Parole

Ricordi e un po' di presente

Il nonno mi piaceva

Il nonno era simpatico. Rideva e faceva ridere. Amava la pesca e, ne sono certo, avrebbe voluto che l'amassi anch'io. Andava a pescare, faceva tardi, litigava con la nonna. Non gridava, si girava rassegnato e borbottava, sorridendomi. Non l'ho mai sentito imprecare, bestemmiare.

Mio padre bestemmiava, era un grande ricercatore di bestemmie colorite e stravaganti. Forse alla ricerca di bestie strane da associare a dio. Un dio al quale, di sicuro, non importava nulla delle bestemmie di mio padre. Il nonno mi portava a pescare, forse con una Fiat Topolino, lungo strade polverose e deserte. Mi dovevo precipitare da argini sovraccarichi di erbe schifose. Non toccavo i pesci, neppure quei rarissimi disgraziati perditempo che, per noia o stupidità, abboccavano alle mie esche. Prendevo qualche “Pesce Sole” io, mai nulla di più serio, un disastro per il nonno. Ma neppure lui aveva successo, ma almeno lui li “perdeva”, o, perlomeno, così raccontava. I pesce-gatto si mangiavamo, la nonna li preparava fritti, con la pancia gialla sventrata. Un po' come i merli o gli stornelli, davvero cattivi, che venivano cotti al forno con dei micro bocconcini di pancetta. Mangiavo la testa di quelle piccole prede. Masticavo, con i miei dentini, le ossa alla ricerca del sapore delle cervella. Nessuno ci faceva caso, al contrario, per il nonno, ero io che dovevo godermi quei bocconi.

Avevo poco meno di ventisei anni quando il nonno è morto.

Luigi

La luna

Il nonno mi chiedeva se la luna di Padova fosse la stessa della nostra campagna. Io, piccolo, accucciato in quella Topolino nera, mi azzardavo a dirgli di sì. La storia della luna era iniziata alla periferia di Padova, la strada costeggiava uno specchio d'acqua, c'è ancora, identico anche il paesaggio. Andando in centro, una sera d'inverno, non so perché, fermi ai margini di questo laghetto, guardavamo la luna che si rifletteva nell'acqua ferma. Mandava un bagliore che con gli anni, nella mia testa, è divenuto un faro che usciva dall'acqua in mezzo al nero della notte. “Ea vedito quea luna là?” “Sì nono, che bëa” “Questa ea ze ea luna de Padoa, zëa ea stessa che ghe ze da niantri?” “Sì, par forsa” “Ma che dimanda dificie che te ghe fe al me putin” ribatté la nonna, indispettita e offesa, ma in cuor suo raggiante per la perspicacia della mia risposta. Lui, il nonno, sorrideva certo e andava altrettanto fiero di me, il piccolo poeta bravo. Credo mi abbiano comperato un giocattolo da bambini grandi in città: il Meccano, verde ovviamente.

Luigi

Le barchette di legno

Il nonno mi intagliava delle barchette di legno. Erano estremamente grezze, io le lasciavo scorrere in improvvisati torrenti. Le perdevo con una frequenza straordinaria. Rompevo o perdevo i miei giocattoli, segno chiaro che ero un bambino fortunato: non avevo la necessità di conservarli a lungo, non avevo la necessità di adorare la loro unicità, appunto, non erano unici. Non ricordo altri giocattoli costruiti in casa. Eravamo “ricchi” rispetto agli altri e, soprattutto, non eravamo “contadini”. Mio padre lo diceva con orgoglio disprezzava, in fondo, le origini di mia madre. Non lo capivo, ma ero dalla parte dei maschi della mia famiglia, un modo per sentirsi diverso. All'epoca la “diversità” non era un marchio. Del nonno ricordo lo sguardo: sempre un sorriso pensoso la gran voglia di ridere e divertirsi. Assomigliavo al nonno, assomigliavo prima di percorrere alcune strade buie e oscure nelle quali sono finito, “per colpa mia”, ma non è così nella realtà. Le tristezze mi hanno preso tardi nella vita, contestualmente ad alcuni scogli che ho voluto affrontare, invece di evitare. Non li vedevo affiorare, sapevo che c'erano, mi erano nascosti dalla convinzione che tutto si sarebbe risolto con facilità. Ma questo è un discorso iniziato solo dopo i quaranta.

