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from Super Relax


Sono tornato da poco da un'uscita infrasettimanale in super relax, di quelle che mi si addicono e che vorrei moltiplicare.
Un'uscita con poche decine di metri di dislivello, al passo spedito di noi ciclisti di poche pretese alle prese con pianure deserte: 25 km/h di media e ci sembra di volare, tutta la velocità in più è in eccesso.

Il giorno non è ancora rovente, siamo sui 28°, non soffia più che un venticello esile, ma la brezza artificiale della pedalata è gradevole; mezzi a motore pochi e ben distanziati tra loro. Gli unici suoni, per lunghi tratti, sono quelli della bicicletta, a cui ci si abitua dopo poche uscite, e quelli che non smettono mai di rapire gli amanti della natura: il canto degli uccelli, le cicale quasi impossibili da vedere, solitamente, ma impossibili da ignorare.

E si va, sciolti e tranquilli, fino a cadere in una sorta di leggera beatitudine, la mente è finalmente libera dalle ossessioni e dalle preoccupazioni del quotidiano, i pedali sembrano non offrire resistenza, ci si sente come cullati da un pianeta fatto su misura, temporaneamente in un mondo simile al nostro ma mondato dai pesi, dalle brutture e dalla necessità della vita.

Certo, temporaneamente, ma meglio che mai.

#Pensieri

 
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from kipple


La fortuna non esiste, è un modo che non mi appartiene di riferirsi al caso benigno. Un tiro di dadi favorevole, un'azione meccanica da cui scaturisce un risultato casuale. I dadi hanno deciso che non avessi idoli di alcun tipo, risparmiandomi parecchie delusioni. L'idolo, specie finché è ancora in vita, può far sempre in tempo a tradirsi (e tradirti).

Mio padre mi voleva bene, molto; anch'io gli volevo bene, molto, ma erano quei sentimenti che non si incontrano, si sfiorano, cercano di avvicinarsi e poi sfuggono vicendevolmente, camminano paralleli come due rette geometriche, separati da infiniti punti, infinite rette.

Era un uomo del Sud, degli anni Quaranta, nato, cresciuto e vissuto in determinati quartieri, con la scolarizzazione di uno che ha iniziato a lavorare poco più che bambino. Un'identità facile da inquadrare, ampiamente rappresentata. Io, invece, nella mia famiglia sono sempre stato un corpo estraneo. Non c'era nessun motivo, nessuna possibilità per cui tra noi le cose potessero funzionare più di tanto, la frattura si allargava con gli anni. Non c'era dialogo, non essendoci nulla su cui poter dialogare. Non c'era neanche voglia e possibilità di confronto e discussione, essendo le posizioni di partenza così distanti, inconciliabili, irremovibili. Non c'era nulla da mercanteggiare.

Come tutti, ha commesso degli errori, ma un paio almeno così grandi da negarmi la vita che avrei voluto. Non ha mai voluto investire niente su di me: lo so che è un'immagine brutta quanto il concetto stesso, ma viviamo nel capitalismo e determinate cose funzionano in un determinato modo. Ancora, non ha voluto lasciare Napoli e provincia, landa marcescente, quando ne avevamo la possibilità. Scelte che mi hanno fatto sentire privato della speranza e del futuro, probabilmente operate nel nome della famiglia in senso ampio, quando avrebbe dovuto limitarsi alla sua, di famiglia.

Nonostante tutto ci volevamo bene, però, alla nostra maniera e nelle sue ultime settimane ci siamo riavvicinati per quanto possibile, perché certe situazioni fanno riflettere sulle priorità e l'importanza delle cose.

Certi elementi di cultura popolare erano le uniche cose che avessero il potere di avvicinare, temporaneamente, fugacemente quelle rette. I fumetti del trio EsseGesse (Il Grande Blek, Il Comandante Mark, Capitan Miki), Tex, le storie esotiche di Sergio Toppi, Corto Maltese. I western di Sergio Leone, Il mio nome è Nessuno. Certi episodi, probabilmente produzioni mitteleuropee, che passavano in RAI, narrazioni più o meno fiabesche di cavalieri e nobili in boschi scuri, inghiottiti dalla nebbia. La domenica mattina, era quella la programmazione, mentre mia mamma faceva le faccende di casa, andavo a piazzarmi sul lettone e le guardavamo insieme, poi ci si preparava per uscire. Ero ancora abbastanza piccolo da uscire con loro, la domenica mattina.

