Parole

Ricordi e un po' di presente

Rane

Non sono mai andato a “rane”. In casa mia non si mangiavano né le rane né le lumache. Francamente non ricordo neppure di aver conosciuto pescatori di rane. Nel corso degli anni ho imparato che nei fossati un po' più grandi non era così difficile trovare quelle adatte al risotto o alla frittura. L'amo era con tre punte e non aveva necessità di esca. Bisognava farlo volteggiare rapidamente a pelo d'acqua, le rane lo scambiavano per una mosca, facevano un bel salto e trovavano la morte. Le rane le andavo ad uccidere in campagna di un amico, lui sì coraggioso. Le sapeva prendere con le mani, soprattutto le raganelle, finché se ne stavano accoccolate poco distanti dal pelo dell'acqua, magari sopra un alberello potato. Quegli alberelli si chiamavano “stropare” ogni anno venivano tagliati e con le ricrescite estive si ricavavano sottili ramoscelli giallastri, flessibili come spaghi, adatti a tenere curvati i tralci ribelli delle vigne appena potate. In mezzo a quei monconcini di “stropa” non ancora cresciuti c'erano le prime raganelle, immobili, verdissime, smeraldi viventi. Si poteva giocare con le rane, molti rospi li facevamo scoppiare, le piccole si mettevano in barattoli di vetro, si portavano a casa. Bisognava solo stare attenti, quando si tenevano in mano, a non farsi bagnare, eravamo convinti che si trattasse di un liquido pericoloso se non velenoso. C'erano anche delle bisce d'acqua, ma non le prendevamo, le ammazzavamo con bastoni o a sassate.

i ragazzi in campagna erano tutti assassini.

Luigi

Giocare

Giocavo con i vicini di casa, avevano più o meno la mia età. Era un girovagare costante nella campagna. Raramente si giocava con gruppi di ragazzi più grandi. Si cresceva e si scopriva, curiosi, la vita. La scoperta dei nostri corpi in crescita era importante ma non determinante, il gioco e le avventure erano la parte preponderante dei nostri giorni. D'inverno a “slittare” con bob di legno costruiti dai nostri genitori. Si sfrecciava sui corsi d'acqua ghiacciati. Che meraviglia correre con le “lisigaroe” e com'era resistente e per quanto tempo il ghiaccio. Quando c'era la neve si giocava ancora di più. Una volta una palla di neve imbottita di sassi mi ha colpito, sono caduto all'indietro quasi svenuto.

La primavera era il periodo più bello, era quello il momento della caccia.

Luigi

Quella notte

La notte in cui è morto io lo sapevo che stava per morire il nonno.

Tornando dal paese, verso le undici di sera, avevo sentito un colpo di tosse. Assolutamente naturale, come succedeva, come succede a tutti.

Non so cosa mi fece pensare: “El nono more 'sta note”. Non so spiegarmi questo pensiero.

Alle sette del mattino il nonno era morto, in ospedale. Era con la nonna.

Ho voluto fare il superiore fingere realismo, avevo per la testa la mia donna, il mio amore, il matrimonio ormai deciso.

Anche durante quel giorno sono “andato” con gli amici. Dentro di me un dolore immenso, mai esternato.

Al funerale, in cimitero, portavo un mazzo di fiori bellissimo, inviato da lontano. Lo buttai a terra, qualcuno lo raccolse per depositarlo davanti alla tomba di famiglia.

Non ricordo altro di quel giorno, faceva freddo senza dubbio, mi sembra fosse il 21 gennaio. Una data importante, un numero che è tornato nella mia vita.

Luigi

Quella neve

Sulla neve mi piacerebbe tornare. Le “cavallette” di neve si formavano quando soffiava anche la tramontana. Allora sì che era bello andare a caccia di pettirossi o scriccioli nascosti, in cerca di caldo, tra le siepi. Era anche grandioso saperli catturare a mani nude. Io ci riuscivo, non ricordo dove posso aver imparato, ora provo orrore. Da ragazzo sapevo fare tutte le le “cose” che si facevano in campagna. Quando nevicava, mi pare nevicasse ogni anno, era normale, si andava a comperare qualche trappola per catturare merli e passerotti. Tutti lo facevano, tutti si dedicavano a questo passatempo crudele. Gli uccellini venivano poi mangiati. Non é facile ripensare oggi a quei passatempi così naturali, usuali per ogni famiglia. Catturare una ventina di “seeghete” (passerotti) oltre che divertente diventava anche un buon pasto, cotti in forno questi cibi hanno reso famosi piatti come “poenta e osei”, confesso anche che erano buonissimi. Buonissimo era il sugo che si sprigionava dai tocchetti di pancetta che arrostiva nel forno della cucina economica. Non abbiamo mai patito la fame noi, mai. Non ho ricordi di tali sofferenze diffuse in molte famiglie di quell'epoca. La caccia in autunno e inverno, la pesca in primavera ed estate fornivano qualche prelibatezza, patto che la pietanza non fosse distrutta dal sale che la nonna usava in abbondanza, anche questo simbolo di una agiatezza non usuale. Quando, di notte, cadeva la neve, ed era abbondante, si accatastava sui davanzali delle finestre ed ogni volta che uno scuro veniva aperto cadeva nel cortile, con un tonfo ovattato che permetteva, ad un orecchio esperto, di calcolare i centimetri caduti. Poi c'era solo festa di palle di neve, occasionalmente, il nonno faceva “el pajasso” col carbone al posto degli occhi, la scopa di saggina in mano ed un ghigno divertito.

