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from nomadank

Sia gli approcci riformisti che quelli rivoluzionari si sono rivelati inadeguati. L'unica soluzione possibile al superamento definitivo del capitalismo è la DESTITUZIONE.

I problemi dell'approccio rivoluzionario – che consiste nell'appropriarsi del potere con la forza per poi cercare di imporre un cambiamento di sistema socio-economico dall'alto – sono molteplici.

Il primo è pragmatico: un attacco frontale a un sistema che ha raggiunto livelli storicamente inauditi di militarizzazione e controllo della popolazione sarebbe destinato a un sanguinoso fallimento.

Ma se anche riuscisse, l'unico modo di rivoluzionare un sistema a cui fino al giorno precedente prendeva parte la quasi totalità della popolazione, sarebbe farlo con l'uso della forza, andando quindi a replicare e consolidare gli stessi sistemi repressivi contro i quali si era combattuto.

Un cambiamento così radicale può avvenire solo gradualmente. Ma, in questo senso, l'approccio riformista è ancora più problematico di quello rivoluzionario. L'idea di prendere il potere legalmente e cambiare il sistema dall'interno presenta infatti altrettanti punti critici.

Una mobilitazione di massa intorno a un soggetto politico unitario, come poteva essere il partito novecentesco, è oggi virtualmente irrealizzabile, in quanto la complessità delle dinamiche del dibattito pubblico contemporaneo spinge verso l'atomizzazione sociale.

Inoltre il sistema stesso tende ad autopreservarsi e non potrà mai essere superato dagli stessi attori che lo costituiscono. Anche con tutta la buona volontà del mondo, le logiche del potere finirebbero per soffocare qualsiasi tentativo di cambiamento radicale.

Non si tratta di prendere il potere, ma di DESTITUIRLO: di smettere di riconoscere Stato e Capitale come istituzioni legittime. Non stare più alle loro regole, svuotarle di senso. Il primo passo è dunque psicologico. Dobbiamo prendere coscienza di quello che in realtà sappiamo da sempre: la vita quotidiana nel tardo-capitalismo non è altro che una recita.

Seguiamo le regole dettate dalla società non perché ci crediamo davvero, ma perché “si fa così” o perché si ha paura di cosa succederebbe se smettessimo di farlo. Paura, intendiamoci, ben fondata. Infatti inizialmente quello che dobbiamo fare è continuare a fingere, partecipare alla recita.

Nel frattempo però dobbiamo maturare nel nostro cuore l'idea che lo Stato in realtà non esista, che la Moneta sia solo un imbroglio, il Potere un'illusione. Che esistono solo le persone e le loro azioni. Azioni fortemente influenzate dalla visione del mondo che questa sistema riproduce sotto la guida di altre (poche) persone, che lo sfruttano a proprio vantaggio.

Pensateci: nel momento un cui il concetto stesso di denaro smettesse di avere presa sulla maggior parte della popolazione, un miliardario perderebbe tutto il suo potere. E lo stesso avverrebbe a un capo di governo quando la popolazione non riconoscesse l'esistenza dello Stato.

Il primo passo dunque è uscire dalla simulazione che domina le nostre menti.

A quel punto, inizia il bello.

Parallelamente alla recita, inizieremo a costruire un nuovo mondo, costruiremo reti informali di collaborazione, condivisione e mutuo aiuto, aliene da qualsiasi logica di tipo monetario e/o istituzionale, senza che siano per forza apertamente schierate a livello politico.

Un complesso rizoma di comunità trasversali che si intersecano e si sovrappongo tra di loro. Locali, translocali, internazionali.

L'obiettivo è costruire un'economia della gratuità che sia alternativa al sistema capitalista. E la crescita di questo nuovo fiore, avverrà attraverso la concimazione del sistema attuale.

Il XXI dovrà essere il secolo del collasso del Capitale e degli Stati. La velocità dello sviluppo delle comuni sarà infatti direttamente proporzionale a quella del collasso del sistema attuale.

Più le condizioni sotto il capitalismo peggioreranno, più persone usciranno dalla simulazione tardo-capitalista e si affideranno alle comuni.

E più le comuni cresceranno in numero e resilienza, più più grandiose e destabilizzanti potranno essere le azioni antagoniste e di sabotaggio contro il sistema.

Ed è solo in quest'ottica destituente che movimenti di riforma e momenti di esplosione rivoluzionaria potranno diventare funzionali, come strumenti di accelerazione del collasso.

E la bellezza del mondo che creeremo sarà al di là di ogni nostra più folle immaginazione.

 
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from guerrilla stickers テッカー禁止

“Stickers disappear, ideas don't!”

Tutto nacque in un pomeriggio alchemico, quando alla ricerca del Lapis Philosophorum nella palude del cyberspazio, mi imbattei in un frammento visivo carico di un'energia memetica latente che iniziò a stratificarsi nella psicosfera: “no adesivi grazie”. Solo più tardi ne rintracciai l’origine: una campagna grottescamente paradossale, un loop semiotico pronto a collassare su sé stesso. Appropriandomi di quel segnale ricodificato dall'iperstizone, generai un'antinomia capace di incrinare il logorio della vita postmoderna. Nacque così l'idea: “Ceci n'est pas un autocollant”, in un sodalizio immaginario con Magritte. “Questo non è un adesivo”, è una provocazione!

Viviamo immersi in un mondo fondato sull'illusione: emozioni sintetiche sotto forma di pillole, propaganda sotto forma di pubblicità, lavaggi del cervello sotto forma di mass-media. Siamo prigionieri di bolle di vetro che chiamiamo Social Network, mentre tentiamo invano di gettare nel cassonetto la spazzatura crescente della condizione umana.

Il capitalismo della sorveglianza è l’ultima mutazione di un dispositivo oppressivo che cannibalizza la vita stessa. Un sistema che si appropria dell’esperienza umana, la frattura, la codifica, la trasforma in merce-dato, in combustibile per il ciclo incessante di estrazione e consumo. Una macchina autopoietica, spietata e inarrestabile, che metabolizza ogni frammento di esistenza per rafforzare il dominio asimmetrico dei pochi sui molti: un sabotaggio intenzionale dei principi naturali di mutuo appoggio, che ha come fine ultimo la sola accumulazione necrotica del potere.

