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from ion-jam

Porridge (finalmente commestibile)

Erano anni che provavo, ogni tanto, a fare del porridge di avena, e ogni volta mi veniva fuori una pappetta insapore. Qualche giorno fa sono riuscita, per ben due volte di fila, ad ottenere finalmente un porridge con del sapore, addirittura buono. Perché non tener traccia di questo forse irripetibile evento?

Ingredienti: avena a cucchiate; latte di mandorla; acqua (la vera novità nel mio procedimento); cacao; cannella; zucchero di canna (assolutamente opzionale); banana.

Procedimento: in un pentolino ho messo i fiocchi di avena, il latte di mandorla e l'acqua un po' a occhio e ho acceso il fuoco. Dato che sono bravissima a far attaccare le cose alle pentole e padelle, ho fatto attenzione a girare ogni tanto il tutto. Man mano che il composto si addensava ho aggiunto la cannella, un po' di cacao e un cucchiaino di zucchero. Ho assunto che fosse pronto quando aveva, ormai, una consistenza densa; l'ho messo, quindi, in una ciotola, insieme a mezza banana tagliata a rondelle.

 
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from Rob's cabinet of mboh?

Ah, gli anni '90. Friends in TV, il Grunge, la guerra del Britpop tra Blur e Oasis, i CD – sempre troppo cari – da comprare nel tuo negozio di dischi preferito, quando Napster e gli mp3 ancora non sapevamo cosa fossero... un bel tuffo nel passato, ma in realtà non è di questo che parlerò. Non direttamente, quantomeno.

Se per vostra sfortuna vi siete imbattuti in qualche mio toot su Livello Segreto, c'è una buona possibilità che al suo interno ci fosse menzionato qualche gioco di ruolo pressoché sconosciuto ai più, con un paio di indiziati che ritorna spesso sul luogo del delitto. Prevedibilmente, uno di questi – oltre a essere diventato immediatamente uno dei miei GDR preferiti – è il vero soggetto di questo post.

Damn the Man, Save the Music!

Copertina del manuale, raffigurante un gruppo di giovani all'interno di un negozio di dischi

Una copertina che dice tutto

Una doverosa premessa prima che continuiate a leggere è che questa non vuole essere una recensione - che per scriverla ho la stessa competenza di uno che sul campo di calcetto ci va in infradito e accappatoio1 - quanto piuttosto un tentativo di riorganizzare i pensieri e mettere su pagina il perché questo gioco continua a piacermi tanto a distanza di anni da quando l'ho scoperto per caso.

I know this, that if I win this roll I will save the place that I work from being sold, and the jobs of my friends that work there. Thus striking a blow at all that is evil and making this world a better place to be in.

\

Fotogramma dal film Empire Records. Uno dei personaggi seduto sul divano guarda qualcuno di fronte a lui, mentre i sottotitoli recitano 'Damn the Man!'

Credici, Lucas.

Ispirato dichiaratamente a film come La vita è un sogno (Dazed and Confused) ed Empire Records, Damn the Man,Save the Music! di Hannah Shaffer è un GDR one-shot sul tentativo di salvare qualcosa che amiamo: ɜ nostrɜ giovani protagonistɜ si troveranno a gestire il caos che l'evento firma-copie di una capricciosa Rockstar un po' in declino porterà nel loro negozio, sperando che tutto questo possa rimpinguare le casse quanto basta per continuare a tenerlo aperto ancora per un po'.
Sì, perché il nostro amato "Revolution Records" da parecchio tempo è alla canna del gas; fino a oggi è riuscito a rimanere a galla in qualche modo, ma gli incassi sono sempre più scarsi e una grossa catena in franchise ha fiutato il sangue e vuole approfittarne per buttarci fuori e rilevare i nostri locali.

Suona familiare? Beh, fondamentalmente è la trama di (appunto) Empire Records, dal quale il gioco ha preso diversi elementi. Se l'avete visto, dando un'occhiata agli archetipi dei personaggi di Damn the Man vi verrà facile collegarli ai protagonisti del film.

Ma salvare il nostro posto di lavoro non sarà l'unico nostro cruccio: ogni personaggio ha anche un proprio obiettivo personale da provare a realizzare entro fine giornata e dei rapporti tesi da ricucire con lɜ altrɜ.
Allo stesso tempo, la mancanza di soldi non è l'unico problema del negozio: il morale scarso, i casini personali dellə nostrə Capə, i possibili guai con la comunità (come un picchetto di "Mamme preoccupate contro la musica degenerata" o i vicini che chiamano la polizia per il casino) sono sempre in agguato, pronti a peggiorare man mano che il gioco prosegue.

Ok, ma come si gioca?

Dando per scontato2 che bene o male sappiate cosa sia un gioco di ruolo, se siete arrivati fin qui magari vi state chiedendo come funziona Damn the Man per sommi capi.

Per cominciare, la divisione dei ruoli segue un impianto abbastanza classico, con unə Facilitatorə che avrà il compito di gestire il mondo di gioco, impostare le scene iniziali ecc., e il resto dellɜ giocatorɜ che interpreteranno i propri personaggi e cercheranno di portare a termine gli incarichi che lə loro Capə o la Rockstar capricciosa gli daranno.

Come materiali servono giusto un po' di dadi a sei facce bianchi e neri (o comunque di due colori distinguibili), un mazzo di carte francesi, delle matite, una copia delle schede, e la cosa più difficile da procurarsi: altre 3-4 persone con cui giocare.

Una scheda del personaggio di Damn the Man, Save the Music!, in questo caso del Flirt o Piacione nell'edizione italiana

La semplicità fatta scheda.

Se la vostra pietra di paragone è D&D potreste rimanere un po' spiazzati: a parte quelli per tenere traccia del livello dei guai del negozio, non ci sono valori numerici da inserire nella vostra scheda; le cose importanti da definire saranno piuttosto il vostro stile, il genere di musica che preferite, un vostro obiettivo a breve termine (che possa essere completata in un giorno) e le relazioni che avete con lɜ altrɜ giocatorɜ.

Per quanto riguarda il gioco giocato, tutto si svolge in un solo giorno, seguendo una struttura in tre atti, ciascuno ambientato in un momento diverso della giornata: l'apertura del negozio, il firma-copie e la chiusura. C'è anche un breve montaggio di apertura che precede il primo atto, in cui vengono introdotti i personaggi e, ugualmente, alla conclusione del terzo segue un montaggio di chiusura, in cui si tireranno le somme della giornata e scopriremo il destino di negozio e personaggi. Ogni atto dura un numero fisso di scene pari al numero di giocatorɜ, in modo che tuttɜ abbiano una scena da protagonistɜ.

Sarà compito dellə Facilitatorə impostare le scene, iniziando con lə Capə (o la Rockstar stessa) che darà allə protagonista un incarico da svolgere, che sia una cosa semplice come distribuire dei volantini fuori dal negozio o una più assurda come riacciuffare l'amatissimo (e selvatico) struzzo da compagnia della Rockstar, scappato per il rumore della folla.
Lə protagonista (e lɜ altrɜ giocatorɜ se i loro personaggi sono presenti) interpreterà la sua scena ruolando liberamente fino al momento della sua risoluzione che, come vedremo, sarà quando verranno tirati i dadi. Il modo in cui si deciderà di affrontarla - cioè scegliendo se dare il massimo per portare a termine l'incarico, trovare un momento per ricucire una relazione con un altro personaggio o fregarsene e puntare al proprio obiettivo personale - oltre a definire quello che succede nella fiction, avrà un impatto sul numero di dadi da tirare.

Non starò a scrivervi tutte le regole, ma in sostanza le carte servono a determinare quali guai colpiranno il negozio, mentre i dadi quale sarà il risultato delle scene.
Fondamentalmente la meccanica di risoluzione consiste in questo: lə Protagonista tira x dadi bianchi, lə Facilitatorə tira x dadi neri e si confrontano i valori più alti di ciascun colore. Se vince il bianco l'incarico è riuscito, se vince il nero l'incarico è fallito e si pesca una carta per aggravare un problema del negozio, mentre nel caso di un pareggio l'incarico non è ancora risolto e nelle scene successive unə altrə giocatorə potrà decidere di completare anche un incarico in sospeso, ammesso però che riesca a completare il suo.

In ogni caso, gli incarichi rimasti in sospeso, le scelte fatte e il valore dei problemi del negozio decideranno il destino dei nostri personaggi e dell'amato Revolution Records nel montaggio di epilogo.