Luigi

Lo chiamerei Mario

“Aspetto un figlio, papà” Ammutolisco pensando alla fatica, al lavoro, alle preoccupazioni. Lo chiamerei “Mario”, se fosse un maschio. Come mio nonno. Ho sempre desiderato dare quel nome ad un figlio mio o ad uno delle mie figlie. Sono nate femmine, sempre: con mia immensa soddisfazione. Lei desiderava un maschio. Non ho mai capito, al di là delle consuete preferenze popolari, il “perché”. Credo ci sia, nel desiderio del maschio, la voglia di rendere un essere vivente più autonomo e indipendente. I vecchi, come me, sono cresciuti con l'idea che il maschio sia libero di fare ciò che vuole. Follia, pura follia. Le mamme vorrebbero un maschio per poterlo dirigere, governare per sempre. Le madri sanno che l'autonomia dei maschi si esercita al di fuori degli affetti, al di fuori delle mura domestiche: se si dovesse sposare ci sarà sempre una moglie cui rendere conto, anche dolendosene, se resterà “scapolo” curerà la madre, immortale.

Luigi

La nonna allevava polli

La nonna allevava polli. Aveva delle chiocce straordinarie. C'era sempre, nascosta da qualche parte, una covata di pulcini, anatroccoli, tacchini, oche, faraone. Il mio compito era uno: non disturbare la chioccia. Nonna mi portava a vedere, da lontano. Godevo ai primi che nascevano, a fatica uscivano dal guscio, bagnati. Ripensandoci non mi rendevo conto del miracolo cui assistevo così spesso. Quando la nonna doveva preparare la covata “sperava” le uova, in pratica cercava di individuare quelle fecondate mettendosi in controluce dietro una fioca lampadina del sottoscala, nella zona in cui venivano lavati i piatti. Una volta, forse per affermare la mia supremazia, ho tolto le uova dal nido, le ho allineate a terra, in ordine e ci sono passato sopra più volte, con una carriola. Ricordo solo che la nonna mi ha punito con molta severità. Le si poteva fare qualunque cosa ma non toccarle il pollaio. Ero, come tanti bambini che vivevano in campagna, crudele con gli animali. Questo è diventato un ricordo perché negli anni è stato raccontato più volte in casa. Non ho la possibilità di “vedere” ciò che ho fatto. Non potevo avere più di quattro anni.

Luigi

Crudeltà

Alcuni vicini avevano dei gattini, nati da poco. Forse avevo cinque anni, forse sei.

Li presi, non ricordo come li ammazzai con una crudeltà inaudita. Quel momento che mi è rimasto impresso ed ha segnato l'apice della mia voglia di scoprire la vita, togliendola.

Quella crudeltà ha segnato la mia vita. La spietatezza è morta quel giorno.

Luigi

Vicini

I nostri vicini erano proprietari di una bella campagna, divisa in due zone non confinanti. L'una, quella lontana, si trovava fuori dal paese, anzi confinava con un altro comune. Non ho ricordi di quei campi. L'altra, quella più vicina a casa, era il mio mare quotidiano. Era la vacanza di tutti i giorni. Una distesa di onde verdi o gialle, a seconda della stagione: grano o foraggio per le “bestie”, un po' tutte: dalle galline alle vacche, dai tacchini ai maiali ai conigli. Tutti questi esseri viventi dovevano mangiare. Alcuni erano selettivi nei loro gusti, le mucche i polli, ma i maiali divoravano di tutto. Li allevavano, pochi e solo per uso familiare, in un recinto quasi confinante con la casa. Ogni avanzo, ogni scarto finiva nella broda e questi maiali mangiavano. Nel periodo della raccolta delle patate la festa si allargava a tutti i bambini del vicinato. La padrona di casa cuoceva in una tinozza ramata enorme una quantità incredibile di patate: tutte quelle tagliate da una vanga frettolosa, tutte le piccole, tutte le marce. Per noi era una sagra: il fuoco, all'aperto, bruciava legna dal mattino le patate nell'acqua bollente cuocevano lentamente, con la buccia. Mai ho mangiato patate più buone. In quelle occasioni ho imparato che era sempre meglio cuocerle con la buccia per conservare tutti i sapori, per preservare ogni proprietà. Che perizia nel cercarle nell'enorme “calderone” senza scottarsi troppo, che abilità a individuare quelle grosse non tagliate, non marce. Quante patate in quei giorni, nell'indifferenza attenta e gioiosa degli adulti. Tutt'ora se preparo patate ripenso a quei momenti, ancora una volta ho solo ricordi bellissimi che mi tornano alla memoria, attimi straordinariamente colorati con pastelli e tinte luminose. Poi si ritornava al gioco, talvolta a casa, era tardi, era primavera inoltrata.