Il legame più forte e duraturo di tutti, però, è stato Stephen King. Tutto è iniziato in un supermercato in provincia di Arezzo, quindi sullo scaffare dei libri di un qualche punto Coop. La chiamata dei tre: questo è il libro che mi cattura, sarà stata la copertina, il titolo, quello stile grafico che poi sarebbe diventato familiare.

Copertina di un libro con una sorta di tramono e quattro soggetti umani, un pistolero, due soggetti maschili di età differenti e una donna su una sedia a rotelle. A grandi lettere, il testo Stephen King e La chiamata dei tre.

Non sapevo si trattasse del secondo della serie, non era importante. Poi mi procurai il primo e tutti quelli usciti successivamente. Probabilmente, l'unica cosa che abbia mai atteso con relativa impazienza, in ambito intrattenimento, era il nuovo libro della serie. Comunque, visto che c'ero, mi appassionai alle storie di Stephen King, ai suoi mondi, alla sua narrazione, recuperando praticamente tutti i suoi libri fino a una certa data, su quelli recenti non sono ferrato. Anche mio padre ne divenne un avido lettore e vederlo con quei libri in mano, anche prima che li leggessi io, era un modo per sentirsi più vicini. Almeno per me, non so lui cosa provasse a parti invertite.

Poi, un giorno, in rete si inizia a parlare di Stranger Things: non me ne importa nulla di essere sempre sul pezzo, quindi lasciai perdere per qualche tempo, poi mi procurai la serie. Sì, sappiamo tutti che è una serie furba, facilona, derivativa, eccetera. Come i film di Tarantino, non sarebbe esistita senza aver potuto attingere a una mole considerevole di materiale precedente, non sarebbe esistita senza la musica e l'estetica degli anni Ottanta, non sarebbe esistita, in primo luogo, senza le migliaia di pagine di Stephen King. Anche le migliaia di pagine di Stephen King vengono da altre decine di migliaia di pagine.
Faccio in modo che mio padre possa vederla, un altro modo per sentirsi più vicini. La apprezza e molto, non avevo dubbi. È lui il primo a vedere la stagione successiva, appena disponibile.

Esce la terza stagione, la divora e poi mi fa “quando escono le altre puntate?”. Non ho modo di saperlo con precisione, lui stava ancora relativamente bene (per quanto possa stare bene una persona che ha ricevuto quel tipo di condanna a morte) e quindi posso dirgli, senza che mi si bagnino gli occhi, che la vedrà appena uscita. Non la vedrà mai, la malattia non gliene ha dato il tempo. Non l'avrebbe vista comunque, perché il cortisone, tra le decine di medicinali che doveva assumere, gli aveva ormai opacizzato la vista, non penso distinguesse più che ombre.

Non ho voluto vedere le puntate successive, son rimasto anch'io allo stesso punto. Non le vedrò mai. E, sapete una cosa? Mi ero ripromesso di leggere l'ultimo libro, La Torre Nera, proprio come il titolo della saga, solo quando sarebbe stato meglio. Avrei voluto leggere quella conclusione col cuore più leggero, conservarla come una bottiglia pregiata per le grandi occasioni, ma la morte è arrivata prima e ho deciso così. Non lo leggerò mai.

 
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from Signor Uscita

Penso capiti a tutti di affezionarsi a qualcosa. Può capitare di affezionarsi anche alla propria identità.

Non ho in generale una buona memoria, ma ricordo con chiarezza il momento in cui scelsi il mio primo “nickname” per la mia prima email. Parliamo di un’epoca ben diversa quando i computer andavano a pedali e non si trovavano molti altri utenti online.

Mi ci affezionai. Solo recentemente mi son reso conto quanto possa essere liberatorio e rinvigorente cambiare nome, anche solo temporaneamente. Offre una visione da un altra prospettiva, un altro angolo.

È l’equivalente di quel signor Marco Rossi che per gli amici si fa chiamare Franco (storia vera).

