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from Super Relax


La bicicletta è, probabilmente, l'unica cosa nella mia vita che mi abbia dato un senso di progressione, almeno all'inizio: la differenza tra un'uscita e la successiva era tangibile, premettendo che ho iniziato a pedalare tardissimo.

Ho imparato, da piccolo, su un balcone minuscolo andando avanti e indietro, i miei volevano che imparassi ad andare in bici, ma senza troppa convinzione, tanto da non averme mai davvero una per un lasso di tempo soddifacente. Dopo un trasloco in un'altra regione, ormai decisamente adulto e libero da certe imposizioni, ne ho presa una. E poi un'altra, finalmente ce le ho e me le tengo.

Come detto in apertura, tornare in sella dopo decenni è un crescendo, fisico e di sensazioni. Muscoli si riattivano in maniera diversa e dolgono per qualche giorno, la bici sembra dura anche con rapporti che poi scopri essere leggeri, alla prima salita del 3-4% ti aspettano fiatone e battiti accelerati, per non parlare di pendenza davvero importanti! Il cuore inizia a battere così forte che sembra di sentirlo premere in gola, l'ossigeno non basta mai e sembra di non poter respirare abbastanza in fretta da sopravvivere, meglio fermarsi cinque minuti.

Quella salita sembra impossibile, la prima volta. Poi ci si riprova e sembra che qualcosa si stia sciogliendo, possiamo farcela... invece no, dobbiamo prima fermarci a riposare tre volte, poi due, ma infine la cima è nostra. Quando riusciamo a farcela in una sola tirata, la soddisfazione è fuori scala. Tutto sommato, non siamo i catorci che credevamo di essere, chissà a quali prestazioni potremo presto ambire. È il momento di attrezzarci per registrare e analizzare le nostre uscite.

Ho iniziato con OsmAnd~, che ha un nome orrendo ma in fatto di GPS (e interfacce complicate) credo abbia pochi rivali nel suo campo. Successivamente, ho voluto provare gli smartband economici della Xiaomi e l'esperienza è stata decisamente deludente; infine, son passato a un ciclocomputer economico della Bryton. Per l'analisi dei dati, ho creato un account su Strava, per quanto non sia sicuramente un amante dei servizi centralizzati nelle mani dei soliti noti, ma tant'è... poi già c'era un mio amico, che pedala da molto più tempo e da molti più chilometri, ho iniziato a seguirlo e ora ne seguo una decina. Conto di provare una qualche istanza pubblica di Wanderer, prima o poi. Edit: sto iniziando a disegnare qualche traccia sull'istanza di gatti.ninja

Strava usa i soliti mezzi, gamification compresa, per spingerci alla prestazione, al progress, “la canzone è sempre la stessa”. Carichi una traccia, rifai il percorso una volta, due. Strava confronta i tuoi tempi, sottolinea i miglioramenti, insinua che tu, come ciclista, possa farti notare in qualche modo, in mezzo a migliaia di altri account che incrociano i tuoi percorsi. Forse un poco ci credi, ma sono abbastanza disilluso e, nel frattempo, appena comprata la seconda bicicletta, quella buona, mi sono iscritto a Komoot, che è sempre altra roba proprietaria finita nelle mani dei soliti.

Tutto molto esaltante, fino a quando Strava non ci dice più che abbiamo battuto i nostri record, anzi: le prestazioni iniziano ad assestarsi, se non a diminuire. Siamo arrivati in cima, abbiamo già dato il nostro meglio, compatibilmente con età, forma fisica e allenamento. L'unico modo per ricevere altre scariche di gratificazione da Strava, sarebbe mettersi sotto e iniziare ad allenarsi seriamente, curare l'alimentazione come i pro... a che pro, dico io? Davvero abbiamo tempo e voglia, vogliamo cresce all'infinito come si crede possa e debba fare il PIL?

Non io, non ho tempo, voglia e possibilità. Non ho voglia di rendere più eroiche le mie uscite, voglio renderle più soddisfacenti. Voglio fermarmi più spesso ad ammirare il paesaggio e scattare qualche foto, voglio fare la discesa godendomi un po' di riposo dopo le pene della salita, senza badare alla velocità massima. Le salite voglio farle al ritmo che mi pare, per non scollinare mezzo morto, ma con quella sensazione di leggerezza mentale e beatitudine temporanea che dovrebbe accompagnarci per tutto il tempo. Sapete una cosa? Ci sto riuscendo: pazienza se perdo cinque minuti ogni ora, la soddisfazione non è riconducibile a una cifra, ma la so riconoscere benissimo.

Komoot è molto più interessante, dal punto di vista della pedalata in super relax. Non ci sono comparazioni, né con prestazioni passate né con gli altri, le statistiche sono quelle di base. Niente VAM e KOM, niente potenza stimata o rilevata. Gli iscritti sono più propensi a caricare foto, a lasciare qualche testimonianza sulle proprie uscite, qualcosa che vada oltre la sterile precisione del numero. È più istintivo rendersi conto che c'è una persona dietro quella traccia, una persona più interessata a godersi l'attimo che a migliore in un segmento o alzare la velocità media. Una persona che potrei essere io.

Non ho cancellato l'account di Strava, continuo a caricare le mie uscite e a cercare nuovi ciclisti in zona, ma la filosofia di Komoot è indubbiamente più vicina al Super Relax.

Ah, se solo l'avessi capito pri... no, non sarebbe cambiato nulla, perché della competizione non me ne è mai importato nulla e quel che voglio dalla bicicletta, ora, è recuperare tutte le sensazioni scivolatemi via in passato, fin quando avrò la forza e la voglia di pedalare.

 
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from Ore liete


Mio padre, quando decise di portarci in villeggiatura per la prima volta, fu categorico: “se mi stanco della montagna, ci facciamo una decina di giorni e ce ne torniamo a casa. È sempre stato un tipo da mare, come mia sorella; il restante 50% della famiglia, invece, preferiva e preferisce la montagna. A me il mare piace, sia detto: mi piace guardarlo, mi piace l'atmosfera delle località di mare, mi piace camminare e averlo di lato; stare spiaggiati sulla sabbia in una calca di sconosciuti, a morir bruciati dal sole e accecati dal riverbero, a fare chissà cosa, proprio no.

Mio padre era impiegato comunale, autista di mezzi vari, e la montagna gli piacque così tanto che volle provare, per la prima volta questi “giorni di malattia” di cui tanto si parlava in certi ambienti. Niente di truffaldino, anzi: una leggera febbricola, accompagnata da sintomi collaterali vari, fu giudicata sufficiente dalla guardia medica per chiedere e ottenere quattro o cinque giorni di malattia. Questo era accaduto nel tardo pomeriggio di quel ferragosto.

Il giorno dopo, stavamo guardando il Palio di Siena nel piccolo televisorino da 12” che ci eravamo portati dietro: non che ne avessimo di più grandi, era l'unico che avevamo in casa, chiaramente in bianco e nero. Ero ancora abbastanza piccolo da trovare divertente il Palio, già dopo pochi anni iniziai a chiedermi cosa avessero fatto quei poveri cavalli per trovarsi lì, a fare quello che facevano. Bussarono alla porta ed erano i carabinieri.

Ebbi paura, che volevano? Era successo qualcosa a qualcuno? Qualcuno in famiglia aveva combinato un pasticcio di cui non sapevo nulla? No, fortunatamente, erano solo venuti a controllare, e mio padre davvero stava in pigiama, con la voce nasale e le medicine in giro.

Va bene, ma il 18 mattina dovete essere al lavoro: così si esaurirono rapidamente gli unici due giorni di malattia della vita lavorativa di mio padre. Ci avevano trovati, in un lampo, chiedendo un po' in giro, al barbiere che ci aveva accorciato i capelli qualche giorno prima, “stanno nella casa di...”.

Hanno fatto il loro dovere, non c'è nulla da dire in merito; tuttvia, ancora oggi ripenso a quella sollecitudine, con una punta di amarezza solcata da una striatura di facile populismo. Penso ai latitanti che latitano per decenni nel paese dove sono nati e dove sono sempre vissuti, con le istituzioni che sembrano brancolare nel buio e i compaesani ignari di tutto, dietro quel muro di omertà del Sud che al Nord si chiama dignitoso silenzio.

La faccenda si concluse con mio padre che diventò un pendolare della villeggiatura: tornava a casa e andava al lavoro, poi il venerdì sera ci raggiungeva e la domenica pomeriggio ripartiva.

E stare soli con nostra mamma era un'esperienza nuova, ma ugualmente bella. E quando tornava mio padre, era sempre una piccola festa.

Questo pendolarismo fu possibile solo nelle nostre villeggiature sul Matese, a circa 80 km da casa: in Abruzzo si sarebbe trattato di un viaggio di oltre 200 km, ogni volta, quindi facevano i nostri 15-18 giorni e tornavamo nella bruttura del nostro quotidiano.

 
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from Super Relax


Io vado piano e i miei motivi sono molteplici, il primo è che più di così non ce la faccio. Mi piacerebbe andare più forte, per arrivare più lontano nel tempo che mi è concesso per pedalare, ma la lentezza mi porta al secondo motivo: inseguire la prestazione ti fa perdere di vista tutto il resto.

Relativamente alle velocità solite dei ciclisti, c'è una sorta di posizionamento immediatamente visibile a chiunque abbia un minimo di consapevolezza del mezzo: un ciclista da strada mi supererà sulla gravel, io supererò un rider in mountain bike (di solito). E sarò sorpassato da un collega in gravel, ma va bene così.

