esile, ma la brezza artificiale della pedalata è gradevole; mezzi a motore pochi e ben distanziati tra loro. Gli unici suoni, per lunghi tratti, sono quelli della bicicletta, a cui ci si abitua dopo poche uscite, e quelli che non smettono mai di rapire gli amanti della natura: il canto degli uccelli, le cicale quasi impossibili da vedere, solitamente, ma impossibili da ignorare.

E si va, sciolti e tranquilli, fino a cadere in una sorta di leggera beatitudine, la mente è finalmente libera dalle ossessioni e dalle preoccupazioni del quotidiano, i pedali sembrano non offrire resistenza, ci si sente come cullati da un pianeta fatto su misura, temporaneamente in un mondo simile al nostro ma mondato dai pesi, dalle brutture e dalla necessità della vita.

Certo, temporaneamente, ma meglio che mai.

 
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from kipple


La fortuna non esiste, è un modo che non mi appartiene di riferirsi al caso benigno. Un tiro di dadi favorevole, un'azione meccanica da cui scaturisce un risultato casuale. I dadi hanno deciso che non avessi idoli di alcun tipo, risparmiandomi parecchie delusioni. L'idolo, specie finché è ancora in vita, può far sempre in tempo a tradirsi (e tradirti).

Mio padre mi voleva bene, molto; anch'io gli volevo bene, molto, ma erano quei sentimenti che non si incontrano, si sfiorano, cercano di avvicinarsi e poi sfuggono vicendevolmente, camminano paralleli come due rette geometriche, separati da infiniti punti, infinite rette.

Era un uomo del Sud, degli anni Quaranta, nato, cresciuto e vissuto in determinati quartieri, con la scolarizzazione di uno che ha iniziato a lavorare poco più che bambino. Un'identità facile da inquadrare, ampiamente rappresentata. Io, invece, nella mia famiglia sono sempre stato un corpo estraneo. Non c'era nessun motivo, nessuna possibilità per cui tra noi le cose potessero funzionare più di tanto, la frattura si allargava con gli anni. Non c'era dialogo, non essendoci nulla su cui poter dialogare. Non c'era neanche voglia e possibilità di confronto e discussione, essendo le posizioni di partenza così distanti, inconciliabili, irremovibili. Non c'era nulla da mercanteggiare.

Come tutti, ha commesso degli errori, ma un paio almeno così grandi da negarmi la vita che avrei voluto. Non ha mai voluto investire niente su di me: lo so che è un'immagine brutta quanto il concetto stesso, ma viviamo nel capitalismo e determinate cose funzionano in un determinato modo. Ancora, non ha voluto lasciare Napoli e provincia, landa marcescente, quando ne avevamo la possibilità. Scelte che mi hanno fatto sentire privato della speranza e del futuro, probabilmente operate nel nome della famiglia in senso ampio, quando avrebbe dovuto limitarsi alla sua, di famiglia.

Nonostante tutto ci volevamo bene, però, alla nostra maniera e nelle sue ultime settimane ci siamo riavvicinati per quanto possibile, perché certe situazioni fanno riflettere sulle priorità e l'importanza delle cose.

Certi elementi di cultura popolare erano le uniche cose che avessero il potere di avvicinare, temporaneamente, fugacemente quelle rette. I fumetti del trio EsseGesse (Il Grande Blek, Il Comandante Mark, Capitan Miki), Tex, le storie esotiche di Sergio Toppi, Corto Maltese. I western di Sergio Leone, Il mio nome è Nessuno. Certi episodi, probabilmente produzioni mitteleuropee, che passavano in RAI, narrazioni più o meno fiabesche di cavalieri e nobili in boschi scuri, inghiottiti dalla nebbia. La domenica mattina, era quella la programmazione, mentre mia mamma faceva le faccende di casa, andavo a piazzarmi sul lettone e le guardavamo insieme, poi ci si preparava per uscire. Ero ancora abbastanza piccolo da uscire con loro, la domenica mattina.

Il legame più forte e duraturo di tutti, però, è stato Stephen King. Tutto è iniziato in un supermercato in provincia di Arezzo, quindi sullo scaffare dei libri di un qualche punto Coop. La chiamata dei tre: questo è il libro che mi cattura, sarà stata la copertina, il titolo, quello stile grafico che poi sarebbe diventato familiare.

Copertina di un libro con una sorta di tramono e quattro soggetti umani, un pistolero, due soggetti maschili di età differenti e una donna su una sedia a rotelle. A grandi lettere, il testo Stephen King e La chiamata dei tre.