Sì, ma perché ti piace così tanto?

Ecco, qui arriva la parte complicata, che a riassumere (male) un regolamento ci vuole relativamente poco ma tradurre sensazioni ed emozioni in frasi sensate è un altro paio di maniche.

Per cominciare, direi per il tema: le storie di tentativi disperati di salvare qualcosa che ci è particolarmente caro hanno sempre il loro fascino, specie se il medium con cui ne usufruisci ti permette di viverle in prima persona. E alla fine il Revolution Records è la rappresentazione perfetta di quel posto magari un po' scalcinato e popolato da gente un po' strana ma in cui vi sentite a casa vostra. Se avete avuto la fortuna di trovarne uno nella vostra vita, potete capire cosa si perde quando alla fine anche l'ultimo sforzo si rivela non essere abbastanza.

Disegno tratto dal manuale, con una vetrina del negozio, tra cui spicca un cartello che recita: in qualche modo siamo ancora aperti

Ovviamente i fascisti non sono benvenuti nel negozio (o al tavolo).

Da questo punto di vista, credo ci sia un che di poetico nel fatto che l'edizione italiana di Damn the Man sia stato l'ultimo gioco pubblicato dalla Dreamlord Games prima della sua chiusura, e un po' mi piace pensare che sia stata una scelta voluta per sottolineare l'addio alle scene di quella che nel suo piccolo è stata una delle mie case editrici di giochi indie preferite.

Per il resto, ammettiamolo candidamente, la vena nostalgica per gli anni '90 è un po' un cheat code per me: una finestra aperta sugli anni delle medie e del liceo, tante cose amate (e odiate) potenzialmente da rivivere sublimate da una fiction che ti permette di tagliare fuori, se vuoi, tutti gli aspetti negativi di quel periodo, che spesso il filtro della nostalgia ti fa dimenticare ma che erano dannatamente presenti.

Poi c'è la musica, che per certi versi è un gioco nel gioco: il montaggio iniziale e finale prevedono una canzone di sottofondo, reale o fittizia che sia e, se da un lato c'è il piacere di riascoltare (o scoprire) pezzi dell'epoca creando delle playlist ad hoc, dall'altro c'è anche quello di inventarsi di sana pianta assieme al resto della gente al tavolo gruppi, canzoni e generi musicali.

Fotogramma dei Simpson con la cassetta scassata del padre di Milhouse col brano Can I Borrow a Feeling?

“Uh, I've got something I'd like to say! Would you guys please do a favour for a guy in love?”

(Perché nel nostro universo oltre ai Van Halen esistono i Van Houten, e “Can I Borrow a Feeling?” è un pezzone della madonna!)

E al di là di tutto, Damn the Man rimane un gran bel gioco che riesce a veicolare benissimo il tipo di fiction a cui si ispira, in tutte le sue possibili declinazioni, serie o comiche che siano.
Ricordo ancora una giocata in cui un cialtronissimo Artista travagliato che di nascosto viveva da squatter dentro al negozio, grazie a una monumentale faccia di bronzo, riuscì a convincere la Rockstar a finanziargli una mostra personale e a mantenerlo a sbafo per chissà quanto. Un vero maestro di vita, altroché.

No, La playlist non richiesta nooo...

...e invece, per concludere (e per testare come posso smanettare col testo su Log), vi lascio con un esempio di playlist venuta fuori durante una partita, con i pezzi a scandire i vari momenti del gioco:

Skunk Anansie – Selling Jesus, da Paranoid & Sunburnt (1995)

Belle and Sebastian – Expectations, da Tigermilk (1996) Elastica – Waking up, da Elastica (1995) The Muffs – Lucky Guy, da The Muffs (1993) Tricky – Hell is Round The Corner, da Maxinquaye (1995)

The Prodigy – Breathe, da The Fat of the Land (1997) Blur – Song 2, da Blur (1997) Pulp – Common People, da Different Class (1995) Sleeper – Sale of the Century, da The It Girl (1996)

Eels – Novocaine For The Soul, da Beautiful Freak (1996) Radiohead – Let Down, da OK Computer (1997) The Smashing Pumpkins – 1979, da Mellon Collie and the Infinite Sadness (1995) Stereolab – French Disko, dall'EP Jenny Ondioline (1993) o la raccolta Refried Ectoplasm (1995)

Garbage – When I Grow Up, da Version 2.0 (1998)

Che poi è anche il bello di giochi del genere: alla fine ne puoi ricavare anche dei “manufatti” di qualche tipo che ti ricorderanno i bei momenti al tavolo.

Ma direi che ho abusato fin troppo della vostra pazienza, quindi riporto la DeLorean nel 2025 e vi saluto ^^

Hashtag rilevanti: #RobsCabinetOfGDR, #GDRSegreto, #TTRPG, #GDR, #DamnTheManSaveTheMusic, #Anni90, #90s


1. Voleva essere un esempio di totale impreparazione ma ripensandoci vedere la gente giocare a calcio in infradito e accappatoio potrebbe essere dannatamente divertente... 🤔 [] 2. Sì, sto dando molto per scontato, anche perché la definizione è molto più ampia e sfumata di quella che di solito si pensa. Personalmente a me piace molto quella di Rugerfred []

 
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from nomadank

Sia gli approcci riformisti che quelli rivoluzionari si sono rivelati inadeguati. L'unica soluzione possibile al superamento definitivo del capitalismo è la DESTITUZIONE.

I problemi dell'approccio rivoluzionario – che consiste nell'appropriarsi del potere con la forza per poi cercare di imporre un cambiamento di sistema socio-economico dall'alto – sono molteplici.

Il primo è pragmatico: un attacco frontale a un sistema che ha raggiunto livelli storicamente inauditi di militarizzazione e controllo della popolazione sarebbe destinato a un sanguinoso fallimento.

Ma se anche riuscisse, l'unico modo di rivoluzionare un sistema a cui fino al giorno precedente prendeva parte la quasi totalità della popolazione, sarebbe farlo con l'uso della forza, andando quindi a replicare e consolidare gli stessi sistemi repressivi contro i quali si era combattuto.

Un cambiamento così radicale può avvenire solo gradualmente. Ma, in questo senso, l'approccio riformista è ancora più problematico di quello rivoluzionario. L'idea di prendere il potere legalmente e cambiare il sistema dall'interno presenta infatti altrettanti punti critici.

Una mobilitazione di massa intorno a un soggetto politico unitario, come poteva essere il partito novecentesco, è oggi virtualmente irrealizzabile, in quanto la complessità delle dinamiche del dibattito pubblico contemporaneo spinge verso l'atomizzazione sociale.

Inoltre il sistema stesso tende ad autopreservarsi e non potrà mai essere superato dagli stessi attori che lo costituiscono. Anche con tutta la buona volontà del mondo, le logiche del potere finirebbero per soffocare qualsiasi tentativo di cambiamento radicale.

Non si tratta di prendere il potere, ma di DESTITUIRLO: di smettere di riconoscere Stato e Capitale come istituzioni legittime. Non stare più alle loro regole, svuotarle di senso. Il primo passo è dunque psicologico. Dobbiamo prendere coscienza di quello che in realtà sappiamo da sempre: la vita quotidiana nel tardo-capitalismo non è altro che una recita.

Seguiamo le regole dettate dalla società non perché ci crediamo davvero, ma perché “si fa così” o perché si ha paura di cosa succederebbe se smettessimo di farlo. Paura, intendiamoci, ben fondata. Infatti inizialmente quello che dobbiamo fare è continuare a fingere, partecipare alla recita.

Nel frattempo però dobbiamo maturare nel nostro cuore l'idea che lo Stato in realtà non esista, che la Moneta sia solo un imbroglio, il Potere un'illusione. Che esistono solo le persone e le loro azioni. Azioni fortemente influenzate dalla visione del mondo che questa sistema riproduce sotto la guida di altre (poche) persone, che lo sfruttano a proprio vantaggio.

Pensateci: nel momento un cui il concetto stesso di denaro smettesse di avere presa sulla maggior parte della popolazione, un miliardario perderebbe tutto il suo potere. E lo stesso avverrebbe a un capo di governo quando la popolazione non riconoscesse l'esistenza dello Stato.

Il primo passo dunque è uscire dalla simulazione che domina le nostre menti.

A quel punto, inizia il bello.