Il nonno fumava la pipa.

Luigi

Maiale

Verso la fine di Novembre si doveva “uccidere il maiale”, come fosse un assassino condannato alla forca. Uccidere il maiale aveva un significato univoco: rivoluzione domestica. Io venivo allontanato dalla zona esecuzione, non potevo, tuttavia, non sentire le urla disperate del disgraziato. La sua morte era l'unico attimo di tristezza in me. Ma, appunto, era un attimo. Si raccoglieva il suo sangue in un grosso paiolo, si doveva fare la “dolze”: sangue cotto con aromi, forse un po' di farina; veniva conservato e tagliuzzato a cubetti, quindi ricotto come il fegato. Delizioso, straordinario con la polenta. Tutto in quei giorni veniva cotto, spesso lessato: “muso”, orecchie, zampe, ossa in genere... Alcune ossa venivano trattate con il sale, conservate per giorni in una cassetta per essere utilizzate in un secondo momento: insaporivano i minestroni. Anche la cotenna veniva utilizzata, soffritta all'infinito affinché liberasse tutto il suo grasso, Si ricavava molto strutto da un maiale, era prezioso, conservato in barattoli di vetro, usato per friggere o per impastare dolci: mai sentito dire che potesse fare male! Ancora una volta la regina di ogni mossa in casa era la nonna. Dirigeva con sapienza antica ogni cosa. La mamma aiutava. Se riesco a “vedere” la nonna non riesco neppure ad immaginare dove fosse, cosa facesse la mamma. Semplicemente era ininfluente la sua presenza. Io non avevo occhi che per chi comandava la rappresentazione, era un momento importante, non poteva essere lasciato al dilettantismo. Mia madre non c'è mai nei miei ricordi, c'è poco perché non contava. Quando poi si faceva sul serio, il maiale veniva completamente eviscerato. Si raccoglieva tutto, le budella sarebbero servite per gli insaccati. La notte, diviso in due parti assolutamente uguali nel senso della lunghezza, appese a due enormi chiodi dalla parte della testa, venivano lasciate ad asciugare, penso che questa operazione servisse anche a frollare le carni. Non ricordo quando, avvolto in una nube di vapore, il “signore dei maiali” (non ricordo il nome, che peccato) iniziava la lavorazione delle carni. Servivano anche sale e pepe, lo spago, al quale sono rimasto affezionato, non poteva mai mancare. I due prosciutti venivano ricoperti con una pastella, ognuno faceva a modo suo. Questo impasto ricopriva la parte del taglio, onde evitare che marcissero, o che le mosche, un pericolo concreto e drammatico, si annidassero in quelle carni saporite. Sí, erano sempre un pochino troppo salati per i miei gusti. Un altro insaccato che ricordo con disgusto (raro, perché non mi disgusta quasi nulla) era un cotechino più grande degli altri con, all'interno, la lingua stessa del maiale: una prelibatezza, dicevano, ma io credo che tale fosse considerato perché di tutto un maiale se ne otteneva solo uno. A me piaceva la pancetta, i panini, ma anche soffritta, al mattino, molto inglese, per farci colazione. Il maiale veniva ucciso con rispetto: dava da mangiare: sfamava famiglie povere, era un'alternativa per chi non aveva problemi. Ma alcune famiglie non avevano neppure quel poco che permetteva di allevare il maiale. Di quei periodi mi è rimasta l'umidità e la nebbiolina che avvolgeva tutti gli uomini che “facevano su” il maiale. Non esistono ricordi disgustosi. Non ricordo paure. Soprattutto non ricordo la mamma.