Non sapevo si trattasse del secondo della serie, non era importante. Poi mi procurai il primo e tutti quelli usciti successivamente. Probabilmente, l'unica cosa che abbia mai atteso con relativa impazienza, in ambito intrattenimento, era il nuovo libro della serie. Comunque, visto che c'ero, mi appassionai alle storie di Stephen King, ai suoi mondi, alla sua narrazione, recuperando praticamente tutti i suoi libri fino a una certa data, su quelli recenti non sono ferrato. Anche mio padre ne divenne un avido lettore e vederlo con quei libri in mano, anche prima che li leggessi io, era un modo per sentirsi più vicini. Almeno per me, non so lui cosa provasse a parti invertite.

Poi, un giorno, in rete si inizia a parlare di Stranger Things: non me ne importa nulla di essere sempre sul pezzo, quindi lasciai perdere per qualche tempo, poi mi procurai la serie. Sì, sappiamo tutti che è una serie furba, facilona, derivativa, eccetera. Come i film di Tarantino, non sarebbe esistita senza aver potuto attingere a una mole considerevole di materiale precedente, non sarebbe esistita senza la musica e l'estetica degli anni Ottanta, non sarebbe esistita, in primo luogo, senza le migliaia di pagine di Stephen King. Anche le migliaia di pagine di Stephen King vengono da altre decine di migliaia di pagine.
Faccio in modo che mio padre possa vederla, un altro modo per sentirsi più vicini. La apprezza e molto, non avevo dubbi. È lui il primo a vedere la stagione successiva, appena disponibile.

Esce la terza stagione, la divora e poi mi fa “quando escono le altre puntate?”. Non ho modo di saperlo con precisione, lui stava ancora relativamente bene (per quanto possa stare bene una persona che ha ricevuto quel tipo di condanna a morte) e quindi posso dirgli, senza che mi si bagnino gli occhi, che la vedrà appena uscita. Non la vedrà mai, la malattia non gliene ha dato il tempo. Non l'avrebbe vista comunque, perché il cortisone, tra le decine di medicinali che doveva assumere, gli aveva ormai opacizzato la vista, non penso distinguesse più che ombre.

Non ho voluto vedere le puntate successive, son rimasto anch'io allo stesso punto. Non le vedrò mai. E, sapete una cosa? Mi ero ripromesso di leggere l'ultimo libro, La Torre Nera, proprio come il titolo della saga, solo quando sarebbe stato meglio. Avrei voluto leggere quella conclusione col cuore più leggero, conservarla come una bottiglia pregiata per le grandi occasioni, ma la morte è arrivata prima e ho deciso così. Non lo leggerò mai.

 
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from ordinariafollia

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Fa rima con cuore oppure rispetto fa riva con tavolo oppure con tetto fa rima con casa al mare ma la parola non la voglio trovare.

Mille cagnare duemila bestemmie per me sono pregi, per te son difetti finché non ci portano vino e spaghetti.

Fa rima con potere oppure dovere ma puzza come il buco del sedere fa rima con essere oppure con dare ma sta parola non la voglio cercare.

Per me oggi è nero, per te è sempre bianco allora mille cagnare settanta volte sette bestemmie finché io lo sopporto e tu non sei stanco.

Fa rima con capisci tutto tu fa rima con c'era una volta e or non c'è più fa rima con Achille vestito da sposa ma non è importante, pa'... adesso riposa.

 
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from Signor Uscita

Penso capiti a tutti di affezionarsi a qualcosa. Può capitare di affezionarsi anche alla propria identità.

Non ho in generale una buona memoria, ma ricordo con chiarezza il momento in cui scelsi il mio primo “nickname” per la mia prima email. Parliamo di un’epoca ben diversa quando i computer andavano a pedali e non si trovavano molti altri utenti online.

Mi ci affezionai. Solo recentemente mi son reso conto quanto possa essere liberatorio e rinvigorente cambiare nome, anche solo temporaneamente. Offre una visione da un altra prospettiva, un altro angolo.

È l’equivalente di quel signor Marco Rossi che per gli amici si fa chiamare Franco (storia vera).

[…]

 
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from Ore liete


Delle mie esperienze con lo skatebobard, in estate e lontano da casa, ne ho parlato qui. Del tennis, invece, ne scrivo adesso e anticipo che racchetta e skateboard trovano un punto di contatto nel punto di contatto tra il mio coccige e una superficie più o meno piatta, ma indiscutibilmente solida: sì, sono caduto, anche stavolta pesantemente, con una racchetta in mano mentre stavamo in villeggiatura e questo è il succo di questo articolo, che continuo per chi fosse ancora interessato.