ステッカー禁止 / no adesivi grazie diventa così un hacking concettuale, una provocazione memetica pronta a fratturare la griglia postmoderna. Un grido distillato dall’iperstizione del reale, scaturito da una dissezione implacabile della condizione umana e delle sue configurazioni socio-tecniche. Un paradosso che squarcia il velo della simulazione, amplificando l’urgenza di svelare e decrittare le contraddizioni profonde che permeano le nostre esistenze. Un segnale dirompente, un innesco, per sabotare i loop del Sistema con l’intensità pulsante dell’arte, con la precisione chirurgica del sapere critico e con la volontà insorgente di chi rifiuta il giogo della tirannie.

Un impuslo creativo che dialetticamente evolve in una guerrilla stickers che vi seppellirà, “perché anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti!” (F. De André). Lo spirito dell'uomo è un fuoco divino che come l'Ouroboros, mordendosi la coda, si autoconsuma e si autorinnova perpetuamente. Liberate l'anarchia creativa nei vostri cuori: dalla Nigredo alla Coscienza, per sovvertire l'ordine prestabilito!

La vendetta del simbolo contro la banalità del consumo, il ritorno del significato contro l'inerzia dell'ovvio. Contro le misure preventive che impediscono la diffusione dell'arte libera, sabotatori urbani di tutto il mondo, armatevi del paradosso e unitevi alla guerrilla stickers ステッカー禁止!

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[sezione in aggiornamento]

 
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from kipple


Una montagna ha battuto le palpebre e in quel tempo sono nato, vissuto e morto. La montagna non si è accorta della meschinità della mia esistenza umana,come se non fossi mai esistito. Non avrò vissuto abbastanza da vedere una montagna battere una sola volta le palpebre; nessuno vive così a lungo da percepirne il movimento.

 
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from Le ricette di Kenobit

Questa è la ricetta del ragù di mia nonna. Ha dietro una storia, che ho raccontato qui, nella mia newsletter.

Non sarebbe una ricetta della nonna se vi dessi delle dosi esatte. Se avete mai chiesto una ricetta a una nonna, sapete che tutto viene fatto a occhio. L’amore non si pesa, o forse una volta non c’erano le bilance digitali.

Ingredienti
Olio d’oliva Sedano, cipolla, carota Concentrato di pomodoro Vino rosso Granulare di soia* Funghi shitake** Salsa di soia*** Una manciata di noci o di frutta secca Lenticchie rosse decorticate Brodo vegetale**** Rosmarino, salvia, alloro***** Sale Pepe

Opzionale: panna vegetale o un po’ di margarina. Nell’antica ricetta di Pellegrino Artusi il ragù era in bianco, senza passata di pomodoro (come il mio), ed era arricchito nelle fasi finali della cottura con latte o panna. Secondo me ci sta divinamente.

* Va bene anche il granulare di piselli o qualunque preparato analogo. Io lo trovo da Naturasì.
** Uso gli shitake perché danno un ottimo sapore e sono economici. Se li trovate secchi, ammollateli per mezz’ora prima di tritarli (e mi raccomando, tenete l’acqua e mettetela nel brodo). In alternativa, potete usare un po’ di champignon, di pleorotus, o se siete Zio Paperone anche cose più pregiate, come finferli o porcini.
*** Va bene una qualsiasi salsa di soia, ma visto che è una cottura lunga, una salsa di soia cinese di tipo “dark” è superiore.
**** Non sottovalutate il brodo! Se siete di corsa va benissimo un dado, ma se preparate un brodo da zero, possibilmente bello ricco, non ve ne pentirete. Io lo faccio così.

PREPARAZIONE
Per questo ragù vegetale ripercorriamo le stesse fasi di quello tradizionale: il soffritto, la doratura del macinato, la sfumatura col vino e la cottura con il brodo. Se volete farlo in rosso, sostituite il brodo con della passata, ma poi la mia nonna si arrabbia.

Partiamo da un soffritto classico. Tritate finemente cipolla, sedano e carota e fateli soffriggere in abbondante olio d’oliva. Ricordate che il ragù è buono anche per il suo contenuto di grasso, e che i legumi e le verdure che useremo ne hanno infinitamente meno della carne, quindi dobbiamo compensare. Dopo un paio di minuti, aggiungete al soffritto il rosmarino e la salvia, anch’essi tritati finemente.

Mentre va il soffritto, pensiamo al “macinato”. Frullate o tagliate finemente i funghi, freschi o ammollati, insieme alle noci (che contribuiscono alla quota grassa). Quando il soffritto è ben traslucido, aggiungete alla pentola il macinato di funghi e noci, il granulare di soia/piselli (non serve ammollarlo), un cucchiaio di concentrato di pomodoro, due cucchiai da minestra di salsa di soia e una presa di sale. Trattiamo questo macinato esattamente come se fosse carne, quindi lo facciamo rosolare a fiamma vivace, finché non inizia a dorarsi. Praticate il coraggio della pentola e lasciatelo abbrustolire ancora un po’, anche perché gli eventuali residui bruciacchiati sul fondo verranno liberati dal vino (e sono proprio loro a racchiudere una parte della delizia del ragù, perché sono frutto della reazione più appetitosa del creato, quella di Maillard).

Sfumate con abbondante vino rosso, che in questo caso avrà anche la funzione di conferire alle nostre proteine un colore più sanguigno. Versatevi un bicchiere di vino e sorseggiatelo mentre l’alcol evapora dalla pentola. Fate rosolare ancora qualche minuto e poi aggiungete il brodo. Quanto? Tenete presente che una parte del liquido si ritirerà, ma anche che stiamo facendo un ragù e non una zuppa. Se siete nel dubbio, aggiungetelo poco a poco, all’occorrenza.

Abbassate la fiamma e lasciate sobbollire.

A questo punto entra in gioco la pazienza. Se avete fretta, mezz’ora è più che sufficiente per ottenere un ragù gustoso. Nel caso, passate immediatamente al passaggio successivo. Se invece avete tempo, vi consiglio di lasciarlo cuocere lentamente, curandolo e rimescolandolo di tanto in tanto e aggiungendo brodo (bollente, altrimenti si ferma la cottura) in caso sia troppo asciutto, per un paio d’ore. Non essendoci carne, non sono necessarie le tre o quattro ore di cottura dei ragù tradizionali.