Parallelamente alla recita, inizieremo a costruire un nuovo mondo, costruiremo reti informali di collaborazione, condivisione e mutuo aiuto, aliene da qualsiasi logica di tipo monetario e/o istituzionale, senza che siano per forza apertamente schierate a livello politico.

Un complesso rizoma di comunità trasversali che si intersecano e si sovrappongo tra di loro. Locali, translocali, internazionali.

L'obiettivo è costruire un'economia della gratuità che sia alternativa al sistema capitalista. E la crescita di questo nuovo fiore, avverrà attraverso la concimazione del sistema attuale.

Il XXI dovrà essere il secolo del collasso del Capitale e degli Stati. La velocità dello sviluppo delle comuni sarà infatti direttamente proporzionale a quella del collasso del sistema attuale.

Più le condizioni sotto il capitalismo peggioreranno, più persone usciranno dalla simulazione tardo-capitalista e si affideranno alle comuni.

E più le comuni cresceranno in numero e resilienza, più più grandiose e destabilizzanti potranno essere le azioni antagoniste e di sabotaggio contro il sistema.

Ed è solo in quest'ottica destituente che movimenti di riforma e momenti di esplosione rivoluzionaria potranno diventare funzionali, come strumenti di accelerazione del collasso.

E la bellezza del mondo che creeremo sarà al di là di ogni nostra più folle immaginazione.

 
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from guerrilla stickers テッカー禁止

“Stickers disappear, ideas don't!”

Tutto nacque in un pomeriggio alchemico, quando alla ricerca del Lapis Philosophorum nella palude del cyberspazio, mi imbattei in un frammento visivo carico di un'energia memetica latente che iniziò a stratificarsi nella psicosfera: “no adesivi grazie”. Solo più tardi ne rintracciai l’origine: una campagna grottescamente paradossale, un loop semiotico pronto a collassare su sé stesso. Appropriandomi di quel segnale ricodificato dall'iperstizone, generai un'antinomia capace di incrinare il logorio della vita postmoderna. Nacque così l'idea: “Ceci n'est pas un autocollant”, in un sodalizio immaginario con Magritte. “Questo non è un adesivo”, è una provocazione!

Viviamo immersi in un mondo fondato sull'illusione: emozioni sintetiche sotto forma di pillole, propaganda sotto forma di pubblicità, lavaggi del cervello sotto forma di mass-media. Siamo prigionieri di bolle di vetro che chiamiamo Social Network, mentre tentiamo invano di gettare nel cassonetto la spazzatura crescente della condizione umana.

Il capitalismo della sorveglianza è l’ultima mutazione di un dispositivo oppressivo che cannibalizza la vita stessa. Un sistema che si appropria dell’esperienza umana, la frattura, la codifica, la trasforma in merce-dato, in combustibile per il ciclo incessante di estrazione e consumo. Una macchina autopoietica, spietata e inarrestabile, che metabolizza ogni frammento di esistenza per rafforzare il dominio asimmetrico dei pochi sui molti: un sabotaggio intenzionale dei principi naturali di mutuo appoggio, che ha come fine ultimo la sola accumulazione necrotica del potere.

ステッカー禁止 / no adesivi grazie diventa così un hacking concettuale, una provocazione memetica pronta a fratturare la griglia postmoderna. Un grido distillato dall’iperstizione del reale, scaturito da una dissezione implacabile della condizione umana e delle sue configurazioni socio-tecniche. Un paradosso che squarcia il velo della simulazione, amplificando l’urgenza di svelare e decrittare le contraddizioni profonde che permeano le nostre esistenze. Un segnale dirompente, un innesco, per sabotare i loop del Sistema con l’intensità pulsante dell’arte, con la precisione chirurgica del sapere critico e con la volontà insorgente di chi rifiuta il giogo della tirannie.

Un impuslo creativo che dialetticamente evolve in una guerrilla stickers che vi seppellirà, “perché anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti!” (F. De André). Lo spirito dell'uomo è un fuoco divino che come l'Ouroboros, mordendosi la coda, si autoconsuma e si autorinnova perpetuamente. Liberate l'anarchia creativa nei vostri cuori: dalla Nigredo alla Coscienza, per sovvertire l'ordine prestabilito!

La vendetta del simbolo contro la banalità del consumo, il ritorno del significato contro l'inerzia dell'ovvio. Contro le misure preventive che impediscono la diffusione dell'arte libera, sabotatori urbani di tutto il mondo, armatevi del paradosso e unitevi alla guerrilla stickers ステッカー禁止!

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[sezione in aggiornamento]

 
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from kipple


Una montagna ha battuto le palpebre e in quel tempo sono nato, vissuto e morto. La montagna non si è accorta della meschinità della mia esistenza umana,come se non fossi mai esistito. Non avrò vissuto abbastanza da vedere una montagna battere una sola volta le palpebre; nessuno vive così a lungo da percepirne il movimento.

 
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from Le ricette di Kenobit

Questa è la ricetta del ragù di mia nonna. Ha dietro una storia, che ho raccontato qui, nella mia newsletter.

Non sarebbe una ricetta della nonna se vi dessi delle dosi esatte. Se avete mai chiesto una ricetta a una nonna, sapete che tutto viene fatto a occhio. L’amore non si pesa, o forse una volta non c’erano le bilance digitali.

Ingredienti
Olio d’oliva Sedano, cipolla, carota Concentrato di pomodoro Vino rosso Granulare di soia* Funghi shitake** Salsa di soia*** Una manciata di noci o di frutta secca Lenticchie rosse decorticate Brodo vegetale**** Rosmarino, salvia, alloro***** Sale Pepe

Opzionale: panna vegetale o un po’ di margarina. Nell’antica ricetta di Pellegrino Artusi il ragù era in bianco, senza passata di pomodoro (come il mio), ed era arricchito nelle fasi finali della cottura con latte o panna. Secondo me ci sta divinamente.

* Va bene anche il granulare di piselli o qualunque preparato analogo. Io lo trovo da Naturasì.
** Uso gli shitake perché danno un ottimo sapore e sono economici. Se li trovate secchi, ammollateli per mezz’ora prima di tritarli (e mi raccomando, tenete l’acqua e mettetela nel brodo). In alternativa, potete usare un po’ di champignon, di pleorotus, o se siete Zio Paperone anche cose più pregiate, come finferli o porcini.
*** Va bene una qualsiasi salsa di soia, ma visto che è una cottura lunga, una salsa di soia cinese di tipo “dark” è superiore.
**** Non sottovalutate il brodo! Se siete di corsa va benissimo un dado, ma se preparate un brodo da zero, possibilmente bello ricco, non ve ne pentirete. Io lo faccio così.

PREPARAZIONE
Per questo ragù vegetale ripercorriamo le stesse fasi di quello tradizionale: il soffritto, la doratura del macinato, la sfumatura col vino e la cottura con il brodo. Se volete farlo in rosso, sostituite il brodo con della passata, ma poi la mia nonna si arrabbia.

Partiamo da un soffritto classico. Tritate finemente cipolla, sedano e carota e fateli soffriggere in abbondante olio d’oliva. Ricordate che il ragù è buono anche per il suo contenuto di grasso, e che i legumi e le verdure che useremo ne hanno infinitamente meno della carne, quindi dobbiamo compensare. Dopo un paio di minuti, aggiungete al soffritto il rosmarino e la salvia, anch’essi tritati finemente.

Mentre va il soffritto, pensiamo al “macinato”. Frullate o tagliate finemente i funghi, freschi o ammollati, insieme alle noci (che contribuiscono alla quota grassa). Quando il soffritto è ben traslucido, aggiungete alla pentola il macinato di funghi e noci, il granulare di soia/piselli (non serve ammollarlo), un cucchiaio di concentrato di pomodoro, due cucchiai da minestra di salsa di soia e una presa di sale. Trattiamo questo macinato esattamente come se fosse carne, quindi lo facciamo rosolare a fiamma vivace, finché non inizia a dorarsi. Praticate il coraggio della pentola e lasciatelo abbrustolire ancora un po’, anche perché gli eventuali residui bruciacchiati sul fondo verranno liberati dal vino (e sono proprio loro a racchiudere una parte della delizia del ragù, perché sono frutto della reazione più appetitosa del creato, quella di Maillard).

Sfumate con abbondante vino rosso, che in questo caso avrà anche la funzione di conferire alle nostre proteine un colore più sanguigno. Versatevi un bicchiere di vino e sorseggiatelo mentre l’alcol evapora dalla pentola. Fate rosolare ancora qualche minuto e poi aggiungete il brodo. Quanto? Tenete presente che una parte del liquido si ritirerà, ma anche che stiamo facendo un ragù e non una zuppa. Se siete nel dubbio, aggiungetelo poco a poco, all’occorrenza.