Luigi

Nascondino

Era il gioco per antonomasia. Partite immense, talvolta, per gruppi. Si giocava solo di sera, al tramonto. Io ero bravo, diciamo “furbo”: sapevo trovare il nascondiglio adatto, salvarmi al momento giusto beffando colui che “era-sotto”. Non sono state poche le volte che ho permesso la vittoria a tutta la squadra: eroe! Ero parecchio amato dai miei compagni di giochi, non ho mai subito discriminazioni. Al contrario ero “scelto” in tutti i giochi di squadra purché non imponessero forza fisica o abilità atletiche. Il “cucù” aveva situazioni in cui la corsa era importante ma era soprattutto un gioco d'astuzia. In quel campo non ero male.

Luigi

Granaio

Il granaio della casa era al primo piano, prima di entrare nella zona notte, isolato ma protetto. Si scendeva qualche gradino in legno, accostato da un lato ad una parete: il pavimento era di legno. La nonna conservava un po' di granoturco, i peperoncini sott'aceto (immangiabile acidità), le cipolline e i vasi in terracotta che contenevano le oche squartate conservate nel loro stesso grasso fatto sciogliere in enormi padelle sul fuoco della cucina economica. Nella annate magre andavano bene anche le anatre, ce n'erano di due tipi. Io odiavo quelle “mute”, ma pare fossero migliori e più saporite. Le oche erano davvero una cosa di gran lusso. Delle oche, come del maiale del resto, non si buttava nulla; con alcune parti si faceva il brodo, con le piume i cuscini e i guanciali, talvolta, le trapunte. Certo non si andava per il sottile e, non di rado, capitava che qualche piuma più aguzza uscisse dalla trapunta o dal guanciale. Non tutti le allevavano, la loro conservazione in queste grosse giare domestiche non era cosa semplice. Talvolta irrancidivano e diventavano immangiabili. Le giare, contenitori di non meno di otto litri, erano in terracotta e venivano riempite con questi pezzi di oca, il tutto si ricopriva con il loro “strutto”, non ricordo se, preventivamente, questi pezzi di carne venivano scottati oltre che adorati per il loro valore. I ciccioli erano dei bocconcini croccanti e deliziosi, erano ciò che restava dei pezzi di grasso fuso. L'operazione si concludeva portando in granaio i vasi. Il granaio era un territorio of-limits, era esclusivo della nonna e di enormi topi che si divertivano a rincorrersi lungo le travi incustodite, liberi di sgranocchiare grano, facendo attenzione alle trappole. Io cercavo di essere coraggioso, quasi mai ci riuscivo mi tenevo alla larga da quel posto. La mamma non ne voleva sapere del granaio dentro casa, la mamma pensava ad una casa moderna. La nonna, realisticamente, preferiva mangiare. La nonna sapeva, da sempre, che la terra garantiva il cibo anche nei momenti bui. Non si é mai sbagliata.

Luigi

La campagna

La campagna era il mio mondo, senza essere un contadino. Eppure le mie radici sono in mezzo a quei campi, a quei fossati, a quelle vigne. Non ho ricordi fluidi di un determinato insieme ma un insieme di immagini, di scatti. Il giallo prevale, quello dei ranuncoli, petali delicatissimi pronti a rigarsi, a rovinarsi in un attimo, grandi margherite, rare ma sempre presenti in quel determinato luogo, le prime viole nei fossi, nelle zone battute dal sole, anche in questo caso perenni. Sapevo dove andare in cerca dell'arrivo della primavera. Non era il tepore a segnalarmi l'arrivo della bella stagione, erano i fiori, i germogli, l'erbetta. Oggi è ancora così, spio i boccioli di forsitia, in cerca di conferme. Bruttissimo è stato un anno vedere operai del demanio sradicare un mandorlo ed un noce. I fiori del mandorlo sono i primi a sbocciare, l'ho scoperto abitando ai piedi dei Colli. Ricostruire in me le onde di grano, appena prima del raccolto, è sempre un'emozione. E l'erba medica, pronta per essere falciata, si è sedimentata nel mio cuore.

Luigi