Quando avete deciso che manca mezz’ora alla fine della cottura, aggiungete le lenticchie rosse decorticate, che usiamo principalmente per la consistenza. In cottura spariranno del tutto, ma contribuiranno alla cremosità. Gli ultimi quindici minuti, aggiungete un po’ di panna vegetale o un cucchiaio di margarina. Questo è il momento ideale per aggiustare la sapidità: assaggiate e valutate se aggiungere un po’ di sale o un altro goccio di salsa di soia.

Se tutto è andato per il verso giusto, avrete ottenuto un ragù all’apparenza identico a quello tradizionale, che potrete usare in tutte le stesse preparazioni. Gnocchi al ragù, lasagne, spaghettate, supplì… Io, sarò sincero, sono capace di mangiarlo anche a cucchiaiate, come se fosse un Fruttolo.

Se avete dubbi su questa ricetta, scrivetemi pure! Parlare di cucina mi piace ancor più che parlare di libertà digitale. Mandatemi una mail su kenobit@protonmail.com oppure contattatemi su XMPP, dove sono kenobit@cazzinostri.kenobit.it.

 
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from Rob's cabinet of mboh?

Non so bene perché ma, dopo parecchio tempo che ci giravo attorno, l'altro giorno mi ho ceduto alla curiosità di provare Log.
Sarà stata la magia di Livello Segreto visto che, come nel caso di twitter, pur essendo su internet dal '99 non avevo mai avuto un mio blog. Da frequentatore di newsgroup e forum (con frequenti ondate di lurking più che di postaggio attivo) non ne capivo molto il fascino: perché a qualcuno dovrebbero interessare i miei ipotetici soliloqui quando invece c'erano dei posti in cui invece potevi avere delle vere discussioni? Ok, un pensiero da ultimo giapponese ignaro della fine della guerra, visto che prima che arrivasse Facebook a mangiarsi tutto, negli anni '00 chiunque aveva un blog e cercando se ne trovavano parecchi di interessanti, che man mano finivano nei miei feed rss. Ma aprirne uno mio e scrivere dei fatti miei è sempre stato un grosso no.

Ora, sarà il tempo che avanza e questa è l'equivalente di una crisi di mezza da millennial, solo che invece di comprarmi una moto sto cercando di ritrovare un'onda ormai passata su cui non è rimasto quasi più nessuno (sarà anche che non ho granché da fare in generale, eh), ma intanto eccomi qui, pronto a scrivere ogni tanto qualche post sconclusionato e di poco conto sulle cose che mi piacciono, giusto per fare finta di essere tornato indietro di una ventina d'anni. 😅

(Poi conoscendomi probabilmente sarà una delle mie tante cose incompiute, però intanto vediamo se riesco a personalizzare un minimo l'interfaccia del blog, via ^^ )

 
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from ordinariafollia

ordinariafollia-log_021-2025.jpg

La condensa sul vetro mi rincuora: fuori piove, qui no; sospirando rotolo di un quarto a sinistra invadendo la tua parte del letto per dichiarare pace nel nome dell'indolenza e poi faremo a sorte per stabilire chi tra te e me dovrà preparare qualcosa da mangiare.

Sai che sono un astronauta e vengo da quel posto, sono il passeggero del tuo cuore e colui che ha assassinato il proprio cervello.

qualcuno strilla: trovati un lavoro serio!

Cerco la condensa sul vetro per capire se mi trovo dalla parte giusta della tempesta, ma c'è solo un piatto vuoto sul tavolo davanti a me e un orco che con il megafono strilla: imbecille! sei un imbecille! Non sa che sono un grande viaggiatore, anche se non ci saranno soldi nelle mie tasche e non sarò il più furbo.

Sai che sono un astronauta e vado in quel posto, sono il passeggero dei tuoi sogni e colui che gioca con il proprio cervello.

qualcuno strilla: trovati un lavoro serio!

La polpetta infilzata con la forchetta alzata come il martello di un giudice per finire nella bocca cannibale dando così fine alla fine del mondo, come se non fosse successo nulla balbetta ancora la televisione, tintinnano le posate; forse per me non verrà Babbonatale quest'anno e forse non esiste neppure la mia intima Papessa.

Sai che sono un astronauta e non ho nulla anche se mi credo una principessa sono il passeggero sul foglio bianco inseguito dal proprio cervello.

qualcuno strilla: trovati un lavoro serio!

 
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from manuel

L'ultimo compleanno che Victoria festeggiò fu il settimo. Aveva un ricordo vago di come era la cucina, grande e sempre in disordine, le sue pareti bianche ingiallite e i mobili in legno con le ante e i cassetti color rosso porpora. Il tavolo era l'unico a non essere fatto in legno, una lastra rettangolare di marmo scuro come una giornata tempestosa. Suo padre la riprendeva con la telecamera a soffiare sulla candela a forma di sette e sua madre, accanto a lei, che fingeva di aiutarla avvicinando le labbra come se stesse baciando l'aria. Il gusto di quella torta al cioccolato con un pizzico di zucchero a velo era inimitabile, le sue papille gustative erano in estasi. La mamma si era superata, pensò assaporando la prima fetta.

Suo padre commentò negativamente la torta, ma usò un tono ironico, ovviamente scherzava. «Non avevo mai mangiato una torta così disgustosa come questa!»

Lei e sua madre scoppiarono in una fragorosa risata. Mentre rideva, sua madre gli diede un pugno su un braccio, con quel gesto dimostrava il suo amore, quando facevano così la piccola si preoccupava pensando che gli stesse facendo del male. I suoi genitori le ricordavano, ogni volta, che non era un così, era un “gioco” che si facevano da quando erano fidanzati.

Era l'otto settembre duemilaotto, un giorno come tanti altri, se non uno dei più importanti dal punto di vista di ogni bambino, dopo Natale ovviamente. Passava la mattina a scuola ad imparare, il pomeriggio a fare i compiti e a leggere qualche libro o a guardare la televisione (anche se sua madre gliela lasciava guardare solo un'ora al giorno). Una vita normale insomma.

Lei, come ogni abitante del pianeta, non poteva immaginare quello che sarebbe accaduto il ventidue gennaio del duemilanove.

Era in viaggio con la sua famiglia, stava andando a trovare la nonna paterna con i suoi genitori. Suo padre le chiese se voleva contare e dire il colore delle auto che viaggiavano sulle altre corsie. Victoria rispose in modo pacato dicendogli di “No”, preferendo ascoltare la musica sul suo iPod. Quella risposta non passò inosservato alla madre, con un’occhiata severa folgorò la bambina.

«Papà, ci ho ripensato. Lo voglio fare!»