Gli appassionati di MTB sono forse scarsi? Assolutamente no; hanno un motivo più che valido per andare alla loro velocità: non gliene importa niente della velocità media e i tratti pianeggianti, o dalle pendenze scarse, non sono altro che momenti di raccordo tra una salita che non potrei affrontare o un tratto sconnesso e irregolare che non saprei affrontare.

Quando incontriamo un ciclista, non sappiamo quanti chilometri e dislivello abbia già percorso o dovrà percorrere. Non sappiamo se abbia dormito bene, si sia nutrendo regolarmente durante lo sforzo, se stia facendo un esercizio specifico, se sia lì per un KOM o per godersi il paesaggio e la libertà della bicicletta. Ai ciclisti lenti, e a quello che non vediamo, vada il nostro incoraggiamento.

Stamattina, calda domenica estiva, stavo facendo una delle mie salitelle solite, adatte a tutti, quando ho incontrato un ciclista visibilmente più lento di me; non mi sono soffermato troppo sulla bici, ma sembrava una sorta di gravel col manubrio flat, non erano gomme da MTB. L'ho superato, ci siamo salutati, io ho continuato il mio giro, lui il suo. Dopo un'oretta, ci siamo incontrati di nuovo, probabilmente al punto più alto delle nostre uscite. Su un passo, dove si scollina o si torna indietro, entrambi siamo tornati indietro. Mi ha rivolto un largo sorriso, ho contraccambiato, dicendomi “ora inizia la discesa”.

È stato un momento tenerissimo, ho capito che per lui quella salita era stata abbastanza impegnativa (ricordate: non sappiamo mai, con sicurezza, cosa ci sia dietro una pedalata) ma l'aveva superata, ora poteva godersi il riposo della discesa e il piacere del vento sulla pelle, in una giornata caldissima. Così come si era goduto il panorama in salita, alla sua giusta velocità.

Il ciclismo amatoriale, lontano da Strava e dai watt, è bello anche per questi momenti

 
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from Ore liete


Non so, effetto Mandela o allucinazione collettiva in famiglia? Fatto sta che credevamo quella forra fosse in località Sprecavitelli. Non sapevamo neanche fosse una forra, per noi era un generico burrone. La vera Sprecavitelli è una località nei pressi del Lago Matese, mentre il ponte di Arcichiaro, questo il vero nome, svetta sul torrente Quirino, che siamo sicuri di non aver mai visto. Per gestire queste acque, successivamente, è stata costruita una diga, di cui non so granché, a parte il fatto che sembra i lavori siano iniziati a fine anni Novanta e completati all'italiana, solo parzialmente, almeno fino al 2023.

Allego un paio di foto d'epoca, della mia epoca, così ci togliamo il pensiero e potete smettere di leggere. Scattate con la mia solita reflex delle vacanze, classicamente 36 esposizioni da far durare dalle due alle quattro settimane.

Imbocco di una brevissima galleria, visibile a destra un tratto di strada e a sinistra l'esterno della stessa che si sporge sul vuoto ed è caratterizzata da alcune piante che crescono sulla nuda roccia.

Protagonista della foto, la brevissima galleria che introduce al ponte, sulla SP 331, Strada Provinciale del Matese, in territorio già molisano, nello specifico territorio di Guardiaregia. Proprio Guardiaregia era, probabilmente, la meta di queste nostre escursioni in Molise, una regione vicina ma che non ci siamo mai presi la briga di esplorare, se non per visita a Venafro, Isernia, Bojano e Castelpetroso.

Sporgendoci dal lato roccioso, l'impatto era impressionante, abituati come eravamo a panorami ben più cittadini: una profonda fenditura tra le rocce, un dislivello tale da dare le vertigini e esercitare quella morbosa attrazione per il vuoto, non penso sia solo una questione mia. Credo sia un panorama interessante e pericoloso anche per gente più avvezza a montagne più imponenti.

Profonda forra caratterizzata da una vegetazione alquanto scarsa, in una vecchia foto

Ebbene, per molto tempo ho cercato quella galleria su Maps, per ripercorrere almeno immaginariamente quella strada sospesa su un piccolo, relativo nulla, per rivivere quei momenti ancora una volta, perché non sarà giusto abbandonarsi ai ricordi, ma capita che i ricordi siano l'unico sprone a continuare. Non sono mai riuscito a risalire al punto, intenzionalmente: in molti casi, quando si cerca una cosa e non la si trova, si sta cercando nel posto sbagliato; era uno di quei casi, e da un caso è arrivata la soluzione.

Ho una bicicletta e sogno di usarla per viaggiare, al momento è assolutamente impossibile. Dovessi vivere abbastanza a lungo, perché non si sa mai, nella migliore delle ipotesi ne avrò la possibilità quando non avrò più forza per pedalare e permettermi certe distanze. Non che oggi percorra chissà quanti chilometri, ma ho diversi limiti a cui attenermi, la libertà può essere costretta da troppe pareti.

Stavo fantasticando sul percorso da fare per pedalare fino a San Gregorio Matese: tragitto fattibilissimo, in un giorno, da una persona allenata e io non sono quella persona, quindi dovrei spezzare in due. Il problema è la salita finale, circa 11 km con una pendenza media del 5,5% circa, potrei farcela ma c'è un “ma”. Più di uno, in realtà: la salita è alla fine del percorso, quindi ci arriverei già stanco, la soluzione potrebbe essere quella di sopra, ovvero fare due tappe. Il “ma” grosso, diciamo il MA, sta nell'irregolarità della pendenza e l'ostacolo insormontabile sarebbe uno strappo di circa 400 metri al 14% medio e punte del 18%, a cui seguirebbero altri strappetti analogamente ripidi ma brevi. Non avrei la condizione fisica per quello strappo, dovrei scendere e spingere su una strada stretta.

Come le so queste cose, dov'è che vado a fantasticare? Su Komoot, per esempio: è l'universo immaginario delle cose che mi piacerebbe fare e non farò mai. E sto fantasticando di tornare a Piedimonte, Castello, passare San Gregorio e raggiungere il lago, ormai ho perso la speranza di individuare la finta Sprecavitelli. Complice una zoomata non richiesta (ancora il caso), la mappa si rimpicciolisce e mi appaiono le altre icone dei punti di interesse, una delle quali con la dicitura “Ponte del Diavolo (Arcichiaro)”: di ponti del diavolo ne è pieno il mondo, ma fammici guardare... ed eccolo lì, il posto non può essere che questo. La vegetazione è più folta che nella mia testa e in quelle due foto, scopro che sotto c'è una diga, parte della montagna è stata grattata per ricavarne materiale da costruzione, i guardrail sono rinforzati nello scopo da griglie di contenimento. Cambiamenti estetici, l'essenza del ricordo è immutata.

 
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from ...ma di' soltanto una parola.

Una premessa doverosa.

Dato che qualcuno potrebbe anche incappare in quanto scrivo, meglio precisare che:

1) scrivo per me, per una necessità di “mettere ordine”.

2) scrivo delle mie esperienze personali nella ricerca della fede.

3) scrivo di teologia perché mi appassiona. Precisamente scriverò dei miei studi di teologia.

Quindi: non desidero mettermi in cattedra, diffondere verità assolute o insegnare niente a nessuno, ma se vorrete parlare con me di ciò che scrivo, ne sarò immensamente felice.

Due note su di me: 56 anni, collaboratrice scolastica, diplomata in Ragioneria. Neanche una parola di inglese. Rapporto tumultuoso con la tecnologia. A dire poco...

Visto: lo dicevo che non bisogna prendermi sul serio! :–)

Un abbraccio al mondo.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Per la prima volta mi servo di questo blog per mettere in ordine fatti puramente miei personali, senza pretesa di estrapolarne ramificazioni sistemiche.

Ieri con l'associazione ludica cui partecipo abbiamo svolto qui a Milano (o meglio, nel verde sobborgo di Cologno Monzese) la quinta LudiCon, una due giorni di partite a giochi di società auto-organizzata e autogestita, e per la prima volta ci abbiamo pure inserito una conferenza divulgativa di game design (quando sarà disponibile in streaming, inserirò qui il link). Ne sono uscito assai soddisfatto, giacché nel corso della convention mi sono goduto quattro appaganti partite ad altrettanti giochi di ruolo:

  • Il quarto collaudo di Sogni di Luce e Tenebra, un mio pacchetto di regole aggiuntivo per Archipelago, grazie al quale giocare le atmosfere dei romanzi dark fantasy di Tanith Lee. Finalmente il nucleo centrale del pacchetto è pronto e funzionante e posso pensare di espanderlo un po' e predisporne la pubblicazione.
  • Una partita a Dawn of the Orcs in lingua inglese, perché facilitava il gioco una coppia italo-yankee, al termine della quale abbiamo dissezionato assieme tutto il potenziale lasciato inespresso da un design approssimativo e poco sistematico... e dopodiché la cosa è spontaneamente escalata in uno scambio di considerazioni sulla didattica e la letteratura di genere.
  • Poche settimane dopo essermi rigiocato il mio amato Lady Balckbird dal ciclo dei Tales from the Wild Blue Yonder, finalmente ho provato il gioco prequel Lord Scurlock... e ho recitato un androide elettroplasmico in lite di eredità con la sorella strega e il fratello pirata dei cieli. È stato estremamente appagante infilare tutto il mio autismo nel povero robot “socialmente inetto” in mezzo alle cospirazioni da “umani normali”.
  • In totale improvvisata, ho rispolverato Microfiction (la casa editrice ha chiuso ma è ancora reperibile qui), un titolo di cui sono stato playtester e conosco come le mie tasche ma non proponevo da tempo, e ne abbiamo ricavato una miniserie sword & sorcery all'insegna del trash, con ampie ed estese parodie (se non proprio satire?) di quella cinemtografia pop anni Ottanta che piace fin troppo ai millenial conservatori.