Abbassate la fiamma e lasciate sobbollire.

A questo punto entra in gioco la pazienza. Se avete fretta, mezz’ora è più che sufficiente per ottenere un ragù gustoso. Nel caso, passate immediatamente al passaggio successivo. Se invece avete tempo, vi consiglio di lasciarlo cuocere lentamente, curandolo e rimescolandolo di tanto in tanto e aggiungendo brodo (bollente, altrimenti si ferma la cottura) in caso sia troppo asciutto, per un paio d’ore. Non essendoci carne, non sono necessarie le tre o quattro ore di cottura dei ragù tradizionali.

Quando avete deciso che manca mezz’ora alla fine della cottura, aggiungete le lenticchie rosse decorticate, che usiamo principalmente per la consistenza. In cottura spariranno del tutto, ma contribuiranno alla cremosità. Gli ultimi quindici minuti, aggiungete un po’ di panna vegetale o un cucchiaio di margarina. Questo è il momento ideale per aggiustare la sapidità: assaggiate e valutate se aggiungere un po’ di sale o un altro goccio di salsa di soia.

Se tutto è andato per il verso giusto, avrete ottenuto un ragù all’apparenza identico a quello tradizionale, che potrete usare in tutte le stesse preparazioni. Gnocchi al ragù, lasagne, spaghettate, supplì… Io, sarò sincero, sono capace di mangiarlo anche a cucchiaiate, come se fosse un Fruttolo.

Se avete dubbi su questa ricetta, scrivetemi pure! Parlare di cucina mi piace ancor più che parlare di libertà digitale. Mandatemi una mail su kenobit@protonmail.com oppure contattatemi su XMPP, dove sono kenobit@cazzinostri.kenobit.it.

 
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from Rob's cabinet of mboh?

Non so bene perché ma, dopo parecchio tempo che ci giravo attorno, l'altro giorno mi ho ceduto alla curiosità di provare Log.
Sarà stata la magia di Livello Segreto visto che, come nel caso di twitter, pur essendo su internet dal '99 non avevo mai avuto un mio blog. Da frequentatore di newsgroup e forum (con frequenti ondate di lurking più che di postaggio attivo) non ne capivo molto il fascino: perché a qualcuno dovrebbero interessare i miei ipotetici soliloqui quando invece c'erano dei posti in cui invece potevi avere delle vere discussioni? Ok, un pensiero da ultimo giapponese ignaro della fine della guerra, visto che prima che arrivasse Facebook a mangiarsi tutto, negli anni '00 chiunque aveva un blog e cercando se ne trovavano parecchi di interessanti, che man mano finivano nei miei feed rss. Ma aprirne uno mio e scrivere dei fatti miei è sempre stato un grosso no.

Ora, sarà il tempo che avanza e questa è l'equivalente di una crisi di mezza da millennial, solo che invece di comprarmi una moto sto cercando di ritrovare un'onda ormai passata su cui non è rimasto quasi più nessuno (sarà anche che non ho granché da fare in generale, eh), ma intanto eccomi qui, pronto a scrivere ogni tanto qualche post sconclusionato e di poco conto sulle cose che mi piacciono, giusto per fare finta di essere tornato indietro di una ventina d'anni. 😅

(Poi conoscendomi probabilmente sarà una delle mie tante cose incompiute, però intanto vediamo se riesco a personalizzare un minimo l'interfaccia del blog, via ^^ )

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_021-2025.jpg

La condensa sul vetro mi rincuora: fuori piove, qui no; sospirando rotolo di un quarto a sinistra invadendo la tua parte del letto per dichiarare pace nel nome dell'indolenza e poi faremo a sorte per stabilire chi tra te e me dovrà preparare qualcosa da mangiare.

Sai che sono un astronauta e vengo da quel posto, sono il passeggero del tuo cuore e colui che ha assassinato il proprio cervello.

qualcuno strilla: trovati un lavoro serio!

Cerco la condensa sul vetro per capire se mi trovo dalla parte giusta della tempesta, ma c'è solo un piatto vuoto sul tavolo davanti a me e un orco che con il megafono strilla: imbecille! sei un imbecille! Non sa che sono un grande viaggiatore, anche se non ci saranno soldi nelle mie tasche e non sarò il più furbo.

Sai che sono un astronauta e vado in quel posto, sono il passeggero dei tuoi sogni e colui che gioca con il proprio cervello.

qualcuno strilla: trovati un lavoro serio!

La polpetta infilzata con la forchetta alzata come il martello di un giudice per finire nella bocca cannibale dando così fine alla fine del mondo, come se non fosse successo nulla balbetta ancora la televisione, tintinnano le posate; forse per me non verrà Babbonatale quest'anno e forse non esiste neppure la mia intima Papessa.

Sai che sono un astronauta e non ho nulla anche se mi credo una principessa sono il passeggero sul foglio bianco inseguito dal proprio cervello.

qualcuno strilla: trovati un lavoro serio!

 
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from manuel

L'ultimo compleanno che Victoria festeggiò fu il settimo. Aveva un ricordo vago di come era la cucina, grande e sempre in disordine, le sue pareti bianche ingiallite e i mobili in legno con le ante e i cassetti color rosso porpora. Il tavolo era l'unico a non essere fatto in legno, una lastra rettangolare di marmo scuro come una giornata tempestosa. Suo padre la riprendeva con la telecamera a soffiare sulla candela a forma di sette e sua madre, accanto a lei, che fingeva di aiutarla avvicinando le labbra come se stesse baciando l'aria. Il gusto di quella torta al cioccolato con un pizzico di zucchero a velo era inimitabile, le sue papille gustative erano in estasi. La mamma si era superata, pensò assaporando la prima fetta.

Suo padre commentò negativamente la torta, ma usò un tono ironico, ovviamente scherzava. «Non avevo mai mangiato una torta così disgustosa come questa!»

Lei e sua madre scoppiarono in una fragorosa risata. Mentre rideva, sua madre gli diede un pugno su un braccio, con quel gesto dimostrava il suo amore, quando facevano così la piccola si preoccupava pensando che gli stesse facendo del male. I suoi genitori le ricordavano, ogni volta, che non era un così, era un “gioco” che si facevano da quando erano fidanzati.

Era l'otto settembre duemilaotto, un giorno come tanti altri, se non uno dei più importanti dal punto di vista di ogni bambino, dopo Natale ovviamente. Passava la mattina a scuola ad imparare, il pomeriggio a fare i compiti e a leggere qualche libro o a guardare la televisione (anche se sua madre gliela lasciava guardare solo un'ora al giorno). Una vita normale insomma.

Lei, come ogni abitante del pianeta, non poteva immaginare quello che sarebbe accaduto il ventidue gennaio del duemilanove.

Era in viaggio con la sua famiglia, stava andando a trovare la nonna paterna con i suoi genitori. Suo padre le chiese se voleva contare e dire il colore delle auto che viaggiavano sulle altre corsie. Victoria rispose in modo pacato dicendogli di “No”, preferendo ascoltare la musica sul suo iPod. Quella risposta non passò inosservato alla madre, con un’occhiata severa folgorò la bambina.

«Papà, ci ho ripensato. Lo voglio fare!»

Sua madre le sorrise mostrandole un pollice all’insù, Victoria ricambiò e lo interpretò come un monito per la prossima “richiesta”: doveva accettarla senza pensarci due volte.

Lo definivano un “gioco da macchina”. Solo lui e sua moglie sapevano che era un modo per mettere alla prova la sua attenzione e concentrazione. La settimana prima, la maestra di lingue lo convocò a scuola, mostrò a loro le ultime verifiche che aveva fatto. Quasi impeccabili, se non per alcune doppie in parole dove non c’erano, altri vocali messe in posti di altre vocali e parole illeggibili. Li aveva chiamati “errori di distrazione”, il tono che usava la maestra di mezz’età era molto preoccupante, il problema si estendeva anche nelle altre materie. Il suo consiglio fu di farle dei piccoli giochi per allenare la sua attenzione e controllare sempre i suoi compiti per farle migliorare la sua calligrafia. Dopo quel colloquio, i suoi genitori cominciarono a mettere in atto i suoi consigli, a partire dalla calligrafia che mostrò, fin da subito, un netto cambiamento. Mentre il suo livello di attenzione rimase invariato, la maestra aveva sottolineato il fatto che questa capacità doveva essere allenata con costanza e i miglioramenti si sarebbero manifestati con l’avanzare delle settimane. Erano passati solo sei giorni, Victoria sembrava a mostrare lievi miglioramenti e i suoi genitori decisero di continuare su quella strada.