Sua madre le sorrise mostrandole un pollice all’insù, Victoria ricambiò e lo interpretò come un monito per la prossima “richiesta”: doveva accettarla senza pensarci due volte.

Lo definivano un “gioco da macchina”. Solo lui e sua moglie sapevano che era un modo per mettere alla prova la sua attenzione e concentrazione. La settimana prima, la maestra di lingue lo convocò a scuola, mostrò a loro le ultime verifiche che aveva fatto. Quasi impeccabili, se non per alcune doppie in parole dove non c’erano, altri vocali messe in posti di altre vocali e parole illeggibili. Li aveva chiamati “errori di distrazione”, il tono che usava la maestra di mezz’età era molto preoccupante, il problema si estendeva anche nelle altre materie. Il suo consiglio fu di farle dei piccoli giochi per allenare la sua attenzione e controllare sempre i suoi compiti per farle migliorare la sua calligrafia. Dopo quel colloquio, i suoi genitori cominciarono a mettere in atto i suoi consigli, a partire dalla calligrafia che mostrò, fin da subito, un netto cambiamento. Mentre il suo livello di attenzione rimase invariato, la maestra aveva sottolineato il fatto che questa capacità doveva essere allenata con costanza e i miglioramenti si sarebbero manifestati con l’avanzare delle settimane. Erano passati solo sei giorni, Victoria sembrava a mostrare lievi miglioramenti e i suoi genitori decisero di continuare su quella strada.

Victoria guardava fuori dal finestrino e teneva conto dei colori e delle macchine che passavano. I suoi genitori facevano da giudici. Se la cavava bene, Victoria contò undici macchine, molte delle quali avevano gli stessi colori. Da lì in poi, il gioco si trasformò in una sfida personale, voleva vedere a quanto arrivava prima di fare un altro errore, i suoi genitori non ci pensavano proprio a fermarla.

«Dodici grigia» diceva con la sua voce squillante e determinata. «Tredici marrone. Quattordici nera. Quindici e sedici gialle!» enfatizzò appena le vide.

«Brava, continua così!» le dicevano i suoi genitori ad ogni risposta giusta.

Continuò a parlare per una decina di minuti, prima di fermarsi e a chiudere gli occhi. Sua madre fu la prima ad accorgersene e la lasciò cadere nel mondo dei sogni.

Poi un brusco silenzio e il mondo cadde in un oblio nero.

Il rumore della pioggia incessante svegliò la bambina.

«Mamma?» la chiamò strofinandosi gli occhi. «Papà?»

Non ricevette alcuna risposta.

Li chiamò di nuovo, ancora nessuna risposta.

Si tolse la cintura e diede un’occhiata ai due sedili anteriori. I sedili erano vuoti, neanche una loro traccia. Guardò tutti finestrini, fuori c’era il nulla, nessuno sembrava essere nei paraggi, era l’unica in macchina…

Le lacrime cominciavano a formarsi quando nella sua mente si materializzò uno strano pensiero.

“Mamma e papà mi hanno abbandonato?”

Gli occhi le diventarono lucidi.

“Mamma?”

Tratteneva le lacrime, ma la verità era davanti ai suoi occhi.

“P-papà?”

Ciò che i suoi occhi vedevano era la verità.

Scoppiò a piangere, la verità la feriva nell’animo.

Ascoltando il suono continuo della pioggia, la piccola riuscì a calmarsi, poi strofinò uno dei finestrini della macchina: il cielo era grigio pieno di nuvole scure, la pioggia non sembrava interessata a fermarsi.

Passò un'ora dal suo risveglio e Victoria non riusciva a trovare il coraggio di uscire dalla monovolume blu scuro di suo padre. Avrebbe voluto lanciarsi fuori dalla macchina e andarsene da quello che sembrava un incubo divenuto realtà, ma i suoi timori e le sue emozioni la bloccavano. Per non rimanere ferma a guardare il nulla e sperare che accadesse un miracolo, rovistò il baule dove vi erano le tre valige della famiglia, solo alla vista di quella dei suoi genitori le fece scendere qualche lacrima, li avrebbe voluti abbracciare con tutte le sue forze. Tra le valige vide l'ombrello blu acceso della madre, ora aveva un oggetto per uscire dall'auto e non inzupparsi tutta d'acqua. Balzò nei posti inferiori, dove era stata dall'inizio di questo viaggio, e tirò la maniglia. Le innumerevoli gocce battevano sull'asfalto freddo, prima di uscire dalla macchina aprì il piccolo ombrello e, con una spinta, saltò fuori.

Atterrò a piedi uniti. Si guardò attorno, nient'altro che l'asfalto riusciva a vedere. Niente auto, solo i guardrails e i blocchi di cemento che dividevano l'autostrada.

Era una bambina di sette anni, sotto la pioggia e in mezzo alla strada.

Alzò il suo sguardo e guardò l'interno dell'ombrello: non era più blu accesso, ma grigio come strada e il cielo. Si voltò verso la macchina, anche lei aveva perso il suo colore. Senza accorgersene una goccia le cadde sulla punta del naso, prontamente si toccò con l'indice destro e poi lo guardò: la punta era diventata grigia e non sentiva nessuna sensazione di bagnato come se non fosse mai entrata in contatto. Stesso discorso valeva anche per la punta del naso.

Si allontanò dalla macchina, spinta dalla curiosità di perlustrare le strade vuote alla ricerca di un segno che la convincesse di non essere rimasta da sola in tutto il mondo. Stava esagerando, forse la sua immaginazione le stava giocando un brutto scherzo, ma i pensieri che le passavano nella testa erano tanti e per lo più confusi, aggrovigliati in un gigantesco nodo.

Si diceva che tutto sarebbe andato per il verso giusto. Tutto si sarebbe sistemato. Sua madre le diceva: “Un brutto periodo è come una porta chiusa a chiave, devi solo trovare la chiave per uscire e vivere un periodo bello. Devi farlo sempre, non pensare che accadrà una sola volta nella tua vita. Anche quando sembra impossibile tu ce la farai”.

Ripeteva quelle parole a voce bassa, era un'abitudine che sua madre voleva che perdesse. Lo faceva quando era stressata o nervosa, un tratto che l'accomunava a suo padre.

Perse di vista l'auto, ma non se ne rese conto. Ascoltava la pioggia che, progressivamente, smetteva di tamburellare sul fondo stradale. Camminava immersa nei suoi pensieri, la pioggia era il sottofondo perfetto per mantenere la calma. Ora doveva fare i conti con il fruscio che il leggero vento emetteva.