E alle quattro partite, aggiungiamo infinite chiacchiere inerenti lo stato del design del medium GDR ad oggi; la possibilità di tassonomizzare i giochi di ruolo fra giochi OSR e “giochi non OSR e quindi per persone finocchie” (spoiler: fa ridere perché la sottocultura OSR è spaccata fra uomini GenX reazionari e donne transgenere neurodivergenti); le disfunzioni di un'accademia che si finge progressista come specchio per allodole per nascondere la sua piena adesione al capitalismo; la discreta qualità hardware della Nintendo Switch 1 Lite; la socializzazione con una conoscente (via via sempre più amica) che condivide con me neurodivergenza e gusti ludici; gli aggiornamenti sui casi della vita di persone che non incrociavo da anni (menzione speciale alla conoscente che ha iniziato la terapia ormonale per la transizione di genere ed è raggiante di “seconda pubertà” estrogenica <3 ).

E qui viene il momento bello, il momento in cui ho fatto un bilancio. Durante questa convention, ho riso come un matto davanti alle affettuose imitazioni caricaturali che un conoscente (via via sempre più un amico) fa dei miei manierismi più astrusi, per poi abbracciarmi; persone nuove mi hanno definito estremamente interessante, grazie alle riflessioni e ai contenuti che ho portato nella conversazione; ho partecipato a ragionamenti sofisticati di analisi del design, dissezionando regolamenti e l'interazione fra le loro parti mobili, proprio come da novellino vedevo fare agli “anziani”; e soprattutto, durante l'ultima cena mi sono seduto spalla a spalla con un pischello del 2004 che si è trovato ad assimiliare aneddoti e ritualità condivise da tutta la comitiva, risalenti, in alcuni casi, addirittura a 15 anni fa... e in alcuni di questi aneddoti appariva pure il me ventenne appena entrato nel giro.

Insomma, la cosa più bella che mi porto a casa da queste giornate è la sensazione di volere molto bene al me stesso ventenne, che per dieci anni ha abitato l'ambiente ludico con tante gaffe, tanti incespichi, tanti buchi nell'acqua, tante fasi alterne, ma sempre con umiltà, curiosità e propositività (e questo voglio riconoscermelo): ho seminato bene per dieci anni, e ora mi porto a casa un bel raccolto, a distanza di un mese e mezzo circa dal mio trentesimo compleanno, un trentesimo compleanno che mi vedrà dotato di contratto indeterminato e casa di proprietà, in un territorio che amo e dove sto cercando di seminare bene, ieri come oggi. Se ripenso al me stesso timido e impacciato e spesso insicuro del tardo 2015-inizio 2016, non posso che essere fiero di lui e della strada che ha fatto, negli hobby culturali come nella militanza sociale (che poi per me si intrecciano assieme nella Controcultura con la maiuscola, e formano un tutt'uno).

Per altro, proprio in quegli anni tre mie canzoni del cuore erano, in ordine di pubblicazione, “It's Time” (Imagine Dragons), “Wake Me Up” (Aloe Blacc) e “Top of the World” (Greek Fire): tre canzoni scoperte in quanto colonne sonore ufficiali o ufficiose di film e cartoni animati del periodo, in particolare La leggenda di Korra e Noi siamo infinito; tre canzoni che parlano della transizione da una fase a un'altra, della malinconia di abbandonare ciò che è noto e confortevole, dell'energia positivamente strafottente di gettarsi nelle nuove sfide, dell'irrequietezza languorosa di barcamenarsi in un equilibrio nuovo, della determinazione di non abbandonare né il passato che ci ha dato forma né i sogni prescelti come bussola del proprio futuro... tre canzoni che inserii in una playlist per il mio partner di fine università (nonché mia prima relazione romantica), il quale mi pronosticò un bel futuro, una volta diventato wiser and older (citando “Wake Me Up”). Ora che i primi capelli grigi mi sono arrivati, e sono stato definito “un saggio della montagna” e “un ottimo cartomante”, mi permetto di riconoscermi che un pezzo del viaggio bello denso di cose l'ho completato con successo, arricchendo la comunità attorno a me, e posso iniziare la nuova fase citando un'altra canzone del cuore di dieci anni fa: “Go ahead and tell everybody I'm the man. Yes, I am.”

 
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from Warp

Ciao Livello Segreto, buondì. In queste torride giornate abbiamo pensato bene di tirar fuori un argomento in grado di sollazzare al meglio i nostri freschi cervelli: come gestire i contenuti fatti in AI nel nostro angolo di Fediverso.

Aldilà di quella che è stata poi la decisione presa ci tengo a sottolineare come sia estremamente felice e soddisfatto di questo thread: https://livellosegreto.it/@ed/114879077658852032

Non tanto per la posizione delle risposte (beh, un po' sì a dirla tutta), ma soprattutto per il fatto che fossero motivate e con spunti interessantissimi.

Però sì, dai, va detto che si gongola un po' quando in occasioni come queste ci si rende conto che forse un posto popolato da persone con idee e ideali simili siamo riusciti tutt3 insieme a tirarlo in piedi.

Andiamo al sodo.

I contenuti generati con AI non sono in linea con i valori attorno a cui è nato Livello Segreto e vi invitiamo a non postarli.

Questo non significa che chi li pubblica verrà bannato per direttissima, ma che: 1. si scoraggiano le persone a pubblicare qualcosa di simile (lo spazio sul server non è infinito e preferiamo che venga usato per cose umane che da AI) 2. se proprio dovete pubblicare qualcosa di simile (per far passare un punto o per mostrare qualcosa) usate il CW. 3. ci riserviamo di richiedere la rimozione di eventuali contenuti simili qualora lo ritenessimo sensato (lato admin/mod, ma anche lato comunitario: i report funzionano e vi invitiamo nuovamente ad usarli)

I discorsi sull'AI vanno benissimo – anche senza CW –, ma vi chiediamo di usare gli hashtag #ai e #ia così da permettere a chi volesse di silenziarli preventivamente.

È tutto, ora possiamo tornare a parlare di quanto sia bello fare il bagno in un laghetto fresco (o almeno pensarci così da avere un po' di frescura nel cervello).

Dubbi, domande o perplessità: scriveteci. Ed & Kenobit

 
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from Super Relax


Sono tornato da poco da un'uscita infrasettimanale in super relax, di quelle che mi si addicono e che vorrei moltiplicare.
Un'uscita con poche decine di metri di dislivello, al passo spedito di noi ciclisti di poche pretese alle prese con pianure deserte: 25 km/h di media e ci sembra di volare, tutta la velocità in più è in eccesso.

Il giorno non è ancora rovente, siamo sui 28°, non soffia più che un venticello esile, ma la brezza artificiale della pedalata è gradevole; mezzi a motore pochi e ben distanziati tra loro. Gli unici suoni, per lunghi tratti, sono quelli della bicicletta, a cui ci si abitua dopo poche uscite, e quelli che non smettono mai di rapire gli amanti della natura: il canto degli uccelli, le cicale quasi impossibili da vedere, solitamente, ma impossibili da ignorare.

E si va, sciolti e tranquilli, fino a cadere in una sorta di leggera beatitudine, la mente è finalmente libera dalle ossessioni e dalle preoccupazioni del quotidiano, i pedali sembrano non offrire resistenza, ci si sente come cullati da un pianeta fatto su misura, temporaneamente in un mondo simile al nostro ma mondato dai pesi, dalle brutture e dalla necessità della vita.

Certo, temporaneamente, ma meglio che mai.

 
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from kipple


La fortuna non esiste, è un modo che non mi appartiene di riferirsi al caso benigno. Un tiro di dadi favorevole, un'azione meccanica da cui scaturisce un risultato casuale. I dadi hanno deciso che non avessi idoli di alcun tipo, risparmiandomi parecchie delusioni. L'idolo, specie finché è ancora in vita, può far sempre in tempo a tradirsi (e tradirti).

Mio padre mi voleva bene, molto; anch'io gli volevo bene, molto, ma erano quei sentimenti che non si incontrano, si sfiorano, cercano di avvicinarsi e poi sfuggono vicendevolmente, camminano paralleli come due rette geometriche, separati da infiniti punti, infinite rette.

Era un uomo del Sud, degli anni Quaranta, nato, cresciuto e vissuto in determinati quartieri, con la scolarizzazione di uno che ha iniziato a lavorare poco più che bambino. Un'identità facile da inquadrare, ampiamente rappresentata. Io, invece, nella mia famiglia sono sempre stato un corpo estraneo. Non c'era nessun motivo, nessuna possibilità per cui tra noi le cose potessero funzionare più di tanto, la frattura si allargava con gli anni. Non c'era dialogo, non essendoci nulla su cui poter dialogare. Non c'era neanche voglia e possibilità di confronto e discussione, essendo le posizioni di partenza così distanti, inconciliabili, irremovibili. Non c'era nulla da mercanteggiare.