[…]

 
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from Il quaderno del Cretino di Crescenzago

Premessa linguistica: in questo articolo userò le parole “froci-”, “ricchion-”, “invertit-” e affini come insulti riappropriati, cioè termini derogatori che io ribalto in termini di auto-elogio, per rimarcare la mia anormalità di persona non eterosessuale rispetto a una “normalità” che rifiuto in quanto malsana. In questo senso, si tratta dell'adattamento italiano del vocabolo inglese queer, che ha dietro lo stesso identico etimo.

Un lunedì mattina come tanti

Da quando mi sono trasferito dalla Brianza a Milano (o dovrei dire “da quando sono emigrato”? A volte me lo chiedo), ho iniziato a fare attività sociale e politica, e nelle ultime tre settimane circa ho contribuito con il mio pezzettino a far succedere un progetto cui tenevo tantissimo: la Marciona di Milano, ovverosia il corteo dell'orgoglio ricchione auto-organizzato dai gruppi politici froci di sinistra, in opposizione aperta a un Pride comunale che ormai è diventato un mega-evento turistico di pubblicità per grandi aziende, totalmente svuotato del suo significato politico di anniversario dei Moti di Stonewall del '69.

Nota storica breve: sì i Pride commemorano un tumulto in cui persone frocie newyorkesi (per lo più transgenere e per lo più afroamericane e latinoamericane) riempirono di botte la polizia e pretesero la decriminalizzazione delle identità queer (represse in quanto malattie mentali e crimini contro il decoro), nel quadro più ampio del movimento del '68, e collegandosi direttamente alle mobilitazioni contro la Guerra del Vietnam e a quelle per la desegregazione della popolazione nera. Di fatto, queste manifestazioni sono un po' il corteo del Primo Maggio specifico per noi ricchioni, e se non lo sapevate, è ulteriore indice che troppi Pride moderni fanno pena.

Non starò qui a commentare l'esito della Marciona (quello spetta a tutta la rete usando il nostro blog... appena lo rimettiamo in sesto), bensì ne farò una lente di analisi per un fatto curiosissimo che mi è successo stamane. Alcuni mesi fa, su consiglio di una mia amica (ricchiona anche lei) che si interessa di scienze sociali, mi sono iscritto alla newsletter «Ciclostyle», in cui l'antropologa culturale Carolina Boldoni e il giornalista/formatore Enrico Di Palma commentano fatti vari ed eventuali attraverso le rispettive lenti di analisi, e nel numero di stamane Boldoni ha dato una restituzione del campeggio di formazione antropologica che ha tenuto nei giorni scorsi. Raccomando di sfogliare la newsletter qui e poi tornare qua per sentirmi fare il puntacazzista comunistone.

Gioire perché la montagna ha partorito un topolino

A quanto pare, Boldoni considera un successo il suo antropocamp (ovviamente indicato con anglicismo) perché 8 partecipanti hanno imparato a fare vita comunitaria attraverso la condivisione del lavoro domestico, ivi compreso quello in cucina, e grazie alla buona fede reciproca necessaria per costruire legami di condivisione senza filtri e senza pressioni. 8 partecipanti che mi aspetto avere circa la mia età e il mio status sociale di “alto proletario-piccolo borghese” (considerando l'utenza cui si rivolge il progetto Ciclostyle), e che hanno scelto di pagarsi una vacanza didattica organizzata apposta per imparare... che non sono persone asociali in toto, bensì gli mancava l'educazione affettiva minima per saper selezionare le proprie frequentazioni e costruire legami autentici.

Confesso che questa newsletter mi ha dato la stessa sensazione di quando parlo di giochi di ruolo e vedo la gente in estasi perché per anni ha giocato unicamente a Dungeons & Dragons o qualche sua derivazione e ha appena scoperto che esistono GDR

  • Di ambientazione non high fantasy e/o
  • Meno complessi meccanicamente di un wargame vecchio stampo e/o
  • Che non richiedono 3 ore di preparazione preliminare per ogni ora di gioco effettivo

In casi simili, la mia reazione di pancia sarebbe sempre di sottoporre queste persone a una terapia d'urto per allargare i loro schemi preconcetti da 0 a 1000 – ad esempio proponendo loro un gioco monosessione totalmente dialogico e di ambientazione realistica contemporanea (tipo Alice è scomparsa); tendenzialmente poi mi trattengo, ma ne parlerò in un altro momento.

