Pensieri di Pollo

Già, ci sono cascato: ho comprato una retro-console portatile. Per i meno esperti, si tratta di macchinetta macina-emulatori in grado di far girare qualsiasi gioco uscito fino alla PS1. Certo, qualunque telefono può fare lo stesso e anche di più, ma portarsi in tasca un dispositivo dedicato e dotato di tasti fisici, fidatevi, è tutta un'altra vita.

Come è ovvio, con milioni di giochi virtualmente a mia disposizione, la mia scelta è andata sulla seconda generazione di Pokémon. D'altro canto sono esattamente quel tipo di persona che ordina sempre gli stessi precisi ingredienti sul Poké e, si sa, da Poké a Pokémon il passo è breve (questa me la dovete passare).

Non avevo però messo in conto una cosa: siamo nel 2024 e di generazioni di giochi Pokémon, anche escludendo i vari remake, ne sono passate sette dai tempi di Oro/Argento/Cristallo.

Sette generazioni, quasi un quarto di secolo e tante innovazioni e migliorie che non hanno risparmiato una serie pur notoriamente fin troppo tradizionalista. Dunque, facciamo insieme questo gioco: quali sono i pro e i contro di giocare Pokémon Cristallo a trent'anni suonati e a quasi venticinque anni dalla sua uscita?

CONTRO:

  1. È tutto estremamente lento. Io sinceramente non ricordavo che tutto, dal movimento del personaggio alle animazioni dei combattimenti fosse così tedioso e così poco scattante. Per fortuna l'emulazione consente di accelerare il gioco nella sua totalità, andando però a sacrificare una delle cose più belle dei vecchi titoli Pokémon: la colonna sonora. Accelerare il gioco significa infatti accelerare anche la musica, che diventa una cacofonia in stile nightcore decisamente insostenibile. Un compromesso di cui in parte mi pento perché non mi ha consentito di rivivere appieno quelle sensazioni, obbligandomi a giocare a volume spento. Ma, fidatevi, credo sia impossibile oggi giocare a Pokémon Cristallo senza accelerare il tutto, e non c'è Bicicletta che tenga.

  2. Il sistema dei box. Forse non ve lo ricordate, ma fino alle generazioni Pokémon del GBA la gestione dei Box era un inferno. Per depositare dei Pokémon al PC di Bill occorreva infatti assicurarsi che ci fossero slot liberi nel Box. In caso contrario, era necessario SALVARE IL GIOCO (non sto scherzando) e muoversi tra gli altri box liberamente. Non finisce qui: immaginate di essere in giro per Johto e di catturare un Pokémon. Alla fine della battaglia, Bill ti telefona e ti dice “ehi, hai finito lo spazio! Vieni al centro Pokémon e cambia Box o non potrai più catturare altri Pokémon!”. Ecco immaginate di essere in mezzo all'erba alta e di non avere a disposizione un Pokémon con la MN Volo (su questo torno fra poco). Ecco, adesso immaginate di camminare verso il centro Pokémon più vicino e di vedervi comparire un fierissimo Entei selvatico e di non potergli tirare una ball perché il Box è pieno. Bene signore e signori, vi ho appena raccontato uno dei primi ricordi traumatici della mia infanzia, riemerso non appena ho premuto il pulsante “Cambia Box” nel corso di questa nuova partita.

  3. Lo zaino. Fino all'epoca GBA lo zaino non aveva slot infiniti per gli oggetti, ma era anzi molto, molto limitato. Capita quindi già a metà avventura di trovarselo pieno di bacche e ghicocche, di arrivare davanti a uno strumento casuale trovato per terra e di ricevere il messaggio “ehi, lascialo qui, il tuo zaino e pieno”. Quindi, come per i box, dover tornare al centro Pokémon, depositare un po' di monnezza nel PC e tornare a piedi fino allo strumento selvatico per raccoglierlo. Lo senti il fastidio?