Come tutti, ha commesso degli errori, ma un paio almeno così grandi da negarmi la vita che avrei voluto. Non ha mai voluto investire niente su di me: lo so che è un'immagine brutta quanto il concetto stesso, ma viviamo nel capitalismo e determinate cose funzionano in un determinato modo. Ancora, non ha voluto lasciare Napoli e provincia, landa marcescente, quando ne avevamo la possibilità. Scelte che mi hanno fatto sentire privato della speranza e del futuro, probabilmente operate nel nome della famiglia in senso ampio, quando avrebbe dovuto limitarsi alla sua, di famiglia.

Nonostante tutto ci volevamo bene, però, alla nostra maniera e nelle sue ultime settimane ci siamo riavvicinati per quanto possibile, perché certe situazioni fanno riflettere sulle priorità e l'importanza delle cose.

Certi elementi di cultura popolare erano le uniche cose che avessero il potere di avvicinare, temporaneamente, fugacemente quelle rette. I fumetti del trio EsseGesse (Il Grande Blek, Il Comandante Mark, Capitan Miki), Tex, le storie esotiche di Sergio Toppi, Corto Maltese. I western di Sergio Leone, Il mio nome è Nessuno. Certi episodi, probabilmente produzioni mitteleuropee, che passavano in RAI, narrazioni più o meno fiabesche di cavalieri e nobili in boschi scuri, inghiottiti dalla nebbia. La domenica mattina, era quella la programmazione, mentre mia mamma faceva le faccende di casa, andavo a piazzarmi sul lettone e le guardavamo insieme, poi ci si preparava per uscire. Ero ancora abbastanza piccolo da uscire con loro, la domenica mattina.

Il legame più forte e duraturo di tutti, però, è stato Stephen King. Tutto è iniziato in un supermercato in provincia di Arezzo, quindi sullo scaffare dei libri di un qualche punto Coop. La chiamata dei tre: questo è il libro che mi cattura, sarà stata la copertina, il titolo, quello stile grafico che poi sarebbe diventato familiare.

Copertina di un libro con una sorta di tramono e quattro soggetti umani, un pistolero, due soggetti maschili di età differenti e una donna su una sedia a rotelle. A grandi lettere, il testo Stephen King e La chiamata dei tre.

Non sapevo si trattasse del secondo della serie, non era importante. Poi mi procurai il primo e tutti quelli usciti successivamente. Probabilmente, l'unica cosa che abbia mai atteso con relativa impazienza, in ambito intrattenimento, era il nuovo libro della serie. Comunque, visto che c'ero, mi appassionai alle storie di Stephen King, ai suoi mondi, alla sua narrazione, recuperando praticamente tutti i suoi libri fino a una certa data, su quelli recenti non sono ferrato. Anche mio padre ne divenne un avido lettore e vederlo con quei libri in mano, anche prima che li leggessi io, era un modo per sentirsi più vicini. Almeno per me, non so lui cosa provasse a parti invertite.

Poi, un giorno, in rete si inizia a parlare di Stranger Things: non me ne importa nulla di essere sempre sul pezzo, quindi lasciai perdere per qualche tempo, poi mi procurai la serie. Sì, sappiamo tutti che è una serie furba, facilona, derivativa, eccetera. Come i film di Tarantino, non sarebbe esistita senza aver potuto attingere a una mole considerevole di materiale precedente, non sarebbe esistita senza la musica e l'estetica degli anni Ottanta, non sarebbe esistita, in primo luogo, senza le migliaia di pagine di Stephen King. Anche le migliaia di pagine di Stephen King vengono da altre decine di migliaia di pagine.
Faccio in modo che mio padre possa vederla, un altro modo per sentirsi più vicini. La apprezza e molto, non avevo dubbi. È lui il primo a vedere la stagione successiva, appena disponibile.

Esce la terza stagione, la divora e poi mi fa “quando escono le altre puntate?”. Non ho modo di saperlo con precisione, lui stava ancora relativamente bene (per quanto possa stare bene una persona che ha ricevuto quel tipo di condanna a morte) e quindi posso dirgli, senza che mi si bagnino gli occhi, che la vedrà appena uscita. Non la vedrà mai, la malattia non gliene ha dato il tempo. Non l'avrebbe vista comunque, perché il cortisone, tra le decine di medicinali che doveva assumere, gli aveva ormai opacizzato la vista, non penso distinguesse più che ombre.

Non ho voluto vedere le puntate successive, son rimasto anch'io allo stesso punto. Non le vedrò mai. E, sapete una cosa? Mi ero ripromesso di leggere l'ultimo libro, La Torre Nera, proprio come il titolo della saga, solo quando sarebbe stato meglio. Avrei voluto leggere quella conclusione col cuore più leggero, conservarla come una bottiglia pregiata per le grandi occasioni, ma la morte è arrivata prima e ho deciso così. Non lo leggerò mai.

 
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from ordinariafollia

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Fa rima con cuore oppure rispetto fa riva con tavolo oppure con tetto fa rima con casa al mare ma la parola non la voglio trovare.

Mille cagnare duemila bestemmie per me sono pregi, per te son difetti finché non ci portano vino e spaghetti.

Fa rima con potere oppure dovere ma puzza come il buco del sedere fa rima con essere oppure con dare ma sta parola non la voglio cercare.

Per me oggi è nero, per te è sempre bianco allora mille cagnare settanta volte sette bestemmie finché io lo sopporto e tu non sei stanco.

Fa rima con capisci tutto tu fa rima con c'era una volta e or non c'è più fa rima con Achille vestito da sposa ma non è importante, pa'... adesso riposa.

 
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from Signor Uscita

Penso capiti a tutti di affezionarsi a qualcosa. Può capitare di affezionarsi anche alla propria identità.

Non ho in generale una buona memoria, ma ricordo con chiarezza il momento in cui scelsi il mio primo “nickname” per la mia prima email. Parliamo di un’epoca ben diversa quando i computer andavano a pedali e non si trovavano molti altri utenti online.

Mi ci affezionai. Solo recentemente mi son reso conto quanto possa essere liberatorio e rinvigorente cambiare nome, anche solo temporaneamente. Offre una visione da un altra prospettiva, un altro angolo.

È l’equivalente di quel signor Marco Rossi che per gli amici si fa chiamare Franco (storia vera).

[…]

 
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from Ore liete


Delle mie esperienze con lo skatebobard, in estate e lontano da casa, ne ho parlato qui. Del tennis, invece, ne scrivo adesso e anticipo che racchetta e skateboard trovano un punto di contatto nel punto di contatto tra il mio coccige e una superficie più o meno piatta, ma indiscutibilmente solida: sì, sono caduto, anche stavolta pesantemente, con una racchetta in mano mentre stavamo in villeggiatura e questo è il succo di questo articolo, che continuo per chi fosse ancora interessato.

Stavolta, la casa era a Castello del Matese, località in cui abbiamo villeggiato una sola volta, e quell'anno avevamo la compagnia dei miei zii dalla Toscana. Noi salivamo di poco, loro scendevano di parecchio e ci incontravamo in questo piccolo paese tra Piedimonte (Matese) e San Gregorio (Matese). Il Matese è un'area geografica, fatta di monti e valli, a cavallo tra la Campania e il Molise e i nomi di molte località incorporano questa dicitura, subentrata quasi sempre a “d'Alife”. Piedimonte è in collina, 300 metri più su c'è Castello e salendo per altri 300 metri, circa, si arriva a San Gregorio. Ci eravamo fermati nel mezzo, quell'anno.

Vista dall'alto di un borgo di montagna, con un castello visibile al centro, edificato su un rilievo pianeggiante posto tra più alti monti boscosi

La casetta affittata dai miei zii era più moderna, per quanto potesse esserlo in un paesino di montagna più di trenta anni fa. Ricordo gli infissi in alluminio, almeno: la nostra, di sicuro, non ce li aveva. Era una tipica casetta da borgo, di quelle non vissute dai proprietari e che quindi sono rifinite un po' sì e un po' no, più no che sì. Muri intonacati senza troppa convinzione, pavimenti decisamente antichi, bagno al piano di sopra a cui si accedeva, se non ricordo male, passando da un balcone. Gli elementi della abitazioni tendono a diventare a incastro, in certe situazioni. E la scala che portava al piano di sopra: una dei protagonisti del racconto, che era di gradini di cemento grezzo, probabilmente neanche troppo regolari in alzata e pedata, come se servissero a ostacolare l'avanzata di eventuali aggressori dal piano basso che volessero conquistare il bagno (senza doccia e senza vasca, ci lavavamo in una capiente tinozza) o le stanze da letto. Ah, dimenticavo: da una porticina a piano terra, fatta di una intelaiatura approssimativa di legno, vetro e spifferi, si accedeva a un orticello interno, incastrato nello spazio lasciato dalle case incastrate tra loro. I proprietari ci chiesero di evitarlo, possibilmente, cosa che facemmo. Chissà, forse vi passeggiava un fantasma, fatto sta che quella stanza era molto più tetra del resto della casa.

Con noi, c'erano i nostri due uccellini, una canarina e un verdone, che ci portavamo sempre dietro in villeggiatura, mica potevamo lasciarli a casa. Ogni estate, caricavamo la 127, quella col motore da 900 cm³ e tre porte, ci entravamo in quattro più la gabbia e partivamo. Inconcepibile, attualmente: senza un 3.000 diesel, da tre tonnellate, non si fanno fare neanche le scuole dell'obbligo ai figli, neanche se per arrivarci basta attraversare la strada.