Victoria guardava fuori dal finestrino e teneva conto dei colori e delle macchine che passavano. I suoi genitori facevano da giudici. Se la cavava bene, Victoria contò undici macchine, molte delle quali avevano gli stessi colori. Da lì in poi, il gioco si trasformò in una sfida personale, voleva vedere a quanto arrivava prima di fare un altro errore, i suoi genitori non ci pensavano proprio a fermarla.

«Dodici grigia» diceva con la sua voce squillante e determinata. «Tredici marrone. Quattordici nera. Quindici e sedici gialle!» enfatizzò appena le vide.

«Brava, continua così!» le dicevano i suoi genitori ad ogni risposta giusta.

Continuò a parlare per una decina di minuti, prima di fermarsi e a chiudere gli occhi. Sua madre fu la prima ad accorgersene e la lasciò cadere nel mondo dei sogni.

Poi un brusco silenzio e il mondo cadde in un oblio nero.

Il rumore della pioggia incessante svegliò la bambina.

«Mamma?» la chiamò strofinandosi gli occhi. «Papà?»

Non ricevette alcuna risposta.

Li chiamò di nuovo, ancora nessuna risposta.

Si tolse la cintura e diede un’occhiata ai due sedili anteriori. I sedili erano vuoti, neanche una loro traccia. Guardò tutti finestrini, fuori c’era il nulla, nessuno sembrava essere nei paraggi, era l’unica in macchina…

Le lacrime cominciavano a formarsi quando nella sua mente si materializzò uno strano pensiero.

“Mamma e papà mi hanno abbandonato?”

Gli occhi le diventarono lucidi.

“Mamma?”

Tratteneva le lacrime, ma la verità era davanti ai suoi occhi.

“P-papà?”

Ciò che i suoi occhi vedevano era la verità.

Scoppiò a piangere, la verità la feriva nell’animo.

Ascoltando il suono continuo della pioggia, la piccola riuscì a calmarsi, poi strofinò uno dei finestrini della macchina: il cielo era grigio pieno di nuvole scure, la pioggia non sembrava interessata a fermarsi.

Passò un'ora dal suo risveglio e Victoria non riusciva a trovare il coraggio di uscire dalla monovolume blu scuro di suo padre. Avrebbe voluto lanciarsi fuori dalla macchina e andarsene da quello che sembrava un incubo divenuto realtà, ma i suoi timori e le sue emozioni la bloccavano. Per non rimanere ferma a guardare il nulla e sperare che accadesse un miracolo, rovistò il baule dove vi erano le tre valige della famiglia, solo alla vista di quella dei suoi genitori le fece scendere qualche lacrima, li avrebbe voluti abbracciare con tutte le sue forze. Tra le valige vide l'ombrello blu acceso della madre, ora aveva un oggetto per uscire dall'auto e non inzupparsi tutta d'acqua. Balzò nei posti inferiori, dove era stata dall'inizio di questo viaggio, e tirò la maniglia. Le innumerevoli gocce battevano sull'asfalto freddo, prima di uscire dalla macchina aprì il piccolo ombrello e, con una spinta, saltò fuori.

Atterrò a piedi uniti. Si guardò attorno, nient'altro che l'asfalto riusciva a vedere. Niente auto, solo i guardrails e i blocchi di cemento che dividevano l'autostrada.

Era una bambina di sette anni, sotto la pioggia e in mezzo alla strada.

Alzò il suo sguardo e guardò l'interno dell'ombrello: non era più blu accesso, ma grigio come strada e il cielo. Si voltò verso la macchina, anche lei aveva perso il suo colore. Senza accorgersene una goccia le cadde sulla punta del naso, prontamente si toccò con l'indice destro e poi lo guardò: la punta era diventata grigia e non sentiva nessuna sensazione di bagnato come se non fosse mai entrata in contatto. Stesso discorso valeva anche per la punta del naso.

Si allontanò dalla macchina, spinta dalla curiosità di perlustrare le strade vuote alla ricerca di un segno che la convincesse di non essere rimasta da sola in tutto il mondo. Stava esagerando, forse la sua immaginazione le stava giocando un brutto scherzo, ma i pensieri che le passavano nella testa erano tanti e per lo più confusi, aggrovigliati in un gigantesco nodo.

Si diceva che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Tutto si sarebbe sistemato. Sua madre le diceva: “Un brutto periodo è come una porta chiusa a chiave, devi solo trovare la chiave per uscire e vivere un periodo bello. Devi farlo sempre, non pensare che accadrà una sola volta nella tua vita. Anche quando sembra impossibile tu ce la farai”.

Ripeteva quelle parole a voce bassa, era un'abitudine che sua madre voleva che perdesse. Lo faceva quando era stressata o nervosa, un tratto che l'accomunava a suo padre.

Perse di vista l'auto, ma non se ne rese conto. Ascoltava la pioggia che, progressivamente, smetteva di tamburellare sul fondo stradale. Camminava immersa nei suoi pensieri, la pioggia era il sottofondo perfetto per mantenere la calma. Ora doveva fare i conti con il fruscio che il leggero vento emetteva.

Chiuse l'ombrello e la vide. Una farfalla iridescente che volava all'altezza degli occhi. Vedeva tutti i colori sulle sue ali: azzurro, rosso, giallo, verde e molti altri. Il piccolo corpicino era di un colore blu spento.

«Ciao farfallina» disse contenta di incontrare qualcuno e provò a toccarla.

La farfalla si poggiò sulla punta grigia dell'indice. Con sua sorpresa, il dito tornò al colore originale. Poi si staccò, le ali battevano più velocemente rispetto a poco prima. Istintivamente, la piccola le corse dietro, la voleva acchiappare con le sue mani grandicelle.

In pochissimi battiti, la farfalla si allontanò di un paio di centinaia di metri creando un sostanzioso divario con la bambina, da lontano era un puntino scuro si sfondo chiaro, impossibile da non vedere. Victoria la rincorse con tutte le sue forze, senza distogliere lo sguardo sul puntino scuro davanti a lei.

Il divario sembrava non subire alcun cambiamento. La bambina correva affannosamente, acchiapparla era il suo obiettivo. Decise di andare oltre i suoi limiti, le sue gambe cominciarono a muoversi più velocemente.

La distanza tra l'insetto colorato e la settenne diminuì in maniera drastica. Victoria l'era dietro, le bastava un balzo e l'avrebbe acchiappata. Non poteva perdere la sua unica occasione di acchiapparla e non la sprecò.

Fece un salto in avanti e, con entrambe, le mani a mo' di barchetta e le unì appena avvertì la farfalla sulla sua pelle. E atterrò a piedi uniti.

Non aveva mai toccato una farfalla prima d'ora. In passato, quando andava al parco con in suoi genitori, appena i suoi occhi ne vedevano una, lei le andava incontro facendola scappare ancora prima di catturarla.

Aveva l'impressione di non averla presa, non sentiva nulla. C'era solo aria dentro le mani? Non aveva preso la farfalla? Era frutto della sua immaginazione?

Diede una sbirciata, facendo attenzione a non farla scappare. Portò le mani all'altezza degli occhi e aprì un piccolo foro dove guardare.

Niente, non c'era niente.

«Cavolo» esclamò delusa e lasciò cadere le braccia a peso morto.

Aprì e chiuse gli occhi... la farfalla era lì, di fronte a lei, le sue ali battevano a ritmo veloce per non perdere quota.

«Ma come...» disse perplessa. «Allora ti avevo preso!»

Un boato in cielo mise al corrente a tutti e due che sarebbe ricominciato a piovere. La farfalla volò verso sinistra e Victoria la seguì con lo sguardo. Oltre il guardrail, una casa molto recente decadente in mezzo a un grande campo di erba alta grigia attirò la sua attenzione, la farfalla era pronta di andarci. In quel momento, Victoria capì che essersi distratta a rincorrere lo strano insetto le ha fatto perdere l'unica fonte di riparo dalla pioggia.

«No, no, no! Ho perso l'ombrello!» esclamò andando nel panico. «Ho cercato di prenderti e ho lasciato l'ombrello chissà dove!»