  4. Le MN. A me pare folle che fino al 2016(!) i giochi Pokémon basavano la meccanica esplorativa sulle MN, mosse Pokémon utilizzabili fuori dalla battaglia per interagire con l'ambiente e sbloccare nuove zone, un po' come accade nei metroidvania o negli Zelda a due dimensioni. Qual è il problema? Forse non vi ricordate che queste mosse dovevano essere insegnate ad un Pokémon, che tale Pokémon doveva essere in squadra al momento dell'utilizzo della MN e che questo tipo di mosse non sono dimenticabili se non passando da un tizio specifico a Ebanopoli. Quindi cosa succede? Anche ai tempi c'erano due scuole di pensiero: o ti portavi dietro il Rattata e il Goldeen al livello 2 di turno, a cui insegnare più MN possibili (inermi creature sacrificali conosciuti già ai tempi come poveri MN Slave), o correvi avanti e indietro ogni volta dai Centri Pokémon per depositare e ritirare il Pokémon con la MN necessaria per tagliare un alberello o spostare un sasso. Se la prima scelta sacrifica uno o due slot su sei della squadra Pokémon, la seconda è semplicemente una grandissima e fastidiosissima perdita di tempo. A voi la scelta.

  5. Le MT. Già anche le Macchine Tecniche ai tempi antichi avevano i loro problemi: erano monouso. Qua potremmo discutere che fosse una scelta di design, ma ancora non so se pentirmi o meno di aver insegnato Rotolamento a Togetic quando adesso in squadra ho deciso di mettere un Sudowoodo.

  6. Non esisteva la distinzione tra mosse fisiche e speciali. O meglio, non esisteva la distinzione come la conosciamo dal GBA in poi. Banalmente, alcuni tipi di mossa, tipo il Lotta, erano fisiche ed altri, tipo lo Psico, erano speciali. Io non sono mai stato infognato con il gioco competitivo, tutt'ora dimentico costantemente gli schemi di debolezze e resistenze, ma questa logica rivista dopo venti anni mi ha fatto esplodere il cervello.

  7. Quando un Pokémon sale di livello e cerca di imparare una nuova mossa, non c'è alcun modo di capirne gli effetti. Il gioco ti fornisce solo il nome, chiedendoti al volo quale mossa far eventualmente dimenticare. Ora, io credo che il mio cervello sia occupato al 65% da informazioni sui giochi Pokémon (e il restante equamente diviso tra la sceneggiatura completa delle Follie dell'Imperatore, le puntate delle prime venti stagioni dei Simpson e le descrizioni delle carte tarocche di Yu-Gi-Oh tipo Drego dell'Ala), ma ammetto che certe volte avrei voluto un piccolo aiuto perché sinceramente non ricordo quale mossa sia più potente o precisa tra Ventogelato e Raggioaurora.

PRO

Sì, non ci sono solo cose negative nel rigiocare alla seconda generazione nel 2024

  1. La pixel art. Sarà un parere soggettivo, ma tutto, dagli sprite dei Pokémon al mondo di gioco è più caratteristico, più stimolante, più, banalmente, bello in pixel art. Io ancora non ho digerito la svolta 3D della serie Pokémon, anche perché i risultati dal punto di vista tecnico parlano da soli. Sono infatti tra la schiera di persone che vorrebbero tanto un ritorno alle origini dal punto di vista grafico, un nuovo capitolo in pixel art, magari sfruttando le possibilità della tecnologia HD-2D vista ad esempio in Octopath Traveler. Però fidatevi, dal punto di vista stilistico i vecchi giochi mangiano ancora in testa ai nuovi, e non credo che siano solo le lenti della nostalgia a parlare.

  2. L'esplorazione. Una volta non c'era una cutscene ogni dieci passi. Non c'erano dialoghi non skippabili a ripetizione. «Questo è il tuo Cyndaquil, tante care cose ciaooo». Il gioco era comunque fattibilissimo con i pochi dialoghi messi a disposizione, non capitava mai di non sapere dove andare e cosa fare, ma neanche di essere presi per mano ai limiti del tutorial continuo. La magia dell'esplorazione, il sense of wonder, l'eccitazione per una nuova scoperta stava tutto lì, nell'interpretare qualche indizio sentito qua e là e sbloccare qualcosa di unico nel gioco. Un gameplay che, tra le altre cose, snellito di dialoghi e cutscene, fila via liscio come l'olio...al netto dei contro menzionati prima, ovvio!