Ma la racchetta? Eccola. Per qualche motivo, come se poi potessi giocarci da solo, come se la 127 non fosse già abbastanza stracolma del necessario (tra cui noi e i nostri uccellini), mi ero portato dietro questo racchettone dei tempi di Nicola Pietrangeli, bastava impugnarlo e ci si sentiva subito un po' Fantozzi. Una notte, dalla stanza tetra arrivarono dei rumori. Sarà stata la semioscurità che l'avvolgeva anche nelle ore di sole, saranno state quelle scale quasi medievali, quell'ambiente colpiva la fantasia (fertile) di un ragazzetto. E questa fantasia era sollecitata nelle ore di luce, ma quella notte, svegliatomi di soprassalto e solo parzialmente, avevo immaginato una cosa molto più terrena e pratica di un fantasma che si divertisse a turbare il sonno dei giusti: poteva essere un gatto, entrato da spiragli che solo loro conoscono e possono praticare, venuto a mangiarsi i nostri uccellini!

Passai da uno stato di sonno profondo a uno di dormiveglia, accesi una luce e afferrai il racchettone, pesante di suo come se fosse stato di pietra, non so in quale ordine, per poi lanciarmi per le scale, brandendolo come mazza chiodata, scivolando su uno dei gradini, battendo (ancora) il coccige al suolo con frastuono sismico, fermandomi un paio di gradini più in basso, abbastanza naturalmente anestetizzato da non sentire subito il dolore, ma abbastanza sveglio da capire che il nemico era stato messo in fuga prima di poter fare danni. In realtà, non sapemmo mai se davvero ci avesse fatto visita un gatto, quella notte. Anche quell'anno, la gabbia tornò a casa intatta, coi suoi occupanti illesi, in un giorno di inizio settembre.

La racchetta la usai come tale una sola volta, ci giocai con mia cugina su un campetto affittato per un'ora. In realtà, non potrei affermare con certezza di averci giocato, di sicuro i nostri vicini di campo passarono un'oretta d'inferno: noi lanciavamo costantemente e involontariamente le nostre palline nel loro campo di gioco e loro, gentilmente, ce le rimandavano per tutto il tempo, senza un fiato o una smorfia.

Questo è il vero spirito del tennis, non fare i milioni e pagarci ben misere tasse in un paradiso fiscale, azzardando un italiano da dizionario tascabile.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Premessa linguistica: in questo articolo userò le parole “froci-”, “ricchion-”, “invertit-” e affini come insulti riappropriati, cioè termini derogatori che io ribalto in termini di auto-elogio, per rimarcare la mia anormalità di persona non eterosessuale rispetto a una “normalità” che rifiuto in quanto malsana. In questo senso, si tratta dell'adattamento italiano del vocabolo inglese queer, che ha dietro lo stesso identico etimo.

Un lunedì mattina come tanti

Da quando mi sono trasferito dalla Brianza a Milano (o dovrei dire “da quando sono emigrato”? A volte me lo chiedo), ho iniziato a fare attività sociale e politica, e nelle ultime tre settimane circa ho contribuito con il mio pezzettino a far succedere un progetto cui tenevo tantissimo: la Marciona di Milano, ovverosia il corteo dell'orgoglio ricchione auto-organizzato dai gruppi politici froci di sinistra, in opposizione aperta a un Pride comunale che ormai è diventato un mega-evento turistico di pubblicità per grandi aziende, totalmente svuotato del suo significato politico di anniversario dei Moti di Stonewall del '69.

Nota storica breve: sì i Pride commemorano un tumulto in cui persone frocie newyorkesi (per lo più transgenere e per lo più afroamericane e latinoamericane) riempirono di botte la polizia e pretesero la decriminalizzazione delle identità queer (represse in quanto malattie mentali e crimini contro il decoro), nel quadro più ampio del movimento del '68, e collegandosi direttamente alle mobilitazioni contro la Guerra del Vietnam e a quelle per la desegregazione della popolazione nera. Di fatto, queste manifestazioni sono un po' il corteo del Primo Maggio specifico per noi ricchioni, e se non lo sapevate, è ulteriore indice che troppi Pride moderni fanno pena.

Non starò qui a commentare l'esito della Marciona (quello spetta a tutta la rete usando il nostro blog... appena lo rimettiamo in sesto), bensì ne farò una lente di analisi per un fatto curiosissimo che mi è successo stamane. Alcuni mesi fa, su consiglio di una mia amica (ricchiona anche lei) che si interessa di scienze sociali, mi sono iscritto alla newsletter «Ciclostyle», in cui l'antropologa culturale Carolina Boldoni e il giornalista/formatore Enrico Di Palma commentano fatti vari ed eventuali attraverso le rispettive lenti di analisi, e nel numero di stamane Boldoni ha dato una restituzione del campeggio di formazione antropologica che ha tenuto nei giorni scorsi. Raccomando di sfogliare la newsletter qui e poi tornare qua per sentirmi fare il puntacazzista comunistone.

Gioire perché la montagna ha partorito un topolino

A quanto pare, Boldoni considera un successo il suo antropocamp (ovviamente indicato con anglicismo) perché 8 partecipanti hanno imparato a fare vita comunitaria attraverso la condivisione del lavoro domestico, ivi compreso quello in cucina, e grazie alla buona fede reciproca necessaria per costruire legami di condivisione senza filtri e senza pressioni. 8 partecipanti che mi aspetto avere circa la mia età e il mio status sociale di “alto proletario-piccolo borghese” (considerando l'utenza cui si rivolge il progetto Ciclostyle), e che hanno scelto di pagarsi una vacanza didattica organizzata apposta per imparare... che non sono persone asociali in toto, bensì gli mancava l'educazione affettiva minima per saper selezionare le proprie frequentazioni e costruire legami autentici.

Confesso che questa newsletter mi ha dato la stessa sensazione di quando parlo di giochi di ruolo e vedo la gente in estasi perché per anni ha giocato unicamente a Dungeons & Dragons o qualche sua derivazione e ha appena scoperto che esistono GDR

  • Di ambientazione non high fantasy e/o
  • Meno complessi meccanicamente di un wargame vecchio stampo e/o
  • Che non richiedono 3 ore di preparazione preliminare per ogni ora di gioco effettivo

In casi simili, la mia reazione di pancia sarebbe sempre di sottoporre queste persone a una terapia d'urto per allargare i loro schemi preconcetti da 0 a 1000 – ad esempio proponendo loro un gioco monosessione totalmente dialogico e di ambientazione realistica contemporanea (tipo Alice è scomparsa); tendenzialmente poi mi trattengo, ma ne parlerò in un altro momento.

Al momento, mi interessa evidenziare che la clientela di Boldoni (e, presumo, Di Palma?) è come il giocatore di ruolo insoddisfatto medio: gente che per anni si è torturata a scegliere un'opzione sbagliata per sé, credendo che non ci fosse una vera scelta bensì un'unica strada possibile, ha appena fatto un passettino per capire meglio la vastità del mondo, e ora suona la fanfara del trionfo come se avesse raggiunto il Nirvana. Non so mai se provare pietà per gli anni che queste persone hanno sprecato e che non riavranno mai indietro, o piuttosto schernirle per la sicumera con cui sopravvalutano il proprio primo passo in un percorso che sarà lungo e complesso e richiederà tanta umiltà e curiosità. O ancora, se indirizzare un po' di disprezzo verso chi capitalizza sull'ignoranza altrui, abbandonando la deontologia dell'insegnante ed entrando nel linguaggio disfunzionale del guru.

Abbiamo svenduto l'educazione affettiva

Io non conosco personalmente Boldoni (né Di Palma), non ero al suo antropocamp, e non posso certo giudicare lo sforzo organizzativo messo nel progetto né l'impatto concreto sulle vite delle 8 persone partecipanti. Però conosco benissimo la sensazione di essere “sbagliato” per la comunità circostante e incapace di inserirvisi, considerando che sono un uomo autistico e bisessuale cresciuto nella provincia lombarda in piena epoca leghista, senza uno straccio di supporto terapeutico specifico per le neurodivergenze né una rete amicale realmente progressista e attenta alle questioni femministe-finocchie (anzi, avevamo dentro un paio di trumpisti). Se non sono esploso malamente per l'intreccio fra le mie due marginalità, e tutto lo stress conseguente, è perché dai 17 anni in poi ho cercato col lanternino persone e contesti sociali che potessero essere affini al mio carattere e ai miei interessi, e mi sono preso l'accollo di scremare i (tanti) buchi nell'acqua dalle (tante) situazioni fertili: da lì è scaturita la mia passione per il gioco di ruolo e il paio di anni a fare partite “matte e disperatissime”, sia di persona sia in videoconferenza, con tante persone straordinarie che mi hanno offerto uno spazio sicuro per esprimere me stesso, rendermi vulnerabile, e imparare con errori e tentativi a compensare i miei deficit di intelligenza sociale. Ricorderò sempre il mio primo lavoretto come traduttore per Dreamlord Games, il cui direttore scelse di dare fiducia allo sbarbatello logorroico che apriva sempre discussioni tecniche sul forum ufficioso di Fate, o quella partita a Dungeon World che iniziò con me collassato per lo stress universitario e uno dei miei compagni di gioco pronto a tirarmi su di morale. O la demo di Lady Blackbird in cui conobbi la coppia, allora appena andata a convivere, che adesso ha un figliolo adorabile; o il playtest al bellissimo gioco di edu-intrattenimento Stonewall 1969, in cui imparai la storia dei Moti di Stonewall e la definizione di lotta di classe auto-organizzata.