Subito dopo La farfalla, si posizionò in direzione della casa, facendo avanti e indietro tentando di ottenere l'attenzione della bambina. Lo fece quattro volte, alla quinta Victoria la vide e notò che le stava cercando di dirle qualcosa.

«Ti devo seguire?» chiese e la farfalla si allontanò verso la casa.

Tra le due si ricreò il divario di prima, più corto rispetto a prima. Victoria passò sotto il guardrail. La settenne si strusciò la felpa viola sull'asfalto, appena si rialzò incominciò a piovere.

La bambina si mise le braccia in testa e corse più veloce che poteva, per poco non cadde. Impiegò due minuti per arrivarci, la casa si rivelò grande, molto grande per essere una casa per una famiglia di due o tre persone, si guardò attorno e vide un grande arco circolare senza assi di legno che la chiudessero. Con le poche forze che le rimanevano, le sue gambe la portarono li dentro, dove la pioggia non la poteva scolorire. Mentre riprendeva fiato, la farfalla la raggiunse.

«Forse» cominciò mentre la farfallina atterrava sulle sue mani «qui saremo al sicuro finché non smetterà di piovere.»

Passarono un paio di minuti, la pioggia continuava a scendere e il terreno dei campi divenne incolore. Curiosando in giro, Victoria, assieme alla farfalla sulla sua spalla, scoprì di essere dentro ad una stiva, ciò spiegava le grandi dimensioni e la quantità spropositata di casse e oggetti coperti da un velo sporco. Si chiedeva quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che qualcuno ci mise piede qui dentro.

Dieci anni? Venti? Cento? Chi lo sa...

Rovistando, trovò uno specchio ancora in perfette condizioni dietro ad un velo sporco, ovviamente. Togliendolo alzò della polvere che la fece tossire.

«Non è la prima volta che lo faccio» si giustificò imitando una voce sicura e dal timbro eroica. L'alone di mistero della stiva era un'ambientazione carina per essere una cacciatrice di tesori, «ho esplorato numerose caverne nel deserto, ma mai una stiva piena di polvere.»

Ammirò il riflesso di sé stessa. Alcune ciocche dei capelli castani erano grigie. Neanche una goccia entrò in contatto col suo viso, ad eccezione della punta del naso che aveva prima di incontrare la farfalla misteriosa. La sua felpa viola era rovinata, le spalle e buona parte delle maniche avevano perso il colore, ora che guardò le maniche, si guardò immediatamente le mani: colorata del suo colore naturale.

Forse la farfalla le aveva annullato gli effetti della pioggia e non se n'è resa conto prima. Doveva provarlo su qualcos'altro per esserne sicura. Le venne subito l'idea. Prese una delle ciocche grigie e le porse alla farfalla sulla spalla di destra.

«Potresti riportarmeli al loro marrone naturale, per favore?» chiese gentilmente porgendoglieli.

Senza nemmeno toccarla, i capelli tornarono alla normalità. Il grigio svanì come se venisse inondato da uno tsunami color castano.

«Grazie!» e tornò a guardarsi allo specchio.

I jeans che indossava erano stati colpiti dalla pioggia perdendo l'azzurro chiaro d'origine. Le scarpe bianche non subirono grossi cambiamenti, rimasero quasi uguali da quando era partita con i suoi genitori.

Non ha mai smesso di pensare a loro, voleva averli vicini a lei.

La casa era il prossimo luogo che Victoria avrebbe visitato. La porta della stiva faceva da preludio ad un breve corridoio dritto dove la portò in mezzo all'entrata della casa, se fosse andata a sinistra si sarebbe trovata davanti l'ingresso, ma già vedendola chinandosi in avanti le fece già scartare l'idea, la trovava troppo noiosa per la sua esplorazione (stava ancora facendo finta di essere una cacciatrice di tesori).

Optò di andare a destra, un breve corridoio la portò in una stanza dalle pareti bianche e sporche di muffa, senza nessun tipo di arredamento e un odore di animale morto la fece andare subito via. Anche questa non era stata di suo gradimento.

«Spero che nelle altre zona della casa, non ci sia un tanfo del genere!» esclamò speranzosa.

Girò a destra. Una grande stanza dalle pareti ingiallite le si parò davanti, anche qui niente mobili e arredamento, l'odore di animale morto colpiva ancora le sue narici. Corse via e salì le scale dove la condussero al primo (e ultimo piano della casa), non le aveva notate quando giunse nell'atrio la prima volta.

Il primo piano era composto da un breve corridoio che faceva da ponte per quattro stanze, due sulla sinistra e due sulla destra. Le pareti erano sempre piene di crepe e di muffa, l'odore di animale morto non aiutava molto.

«Odio questa casa» si lamentò sottovoce.

Partì dalla prima stanza a destra. Spingendo la porta, Victoria si trovò davanti a sé un bagno puzzolente. Il lavandino, il bidet e la vasca da bagno erano pieni di insetti morti e sporchi di liquidi scuri. Del water non ce n'era traccia, solo due fori, uno sul pavimento e l’altro sul muro.

Passò alla successiva stando sempre su quel lato. Stanza dalle pareti sporche di muffa, quell'insopportabile odore, niente letti e mobili.

«BLEAH!» esclamò nauseata tappandosi il naso, purtroppo l’odore sgradevole aveva già penetrato le sue povere difese.

Si spostò nella stanza adiacente, era identica a quella che aveva appena visto, se non più grande. Probabilmente era la camera matrimoniale. Sì, era la camera matrimoniale. Il pavimento in legno aveva quattro piccoli cerchi chiari che formavano i quattro punti di un rettangolo, quattro gambe per sostenere una base in metallo con assi di legno che avrebbero sorretto il peso di un materasso.

Si spostò nella stanza accanto. Era più piccola rispetto alle ultime due e pieno di scope. Con quelle avrebbe potuto spazzate ogni millimetro per dieci volte!

«Il vecchio proprietario andava matto per le scope…» disse con forte perplessità la bambina alla sua piccola amica. «Gli adulti sono strani!»

Per la prima volta da quando si è poggiata sulla sua spalla, la farfalla brillò di verde acceso. Era il suo modo per dire “sono d’accordo”.

Tornò nella stalla, delusa da questa “esplorazione” e si sedette su una cassa chiusa davanti al grande arco in mattoni da dove si era riparata.

Pioveva ancora.

«Non può smettere di piovere?!» si lamentò Victoria a voce alta.

La farfalla brillò di un rosso intenso. Victoria capì subito il motivo di quel bagliore: la sua voce.

«Scusami! Non volevo spaventarti.»

Ora, emetteva un lieve bagliore bianco che aumentava ritmicamente d’intensità e fino a spegnersi, come se avesse finito di parlare.

«Mi capita di parlare e alzare la voce senza volerlo» ammise Victoria. «Ci sto lavorando. Starò molto attenta al volume, hai la mia parola.»

La farfalla si illuminò di nuovo, di blu questa volta.

«Quindi» cominciò insicura «siamo diventate amiche?»

L’aura blu passò al verde, più intenso rispetto a prima.

«Ti posso dare un nome? Stavo pensando di chiamarti… Fì! Ti piace?»

Con un battito d’ali, la piccola farfalla si staccò dalla spalla di Victoria, si portò all’altezza degli occhi ed emanò un bagliore giallo. Era felice, molto felice.

«Io sono Victoria» si presentò avvicinando l’indice sinistro a Fì, la quale si fermò sulla punta. Il bagliore giallo tornò al blu di prima.

«Appena finisce di piovere, ce ne andremo da qui. Ci deve essere qualcuno da qualche parte» disse sicura Victoria. «Fino d’allora, rimeremo qui ad aspettare. Non voglio diventare tutta grigia ed essere scambiata per uno zombie!»

Fì brillò di un lieve rosso. Aveva alzato di nuovo la voce.

«Perdonami, ma te l’ho già detto Fì, ci sto lavorando.»

Victoria porto il dito sulla spalla destra, guardò Fì balzare dal dito alla spalla. Dopodiché, si misero a osservare la pioggia cadere sulla terra prevalentemente grigia, in attesa di partire per il loro lungo viaggio.