Luigi

Brutti momenti

C'é stato un periodo brutto: l'impresa del nonno non navigava in acque tranquille, al contrario. Ci fu un esito drammatico. Il nonno arrivò al fallimento. Fu un momento duro, difficile, pieno di lacrime intuite. Qualcuno, non so chi, ci ha aiutato a rinascere, ad uscire dal buio. Mio padre prese le redini, si ripartì per nuove strade. Ci “portavano via” il camion, l'auto, tutto. Non eravamo ancora in una casa di proprietà. Restammo lì, almeno quello. Credo si siano presi anche cose essenziali, ma non ricordo i particolari. Qualcuno arrivava e si “prendeva” oggetti, mobili, auto, moto, strumenti di casa. Paura. La percepivo, non la vivevo. Il cibo c'era, sempre, in abbondanza. Una mattina, era inverno, con la mamma sono andato a casa degli altri nonni
a piedi, sei chilometri. Non ricordo nessuna parola scambiata con la mamma, ero piccolo, non era ancora nata mia sorella: dovevo, pertanto, avere meno di sette anni, forse meno di sei, poteva essere l'inverno del '55-56. Basterebbe verificare: ci fu una nevicata, un inverno molto rigido. Una mattina, prestissimo, c'era ancora buio. Ricordo la tristezza attenuata da una lama di luce bassissima e lontana: azzurro, viola, giallo, verso il mare. Io volevo essere triste perché percepivo le lacrime della mamma, ma quella luce, quel biancore sulla neve mi riscaldavano il cuore. Verso casa dei nonni vedevo la notte, alle mie spalle una luce fantastica all'orizzonte. Solo ora riesco a capire la disgrazia. Penso sia stato il giorno in cui, concretamente, sono arrivati a casa mia per “portare via la roba”. Vagamente, mi pare, ricordo che la nonna fosse certa che la biancheria e le camere non avrebbero potuto essere toccate. Qualcuno aveva deciso di non farmi vedere quella disgrazia. Sono grato ai miei nonni e ai miei genitori per avermi risparmiato momenti di dolore. La neve, fredda, di quella mattina non andava d'accordo con il sole che cercava di sorgere alle nostre spalle. Ricordo esattamente il luogo, il buio, la luce, la siepe che ora non c'è più, quella strada, resa percorribile da uno spazzaneve casalingo, sicuramente trainato da un trattore. I nonni mi avranno dato da mangiare, latte appena munto, caldo.

Luigi

Brillantini

D'inverno mi divertivo.

Chissà perché ho ricordi di grandi nevicate, di fossati ghiacciati, di trappole per uccelli, di chicchi di frumento usati come esche.

E, tuttavia, non ho ricordo di aver avuto freddo.

Certo era un avvenimento domestico quando faceva freddissimo e si ghiacciava l'acqua nei bicchieri in camera da letto, oppure si vedevano i “brillantini sulle pareti” come diceva mia mamma. Ma non avevo freddo.

Banalmente: ero sotto strati di coperte, pensavo a dormire, non avevo pensieri.

Luigi

Inverni

Ma quegli inverni freddi degli anni cinquanta non mi gelavano. Il ghiaccio è ora, ovunque, ma non nel cuore, credo.

Luigi

Buio

Non avevo i pensieri torvi che spesso mi attanagliano ora: la notte scaccio chi mi vorrebbe “prendere”, infastidire, intimorire. Ho paura la notte, da solo, a casa. Ho paura di vedere qualcuno, di essere toccato, di essere guardato, di essere vegliato. Sveglio, non ho il coraggio di aprire gli occhi quando le mie percezioni costruiscono anime attorno a me. Non voglio vedere chi mi guarda, voglio essere lasciato solo. Ho sempre avuto timore del buio, l'ho sempre sconfitto sfidandolo: girare ad occhi chiusi per casa, abituarmi a contare i passi, avere accortezza, “cieco”, di non sbattere contro le porte. Allungo le mani più per scacciare gli spettri che mi ossessionano che per proteggermi da inevitabili spigoli. Non ho paura di trovare papà, mio padre. Lui non mi fa paura, mi darebbe noia sbattere contro la mamma o la nonna o il nonno... sono tutti morti i miei riferimenti, la mia vita, le mie radici. Sono io ora la fonte ultima della storia, non potete andare più “lontano” nel tempo.

Luigi

Il male

Da piccolo non capivo, come tutti i bambini, il male. Eppure c'era, ed era motivo di sicuro dibattito tra i grandi. Terribile, per chiunque, ammalarsi di poliomielite. Nel migliore dei casi si restava zoppi. Ma c'era ancora la tubercolosi.
Quella ti poteva anche portare al cimitero. Io ero positivo.
Ho fatto un sacco di cure. La mamma mi portava al “dispensario” nome derivato dal fatto che si distribuivano medicine... Ricordo che mi facevano i “raggi”, mi spogliavano e, scheletrico, dovevo abbracciare un macchinario freddo. Si perdeva mezza giornata lí dentro, so che c'erano molte altre persone, molti bambini di cui non ricordo alcun volto. Era tutto vecchiotto lì dentro, tutto sul verde pastello, lo stesso di tanti reparti ancora oggi. Non ricordo nulla che non fosse il nascosto pianto della mamma.

Da piccolo non capivo come di potesse essere pazienti. Già allora volevo solo correre, verso ciò che non conoscevo. Inutili corse allorché ho capito che non si finisce mai di imparare.

Luigi