E tornando circolarmente al punto di impartenza, è grazie a quei bellissimi anni di educazione affettiva mediata dall'hobby ludico, se a 27 anni mi sono trasferito a Milano e, come primissima cosa, ho mappato le realtà politiche che ancora cercano di portare avanti progetti di sinistra, in una città che da praticamente un decennio sta venendo massacrata per trasformarla in un luna park per milionari, e mi sono buttato a capfitto dentro quel marasma di militanza. Ho partecipato a picchetti, cortei, cene sociali, mostre d'arte e cabaret gratuiti, alla pulizia di centri sociali e alla preparazione di collette alimentari, ho composto e declamato comunicati pubblici in manifestazione e partecipato a dibattiti aperti... E soprattutto, ho stretto connessioni autentiche. Compagni e compagne con cui volevo inizialmente mantenere un rapporto puramente politico (“per non dare troppa confidenza”) sono ormai amici e amiche che considero di famiglia; persone che rispettavo mi hanno deluso allorché le ho messe davanti a una prova dei fatti, e ho saputo rivalutarle senza stracciarmi le vesti; persone di cui diffidavo hanno dimostrato più serietà e apertura di quanto pensassi, e ora sono solo contento di lottare al loro fianco; militanti che potrebbero essere i miei genitori mi raccontano volentieri, con la commozione in volto, degli amici di un tempo stroncati dai fascisti e dall'eroina; militanti che potrebbero essere mie sorelle e miei fratelli minori si interfacciano con me da pari a pari; DJ veterani della scena musicale underground mi salutano calorosamente ogni volta che ci becchiamo in manifestazione ... altre persone della rete Marciona mi invitano agli hacklab e io contraccambio invitandole alle convention di GDR (di nuovo, il cerchio si chiude e tutto sta insieme).

Dove voglio arrivare? Al fatto che io, già da ragazzo, ho saputo individuare un'idea approssimativa di chi volevo essere e l'ho perseguita e affinata col tempo; e ho avuto la fortuna di sentirmi a casa nella Controcultura, quella con la maiuscola, dove consideriamo un valore la libera autoespressione e la condivisione di saperi senza creare poteri (per citare la buon'anima del compagno Primo Moroni). Di conseguenza, ho imparato organicamente a costruire legami autentici, prendendo esempio da persone che già avevano fatto quel percorso e mi hanno guidato e consigliato, e ora sono in condizione di guidare e consigliare io chi è più giovane di me. Tutto questo, senza pagare guru che mi facciano dei workshop sul senso vero dell'esistenza. Davvero ci sta bene che le storie come la mia siano l'anomalia? Davvero vogliamo che la norma sia, invece, dover assumere un/-a guru per imparare a vivere in comunità e darsi una progettualità?

Agire l'utopia

Giusto perché le cose seguono spesso uno schema (sì sono anche neopagano, ma ne parliamo dopo), nelle ore intercorse fra la Marciona e la lettura di «Ciclostyle» avevo proseguito la mia lettura di «Un'Ambigua Utopia», bellissima fanzine di critica culturale marx/z/iana (sic!) curata fra '77 e '82 da un collettivo di nerd sinistri della prima generazione che militavano nell'Avanguardia Operia e leggevano fantascienza, i quali l'hanno riavviata a partire dal '20 come progetto della pensione. Ebbene, come da titolo la rivista si poneva e si pone il problema di uscire dalla concezione consolatoria e prescrittiva dell'utopia e passare a una concezione pragmatica di agire l'utopia nel qui e ora, e proprio iersera ho letto l'editoriale del numero 6 (Marzo/Aprile 1979), in cui la redazione fece il punto proprio su questa dialettica in ottica di problematizzazione aperta, in particolare domandandosi se possa esistere un'utopia di sinistra o se invece il concetto stesso di utopia non si colleghi intrinsecamente all'automiglioramente individuale capitalista e all'ottimizzazione della macchina statale.

Non ho potuto non collegare fra loro quell'editoriale, la newsletter, la Marciona, e il festival con corteo finale che «Un'Ambigua Utopia» organizzò a Milano nel '78 (rendicontato nel numero 4). Da un lato, c'è un capitalismo ormai così pervasivo che per tante persone della mia età vivere atomizzate ed esistere per lavorare è la norma ineluttabile, l'affiliazione politica (se c'è) non va oltre i meme, portare avanti hobby propri e viverli come fortemente identitari è inconcepibile, e non può mancare la caccia alla relazione sentimentale (rigorosamente monogamica) come status symbol di adultità. Dall'altro lato, ci siamo ieri come oggi noi teste calde antagoniste, che ci ostiniamo a scendere in piazza agghindate da marx/z/iane e da raver, a bordo di risciò sgangherati decorati con artistici cartelli in cartone, esibendo fiere il quadricolore palestinese e la bandiera dell'orgoglio finocchio (rigorosamente la versione nuova, però), e prima durante e dopo queste manifestazioni di dissenso e di disordine costruiamo altre socialità, altre culture, altre prospettive.

Cantavano cinquant'anni fa i cori di Lotta Continua:

La scuola dei padroni non funziona più ma solo come base rossa; la cultura dei borghesi non ci frega più, l'abbiamo messa nella fossa.

Canta oggi Carenza503, rapper torinese con cui ho l'onore di militare:

Sogno con te solo di stare bene. Sembra banale ma è radicale: la forma più pura dell'anarchia che ci potesse mai capitare.

Mi pare che la sostanza sia sempre quella. Non abbiamo, al momento, le condizioni materiali per ribaltare il sistema, ma abbiamo le possibilità di costruire delle alternative interstiziali, e il dovere morale di tirarci dentro più persone che possiamo, senza farle intortare da una falsa alternativa erogata dal capitalismo. Perché l'utopia non verrà domani: l'utopia è oggi, giorno dopo giorno, in ogni istante di vita degna e autentica che riusciamo a mettere insieme, costruendolo assieme. E questa, per me, è la base vera del socialismo libertario.

Per il comunismo e per la frocità, riprendiamoci la città.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Io e il Mondo di Tenebra

Per essere un nerdacchione zillenial, sono un po' atipico: giocare di ruolo al tavolo e dal vivo mi piace tantissimo, ma il mio imprinting ludico è stato praticamente subito con quelli che io chiamo i “GDR d'essai per zecche finocchie”, partendo da Dungeon World e poi escalando sempre più verso Trollbabe, Archipelago, e i LARP di gangster inetti che dissanguano in macchina o di famiglie che esplodono per i non-detti. Rispetto alla media ho giocato poco a Dungeons & Dragons (spizzichi e bocconi di 3.5 e di 5), ma ancora meno al Mondo di Tenebra: un'unica partita atroce a Vampire: The Masquerade quando avevo 18 anni, ovviamente storpiato in un Grand Theft Auto: Vampire City nel quale una banda di ganster vampiri compivano atti di vandalismo aleatorio grazie ai POTERI MAGGGICI. Era da almeno 10 anni, però, che volevo rifarmi la bocca con i miei amici di buon gusto presibbene o con Vampire e Werewolf, o con Mage e Demon, ma alla fin fine la nuova occasione è arrivata adesso, grazie a un diverso amico di buon gusto (molto più recente!) che mi ha proposto una sua hack di Mage: The Awakening.

Logo di *Mage: The Awakening*

Giocare a meccaniche coperte

Non intendo parlare troppo della regole “parametriche”, perché il mio amico (persona dai molti nomi, io fra i vari uso Shaggy) ha fatto un lavoro egregio di sfrondamento e razionalizzazione delle meccaniche, ed è giusto che lo commenti lui un domani. Mi sento solo di esporre che ha ottimizzato la struttura del Nuovo Mondo di Tenebra prendendo spunto dal filone di design che da The Pool ha prodotto direttamente The Shadow of Yesterday e Fate, è deviato indirettamente sui Powered by the Apocalypse e si è ricongiunto a sé stesso nei Forged in the Dark. In sostanza, risoluzione a obiettivi, sistema misto di statistiche fisse e tratti, risorse spendibili per intervenire sull'alea e ricaricabili tramite impiego di spunti narrativi; tutto liscio come l'olio. Ciò che mi ha affascinato, è che Shaggy ci tiene molto a coltivare la dimensione di “orrore personale” che dovrebbe rappresentare il cuore dell'esperienza Mondo di Tenebra, pertanto abbiamo giocato in modalità 1-a-1 e, soprattutto, a informazioni coperte: io ho iniziato il gioco creando unicamente il lato umano del mio personaggio, il comune mortale immerso in una vita mondana, e la partita introduttiva si è imperniata sul Risveglio delle facoltà magiche del protagonista (l'awakening del titolo), andando così a costituire sia un tutorial graduale delle regole sia, nella diegesi, l'esposizione del personaggio principale a un mistero numinoso e perturbante, mistero che è tale anche per me giocatore, che non conosco la cosmologia e metafisica alla base di questo mondo immaginario. Come Shaggy mi ha candidamente esplicitato, questa modalità ha senso solo alla primissima partita a Mage di una persona, perché poi la discrasia di informazioni note fra personaggio fittizio e giocatore reale la renderebbe una noia mortale senza alcun pathos, ma per parte mia l'essere un'esperienza una tantum non la rende meno degna del mio tempo; anzi, penso si tratti del primo caso in cui mi sto godendo un GDR “tradizionale” a informazioni così cospicuamente asimmetriche, perché la diegesi in cui stiamo giocando e la sua parametrizzazione si prestano molto bene allo scopo. È stato emozionante aggiungere di botto alla mia scheda personaggio le prime statistiche magiche, non sapere ancora come funzionino, e farci i primissimi esperimenti per raccapezzarmi: empatia a mille con lo sbigottimento e la curiosità del mio buon protagonista, e piena percezione del senso di ascesi gnostica che Shaggy mi ha pronosticato.