  3. La mancanza di extra. Ok, lo ammetto, questa è un'opinione fortemente personale, ma per me il fulcro dei giochi Pokémon è: macinare avversari e catturare bestie. Stop. Il resto è orpello. Quindi ben vengano il campeggio con i Pokémon, pettinare i Pokémon, ma anche andando più indietro le basi segrete, le gare Pokémon, il sottosuolo: ho sempre avuto la sensazione che, semplicemente, rompessero il ritmo. Però ehi, almeno sono tutti elementi completamente ignorabili, ma avete idea di cosa significhi convivere con le mamie di completismo e delle modalità extra completamente ignorate? Già mi sembra eccessiva la presenza del casinò di Fiordoropoli...

  4. Gli incontri casuali. Se quella di prima era un'opinione fortemente personale, quest'ultima è un'opinione fortemente controversa. Gli incontri casuali sono all'unanimità riconosciuti come il Male nei giochi di ruolo. Ad apprezzarli rimaniamo credo io e i fan più sfegatati di Dragon Quest. Eppure vi dirò: provate a entrare nell'erba alta e ad aspettare che termini l'animazione dell'incontro casuale per capire se avete beccato un Pidgey oppure qualche bestia più succosa. Ecco, quella amiche ed amici, si chiama dopamina, e se non associata alla ludopatia o ad altre deleterie dipendenze legate proprio a questo meccanismo, beh, è una bella sensazione. Sensazione assolutamente non replicabile se il Pokémon te lo vedi scorrazzare davanti e puoi decidere se andargli o meno incontro, come accade nei nuovi giochi. “Vabbè ma così ti ritrovi con uno Zubat addosso ogni due passi!”. Vero, ma il Repellente è sempre tuo amico.

Bene, mi sembra di aver detto tutto, adesso vado a sconfiggere Misty. Ah già, forse non ve lo ricordate, ma la seconda generazione ha il plot twist più incredibile di tutta la serie, nonché uno dei motivi per cui ad oggi è la mia preferita: dopo Johto puoi visitare tutta Kanto. Double the fun!

Ho finalmente recuperato l'ultima incarnazione nipponica della lucertola gigante, Godzilla Minus One. Faccio una premessa importante: non ho mai assolutamente avuto tempo né voglia di spararmi le dozzine di lungometraggi giapponesi usciti dal dopoguerra ad oggi, ma mi piace comunque definirmi un appassionato di Godzilla e potrei passare ore a parlare delle forti metafore che porta avanti da settanta e passa anni.

Morte, ineluttabilità del destino, guerra, bomba nucleare, divinità insensibile, terrore puro, vendetta della Terra: sono solo alcuni dei simboli che si celano dietro le scaglie di Godzilla. Tutto sembrava essere stato già raccontato sul re dei kaiju, eppure in Godzilla Minus One succede una magia: si tifa per l'umanità.

Esatto, inutile negarlo: esiste qualcuno che nei film di mostri giganti tifa per le persone? Sinceramente non ne conosco. C'è un fatto però che esalta questa presa di posizione: laddove la messa in scena è concentrata su bestioni che schiacciano tutto e si menano tra loro, va per foza di cose a morire la scrittura di trama e personaggi; tutte cose che, sinceramente, non mi era mai interessata in film del genere e anzi, se presenti, risultano forzate e noiose (vedi alla voce Monsterverse), futili orpelli che spezzano il ritmo e la piacevolezza di bestiali mazzate senza logica, unico vero motivo per cui bruciarsi retine e neuroni dietro ai film meno raffinati della storia del cinema.