Chiuse l'ombrello e la vide. Una farfalla iridescente che volava all'altezza degli occhi. Vedeva tutti i colori sulle sue ali: azzurro, rosso, giallo, verde e molti altri. Il piccolo corpicino era di un colore blu spento.

«Ciao farfallina» disse contenta di incontrare qualcuno e provò a toccarla.

La farfalla si poggiò sulla punta grigia dell'indice. Con sua sorpresa, il dito tornò al colore originale. Poi si staccò, le ali battevano più velocemente rispetto a poco prima. Istintivamente, la piccola le corse dietro, la voleva acchiappare con le sue mani grandicelle.

In pochissimi battiti, la farfalla si allontanò di un paio di centinaia di metri creando un sostanzioso divario con la bambina, da lontano era un puntino scuro si sfondo chiaro, impossibile da non vedere. Victoria la rincorse con tutte le sue forze, senza distogliere lo sguardo sul puntino scuro davanti a lei.

Il divario sembrava non subire alcun cambiamento. La bambina correva affannosamente, acchiapparla era il suo obiettivo. Decise di andare oltre i suoi limiti, le sue gambe cominciarono a muoversi più velocemente.

La distanza tra l'insetto colorato e la settenne diminuì in maniera drastica. Victoria l'era dietro, le bastava un balzo e l'avrebbe acchiappata. Non poteva perdere la sua unica occasione di acchiapparla e non la sprecò.

Fece un salto in avanti e, con entrambe, le mani a mo' di barchetta e le unì appena avvertì la farfalla sulla sua pelle. E atterrò a piedi uniti.

Non aveva mai toccato una farfalla prima d'ora. In passato, quando andava al parco con in suoi genitori, appena i suoi occhi ne vedevano una, lei le andava incontro facendola scappare ancora prima di catturarla.

Aveva l'impressione di non averla presa, non sentiva nulla. C'era solo aria dentro le mani? Non aveva preso la farfalla? Era frutto della sua immaginazione?

Diede una sbirciata, facendo attenzione a non farla scappare. Portò le mani all'altezza degli occhi e aprì un piccolo foro dove guardare.

Niente, non c'era niente.

«Cavolo» esclamò delusa e lasciò cadere le braccia a peso morto.

Aprì e chiuse gli occhi... la farfalla era lì, di fronte a lei, le sue ali battevano a ritmo veloce per non perdere quota.

«Ma come...» disse perplessa. «Allora ti avevo preso!»

Un boato in cielo mise al corrente a tutti e due che sarebbe ricominciato a piovere. La farfalla volò verso sinistra e Victoria la seguì con lo sguardo. Oltre il guardrail, una casa molto recente decadente in mezzo a un grande campo di erba alta grigia attirò la sua attenzione, la farfalla era pronta di andarci. In quel momento, Victoria capì che essersi distratta a rincorrere lo strano insetto le ha fatto perdere l'unica fonte di riparo dalla pioggia.

«No, no, no! Ho perso l'ombrello!» esclamò andando nel panico. «Ho cercato di prenderti e ho lasciato l'ombrello chissà dove!»

Subito dopo La farfalla, si posizionò in direzione della casa, facendo avanti e indietro tentando di ottenere l'attenzione della bambina. Lo fece quattro volte, alla quinta Victoria la vide e notò che le stava cercando di dirle qualcosa.

«Ti devo seguire?» chiese e la farfalla si allontanò verso la casa.

Tra le due si ricreò il divario di prima, più corto rispetto a prima. Victoria passò sotto il guardrail. La settenne si strusciò la felpa viola sull'asfalto, appena si rialzò incominciò a piovere.

La bambina si mise le braccia in testa e corse più veloce che poteva, per poco non cadde. Impiegò due minuti per arrivarci, la casa si rivelò grande, molto grande per essere una casa per una famiglia di due o tre persone, si guardò attorno e vide un grande arco circolare senza assi di legno che la chiudessero. Con le poche forze che le rimanevano, le sue gambe la portarono li dentro, dove la pioggia non la poteva scolorire. Mentre riprendeva fiato, la farfalla la raggiunse.

«Forse» cominciò mentre la farfallina atterrava sulle sue mani «qui saremo al sicuro finché non smetterà di piovere.»

Passarono un paio di minuti, la pioggia continuava a scendere e il terreno dei campi divenne incolore. Curiosando in giro, Victoria, assieme alla farfalla sulla sua spalla, scoprì di essere dentro ad una stiva, ciò spiegava le grandi dimensioni e la quantità spropositata di casse e oggetti coperti da un velo sporco. Si chiedeva quanto tempo fosse passato dall'ultima volta che qualcuno ci mise piede qui dentro.

Dieci anni? Venti? Cento? Chi lo sa...

Rovistando, trovò uno specchio ancora in perfette condizioni dietro ad un velo sporco, ovviamente. Togliendolo alzò della polvere che la fece tossire.

«Non è la prima volta che lo faccio» si giustificò imitando una voce sicura e dal timbro eroica. L'alone di mistero della stiva era un'ambientazione carina per essere una cacciatrice di tesori, «ho esplorato numerose caverne nel deserto, ma mai una stiva piena di polvere.»

Ammirò il riflesso di sé stessa. Alcune ciocche dei capelli castani erano grigie. Neanche una goccia entrò in contatto col suo viso, ad eccezione della punta del naso che aveva prima di incontrare la farfalla misteriosa. La sua felpa viola era rovinata, le spalle e buona parte delle maniche avevano perso il colore, ora che guardò le maniche, si guardò immediatamente le mani: colorata del suo colore naturale.

Forse la farfalla le aveva annullato gli effetti della pioggia e non se n'è resa conto prima. Doveva provarlo su qualcos'altro per esserne sicura. Le venne subito l'idea. Prese una delle ciocche grigie e le porse alla farfalla sulla spalla di destra.

«Potresti riportarmeli al loro marrone naturale, per favore?» chiese gentilmente porgendoglieli.

Senza nemmeno toccarla, i capelli tornarono alla normalità. Il grigio svanì come se venisse inondato da uno tsunami color castano.

«Grazie!» e tornò a guardarsi allo specchio.

I jeans che indossava erano stati colpiti dalla pioggia perdendo l'azzurro chiaro d'origine. Le scarpe bianche non subirono grossi cambiamenti, rimasero quasi uguali da quando era partita con i suoi genitori.