Stavolta, la casa era a Castello del Matese, località in cui abbiamo villeggiato una sola volta, e quell'anno avevamo la compagnia dei miei zii dalla Toscana. Noi salivamo di poco, loro scendevano di parecchio e ci incontravamo in questo piccolo paese tra Piedimonte (Matese) e San Gregorio (Matese). Il Matese è un'area geografica, fatta di monti e valli, a cavallo tra la Campania e il Molise e i nomi di molte località incorporano questa dicitura, subentrata quasi sempre a “d'Alife”. Piedimonte è in collina, 300 metri più su c'è Castello e salendo per altri 300 metri, circa, si arriva a San Gregorio. Ci eravamo fermati nel mezzo, quell'anno.

Vista dall'alto di un borgo di montagna, con un castello visibile al centro, edificato su un rilievo pianeggiante posto tra più alti monti boscosi

La casetta affittata dai miei zii era più moderna, per quanto potesse esserlo in un paesino di montagna più di trenta anni fa. Ricordo gli infissi in alluminio, almeno: la nostra, di sicuro, non ce li aveva. Era una tipica casetta da borgo, di quelle non vissute dai proprietari e che quindi sono rifinite un po' sì e un po' no, più no che sì. Muri intonacati senza troppa convinzione, pavimenti decisamente antichi, bagno al piano di sopra a cui si accedeva, se non ricordo male, passando da un balcone. Gli elementi della abitazioni tendono a diventare a incastro, in certe situazioni. E la scala che portava al piano di sopra: una dei protagonisti del racconto, che era di gradini di cemento grezzo, probabilmente neanche troppo regolari in alzata e pedata, come se servissero a ostacolare l'avanzata di eventuali aggressori dal piano basso che volessero conquistare il bagno (senza doccia e senza vasca, ci lavavamo in una capiente tinozza) o le stanze da letto. Ah, dimenticavo: da una porticina a piano terra, fatta di una intelaiatura approssimativa di legno, vetro e spifferi, si accedeva a un orticello interno, incastrato nello spazio lasciato dalle case incastrate tra loro. I proprietari ci chiesero di evitarlo, possibilmente, cosa che facemmo. Chissà, forse vi passeggiava un fantasma, fatto sta che quella stanza era molto più tetra del resto della casa.

Con noi, c'erano i nostri due uccellini, una canarina e un verdone, che ci portavamo sempre dietro in villeggiatura, mica potevamo lasciarli a casa. Ogni estate, caricavamo la 127, quella col motore da 900 cm³ e tre porte, ci entravamo in quattro più la gabbia e partivamo. Inconcepibile, attualmente: senza un 3.000 diesel, da tre tonnellate, non si fanno fare neanche le scuole dell'obbligo ai figli, neanche se per arrivarci basta attraversare la strada.

Ma la racchetta? Eccola. Per qualche motivo, come se poi potessi giocarci da solo, come se la 127 non fosse già abbastanza stracolma del necessario (tra cui noi e i nostri uccellini), mi ero portato dietro questo racchettone dei tempi di Nicola Pietrangeli, bastava impugnarlo e ci si sentiva subito un po' Fantozzi. Una notte, dalla stanza tetra arrivarono dei rumori. Sarà stata la semioscurità che l'avvolgeva anche nelle ore di sole, saranno state quelle scale quasi medievali, quell'ambiente colpiva la fantasia (fertile) di un ragazzetto. E questa fantasia era sollecitata nelle ore di luce, ma quella notte, svegliatomi di soprassalto e solo parzialmente, avevo immaginato una cosa molto più terrena e pratica di un fantasma che si divertisse a turbare il sonno dei giusti: poteva essere un gatto, entrato da spiragli che solo loro conoscono e possono praticare, venuto a mangiarsi i nostri uccellini!

Passai da uno stato di sonno profondo a uno di dormiveglia, accesi una luce e afferrai il racchettone, pesante di suo come se fosse stato di pietra, non so in quale ordine, per poi lanciarmi per le scale, brandendolo come mazza chiodata, scivolando su uno dei gradini, battendo (ancora) il coccige al suolo con frastuono sismico, fermandomi un paio di gradini più in basso, abbastanza naturalmente anestetizzato da non sentire subito il dolore, ma abbastanza sveglio da capire che il nemico era stato messo in fuga prima di poter fare danni. In realtà, non sapemmo mai se davvero ci avesse fatto visita un gatto, quella notte. Anche quell'anno, la gabbia tornò a casa intatta, coi suoi occupanti illesi, in un giorno di inizio settembre.