La magia di Godzilla Minus One è invece proprio quella di raccontare una storia, una storia in cui Godzilla c'è, si vede e si sente, con un bagaglio di potenza e ferocia che trasmette un senso di terrore puro. Però è una storia in cui ci sono anche le persone. Non carne da macello, non fastidiosi espertoni, soldati, tuttologi o quant'altro serva ad allungare il brodo e giustificare la sezione cast sulla pagina di Wikipedia. Persone disperate, traumatizzate da una guerra, la seconda mondiale, appena conclusa nel peggiore dei modi, addolorate da lutti, sensi di colpa, paura.

Ecco quindi l'empatia, questa (fin'ora) sconosciuta. Quella che ci fa tifare quasi sempre per chi con tracotanza cerca di sconfiggere gli dei, sfidando la sorte e il buon senso. Per chi lotta per la vita in un contesto in cui la vita stessa si scopre essere una cosa piccola e fragile, eppure così preziosa per i legami che si porta dietro e per chi quegli dei, alla fine, li sconfigge davvero.

Godzilla Minus One è la prova visiva che una scrittura solida, dei personaggi profondi e un mostro alto come una montagna possono convivere nello stesso film, e che, anzi, questa convivenza regala una sorta di dignità ad un genere, spesso anche giustamente, così bistrattato. Il tutto non rinunciando a trovate esagerate e fuori di testa come dinosauri che sputano raggi termici e trappole sottomarine ai limiti dei corti di Tom e Jerry.

La magia del cinema, signore e signori.

La stragrande maggioranza di persone che conosco, e mi ci infilo pure io nel mezzo, stravede per un certo tipo di videogioco che non esiste praticamente più: quello che ha al centro il concetto di divertimento puro.

Non un gigantesco lavoro di scrittura come gran parte dei Tripla A odierni, non un senso di sfida continua come gli innumerevoli soulslike o roguelite presenti in giro, ma un divertimento puro, intrattenente, basato su uno stupore quasi fanciullesco.

Sia chiaro: io menziono tra i miei giochi preferiti di sempre, per esempio, la serie di The Last Of Us, eccellente portabandiera di giochi che puntano tutto su un'esperienza quasi cinematografica, ma mentirei se dicessi che il mio pensiero va a questo tipo di filosofia nel sentire la parola “videogioco”.

Sembra strano, ma in questa rincorsa al “giocone” a tutti i costi il mercato sembra essersi dimenticato del divertimento. Quel tipo di gioco, perdonatemi il termine, “giocoso” sembra ormai prerogativa di Nintendo e di pochi fortunati giochi indipendenti, oppure delle varie “operazioni nostalgia” perpetrate tramite remake di giochi di decenni fa.

In particolare, guardando in casa Sony, è chiaro che la strada tracciata dal reparto marketing porta quasi sempre lontano da quei lidi, ma è altrettanto vero che in un mercato fortemente in crisi come quello dei giochi Tripla A forse sarebbe il caso di ascoltare le grida di giubilo che hanno accompagnato il trailer del nuovo Astro Bot, coloratissimo platform 3D che ha brillato di luce propria al termine di una carrellata di presentazioni non proprio entusiasmanti dal punto di vista della varietà di proposte.

Certo, mi rendo conto che potrei parlare alla luce della reazione della mia bolla online, perché se i giochi “cicci” proposti da Sony per questa generazione, fatta eccezione per Ratchet and Clank: Rift Apart e Sackboy: A Big Adventure, hanno tutti quell'estetica e quella filosofia di gameplay alle spalle, vorrà dire che il “mondo reale” predilige proprio quell'estetica e quella filosofia di gameplay.

È però innegabile una crisi dei giochi ad altissimo budget, sia guardando al mero profitto che alle idee. Per questo credo – e spero – che giochi come Astro Bot possano iniziare anche a (ri)educare il pubblico ad apprezzare un altro tipo di gioco, meno costoso per le case di sviluppo, che potrebbero quindi accettare più serenamente un progetto originale (e quindi più rischioso), e con una filosofia alle spalle, quella del divertimento puro, che non può e non deve essere esclusiva delle produzioni Nintendo.