Al momento, mi interessa evidenziare che la clientela di Boldoni (e, presumo, Di Palma?) è come il giocatore di ruolo insoddisfatto medio: gente che per anni si è torturata a scegliere un'opzione sbagliata per sé, credendo che non ci fosse una vera scelta bensì un'unica strada possibile, ha appena fatto un passettino per capire meglio la vastità del mondo, e ora suona la fanfara del trionfo come se avesse raggiunto il Nirvana. Non so mai se provare pietà per gli anni che queste persone hanno sprecato e che non riavranno mai indietro, o piuttosto schernirle per la sicumera con cui sopravvalutano il proprio primo passo in un percorso che sarà lungo e complesso e richiederà tanta umiltà e curiosità. O ancora, se indirizzare un po' di disprezzo verso chi capitalizza sull'ignoranza altrui, abbandonando la deontologia dell'insegnante ed entrando nel linguaggio disfunzionale del guru.

Abbiamo svenduto l'educazione affettiva

Io non conosco personalmente Boldoni (né Di Palma), non ero al suo antropocamp, e non posso certo giudicare lo sforzo organizzativo messo nel progetto né l'impatto concreto sulle vite delle 8 persone partecipanti. Però conosco benissimo la sensazione di essere “sbagliato” per la comunità circostante e incapace di inserirvisi, considerando che sono un uomo autistico e bisessuale cresciuto nella provincia lombarda in piena epoca leghista, senza uno straccio di supporto terapeutico specifico per le neurodivergenze né una rete amicale realmente progressista e attenta alle questioni femministe-finocchie (anzi, avevamo dentro un paio di trumpisti). Se non sono esploso malamente per l'intreccio fra le mie due marginalità, e tutto lo stress conseguente, è perché dai 17 anni in poi ho cercato col lanternino persone e contesti sociali che potessero essere affini al mio carattere e ai miei interessi, e mi sono preso l'accollo di scremare i (tanti) buchi nell'acqua dalle (tante) situazioni fertili: da lì è scaturita la mia passione per il gioco di ruolo e il paio di anni a fare partite “matte e disperatissime”, sia di persona sia in videoconferenza, con tante persone straordinarie che mi hanno offerto uno spazio sicuro per esprimere me stesso, rendermi vulnerabile, e imparare con errori e tentativi a compensare i miei deficit di intelligenza sociale. Ricorderò sempre il mio primo lavoretto come traduttore per Dreamlord Games, il cui direttore scelse di dare fiducia allo sbarbatello logorroico che apriva sempre discussioni tecniche sul forum ufficioso di Fate, o quella partita a Dungeon World che iniziò con me collassato per lo stress universitario e uno dei miei compagni di gioco pronto a tirarmi su di morale. O la demo di Lady Blackbird in cui conobbi la coppia, allora appena andata a convivere, che adesso ha un figliolo adorabile; o il playtest al bellissimo gioco di edu-intrattenimento Stonewall 1969, in cui imparai la storia dei Moti di Stonewall e la definizione di lotta di classe auto-organizzata.

E tornando circolarmente al punto di impartenza, è grazie a quei bellissimi anni di educazione affettiva mediata dall'hobby ludico, se a 27 anni mi sono trasferito a Milano e, come primissima cosa, ho mappato le realtà politiche che ancora cercano di portare avanti progetti di sinistra, in una città che da praticamente un decennio sta venendo massacrata per trasformarla in un luna park per milionari, e mi sono buttato a capfitto dentro quel marasma di militanza. Ho partecipato a picchetti, cortei, cene sociali, mostre d'arte e cabaret gratuiti, alla pulizia di centri sociali e alla preparazione di collette alimentari, ho composto e declamato comunicati pubblici in manifestazione e partecipato a dibattiti aperti... E soprattutto, ho stretto connessioni autentiche. Compagni e compagne con cui volevo inizialmente mantenere un rapporto puramente politico (“per non dare troppa confidenza”) sono ormai amici e amiche che considero di famiglia; persone che rispettavo mi hanno deluso allorché le ho messe davanti a una prova dei fatti, e ho saputo rivalutarle senza stracciarmi le vesti; persone di cui diffidavo hanno dimostrato più serietà e apertura di quanto pensassi, e ora sono solo contento di lottare al loro fianco; militanti che potrebbero essere i miei genitori mi raccontano volentieri, con la commozione in volto, degli amici di un tempo stroncati dai fascisti e dall'eroina; militanti che potrebbero essere mie sorelle e miei fratelli minori si interfacciano con me da pari a pari; DJ veterani della scena musicale underground mi salutano calorosamente ogni volta che ci becchiamo in manifestazione ... altre persone della rete Marciona mi invitano agli hacklab e io contraccambio invitandole alle convention di GDR (di nuovo, il cerchio si chiude e tutto sta insieme).