La racchetta la usai come tale una sola volta, ci giocai con mia cugina su un campetto affittato per un'ora. In realtà, non potrei affermare con certezza di averci giocato, di sicuro i nostri vicini di campo passarono un'oretta d'inferno: noi lanciavamo costantemente e involontariamente le nostre palline nel loro campo di gioco e loro, gentilmente, ce le rimandavano per tutto il tempo, senza un fiato o una smorfia.

Questo è il vero spirito del tennis, non fare i milioni e pagarci ben misere tasse in un paradiso fiscale, azzardando un italiano da dizionario tascabile.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Premessa linguistica: in questo articolo userò le parole “froci-”, “ricchion-”, “invertit-” e affini come insulti riappropriati, cioè termini derogatori che io ribalto in termini di auto-elogio, per rimarcare la mia anormalità di persona non eterosessuale rispetto a una “normalità” che rifiuto in quanto malsana. In questo senso, si tratta dell'adattamento italiano del vocabolo inglese queer, che ha dietro lo stesso identico etimo.

Un lunedì mattina come tanti

Da quando mi sono trasferito dalla Brianza a Milano (o dovrei dire “da quando sono emigrato”? A volte me lo chiedo), ho iniziato a fare attività sociale e politica, e nelle ultime tre settimane circa ho contribuito con il mio pezzettino a far succedere un progetto cui tenevo tantissimo: la Marciona di Milano, ovverosia il corteo dell'orgoglio ricchione auto-organizzato dai gruppi politici froci di sinistra, in opposizione aperta a un Pride comunale che ormai è diventato un mega-evento turistico di pubblicità per grandi aziende, totalmente svuotato del suo significato politico di anniversario dei Moti di Stonewall del '69.

Nota storica breve: sì i Pride commemorano un tumulto in cui persone frocie newyorkesi (per lo più transgenere e per lo più afroamericane e latinoamericane) riempirono di botte la polizia e pretesero la decriminalizzazione delle identità queer (represse in quanto malattie mentali e crimini contro il decoro), nel quadro più ampio del movimento del '68, e collegandosi direttamente alle mobilitazioni contro la Guerra del Vietnam e a quelle per la desegregazione della popolazione nera. Di fatto, queste manifestazioni sono un po' il corteo del Primo Maggio specifico per noi ricchioni, e se non lo sapevate, è ulteriore indice che troppi Pride moderni fanno pena.

Non starò qui a commentare l'esito della Marciona (quello spetta a tutta la rete usando il nostro blog... appena lo rimettiamo in sesto), bensì ne farò una lente di analisi per un fatto curiosissimo che mi è successo stamane. Alcuni mesi fa, su consiglio di una mia amica (ricchiona anche lei) che si interessa di scienze sociali, mi sono iscritto alla newsletter «Ciclostyle», in cui l'antropologa culturale Carolina Boldoni e il giornalista/formatore Enrico Di Palma commentano fatti vari ed eventuali attraverso le rispettive lenti di analisi, e nel numero di stamane Boldoni ha dato una restituzione del campeggio di formazione antropologica che ha tenuto nei giorni scorsi. Raccomando di sfogliare la newsletter qui e poi tornare qua per sentirmi fare il puntacazzista comunistone.

Gioire perché la montagna ha partorito un topolino

A quanto pare, Boldoni considera un successo il suo antropocamp (ovviamente indicato con anglicismo) perché 8 partecipanti hanno imparato a fare vita comunitaria attraverso la condivisione del lavoro domestico, ivi compreso quello in cucina, e grazie alla buona fede reciproca necessaria per costruire legami di condivisione senza filtri e senza pressioni. 8 partecipanti che mi aspetto avere circa la mia età e il mio status sociale di “alto proletario-piccolo borghese” (considerando l'utenza cui si rivolge il progetto Ciclostyle), e che hanno scelto di pagarsi una vacanza didattica organizzata apposta per imparare... che non sono persone asociali in toto, bensì gli mancava l'educazione affettiva minima per saper selezionare le proprie frequentazioni e costruire legami autentici.