Insomma, laddove un Super Mario Wonder rientra a pieno titolo nelle Top 10 dei titoli più venduti del 2023 al posto di tanti gioconi più costosi (e più banali) usciti nello stesso anno, forse esagero in prudenza nel parlare di bolla online quando scrivo delle grida al miracolo per l'esistenza di un gioco come Astro Bot.

Certo, i profitti di un gioco di questo tipo che non ha “Mario” nel nome sono un'incognita, ma Sony sarebbe del tutto ottusa ad ignorare questo entusiasmo, soprattutto alla luce di un eventuale buon numero di copie vendute. Speriamo bene.

«Annihilator è ciò che succede quando lasci un pazzo visionario solo in una stanza libero di creare a briglia sciolta»

non ci sono parole migliori di quelle di Christopher Meloni nell'edizione Saldapress per introdurre Annihilator.

Grant Morrison ci racconta di uno sceneggiatore, Ray Spass, che vive di pane ed eccessi e che si ritrova con una malattia terminale e un'ultima storia fantascientifica da raccontare.

Solo che quella storia si scopre essere reale: il protagonista della sceneggiatura, il criminale interstellare Mad Nomax, piomba in casa di Ray e lo costringe a portare a termine il lavoro per poter recuperare la memoria.

Inizia così un racconto che mescola una critica al sistema Hollywoodiano con un'epopea fantascientifica, che cerca di far convivere un'anima intimista, parlandoci di rapporti umani ed elaborazione del lutto imminente, mescolandola ad un'anima invece eziologica, proponendosi come un racconto dell'origine del nostro universo e dell'umanità stessa.

Un intreccio, come emerge anche solo da queste poche parole, a tratti inutilmente complesso e quasi pretenzioso, con sporadici cali di ritmo e passaggi confusi. Ho avvertito la pretesa di Morrison di forzare alcune reazioni di shock e di senso di maestosità, ma, ad essere sincero, il fumetto mi è sembrato riuscito solo a metà, giocando su tematiche e linguaggi che a volte prendono spunto da Neil Gaiman e dal suo Sandman, che, in virtù anche di un numero di pagine estremamente più alto, continua ad essere il punto di riferimento per i fumetti che vogliono veramente parlare di Tutto.

Ottimo il comparto visivo: anche qui l'impostazione di certe tavole ricorda quella delle vicende di Morfeo, ma ho trovato Frazer Irving davvero ispirato, con una regia fuori dagli schemi e a tratti volutamente schizoide, perfettamente in linea con la sceneggiatura proposta.

Easy Breezy è un fumetto sporco, sia nel disegno che nel racconto. Yi Yang, autrice italo-cinese pubblicata da Bao, attinge a piene mani dallo stile di Taiyo Matsumoto regalandoci ritratti nervosi, inquadrature sghembe e prospettive esasperate al servizio di una di quelle storie in cui tutto sembra andare sempre e solo storto.

Easy Breezy è la storia di alcuni ragazzini vittime di circostanze più grandi di loro, in una città in cui gli adulti possono essere solo malvagi. C'è Li Yu, bullo di quartiere che decide di combinarla grossa convincendo l'ingenuotto zio a rubare un furgone e a rivenderlo allo sfasciacarrozze mafiosetto di turno. C'è Yang Kuaikuai, ragazzo apatico e solitario, coinvolto suo malgrado nel furto. C'è infine Yun Do, dolcissima bambina di sei anni che in quel furgone era già stata sedata e nascosta prima degli eventi per il più crudele dei motivi.

Ma Easy Breezy parla anche e soprattutto di famiglia, la cui assenza si fa assordante nei silenzi tra una rocambolesca fuga e l'altra; famiglia che, come nella vita reale, può però essere scelta tra le persone che amiamo, con o senza legami di sangue. Ed è questo il messaggio più toccante di questo fumetto che si legge d'un fiato e che alla fine, ma proprio alla fine, così sporco non lo è.

Può un fumetto che parla di un torneo di wrestling interdimensionale indetto da un negromante cercare di dare un senso alla vita e alla morte?

Può farlo alternando momenti di croccanti botte da orbi e di immenso casino di sangue e onomatopee sparatissime ad altri di silenziosa intimità e riflessione?