Qualche considerazione più ampia

Innanzitutto, dopo tre anni che gioco a LARP monosessione, sono abituatissimo alle schede di personaggio modulari in cui le varie parti si sbloccano col progredire della partita e forniscono nuove informazioni da portare in scena, giocando anche sulla discrasia fra ciò che io giocatore so, come decido che il mio personaggio lo vive, e cosa e come farò agire al personaggio. È però la prima volta che vedo questa dinamica applicata a un GDR cartaceo, e l'ho trovata così piacevole che spero qualche designer ci abbia pensato prima di Shaggy, auspicabilmente congegnando dei meccanismi di “temporizzazione” per cui lo sblocco delle nuove meccaniche sia drammaturgicamente sensato, e non totalmente arbitrario a discrezione del Narratore (del resto i buchi regolistici di discrezionalità, notoriamente, sono il fattore più frequente di instabilità nei giochi con Game Master). Così su due piedi non saprei certo pensare a esperienze ludiche in cui questa dinamica risulti automaticamente adatta, però non dubito che ne esistano, e di sicuro mi incuriosirebbe esperirne e metterle a confronto. In secondo luogo, mi ha parecchio sorpreso che sotto due diverse prospettive questa partita si ricolleghi a riflessioni sulla natura del GDR (o meglio, delle correnti interne al medium GDR) che ho letto di gusto di recente sul blog Taskerland scoperto grazie a quella benedizione che è Mastodon:

  • Questo articolo tratta di come i GDR, per ovvie ragioni storiche, siano quasi intrinsecamente radicati nell'immaginario delle narrative di genere, e questo rappresenti una soglia d'ingresso in più. La cosa mi tocca, perché nel comporre il mio personaggio di Mage ho cercato deliberatamente di mettere assieme un individuo lontano da me, terribilmente “Italiano medio”, quindi del tutto impreparato a livello di cultura pregressa ed immaginario ad esperire il sovrannaturale, laddove io ho come mio interesse assorbente la storia delle religioni e dell'occultismo. Lo sforzo deliberato di recitare una persona normale schiaffata in un contesto fantastico, e di farla agire senza sistematizzare il sovrannaturale in paradigmi di senso pregressi, è un esercizio stimolante.
  • A cavallo fra questo e quest'altro articolo, si tratteggia un gusto per il GDR caratteristico dell'Europa francofona alla fine del secolo scorso: il Jeux d'Ambience in cui i personaggi sono figure verisimili connotate essenzialmente dalla propria professione e status sociale, vengono posti davanti a una comunità (anche in senso lato) attraversata da tensioni, faide, complicazioni e quant'altro, e i giocatori devono fare interfacciare i personaggi con tale comunità anche nelle minuzie della vita quotiiana, tendenzialmente partecipando a un conflitto centrale di tipo giallistico. Una modalità ludica esemplata da Call of Cthulhu, non da un D&D allora irreperibile in Francia, e quindi ben antecedente l'esperienza ludica ricercata dal Mondo di Tenebra, ma ad essa accomunato da due fattori:
    • L'abitudine di nascondere ai giocatori tutte le regole di parametrizzazione, demandate unicamente al narratore, per introiettarli a giocare in modalità freeform. Che è diverso dall'emersione organica dei sistemi di regole, e secondo me meno interessante, ma presenta un'affinità concettuale di fondo.
    • La prospettiva narratologica da “romanzo borghese” in cui i personaggi giocati non sono eroi di romanzo d'avventura, più o meno fantastici e più o meno orientati alla sublimazione di fantasie di potere fanciullesche (dal pistolero spaziale al mago signore degli elementi), bensì figure umane realistiche e radicate nelle proprie comunità, che con i propri mezzi mondani affrontano (e neanche sempre) una minaccia latente paranormale. E se questa minaccia da esterna diventa interna, ecco emergere l'intimo orrore promesso dai giochi del Mondo di Tenebra.

Conclusioni per oggi

Voglio andare da qualche parte, con questi miei pensieri? Nah, solo renderli pubblici e sollevare riflessioni e domande a chi legge, come ho promesso nella dichiarazione d'intenti del blog. Forse ne terrò conto per i miei (pochi) progettini di design nel cassetto, forse orienterà le mie prossime partite alle convention, forse resteranno elucubrazioni per il piacere di farle. So solo che spero che Shaggy abbia presto disponibilità per continuare la partita, perché ho concluso stipulando il primo accordo magico del mio Mago con un essere spiritico. E voglio vedere cosa posso farne.

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

La solita intro aneddotica

Io sono tremendamente fuori tempo su tutte le forme d'arte. Non sto quasi mai al passo con le novità del momento e baso la mia dieta mediatica sui pezzi da novanta del passato, spaziando dall'antichità profonda all'altro ieri. Rispetto ai videogiochi, sono estremamente affezionato all'epoca che va grossomodo dall'89 al 2000 (gli anni in cui o ancora non c'ero, o ero un marmocchio), e oggi ho terminato di giocare un pezzo da novanta di quella fase storica: Final Fantasy IV. Queste sono le mie opinioni da cretino qualunque, aspettatevi spoiler.

Final Fantasy IV

Con che spirito ho giocato

Con quello da smanettone filologo: ho giocato sul mio SNES Mini la prima edizione del '91 per Super Nintendo Entertainment System, ma ho applicato alla ROM originale per il mercato USA la patch Namingway Edition, che aggiorna la traduzione in accordo con le edizioni successive, restaura i contenuti tagliati dalla prima localizzazione, e debugga e ribilancia qua e là. Oltre che con quello da sentimentale: le mie partite a Final Fantasy X, X-2, XII: The Zodiac Age, XV e VII (sia primo atto dell'originale sia primo episodio del Remake) sono state importanti attività condivise con il mio ex partner dei tempi di fine università-inizio lavoro, e nei primi giorni o di questa avventura con FF IV volevo scrivere di mio pugno un manuale di istruzioni, così da proporre il gioco alla persona che tre mesi dopo, a fine partita, è ormai diventata la mia ex partner. In più, c'è stato uno iato di un mese e mezzo in cui non ho avuto la testa per giocare, siccome stavo comprando casa. Per cui, che dire, FF si conferma una serie che mi immalinconisce spesso.

Cosa ne penso del gioco

Darò considerazioni sparse e disorganiche, perché non ho minimamente le competenze ludologiche per costruire un discorso coeso:

  • È stato fondamentale avere con me una scansione del manuale originale della prima edizione, perché è chiaramente un gioco pensato per il supporto cartaceo separato: le informazioni interne dell'interfaccia abbondano, ma non bastano. E dato che io sto giocando una versione ribilanciata, c'è voluto anche il manuale separato della patch per tenere traccia degli effetti ricalibrati di magie ed equipaggiamenti. Per la serie, impegnativo come tradurre dall'Aramaico.
  • Il combattimento ATB con la “barra della stamina” che si carica in tempo reale spacca ancora dopo 34 anni: a mio gusto non c'è proprio paragone con il soporifero sistema coevo dei Dragon Quest, con immissione dei comandi in blocco per tutto il party. Mai un tempo morto, bensì un'alternanza piacevolissima fra pensare alla prossima mossa e godersi l'animazione corrispondente, più l'affanno piacevole di correre ai ripari se succede qualche guaio (tipo un personaggio mandato KO da un colpo a sorpresa).
  • La prima fase del gioco è un capolavoro drammaturgico, dall'inizio in medias res con l'assalto a Mysida fino alla liberazione di Rosa. Non c'è un passaggio fuori posto: il ritmo resta incalzante, i conflitti urgenti, i dialoghi ben scritti (nei limiti di una traduzione dal Giapponese all'Inglese con limiti di caratteri). La doppia strage al villaggio di Mist e nel castello di Damcyan ci lascia un magone atroce e la percezione di stare combattendo contro forze insormontabili, l'interludio notturno dedicato al duello fra Edward e l'uomo-pesce è di un lirismo sopraffino, l'assedio di Fabul ha una coreografia assolutamente esaltante (e siamo dieci anni prima de Il Signore degli Anelli: Le Due Torri)... il naufragio del vascello arriva come un ennesimo pugno nello stomaco, e allorché Cecil si ritrova totalmente solo sulla costa di Mysida non si può non fare nostro il suo dolore profondo, la sensazione che tutta la sua vita si è sbriciolata nell'arco di poche settimane e tutto ciò che gli resta sia buttarsi in mare... o mendicare il perdono dai suoi nemici. Ed ecco perché il pellegrinaggio sul monte Ordalia è forse il momento più toccante del gioco: perché davvero il nostro protagonista e avatar principale ha toccato il fondo, è solo e infelice e carico di peccati, e la sua redenzione è appesa all'aiuto di due ragazzini prodigi (per altro, Palom e Porom mio nuovo duo preferito di spalle comiche). I filmati di a parte in cui Kain e Golbez monitorano il viaggio di Cecil non fanno che accrescere la tensione, e il doppio scontro con Scarmiglione rende tanto più dolce e rassicurante la purificazione di Cecil nel sacrario.
  • Se il sacrificio di Palom e Porom contro Cagnazzo è un'ulteriore coltellata al cuore, soccorrere Yang e Cid e sbloccare finalmente l'aeronave ci porta a una simpatica (e necessaria) fase di “viaggio fra omaccioni”, con la libera esplorazione di un mondo vasto e misterioso (cfr. FF XV stesso); è stato estremamente liberatorio svolazzare per il pianeta, mappare bene le posizioni reciproche fra i vari reami... ed esplorare le zone nuove. In particolare, mi rivendico di essermi causato un game over cercando di esplorare anzitempo il castello di Eblan, e di aver trascorso ore a metter da parte soldini per comprare a Cid e Cecil delle corazze di mythril... salvo poi proseguire la trama e scoprire che il dungeon successivo si gioca il trucchetto del magnetismo. Ergo, altra caccia al mostro per comprare equipaggiamenti di legno e tessuto!
  • La battaglia della Torre di Zot è estremamente godibile, sia per l'esplicito ingresso nella vicenda del tema “Civiltà perduta tecnologicamente avanzata”, sia per il duello a colpi di Reflect contro le Tre Sorelle Magus (miei vecchie beneamante conoscenze da FF X)... sia soprattutto per il momento climatico, fra il sacrificio di Tellah e la liberazione di Rosa e la battaglia contro Barbariccia, splendido tutorial per imparare a usare Kain. Mi è rimasta particolarmente dentro la scena conclusiva della sequenza, con Rosa che teletrasporta la squadra in camera da letto di Cecil (<3) e, davanti al radiocontrollo dell'aeronave, commenta all'incirca “Will wonders ever end?”. Quanto vorrei poter ritrovare anche io quel senso del meraviglioso, che bene o male si è spento quando sono diventato adulto...
  • L'esplorazione del Sottomondo si apre col botto, fra la battaglia contro la bambola assassina della principessa Luca e Rydia adulta che arriva a spaccare il culo a Golbez, ma dopo il furto del terzo cristallo (e già lì, almeno dirci dove stavano primo e secondo...) entriamo in una fase, secondo me, piuttosto deboluccia, in cui il ritmo sostenuto collassa in favore di una dinamica da dungeon crawl ancora ancorata al design di inizio-metà decennio precedente (penso in particolare al ritmo di Phantasy Star I dell'87). Le missioni principali sono una raffica di assalti inconcludenti alla Torre di Babel, costellati da troppe occasioni in cui sembra, ma non è mai così, che Yang e Cid ci restino secchi; la missione secondaria di duellare con re Leviatano e regina Asura è deliziosa e il villaggio degli Eidolon è buffissimo, ma la labirinticità delle loro caverne è davvero snervante, e peggio ancora tocca fare due giri nella grotta delle Silfidi per completare la “guarigione” di Yang; Kain che ricade preda dell'ipnosi di Golbez è un filino telefonata o quantomeno mal coreografata. Quantomeno, reclutiamo il buon Edge, abile in tutto e maestro di nulla, ma motore narrativo del delizioso duello contro Rubicante. E non nego che è stato soddisfacentissimo sconfiggere Odin con precisione millimetrica, con un Thundaga di Rydia piantato sulla punta della spada proprio mentre iniziava l'animazione di attacco.
  • Nell'atto finale, si torna finalmente in carreggiata: particolarmente affascinante il design dei mostri lunari, prevedibile nel modo giusto e gustoso il momento “Cecil, sono vostro zio” del saggio Fusoya, appassionante il giusto il duello per domare Bahamut (in tal senso, un plauso ai libri informativi nella biblioteca degli Eidolon)... fottutamente epico l'assalto frontale al Gigante di Babil, sia per l'assalto coordinato aria-terra di tutti i “popoli liberi” sia per lo scontro 4 vs 5 con i Demoni Elementali (carucci che sono, a provarci), sia per la battaglia ufficialmente sci-fi contro la CPU dell'automa che già preconizza le atmosfere di FF VII. Da quel momento in poi, confesso di aver selvaggiamente dato la caccia ai mostri lunari per livellare la squadra, timoroso di affrontare l'ultimo dungeon sottoaddestrato, ma dopo aver potuto comprare i miei 99 pezzi di ogni oggetto curativo base ho gettato ogni indugio e sono entrato nella “Zona Zemus”... dove, in un paio di pomeriggi di gioco, ho aperto come angurie tutti i boss intermedi, raccattato tutte le armi speciali supreme, e sfidato Zeromus. Se è vero che, a questo punto, la rarefazione dei punti di salvataggio è perfida, è anche vero che non ho dovuto utilizzare troppo spesso i salvataggi rapidi tramite emulatore, e al terzo tentativo ho annientato Zeromus con tale scioltezza che ci sono rimasto male per quanto veloce sia stato lo scontro: è bastato assimilare bene il ritmo “stai sulla difensiva, attacca un po' di meno e guarisci un po' di più”! Certo, non è stato orrendamente facile come il triumvirato Sin-Seymour-Yu Yevon in FF X, in cui avevo sovralivellato terribilmente, tuttavia...

Cosa mi porto dietro, da questa partita?

Che in questo momento storico la profezia di Zeromus è corretta e “l'oscurità nel cuore umano” prevale su tutta la nostra Terra, pertanto c'è tanto bisogno di persone come Cecil; anzi, persone capaci di fare anche più di Cecil, e brandire assieme la spada oscura del Cavaliere Nero e la magia bianca del Paladino, in una prospettiva più taoista che strettamente manichea (perdonatemi, ma per me il simbolismo luce-tenebra sarà per sempre condizionato dal romanzo La mano sinistra del buio). Che quando organizzo cose belle e significative, nella loro piccolezza, assieme alle persone a me care, mi posso concedere di pensare a me stesso come a un cavaliere di Baron, o come un ninja di Eblan. Ma forse, dovendo proprio scegliere bene, io sono il gemello maschio di Rosa nella fisionomia di Tellah. Che se sento di stare collassando sotto un fardello troppo pesante, doloroso come l'incantesimo “Big Bang” di Zeromus, dovrei chiedere una mano alle persone cui tengo; posso legittimamente presumere che verranno a tirarmi su, come tutti i popoli della Terra guidati dal saggio Minwu. Che finché esisterò come individuo, il tema musicale di Final Fantasy per me sarà la colonna sonora della collaborazione e della speranza davanti alle avversità. Perché ne abbiamo tanto bisogno.

 
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from Super Relax


Intanto, non seguo sport di gente che diventa milionaria o milionaria ci nasce (per esempio, calcio nella prima categoria e automobili e motorette nella seconda). Come no, ma sai i milioni che ha Pogačar? Lo so, ma quelli che guadagnano quelle cifre saranno meno di dieci in tutto il mondo (e non un calciatore qualsiasi di serie A che, magari, resta in panchina per tutto il campionato). Poi ci sono quelli che guadagnano qualcosina in più, facciamo un centinaio, e tutti gli altri che si devono accontentare di qualcosa di simile a uno stipendio. A fine carriera, quindi prima dei quaranta anni, devono reinventarsi in qualche modo se vogliono continuare a mangiare. Anche i tifosi non hanno bisogno (speriamo ancora per molto) di abbonamenti per seguire le competizioni più importanti, se passano dalle tue parti puoi assistere senza pagare un biglietto, non ci sono tifoserie gestite da malavitosi e fasci in genere. Non ho mai sentito di scontri tra gli ultrà del ciclismo, con le coltellate in prossimità del traguardo e i capibastone invischiati nel traffico di droga.

È uno sport che, teoricamente, posso fare anche io per i fatti miei, a 1/50 dell'intensità dei professionisti: ho una bicicletta (una gravel nello specifico), un abbigliamento sommario e le strade a disposizione. Le pendenze a doppia cifra diventano ben presto impegnative/infattibili, la velocità in pianura è quella che è e non posso fare centinaia di chilometri al giorno, ma in scala molto ridotta posso ricrearne un simulacro.

Ci vedo la libertà che non ho mai avuto, perché non hanno mai voluto comprarmi la bicicletta e di quella libertà ho avuto un surrogato televisivo quando ho iniziato a seguire il ciclismo, ai tempi di Bugno, Chiappucci, Indurain e Pantani. Libertà che mi son concesso in questa grigia mezza età, libertà di allontanarmi fisicamente da un punto di partenza che sento come una prigione, solo con la scarsa forza dei miei muscoli.

Il ciclismo su strada mi mostra panorami e luoghi, spesso bellissimi, che non avrò modo di vedere dal vivo. Mi piacciono le strade del Giro, perché l'Italia è un posto che può essere bellissimo, nonostante gli italiani; mi piacciono anche le strade del Tour, su quelle della Vuelta non posso esprimermi nettamente perché la copertura video è scarsa e il paesaggio spagnolo è particolare, quindi penso che, per forza di cose, ci sarà un discreto chilometraggio in zone semidesertiche.

Non tifo per nessuno: se mi piace uno sport, è lo sport in sé a piacermi, non perché sia trainato da Tizio o Caio. Se c'è un bell'attacco in salita, se una fuga va a buon fine, se vedo una discesa pennellata alla precisione... mi va bene tutto, non mi interessano i protagonisti.

 
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