 
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from Il Taccuino

È quest'inaspettato sole marzolino che rischiara i pennacchi dei cavalli, i tendoni della fiera, i visi dei bambini che guardano i palloni appesi al filo. Il leggero vento della domenica mattina sfiora le brunite facce dei paesani, nei vestiti buoni della festa, le gote rosse delle adolescenti che guardano i fantini sfilare per le strade. Assomigliano per fierezza ai paladini di Re Carlo, portano la maestà degli antichi cavalieri ma lo sguardo è quello di chi guarda la terra e la chiama terra: contadini, pescatori, carpentieri, eppure in quel momento sacro sembrano soldati delle schiere d'Alessandro, e le ragazze innamorate hanno in sé la grazia di Ginevra, la passione di Clorinda, il doloroso desiderio di Francesca, e cos'hanno di diverso dai versi del Poeta, quei sospiri d'amore che esalano dalle bocche rosse, fatte per giovani baci appassionati all'ombra dei vicoli alla sera? Conoscono forse solo la casa, il cucinino, le voci delle madri, e certo non meditano sul tempo in cui ci obliamo, su questa vorticosa vita che ci spegne, piano piano, non leggono gli aforismi dei francesi, la filosofia e i suoi garbugli, i versi ruffiani dei poeti. Eppur rispetto a me conoscono la vita, non il suo pallido riflesso, quest'inganno che evoco ogni giorno e che disprezzo. Invidio i sospiri, i loro amori adolescenti, che sempre mi furono negati per eccesso di poesia, forse, per difetto di salute, per via di un animo vecchio troppo presto, e che me ne faccio io delle vette del pensiero umano se è dagli uomini che mi sento più lontano? Guardo i giovani cavalieri e le dame e vorrei per una volta sola esser come loro, inconsapevole pedina della vita che non conosce il gioco.


cavalcataPhotocredit to R. Manfredi

 
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from kipple


Quando ho incontrato il web, le BBS stavano già cedendo il passo e le avevo viste solo a casa di amici di amici, più ricchi, che si potevano permettere certe bollette. Non ho fatto le scuole massime, quindi non ho visto le BBS all'università.

Quando ci siamo conosciuti a vicenda, oltre alla bolletta si doveva pagare anche l'accesso alla rete, così decisi di pagare il doppio obolo appena aprì un provider nella mia cittadina. C'era Windows 95 e bisognava accedere al provider attraverso una specie di terminale. Il tizio del provider era venuto personalmente a casa, a configurare il modem, interno, per la prima connessione. A presentarci.

Quando, insieme al tizio, abbiamo immesso una stringa in un primordiale motore di ricerca, non ricordo quale, nel testo c'erano tre xxx di fila. Sua iniziativa: era il suo modo di meravigliarmi, mostrandomi la causa primigenia della creazione del web. Il motore di ricerca, credo, fosse Hotbot. Dopo diversi secondi, ecco apparire uno di quei tipici siti dell'epoca, con la griglia di immagini di anteprima, cliccando sulle quali si accedeva a versioni di risoluzione solo leggermente più alta.

Quando sono arrivati gli abbonamenti per l'accesso a internet, nei negozi, ho abbandonato il tizio. Penso di aver acquistato una scatolaccia della TIM con dentro solo un CD e qualche credendiale per l'accesso. Poi abbandonai anche la scatolaccia, quando l'accesso divenne gratuito con le offerte di diversi gestori: Tiscali, Infostrada, SuperEva e altri nomi persi per strada.

Quando ho scoperto che c'erano tanti appassionati di manga e anime, grazie ai webring e ai link lasciati nei guestbook, ho deciso che un sito volevo averlo anche io. All'epoca, Geocities era sinonimo di siti amatoriali, pessimo html, gif animate, effettacci in Java per chi volesse proprio stupire. Penso alla classica immagine riflessa in movimento e altri effettui ingenui e spensierati, come il web di allora.

Quando ho scoperto che firmare un guestbook non mi bastava più, mi sono attrezzato per IRC, il client dominante era mIRC rigorosamente piratato. Con quegli appassionati di manga e anime mi sono incontrato più volte, nonostante la timidezza e l'incapacità di prendere confidenza con gli altri in tempi umani. Siamo stati alle fiere del fumetto quando erano ancora poche, ci si beccava a Roma.

Quando ho iniziato a interessarmi agli MP3, scoperti a una fiera a Roma grazie al leggendario CD del Progetto Prometeo, ho iniziato a cercarli su WinMX. Lo preferivo a tutti gli altri, scomparsi nel tempo (Limewire, Bearshare) o meno (eMule/aMule).

Quando la messaggistica istantanea è iniziata a diffondersi, parlo di ICQ (35128028, aggiungetemi!), le possibilità di comunicare in tempo reale sono aumentate e le chat si sono divise. IRC era ancora vivissimo e pimpante quando, per qualche motivo, a volte ci appartavamo nelle chat private, prima in due, poi si finiva con l'invitare tutti quelli che ancora stavano su IRC, operando questo spostamento di massa senza un motivo reale.
Poi ci si è spostati praticamente su ICQ (e Messenger poi), abitando comunque le vecchie chat su irc.azzurra.org, perché poteva capitare la persona di passaggio e dovevamo accoglierla.

Quando giocava l'Italia, nei mondiali 1998, la connessione era velocissima. Certo, quanto poteva esserlo una connessione analogica di quasi 30 anni fa. Tutti a guardare la partita, a me non me ne è mai fregato nulla degli sport da miliardari della lira e milionari dell'euro.

Quando è uscito libero@sogno, la prima tariffa semiflat (prima dalle 16 alle 8, poi dalle 18.30, poi dalle 21...), è stata la rivoluzione/liberazione che tutti aspettavano. Basta con le ore di connessione contare, era il momento di far girare i file.

Quando abbiamo appurato, collettivamente, che ICQ era molto più pratico per le discussioni più raccolte, per spedirsi file di grandi dimensioni (le grandi dimensioni dell'epoca), per il semplice fatto di non dover badare ai comandi per la gestione dei canali e degli operatori, per la registrazione dei nick e tutto il resto, ci siamo spostati definitivamente su ICQ, tanto i contatti ce li avevamo e, ormai, la gente era quella. Non si poteva fare /slap, però.

Quando serviva qualche file particolare, lo cercava e, probabilmente, trovavo su Astalavista.

Quando è uscita l'ADSL a prezzi umani, ho aspettato ancora diverso tempo, ancorato a libero@sogno che era ancora parecchio più economico. Poi ho ceduto, come tutti, e eMule ha scalzato WinMX dal trono.

Quando ho giocato per la prima volta online, era Final Fight sul Mame, una delle più grandi invenzioni della storia. Assieme al Progetto Prometeo. Anni dopo, però, è uscito World of Warcraft, che è un pezzo della mia vita e merita uno scritto tutto suo. Lungo. Lo farò mai? Chissà.

Quando i telefonini hanno iniziato a connettersi alla rete (i famosi mega prima e giga dopo), ho capito presto che il giocattolo stava iniziando a rompersi. Da allora, è tutto un eternal september: se avete letto fin qui, non devo spiegarvi cosa sia, aggiungo solo che non ho trattato specificamente il tema Usenet/newsgroup perché non ho molto da dire. È un mezzo forse parallelo ai forum, per certi versi; in ogni caso, sia i forum che i newsgroup non sarebbero dovuti morire, ma tempo e società fanno le selezioni.

Quando è uscito Facebook, era un posto bellissimo, un mezzo bellissimo, e lo è stato per qualche anno. Lo vivevo, tuttavia, con la tristezza dentro: anche stavolta avevo capito presto. Penso sia stata la più grande disgrazia degli ultimi decenni, l'inizio della fine, un qualcosa in grado di cambiare in peggio la società nei secoli dei secoli, minandola alle basi. Una deflagrazione incontrollata a livello sociale, politico, culturale prima di tutto. C'è un prima e un dopo, e del dopo dovranno occuparsi gli storici del futuro, quale che sia la forma del futuro che ci sopravvivrà.
Tutto allo sfascio e potrà solo peggiorare, ormai per una serie di fattori, ma so chi sia stato ad accendere la miccia, me ne sono accorto prestissimo.

Quando ho scoperto il Fediverso, è stata una specie di epifania, un ritorno al passato: una riscoperta, quindi, di certe situazioni e sensazioni. Un ritorno a precise concezioni della propria esistenza nella rete, a quello che dalla rete esigiamo e che alla rete sentiamo di dovere. Non è più qualcosa di nuovo, è una giostra che gira da diversi anni, ormai. Chissà cosa succederà tra un anno, cinque, dieci.