Sì, se a dirigere il tutto è Daniel Warren Johnson.

Superando se stesso nella follia mostrata nel precedente “Murder Falcon”, DWJ non rinuncia a regalarci nuovamente un meraviglioso contrasto di trame, personaggi e vignette totalmente fuori di testa e riflessioni profondissime, in un consolidato schema che si traduce anche stavolta in un fumetto che essere definito solo con una parola: estremo.

Tutto questo, dame e cavalieri, è “Do a Powerbomb!”

«Un sacco di gente pensa che nel wrestling conti il risultato. La fine...che è predeterminata. E allora perché guardarlo? Lo sappiamo tutti come va a finire. Alla fine, si muore. Il risultato lo sappiamo sempre. Penso che l'importante è la storia. Ogni persona ha una storia che merita di essere raccontata.»

Leggere Zerocalcare, soprattutto nei suoi lavori intimisti come “quando muori resta a me” è pura psicoterapia a fumetti.

Si dà un nome e una forma alle sensazioni, si combattono i traumi, si spezzano le catene del dolore.

Si arriva infine a comprendere che non esistono eroi, ma solo persone, con a loro volta sensazioni, traumi, catene del dolore.

Queste però possono essere, appunto, spezzate. Perché diventare adulti significa questo: comprendere, accettare, mettersi in discussione e, infine, migliorare.

In questa ultima pubblicazione Zerocalcare si conferma l'artista generazionale italiano per eccellenza, un talento unico in grado di diventare il megafono di un' intera generazione e dei suoi problemi.

Un racconto “on the road” che ricorda per tematiche ed escamotage due opere di Kelly e Niimura, I Kill Giants e Sergente Immortale, e che rappresenta forse l'ennesimo picco di maturità e assoluta sincerità dell'autore di Rebibbia.

Non credo che Akira Toriyama abbia bisogno di presentazioni. Il papà di Dragon Ball e del Dr. Slump è stato purtroppo recentemente protagonista di migliaia e migliaia di commiati per la sua prematura scomparsa (a tal proposito consiglio vivamente di recuperare il numero di aprile di Linus, ricco di contributi e approfondimenti sull'autore).

Tra le sue opere, Sand Land non è certamente la più famosa. Scritta intorno al cambio di millennio e riproposta in questi giorni da Star Comics in una doppia edizione (economica o di lusso), Sand Land è frutto del periodo post Dragon Ball dell'autore. Dopo la conclusione dell'opera che l'ha consacrato come uno dei mangaka più importanti della storia, Toryiama non ha più avuto né la voglia né la forza di cimentarsi in un'opera di ampio respiro, infatti Sand Land si conclude in un singolo volumetto.

Sand Land, il racconto delle avventure del principe dei demoni Beelzebub in un mondo post-apocalittico in cui è praticamente finita l'acqua, è un'opera sì derivativa (non a caso è conosciuta come il Mad Max di Toryiama), ma anche una preziosa occasione per apprezzare un Toryiama maturo, politico e a tratti anche serioso. Pur non rinunciando alle sue follie più tipiche, in quest'opera l'autore parla di argomenti come la crisi climatica e la corruzione nella politica e anche i personaggi si fanno più realistici, mossi da senso di giustizia e voglia di redenzione.

Dal lato artistico c'è poco da dire: il design dei personaggi e soprattutto dei veicoli fa come sempre scuola. Tutto è armonioso, pulito, misurato, inconfondibile e carismatico; credo che il tratto di Toryiama possa essere definito solo con una parola banale ma precisa: bello.

Sono sempre dell'avviso che Dragon Ball dovrebbe trovarsi sulle librerie di chiunque, soprattutto di chi ha apprezzato quel fenomeno generazionale che è stata la serie animata (non lo dirò mai abbastanza: il fumetto è mille volte meglio!), ma Sand Land ha dalla sua il fatto di essere un volume unico e di presentare un lato inedito di Akira Toryiama, nonché un'occasione micidiale per portare a casa con pochi soldi (e spazio!) una sua opera autoconclusiva.