Confesso che questa newsletter mi ha dato la stessa sensazione di quando parlo di giochi di ruolo e vedo la gente in estasi perché per anni ha giocato unicamente a Dungeons & Dragons o qualche sua derivazione e ha appena scoperto che esistono GDR

  • Di ambientazione non high fantasy e/o
  • Meno complessi meccanicamente di un wargame vecchio stampo e/o
  • Che non richiedono 3 ore di preparazione preliminare per ogni ora di gioco effettivo

In casi simili, la mia reazione di pancia sarebbe sempre di sottoporre queste persone a una terapia d'urto per allargare i loro schemi preconcetti da 0 a 1000 – ad esempio proponendo loro un gioco monosessione totalmente dialogico e di ambientazione realistica contemporanea (tipo Alice è scomparsa); tendenzialmente poi mi trattengo, ma ne parlerò in un altro momento.

Al momento, mi interessa evidenziare che la clientela di Boldoni (e, presumo, Di Palma?) è come il giocatore di ruolo insoddisfatto medio: gente che per anni si è torturata a scegliere un'opzione sbagliata per sé, credendo che non ci fosse una vera scelta bensì un'unica strada possibile, ha appena fatto un passettino per capire meglio la vastità del mondo, e ora suona la fanfara del trionfo come se avesse raggiunto il Nirvana. Non so mai se provare pietà per gli anni che queste persone hanno sprecato e che non riavranno mai indietro, o piuttosto schernirle per la sicumera con cui sopravvalutano il proprio primo passo in un percorso che sarà lungo e complesso e richiederà tanta umiltà e curiosità. O ancora, se indirizzare un po' di disprezzo verso chi capitalizza sull'ignoranza altrui, abbandonando la deontologia dell'insegnante ed entrando nel linguaggio disfunzionale del guru.

Abbiamo svenduto l'educazione affettiva

Io non conosco personalmente Boldoni (né Di Palma), non ero al suo antropocamp, e non posso certo giudicare lo sforzo organizzativo messo nel progetto né l'impatto concreto sulle vite delle 8 persone partecipanti. Però conosco benissimo la sensazione di essere “sbagliato” per la comunità circostante e incapace di inserirvisi, considerando che sono un uomo autistico e bisessuale cresciuto nella provincia lombarda in piena epoca leghista, senza uno straccio di supporto terapeutico specifico per le neurodivergenze né una rete amicale realmente progressista e attenta alle questioni femministe-finocchie (anzi, avevamo dentro un paio di trumpisti). Se non sono esploso malamente per l'intreccio fra le mie due marginalità, e tutto lo stress conseguente, è perché dai 17 anni in poi ho cercato col lanternino persone e contesti sociali che potessero essere affini al mio carattere e ai miei interessi, e mi sono preso l'accollo di scremare i (tanti) buchi nell'acqua dalle (tante) situazioni fertili: da lì è scaturita la mia passione per il gioco di ruolo e il paio di anni a fare partite “matte e disperatissime”, sia di persona sia in videoconferenza, con tante persone straordinarie che mi hanno offerto uno spazio sicuro per esprimere me stesso, rendermi vulnerabile, e imparare con errori e tentativi a compensare i miei deficit di intelligenza sociale. Ricorderò sempre il mio primo lavoretto come traduttore per Dreamlord Games, il cui direttore scelse di dare fiducia allo sbarbatello logorroico che apriva sempre discussioni tecniche sul forum ufficioso di Fate, o quella partita a Dungeon World che iniziò con me collassato per lo stress universitario e uno dei miei compagni di gioco pronto a tirarmi su di morale. O la demo di Lady Blackbird in cui conobbi la coppia, allora appena andata a convivere, che adesso ha un figliolo adorabile; o il playtest al bellissimo gioco di edu-intrattenimento Stonewall 1969, in cui imparai la storia dei Moti di Stonewall e la definizione di lotta di classe auto-organizzata.

E tornando circolarmente al punto di impartenza, è grazie a quei bellissimi anni di educazione affettiva mediata dall'hobby ludico, se a 27 anni mi sono trasferito a Milano e, come primissima cosa, ho mappato le realtà politiche che ancora cercano di portare avanti progetti di sinistra, in una città che da praticamente un decennio sta venendo massacrata per trasformarla in un luna park per milionari, e mi sono buttato a capfitto dentro quel marasma di militanza. Ho partecipato a picchetti, cortei, cene sociali, mostre d'arte e cabaret gratuiti, alla pulizia di centri sociali e alla preparazione di collette alimentari, ho composto e declamato comunicati pubblici in manifestazione e partecipato a dibattiti aperti... E soprattutto, ho stretto connessioni autentiche. Compagni e compagne con cui volevo inizialmente mantenere un rapporto puramente politico (“per non dare troppa confidenza”) sono ormai amici e amiche che considero di famiglia; persone che rispettavo mi hanno deluso allorché le ho messe davanti a una prova dei fatti, e ho saputo rivalutarle senza stracciarmi le vesti; persone di cui diffidavo hanno dimostrato più serietà e apertura di quanto pensassi, e ora sono solo contento di lottare al loro fianco; militanti che potrebbero essere i miei genitori mi raccontano volentieri, con la commozione in volto, degli amici di un tempo stroncati dai fascisti e dall'eroina; militanti che potrebbero essere mie sorelle e miei fratelli minori si interfacciano con me da pari a pari; DJ veterani della scena musicale underground mi salutano calorosamente ogni volta che ci becchiamo in manifestazione ... altre persone della rete Marciona mi invitano agli hacklab e io contraccambio invitandole alle convention di GDR (di nuovo, il cerchio si chiude e tutto sta insieme).