Non ha mai smesso di pensare a loro, voleva averli vicini a lei.

La casa era il prossimo luogo che Victoria avrebbe visitato. La porta della stiva faceva da preludio ad un breve corridoio dritto dove la portò in mezzo all'entrata della casa, se fosse andata a sinistra si sarebbe trovata davanti l'ingresso, ma già vedendola chinandosi in avanti le fece già scartare l'idea, la trovava troppo noiosa per la sua esplorazione (stava ancora facendo finta di essere una cacciatrice di tesori).

Optò di andare a destra, un breve corridoio la portò in una stanza dalle pareti bianche e sporche di muffa, senza nessun tipo di arredamento e un odore di animale morto la fece andare subito via. Anche questa non era stata di suo gradimento.

«Spero che nelle altre zona della casa, non ci sia un tanfo del genere!» esclamò speranzosa.

Girò a destra. Una grande stanza dalle pareti ingiallite le si parò davanti, anche qui niente mobili e arredamento, l'odore di animale morto colpiva ancora le sue narici. Corse via e salì le scale dove la condussero al primo (e ultimo piano della casa), non le aveva notate quando giunse nell'atrio la prima volta.

Il primo piano era composto da un breve corridoio che faceva da ponte per quattro stanze, due sulla sinistra e due sulla destra. Le pareti erano sempre piene di crepe e di muffa, l'odore di animale morto non aiutava molto.

«Odio questa casa» si lamentò sottovoce.

Partì dalla prima stanza a destra. Spingendo la porta, Victoria si trovò davanti a sé un bagno puzzolente. Il lavandino, il bidet e la vasca da bagno erano pieni di insetti morti e sporchi di liquidi scuri. Del water non ce n'era traccia, solo due fori, uno sul pavimento e l’altro sul muro.

Passò alla successiva stando sempre su quel lato. Stanza dalle pareti sporche di muffa, quell'insopportabile odore, niente letti e mobili.

«BLEAH!» esclamò nauseata tappandosi il naso, purtroppo l’odore sgradevole aveva già penetrato le sue povere difese.

Si spostò nella stanza adiacente, era identica a quella che aveva appena visto, se non più grande. Probabilmente era la camera matrimoniale. Sì, era la camera matrimoniale. Il pavimento in legno aveva quattro piccoli cerchi chiari che formavano i quattro punti di un rettangolo, quattro gambe per sostenere una base in metallo con assi di legno che avrebbero sorretto il peso di un materasso.

Si spostò nella stanza accanto. Era più piccola rispetto alle ultime due e pieno di scope. Con quelle avrebbe potuto spazzate ogni millimetro per dieci volte!

«Il vecchio proprietario andava matto per le scope…» disse con forte perplessità la bambina alla sua piccola amica. «Gli adulti sono strani!»

Per la prima volta da quando si è poggiata sulla sua spalla, la farfalla brillò di verde acceso. Era il suo modo per dire “sono d’accordo”.

Tornò nella stalla, delusa da questa “esplorazione” e si sedette su una cassa chiusa davanti al grande arco in mattoni da dove si era riparata.

Pioveva ancora.

«Non può smettere di piovere?!» si lamentò Victoria a voce alta.

La farfalla brillò di un rosso intenso. Victoria capì subito il motivo di quel bagliore: la sua voce.

«Scusami! Non volevo spaventarti.»

Ora, emetteva un lieve bagliore bianco che aumentava ritmicamente d’intensità e fino a spegnersi, come se avesse finito di parlare.

«Mi capita di parlare e alzare la voce senza volerlo» ammise Victoria. «Ci sto lavorando. Starò molto attenta al volume, hai la mia parola.»

La farfalla si illuminò di nuovo, di blu questa volta.

«Quindi» cominciò insicura «siamo diventate amiche?»

L’aura blu passò al verde, più intenso rispetto a prima.

«Ti posso dare un nome? Stavo pensando di chiamarti… Fì! Ti piace?»

Con un battito d’ali, la piccola farfalla si staccò dalla spalla di Victoria, si portò all’altezza degli occhi ed emanò un bagliore giallo. Era felice, molto felice.

«Io sono Victoria» si presentò avvicinando l’indice sinistro a Fì, la quale si fermò sulla punta. Il bagliore giallo tornò al blu di prima.

«Appena finisce di piovere, ce ne andremo da qui. Ci deve essere qualcuno da qualche parte» disse sicura Victoria. «Fino d’allora, rimeremo qui ad aspettare. Non voglio diventare tutta grigia ed essere scambiata per uno zombie!»

Fì brillò di un lieve rosso. Aveva alzato di nuovo la voce.

«Perdonami, ma te l’ho già detto Fì, ci sto lavorando.»

Victoria porto il dito sulla spalla destra, guardò Fì balzare dal dito alla spalla. Dopodiché, si misero a osservare la pioggia cadere sulla terra prevalentemente grigia, in attesa di partire per il loro lungo viaggio.

 
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from Il Taccuino

È quest'inaspettato sole marzolino che rischiara i pennacchi dei cavalli, i tendoni della fiera, i visi dei bambini che guardano i palloni appesi al filo. Il leggero vento della domenica mattina sfiora le brunite facce dei paesani, nei vestiti buoni della festa, le gote rosse delle adolescenti che guardano i fantini sfilare per le strade. Assomigliano per fierezza ai paladini di Re Carlo, portano la maestà degli antichi cavalieri ma lo sguardo è quello di chi guarda la terra e la chiama terra: contadini, pescatori, carpentieri, eppure in quel momento sacro sembrano soldati delle schiere d'Alessandro, e le ragazze innamorate hanno in sé la grazia di Ginevra, la passione di Clorinda, il doloroso desiderio di Francesca, e cos'hanno di diverso dai versi del Poeta, quei sospiri d'amore che esalano dalle bocche rosse, fatte per giovani baci appassionati all'ombra dei vicoli alla sera? Conoscono forse solo la casa, il cucinino, le voci delle madri, e certo non meditano sul tempo in cui ci obliamo, su questa vorticosa vita che ci spegne, piano piano, non leggono gli aforismi dei francesi, la filosofia e i suoi garbugli, i versi ruffiani dei poeti. Eppur rispetto a me conoscono la vita, non il suo pallido riflesso, quest'inganno che evoco ogni giorno e che disprezzo. Invidio i sospiri, i loro amori adolescenti, che sempre mi furono negati per eccesso di poesia, forse, per difetto di salute, per via di un animo vecchio troppo presto, e che me ne faccio io delle vette del pensiero umano se è dagli uomini che mi sento più lontano? Guardo i giovani cavalieri e le dame e vorrei per una volta sola esser come loro, inconsapevole pedina della vita che non conosce il gioco.