Mi sono innamorato di Jordi Lafebre quando ho letto i due volumi di “Un'estate fa”, in cui l'illustratore catalano ha collaborato con lo sceneggiatore belga Zidrou. Il tratto dinamico, vivo e dal sapore disneyano mi aveva a suo tempo conquistato e accompagnato nei racconti delle vacanze della famiglia di Pierre e Madó.

L'ennesima occasione su Vinted mi ha spinto a recuperare “Nonostante Tutto”, volume in cui Lafebre si occupa anche della sceneggiatura. Pur non avendomi convinto come “Un'estate fa” sono rimasto piacevolmente sorpreso dal racconto di una storia d'amore narrata in una maniera piuttosto originale.

Il libro parte infatti dal finale: l'incontro, in età avanzata, di Ana e Zeno, due personaggi agli antipodi non solo nelle iniziali dei loro nomi, ma anche nelle personalità. Ana è un'ex sindaca che ha dedicato l'intera esistenza al lavoro, e che pur essendo diventata moglie e madre, non ha mai lasciato andare Zeno, un eterno sognatore che ha passato la sua vita tra le navi e un dottorato in fisica lungo quarant'anni.

Poi Lafebre decide di andare all'indietro. I capitoli stessi sono numerati in ordine decrescente, ed è andando avanti con la lettura che si scoprono i dettagli di questa storia d'amore a distanza lunga trentasette anni. Il gioco sta tutto qui: leggendo si scopre ad esempio che ciò che un personaggio menziona nel capitolo precedente, viene raccontato in quello seguente.

Un continuo flashback che porta indietro fino al primo sguardo tra Ana e Zeno, il Big Bang, l'origine di un amore inteso come una forza così devastante da essere l'unica in grado di andare contro le ferree leggi del tempo (qualcuno ha detto Interstellar?)

Una storia che non lascia spazio a emozioni negative, perfetta per chi cerca una lettura che semplicemente scaldi il cuore, ma anche per chi ha in qualche modo ha vissuto sulla propria pelle una relazione a distanza (coff coff).

“Nonostante Tutto” non farà la storia in quanto a originalità della sceneggiatura, i suoi personaggi non saranno i più approfonditi della letteratura e alcune parti avrebbero necessitato di maggior respiro. Ma vi assicuro che vi curerà l'anima dalla fine all'inizio del racconto

“Gon è un dinosauro”. Così si apre il primo volume dell'unico cofanetto al mondo con la coda: quello di Gon di Masashi Tanaka, appunto.

C'è poco altro che ci è dato sapere in effetti. Gon è un piccolo dinosauro, non si sa come è sopravvissuto all'estinzione della sua specie e passa la sua vita a mangiare e dormire.

Nel farlo interagisce con la natura, che è quella della preistoria post-sauri. E lo fa come si fa in natura: incazzandosi di brutto con gli altri animali e sfruttando ogni mezzo per raggiungere i propri obiettivi.

Gon è la creatura più ostinata e arrogante della natura. In nessuna tavola abbassa lo sguardo, in nessuna tavola si percepiscono paura o dubbio.

Gon è in questo senso l'emblema della natura: sempre proiettato in avanti, in movimento, incrollabile e indomabile.

Ma Gon è anche altro: è un essere che sa mettersi a disposizione degli altri animali, spesso come leader. E allora Gon diventa anche l'emblema di un'umanità che nella natura e in storie come queste va a ricercare le più profonde radici.

Tutto questo è Gon, che ho recuperato finalmente grazie all'ennesimo colpaccio su Vinted. Piccola curiosità: per essere coerente con il mondo narrato, quello degli animali, il fumetto di Gon non ha né parole, né onomatopee; a dire il vero non se ne sente proprio il bisogno vista l'eloquenza delle tavole di Tanaka che spaccano la quiete verbale con la fragorosa potenza di alcuni dei disegni più belli mai visti su carta.

Comunque se sei arrivatə fin qui e te lo stai chiedendo: sì, Gon è proprio quel personaggio bonus di Tekken 3!