Dove voglio arrivare? Al fatto che io, già da ragazzo, ho saputo individuare un'idea approssimativa di chi volevo essere e l'ho perseguita e affinata col tempo; e ho avuto la fortuna di sentirmi a casa nella Controcultura, quella con la maiuscola, dove consideriamo un valore la libera autoespressione e la condivisione di saperi senza creare poteri (per citare la buon'anima del compagno Primo Moroni). Di conseguenza, ho imparato organicamente a costruire legami autentici, prendendo esempio da persone che già avevano fatto quel percorso e mi hanno guidato e consigliato, e ora sono in condizione di guidare e consigliare io chi è più giovane di me. Tutto questo, senza pagare guru che mi facciano dei workshop sul senso vero dell'esistenza. Davvero ci sta bene che le storie come la mia siano l'anomalia? Davvero vogliamo che la norma sia, invece, dover assumere un/-a guru per imparare a vivere in comunità e darsi una progettualità?

Agire l'utopia

Giusto perché le cose seguono spesso uno schema (sì sono anche neopagano, ma ne parliamo dopo), nelle ore intercorse fra la Marciona e la lettura di «Ciclostyle» avevo proseguito la mia lettura di «Un'Ambigua Utopia», bellissima fanzine di critica culturale marx/z/iana (sic!) curata fra '77 e '82 da un collettivo di nerd sinistri della prima generazione che militavano nell'Avanguardia Operia e leggevano fantascienza, i quali l'hanno riavviata a partire dal '20 come progetto della pensione. Ebbene, come da titolo la rivista si poneva e si pone il problema di uscire dalla concezione consolatoria e prescrittiva dell'utopia e passare a una concezione pragmatica di agire l'utopia nel qui e ora, e proprio iersera ho letto l'editoriale del numero 6 (Marzo/Aprile 1979), in cui la redazione fece il punto proprio su questa dialettica in ottica di problematizzazione aperta, in particolare domandandosi se possa esistere un'utopia di sinistra o se invece il concetto stesso di utopia non si colleghi intrinsecamente all'automiglioramente individuale capitalista e all'ottimizzazione della macchina statale.

Non ho potuto non collegare fra loro quell'editoriale, la newsletter, la Marciona, e il festival con corteo finale che «Un'Ambigua Utopia» organizzò a Milano nel '78 (rendicontato nel numero 4). Da un lato, c'è un capitalismo ormai così pervasivo che per tante persone della mia età vivere atomizzate ed esistere per lavorare è la norma ineluttabile, l'affiliazione politica (se c'è) non va oltre i meme, portare avanti hobby propri e viverli come fortemente identitari è inconcepibile, e non può mancare la caccia alla relazione sentimentale (rigorosamente monogamica) come status symbol di adultità. Dall'altro lato, ci siamo ieri come oggi noi teste calde antagoniste, che ci ostiniamo a scendere in piazza agghindate da marx/z/iane e da raver, a bordo di risciò sgangherati decorati con artistici cartelli in cartone, esibendo fiere il quadricolore palestinese e la bandiera dell'orgoglio finocchio (rigorosamente la versione nuova, però), e prima durante e dopo queste manifestazioni di dissenso e di disordine costruiamo altre socialità, altre culture, altre prospettive.

Cantavano cinquant'anni fa i cori di Lotta Continua:

La scuola dei padroni non funziona più ma solo come base rossa; la cultura dei borghesi non ci frega più, l'abbiamo messa nella fossa.

Canta oggi Carenza503, rapper torinese con cui ho l'onore di militare:

Sogno con te solo di stare bene. Sembra banale ma è radicale: la forma più pura dell'anarchia che ci potesse mai capitare.