cavalcataPhotocredit to R. Manfredi

 
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from D𝕚ⓈѕⓄᶰA𝐧ℤⒺ

𝗜 𝗩𝗜𝗔𝗚𝗚𝗜𝗔𝗧𝗢𝗥𝗜 𝗙𝗟𝗨𝗜𝗗𝗜

Ci troviamo di fronte a una nuova era, in cui l’aspirazione alla libertà si manifesta come una forza primordiale, guidando una generazione alla ricerca di un’esistenza senza né pesi né confini. Un’epoca in cui la leggerezza diventa un dogma, dove l’essere umano si svincola dalle convinzioni del passato e abbraccia il presente con ferma determinazione. In questo contesto, la fluidità diventa il nuovo mantra, tracciando un percorso verso una vita libera da legami superflui e aperta ad un futuro senza limiti.

“… il prologo alla creazione di una nuova specie: più leggera, mobile, che sfugge a ogni schema e quindi sopravvivrà alle mutazioni in corso. Ma pensate che rivoluzione sarebbe, che vera rivoluzione, forse l’ultima possibile: altro che destra, sinistra gran borghesi con la faccia spalmata sulle fiancate degli autobus che vogliono rifarci l’acconciatura, semplificatori semplicisti, liquidatori liquidi, rottami venuti dal futuro […] Una generazione capace di scegliere sempre la libertà, di consumare soltanto il necessario (incluso ciò che è necessario per il piacere), di non legarsi a nulla, di saper perdere cose e battaglie senza perdersi, di non credere in idee e fedi che le sono state data dalla nascita, una generazione senza troppo passato né avvenire, ma con una inflessibile attrazione verso il presente, inafferrabile, imprevedibile, disincantata dal suolo e dal tempo. In sintonia piena e pura con l’esistenza. E poi, quando finisce, arriva qualcuno a dirti: ti sia lieve la terra. Fallo tacere. Ti sia lieve la vita.” (Gabriele Romagnoli, Solo bagaglio a mano. Feltrinelli 2015)

Viaggiare leggeri, essere leggeri. Non ingombrare col corpo e con l’anima. Una ricerca di autonomia e una sfida alle convenzioni sociali.

 
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from nomadank

Parliamo del cortometraggio di Checco Zalone, “l'ultimo giorno di patriarcato”.

Partiamo col dire che Zalone è un professionista (e in questo è sicuramente geniale) nell'affrontare temi politici scottanti senza prendere nessun tipo di posizione. Non si capisce mai da quale parte della barricata si stia schierando. Anche in questo caso la riuscita è magistrale. Chi vuole vederci una critica al patriarcato, anche se molto blanda, ce la può vedere. Chi vuole vederci invece una presa in giro di chi il patriarcato lo combatte, ce la può vedere.

Tutti felici, miliardi di incassi al botteghino.

Quello che ci vedo io invece è una totale incapacità di uscire dal binarismo di genere. – Patriarcato = comandano gli uomini e le donne sono sottomesse. – Fine del patriarcato = comandano le donne e gli uomini sono sottomessi. Se questa è la comprensione del patriarcato che ci viene propagandata non stupisce che i socializzati uomini siano terrorizzati dalle femministe. Hanno paura che la fine del loro dominio coincida con l'inizio della loro oppressione. Che tutto quello che fanno subire alle persone socializzate donne, lo dovranno subire a loro volta.

Non è proprio così.

Quello che sfugge a chi questi temi non li vede neanche con il binocolo è che il patriarcato è una realtà molto più complessa, che in parte consiste nella mentalità stessa che ci siano ruoli di genere ben distinti, ciascuno con le sue caratteristiche imprescindibili, legati tra loro da una logica di dominio. Superare il patriarcato significa superare rigide distinzioni di genere e le gerarchie ad esse collegate. Questo significa uguaglianza, questo significa libertà.

 
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from Il Taccuino

Il rosso velluto della poltrona mi separava dal tuo respiro, e un'odorosa nube di capelli ricci. Il bulbo dell'occhio, torcendosi, ti cercava e carezzava il tuo profilo, appena acceso in una linea curva, sottile – il filo di Lachesi che si svolgeva per la mia e l'altrui vita - Come da un distante sogno, voci giungevano, di uomini, che non comprendo. Ma qualcun altro respirava per te e cercava la tua mano, nella tenerezza del tuo calore quasi animale chiudeva le illanguidite palpebre, rese gravi da quell'oscura tenerezza che mi respinge, che m'apparecchia nient'altro che un bianco talamo vuoto, con le lenzuola sfatte, compagno delle mie notti eterne e ineluttabili, i miei destini segreti d'insensata solitudine.


Sappho_Mengin C. Mengin – Sappho (1877)

 
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from nomadank

Nell'abbondanza annego Sovrastimolato Impotente immobilizzato Please don't scroll Palude digitale Sabbie immobili Lasciatemi pensare Blocco il flusso Vomito il pensiero Un grumo granulare nell'oceano nero Un inutile egotico tributo Sono un rifiuto No, mi rifiuto

 
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from Diario Tossico Digitale

Diario Tossico Digitale: una settimana

Vecchia fotografia trovata su public.work che ritrae una donna di profilo, il volto parzialmente coperto da un oggetto che non so identificare, l'oggetto presenta un'apertura ovale da cui si intravede l'occhio della donna che guarda in camera

È passata una settimana da quando ho cancellato i miei account dalle app di Meta e le ho disinstallate. Avevo prima rimosso tutti i tag, poi ho archiviato tutti i post, poi ho pensato

Ecco, ne ho abbastanza, andiamocene da qui.

La sensazione immediata è stata di sollievo. Ho mandato subito un video di pochi secondi alle ragazze dove ballavo in modo ridicolo, a braccia aperte, e concludevo, ridendo e dicendo Sono libero. Beh, non ancora. Non del tutto.