 
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from D𝕚ⓈѕⓄᶰA𝐧ℤⒺ

𝗜 𝗩𝗜𝗔𝗚𝗚𝗜𝗔𝗧𝗢𝗥𝗜 𝗙𝗟𝗨𝗜𝗗𝗜

Ci troviamo di fronte a una nuova era, in cui l’aspirazione alla libertà si manifesta come una forza primordiale, guidando una generazione alla ricerca di un’esistenza senza né pesi né confini. Un’epoca in cui la leggerezza diventa un dogma, dove l’essere umano si svincola dalle convinzioni del passato e abbraccia il presente con ferma determinazione. In questo contesto, la fluidità diventa il nuovo mantra, tracciando un percorso verso una vita libera da legami superflui e aperta ad un futuro senza limiti.

“… il prologo alla creazione di una nuova specie: più leggera, mobile, che sfugge a ogni schema e quindi sopravvivrà alle mutazioni in corso. Ma pensate che rivoluzione sarebbe, che vera rivoluzione, forse l’ultima possibile: altro che destra, sinistra gran borghesi con la faccia spalmata sulle fiancate degli autobus che vogliono rifarci l’acconciatura, semplificatori semplicisti, liquidatori liquidi, rottami venuti dal futuro […] Una generazione capace di scegliere sempre la libertà, di consumare soltanto il necessario (incluso ciò che è necessario per il piacere), di non legarsi a nulla, di saper perdere cose e battaglie senza perdersi, di non credere in idee e fedi che le sono state data dalla nascita, una generazione senza troppo passato né avvenire, ma con una inflessibile attrazione verso il presente, inafferrabile, imprevedibile, disincantata dal suolo e dal tempo. In sintonia piena e pura con l’esistenza. E poi, quando finisce, arriva qualcuno a dirti: ti sia lieve la terra. Fallo tacere. Ti sia lieve la vita.” (Gabriele Romagnoli, Solo bagaglio a mano. Feltrinelli 2015)

Viaggiare leggeri, essere leggeri. Non ingombrare col corpo e con l’anima. Una ricerca di autonomia e una sfida alle convenzioni sociali.

 
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from nomadank

Parliamo del cortometraggio di Checco Zalone, “l'ultimo giorno di patriarcato”.

Partiamo col dire che Zalone è un professionista (e in questo è sicuramente geniale) nell'affrontare temi politici scottanti senza prendere nessun tipo di posizione. Non si capisce mai da quale parte della barricata si stia schierando. Anche in questo caso la riuscita è magistrale. Chi vuole vederci una critica al patriarcato, anche se molto blanda, ce la può vedere. Chi vuole vederci invece una presa in giro di chi il patriarcato lo combatte, ce la può vedere.

Tutti felici, miliardi di incassi al botteghino.

Quello che ci vedo io invece è una totale incapacità di uscire dal binarismo di genere. – Patriarcato = comandano gli uomini e le donne sono sottomesse. – Fine del patriarcato = comandano le donne e gli uomini sono sottomessi. Se questa è la comprensione del patriarcato che ci viene propagandata non stupisce che i socializzati uomini siano terrorizzati dalle femministe. Hanno paura che la fine del loro dominio coincida con l'inizio della loro oppressione. Che tutto quello che fanno subire alle persone socializzate donne, lo dovranno subire a loro volta.

Non è proprio così.

Quello che sfugge a chi questi temi non li vede neanche con il binocolo è che il patriarcato è una realtà molto più complessa, che in parte consiste nella mentalità stessa che ci siano ruoli di genere ben distinti, ciascuno con le sue caratteristiche imprescindibili, legati tra loro da una logica di dominio. Superare il patriarcato significa superare rigide distinzioni di genere e le gerarchie ad esse collegate. Questo significa uguaglianza, questo significa libertà.

 
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from Il Taccuino

Il rosso velluto della poltrona mi separava dal tuo respiro, e un'odorosa nube di capelli ricci. Il bulbo dell'occhio, torcendosi, ti cercava e carezzava il tuo profilo, appena acceso in una linea curva, sottile – il filo di Lachesi che si svolgeva per la mia e l'altrui vita - Come da un distante sogno, voci giungevano, di uomini, che non comprendo. Ma qualcun altro respirava per te e cercava la tua mano, nella tenerezza del tuo calore quasi animale chiudeva le illanguidite palpebre, rese gravi da quell'oscura tenerezza che mi respinge, che m'apparecchia nient'altro che un bianco talamo vuoto, con le lenzuola sfatte, compagno delle mie notti eterne e ineluttabili, i miei destini segreti d'insensata solitudine.


Sappho_Mengin C. Mengin – Sappho (1877)

 
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from kipple


A meno di cambi di paradigma totali, avanzamenti di diversi ordini di grandezza. Balzi prigoginici, si diceva una volta, nella tecnologia di archiviazione; tecnologiche che non si vedono sbucare concretamente all'orizzonte, nonostante i periodici proclami di miliardi di miliardi di bit salvati su un'elica di DNA, un granello di sabbia, un cubo di vetro da 2 nanometri di lato.

Certo, in medicina e tecnologia possono passare anni o decenni tra scoperta e realizzazione massificata; capita che passi un tempo infinito, quando i proclami si scontrano con la realtà, che va avanti a testa bassa e di certe cose proprio non vuol saperne. Intanto, siamo legati a supporti, solitamente magnetici, di qualche tipo: nastri, HDD e SSD, nelle varie declinazioni.

Intanto, in attesa del vetro, della sabbia e del DNA, la gente continua a caricare migliaia di ore, ogni secondo, di video: come se ci fosse un domani. L'espressione solita, “come se non ci fosse un domani”, per me non ha davvero gran senso: appurata, certificata la mancanza di un futuro, un'altra certezza è quella che l'essere umano smetterà di fare quello che stava facendo. Se non c'è un domani, chi me lo fa fare?

Youtube, la piattaforma regina dei video venuti dal basso (e dall'alto e di lato), ci lascia ancora fare. Evidentemente, la monetizzazione dei nostri dati copre ancora i costi dell'archiviazione; avanza pure, guardandone gli introiti. Quelli di Google sono enormi, vero, ma quanto? Non infinitamente.

Ho diversi account Youtube, per l'appunto, oltre a quello su Dailymotion: è il canale di backup/emergenza, per video che altrove rischiano la cancellazione o la chiusura del canale. Sì, anche io sono tra i fortunati che si son visti chiudere un canale per qualche motivo, mi è capitato molto tempo fa, quando ancora la creazione di un account Google comportava automaticamente l'apertura di un canale Youtube. Tre reclami dallo Studio Ghibli, dal suo braccio armato legale più precisamente: grazie mille, Miyazaki-sensei, da allora gli introiti dello studio sono al sicuro. È solo grazie alla chiusura del mio canale, per tre video innocui, se i capolavori successivi sono stati economicamente sostenibili.

Un altro canale, sempre Youtube, mi è stato invece chiuso di recente. Per un video di due minuti scarsi di Ballarò, online dal 2010. Su reclamo della RAI. La RAI per i reclami usa un indirizzo Gmail, sappiatelo. Come una persona qualunque per l'account del suo telefonino con Android. Questo video, intanto, è ancora online su Dailymotion.

Ma (pausa inutilmente lunga, come gli anglosassoni quando dicono “but”). Qualche giorno fa, o magari settimane, mi è arrivata un'email di Dailymotion, i video inattivi saranno archiviati tra tre mesi e cancellati dopo sei.
I video inattivi sono quelli ignorati nei dodici mesi precedenti, probabilmente oltre il 99% dei miei caricamento. Ebbene, la prima reazione è stata quella di visualizzare tutti i video del mio canale, per sottrarli all'inattività e all'oblio finale, come anticipavo ci sono video anche di quindici anni fa.

Quanto è durata questa prima reazione? Penso una decina di secondi, poi ho realizzato che non me ne importava niente, facciano pure. Se nessuno li ha cercati e guardati, qualche motivo ci sarà. Sopravvivrò io, sopravvivrà il resto del mondo. Dailymotion, fai la tua cosa, fai spazio. Prima o poi, dovranno farlo anche gli altri che, per quanto grandi, non sono infiniti.

Chiudo questa lunga e innecessaria considerazione ricordando che i nostri cosiddetti “contenuti” hanno valore per i giganti del web fino a quando possono cavarne sangue. E che questi “contenuti”, una volta affidati alle loro capaci mani, non sono più nostri.

Il web vero, persistente, personale, non deve essere un enorme accentramento; il web vero deve essere frammentato, interoperante, nostro.

 
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