Mi pare che la sostanza sia sempre quella. Non abbiamo, al momento, le condizioni materiali per ribaltare il sistema, ma abbiamo le possibilità di costruire delle alternative interstiziali, e il dovere morale di tirarci dentro più persone che possiamo, senza farle intortare da una falsa alternativa erogata dal capitalismo. Perché l'utopia non verrà domani: l'utopia è oggi, giorno dopo giorno, in ogni istante di vita degna e autentica che riusciamo a mettere insieme, costruendolo assieme. E questa, per me, è la base vera del socialismo libertario.

Per il comunismo e per la frocità, riprendiamoci la città.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Io e il Mondo di Tenebra

Per essere un nerdacchione zillenial, sono un po' atipico: giocare di ruolo al tavolo e dal vivo mi piace tantissimo, ma il mio imprinting ludico è stato praticamente subito con quelli che io chiamo i “GDR d'essai per zecche finocchie”, partendo da Dungeon World e poi escalando sempre più verso Trollbabe, Archipelago, e i LARP di gangster inetti che dissanguano in macchina o di famiglie che esplodono per i non-detti. Rispetto alla media ho giocato poco a Dungeons & Dragons (spizzichi e bocconi di 3.5 e di 5), ma ancora meno al Mondo di Tenebra: un'unica partita atroce a Vampire: The Masquerade quando avevo 18 anni, ovviamente storpiato in un Grand Theft Auto: Vampire City nel quale una banda di ganster vampiri compivano atti di vandalismo aleatorio grazie ai POTERI MAGGGICI. Era da almeno 10 anni, però, che volevo rifarmi la bocca con i miei amici di buon gusto presibbene o con Vampire e Werewolf, o con Mage e Demon, ma alla fin fine la nuova occasione è arrivata adesso, grazie a un diverso amico di buon gusto (molto più recente!) che mi ha proposto una sua hack di Mage: The Awakening.

Logo di *Mage: The Awakening*

Giocare a meccaniche coperte

Non intendo parlare troppo della regole “parametriche”, perché il mio amico (persona dai molti nomi, io fra i vari uso Shaggy) ha fatto un lavoro egregio di sfrondamento e razionalizzazione delle meccaniche, ed è giusto che lo commenti lui un domani. Mi sento solo di esporre che ha ottimizzato la struttura del Nuovo Mondo di Tenebra prendendo spunto dal filone di design che da The Pool ha prodotto direttamente The Shadow of Yesterday e Fate, è deviato indirettamente sui Powered by the Apocalypse e si è ricongiunto a sé stesso nei Forged in the Dark. In sostanza, risoluzione a obiettivi, sistema misto di statistiche fisse e tratti, risorse spendibili per intervenire sull'alea e ricaricabili tramite impiego di spunti narrativi; tutto liscio come l'olio. Ciò che mi ha affascinato, è che Shaggy ci tiene molto a coltivare la dimensione di “orrore personale” che dovrebbe rappresentare il cuore dell'esperienza Mondo di Tenebra, pertanto abbiamo giocato in modalità 1-a-1 e, soprattutto, a informazioni coperte: io ho iniziato il gioco creando unicamente il lato umano del mio personaggio, il comune mortale immerso in una vita mondana, e la partita introduttiva si è imperniata sul Risveglio delle facoltà magiche del protagonista (l'awakening del titolo), andando così a costituire sia un tutorial graduale delle regole sia, nella diegesi, l'esposizione del personaggio principale a un mistero numinoso e perturbante, mistero che è tale anche per me giocatore, che non conosco la cosmologia e metafisica alla base di questo mondo immaginario. Come Shaggy mi ha candidamente esplicitato, questa modalità ha senso solo alla primissima partita a Mage di una persona, perché poi la discrasia di informazioni note fra personaggio fittizio e giocatore reale la renderebbe una noia mortale senza alcun pathos, ma per parte mia l'essere un'esperienza una tantum non la rende meno degna del mio tempo; anzi, penso si tratti del primo caso in cui mi sto godendo un GDR “tradizionale” a informazioni così cospicuamente asimmetriche, perché la diegesi in cui stiamo giocando e la sua parametrizzazione si prestano molto bene allo scopo. È stato emozionante aggiungere di botto alla mia scheda personaggio le prime statistiche magiche, non sapere ancora come funzionino, e farci i primissimi esperimenti per raccapezzarmi: empatia a mille con lo sbigottimento e la curiosità del mio buon protagonista, e piena percezione del senso di ascesi gnostica che Shaggy mi ha pronosticato.