Qualche ora dopo, finito il pranzo, - non ero a casa mia, ero altrove ad accudire un gatto frizzantissimo — mi sono steso sul divano per farmi un pisolino. Ho preso il telefono in mano per guardare l’ora e impostare la sveglia, e d’improvviso mi ritrovo a guardare l’app delle Poste, il mio estratto conto davanti.

Come ci sono finito?

È successo che di istinto, inconsciamente, ho pigiato con il pollice in basso a destra, sulla cartella delle “cose importanti”, e poi di nuovo in alto a destra, dove prima c’era l’icona di Instagram. Dove prima c’erano gli algoritmi ora ci sono le poste. Mi è scappata una breve risata, poi una breve sensazione di inquietudine, e mi sono addormentato. Lo stesso giorno mi sono ritrovato un altro paio di volte a guardare il conto e, dove prima l’inquietudine era dovuta al gesto, ora veniva dalla cifra a schermo, ma questa è un’altra storia. Dal giorno dopo, non è più successo. Poi, come un tossico che si rispetti, la scimmia arriva a bussare alla porta quando pensi di esserti sistemato. Momento di noia, ho letto le newsletter, su Mastodon non ho notifiche, fuori piove. Sono sul letto, ho appena finito di leggere Helgoland, è troppo presto per iniziare una nuova lettura. Fammi controllare le statistiche del mio canale YouTube. Apro l’app e la schermata si apre direttamente con un Short: è un tizio che mostra un puzzle, un anello di ferro circolare che devi capire come disincastrare. Parla un po’, mostra cosa farebbe, a detta sua, la maggior parte della gente, e poi, dice dopo un minuto, "La soluzione è semplice, basta fare così". Carino. Passano due ore. I miei occhi sono morti, il mio volto inespressivo, lo stesso che, dai, abbiamo tutti quanti quando scrolliamo.

Cosa stavo facendo, prima? Cosa mi ero preparato a fare? Niente, assolutamente niente. E allora perché non sono rimasto a fare niente?

Ho trovato un nuovo spacciatore. La stessa parola che ha usato Kenobit nel suo ultimo libro, la stessa che ha usato King nel suo La Chiamata Dei Tre, che già allora, in qualche modo, mi aveva pizzicato dentro. Un altro algoritmo, no, basta. Ho creato un account secondario sul mio telefono, che ormai tengo attivo per la maggior parte del tempo. Lì, l’app è ancora installata ma non posso vederla, e se non la vedo, non posso ricordarmi di aprirla. E se mi viene voglia di farlo, cambiare account impiegherebbe cinque minuti sul mio telefono del 15–18, e non sia mai.

Oggi, una settimana dopo, il mio spacciatore sembra essere diventato Mastodon. Ma le dosi che mi passa sembrano leggere, e le poche che ha mi raccontano delle storie che posso leggere e che spesso, sembra, mi insegnino qualcosa di nuovo.

Sono ancora un tossico? Dovrei liberarmi della mia identità digitale una volta per tutte, ovunque? Vivrò due vite distinte, potrò essere la stessa persona qui e lì? È utile? Deve per forza essere utile?

Suppongo, prima o poi, lo scoprirò.

Lo scoprirò?

Vincenzo E. Iannone

 
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from ordinariafollia

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Verrà forse un giorno in cui non mi riconoscerai, e mi dirai che non so quello che dico e che non sei matta e che mi hanno detto bugie e che sai perfettamente cosa succede in questa casa, senza riconoscermi ma non per questo io ti amerò di meno.

Verrà forse un giorno io cui non mi capirai e mi dirai che non si può vivere senza soldi e che non stai urlando e che i cani mi mangeranno fino all'osso e che sai perfettamente cosa succede in questa casa, senza capirmi ma non per questo io ti amerò di meno.

Verrà forse un giorno io cui io stesso non avrò più interesse a sapere chi sono e mi dirò che sono stanco e che quella cosa allo specchio deve smetterla di fissarmi e non ti riconoscerò e non ti capirò senza interesse ma non per questo io ti amerò di meno.

 
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from Il Taccuino

Vorrei poterti amare del più giusto amore, del più smisurato amore e lasciare che mai siano sazi i miei occhi di guardarti. Questa mia disperata fuga dal minaccioso tempo che tiene traccia dei respiri, dello sbattere svogliato delle palpebre che ci marca a vista come un secondino - questo detestato tempo sarebbe forse meno doloroso da attraversare se non fossero vuote le mie mani. Da te, tuttavia, fuggirò. perché è più per paura che per amore che ti amo, e queste mie parole occultano il malcelato inganno di cui m'inganno io stesso: t'amo per potermi, ancora un poco, amare. Per questo m'inoltrerò nel gorgo: che una nuova ingiustizia non ferisca una volta ancora il mondo, né mai ti giunga l'eco di questa stonatura di questo scuro e grave risuonare di bordone. Sia per te solo l'armonia delle mille voci che si rincorrono in quest'assurdo contrappunto su un tema che non risolve.


munch_amantiE. Munch – Amanti (collezione privata)

 
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from Il Taccuino

È bastata un frase, una piccola quotidiana cattiveria di chi non so chi, per farmi vacillare ancora una volta, per chiedermi se davvero esiste la salvezza, se la nostra vita altro non è che un'assurda insensata esistenza, e noi soltanto siamo burattini nelle mani degli dei, e qualcosa sarebbe ancora essere legno almeno, piuttosto che vagare come ombre, come pulviscoli. A tutto ciò penso mentre ti guardo, e mi chiedo con che luce ti rimirano i miei occhi: è forse la pena che provo per me stesso che mi spinge a cercarti? M'appare appannata la sera che s'appresta, e mi perdo tra scale e vicoletti. E tu dove sei? Dove ti sospinge la corrente? Cosa ne è di te quando, di notte, ogni luce è spenta? Chissà com'è il tuo viso mentre dormi, e vorrei proprio saperlo come sei, quando non ti giunge il mio pensiero. Vai forse per le strade con il passo sicuro alla luce del sole? Oppure ogni passo è un grandioso sforzo, un tentativo d'illusione, l'autoconvinzione di esistere, nonostante tutto. Non trovo risposta a nessuna domanda. Solo, da questi vetri scuriti dalle impronte delle mani, rimiro un angolo retto formato dai tetti delle case che si stagliano contro il cielo, e le persiane mi ricordano le sbarre di una cella e mi avvoltolo sulla sedia, quasi come per difendermi da questa guerra disumana che è la vita.


maphorionA. Arrivabene, Studio per Maphorion I, Tempera su lino

 
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