Qualche considerazione più ampia

Innanzitutto, dopo tre anni che gioco a LARP monosessione, sono abituatissimo alle schede di personaggio modulari in cui le varie parti si sbloccano col progredire della partita e forniscono nuove informazioni da portare in scena, giocando anche sulla discrasia fra ciò che io giocatore so, come decido che il mio personaggio lo vive, e cosa e come farò agire al personaggio. È però la prima volta che vedo questa dinamica applicata a un GDR cartaceo, e l'ho trovata così piacevole che spero qualche designer ci abbia pensato prima di Shaggy, auspicabilmente congegnando dei meccanismi di “temporizzazione” per cui lo sblocco delle nuove meccaniche sia drammaturgicamente sensato, e non totalmente arbitrario a discrezione del Narratore (del resto i buchi regolistici di discrezionalità, notoriamente, sono il fattore più frequente di instabilità nei giochi con Game Master). Così su due piedi non saprei certo pensare a esperienze ludiche in cui questa dinamica risulti automaticamente adatta, però non dubito che ne esistano, e di sicuro mi incuriosirebbe esperirne e metterle a confronto. In secondo luogo, mi ha parecchio sorpreso che sotto due diverse prospettive questa partita si ricolleghi a riflessioni sulla natura del GDR (o meglio, delle correnti interne al medium GDR) che ho letto di gusto di recente sul blog Taskerland scoperto grazie a quella benedizione che è Mastodon:

  • Questo articolo tratta di come i GDR, per ovvie ragioni storiche, siano quasi intrinsecamente radicati nell'immaginario delle narrative di genere, e questo rappresenti una soglia d'ingresso in più. La cosa mi tocca, perché nel comporre il mio personaggio di Mage ho cercato deliberatamente di mettere assieme un individuo lontano da me, terribilmente “Italiano medio”, quindi del tutto impreparato a livello di cultura pregressa ed immaginario ad esperire il sovrannaturale, laddove io ho come mio interesse assorbente la storia delle religioni e dell'occultismo. Lo sforzo deliberato di recitare una persona normale schiaffata in un contesto fantastico, e di farla agire senza sistematizzare il sovrannaturale in paradigmi di senso pregressi, è un esercizio stimolante.
  • A cavallo fra questo e quest'altro articolo, si tratteggia un gusto per il GDR caratteristico dell'Europa francofona alla fine del secolo scorso: il Jeux d'Ambience in cui i personaggi sono figure verisimili connotate essenzialmente dalla propria professione e status sociale, vengono posti davanti a una comunità (anche in senso lato) attraversata da tensioni, faide, complicazioni e quant'altro, e i giocatori devono fare interfacciare i personaggi con tale comunità anche nelle minuzie della vita quotiiana, tendenzialmente partecipando a un conflitto centrale di tipo giallistico. Una modalità ludica esemplata da Call of Cthulhu, non da un D&D allora irreperibile in Francia, e quindi ben antecedente l'esperienza ludica ricercata dal Mondo di Tenebra, ma ad essa accomunato da due fattori:
    • L'abitudine di nascondere ai giocatori tutte le regole di parametrizzazione, demandate unicamente al narratore, per introiettarli a giocare in modalità freeform. Che è diverso dall'emersione organica dei sistemi di regole, e secondo me meno interessante, ma presenta un'affinità concettuale di fondo.
    • La prospettiva narratologica da “romanzo borghese” in cui i personaggi giocati non sono eroi di romanzo d'avventura, più o meno fantastici e più o meno orientati alla sublimazione di fantasie di potere fanciullesche (dal pistolero spaziale al mago signore degli elementi), bensì figure umane realistiche e radicate nelle proprie comunità, che con i propri mezzi mondani affrontano (e neanche sempre) una minaccia latente paranormale. E se questa minaccia da esterna diventa interna, ecco emergere l'intimo orrore promesso dai giochi del Mondo di Tenebra.

Conclusioni per oggi

Voglio andare da qualche parte, con questi miei pensieri? Nah, solo renderli pubblici e sollevare riflessioni e domande a chi legge, come ho promesso nella dichiarazione d'intenti del blog. Forse ne terrò conto per i miei (pochi) progettini di design nel cassetto, forse orienterà le mie prossime partite alle convention, forse resteranno elucubrazioni per il piacere di farle. So solo che spero che Shaggy abbia presto disponibilità per continuare la partita, perché ho concluso stipulando il primo accordo magico del mio Mago con un essere spiritico. E voglio vedere cosa posso farne.

 
Continua...