Dove voglio arrivare? Al fatto che io, già da ragazzo, ho saputo individuare un'idea approssimativa di chi volevo essere e l'ho perseguita e affinata col tempo; e ho avuto la fortuna di sentirmi a casa nella Controcultura, quella con la maiuscola, dove consideriamo un valore la libera autoespressione e la condivisione di saperi senza creare poteri (per citare la buon'anima del compagno Primo Moroni). Di conseguenza, ho imparato organicamente a costruire legami autentici, prendendo esempio da persone che già avevano fatto quel percorso e mi hanno guidato e consigliato, e ora sono in condizione di guidare e consigliare io chi è più giovane di me. Tutto questo, senza pagare guru che mi facciano dei workshop sul senso vero dell'esistenza. Davvero ci sta bene che le storie come la mia siano l'anomalia? Davvero vogliamo che la norma sia, invece, dover assumere un/-a guru per imparare a vivere in comunità e darsi una progettualità?

Agire l'utopia

Giusto perché le cose seguono spesso uno schema (sì sono anche neopagano, ma ne parliamo dopo), nelle ore intercorse fra la Marciona e la lettura di «Ciclostyle» avevo proseguito la mia lettura di «Un'Ambigua Utopia», bellissima fanzine di critica culturale marx/z/iana (sic!) curata fra '77 e '82 da un collettivo di nerd sinistri della prima generazione che militavano nell'Avanguardia Operia e leggevano fantascienza, i quali l'hanno riavviata a partire dal '20 come progetto della pensione. Ebbene, come da titolo la rivista si poneva e si pone il problema di uscire dalla concezione consolatoria e prescrittiva dell'utopia e passare a una concezione pragmatica di agire l'utopia nel qui e ora, e proprio iersera ho letto l'editoriale del numero 6 (Marzo/Aprile 1979), in cui la redazione fece il punto proprio su questa dialettica in ottica di problematizzazione aperta, in particolare domandandosi se possa esistere un'utopia di sinistra o se invece il concetto stesso di utopia non si colleghi intrinsecamente all'automiglioramente individuale capitalista e all'ottimizzazione della macchina statale.

Non ho potuto non collegare fra loro quell'editoriale, la newsletter, la Marciona, e il festival con corteo finale che «Un'Ambigua Utopia» organizzò a Milano nel '78 (rendicontato nel numero 4). Da un lato, c'è un capitalismo ormai così pervasivo che per tante persone della mia età vivere atomizzate ed esistere per lavorare è la norma ineluttabile, l'affiliazione politica (se c'è) non va oltre i meme, portare avanti hobby propri e viverli come fortemente identitari è inconcepibile, e non può mancare la caccia alla relazione sentimentale (rigorosamente monogamica) come status symbol di adultità. Dall'altro lato, ci siamo ieri come oggi noi teste calde antagoniste, che ci ostiniamo a scendere in piazza agghindate da marx/z/iane e da raver, a bordo di risciò sgangherati decorati con artistici cartelli in cartone, esibendo fiere il quadricolore palestinese e la bandiera dell'orgoglio finocchio (rigorosamente la versione nuova, però), e prima durante e dopo queste manifestazioni di dissenso e di disordine costruiamo altre socialità, altre culture, altre prospettive.

Cantavano cinquant'anni fa i cori di Lotta Continua:

La scuola dei padroni non funziona più ma solo come base rossa; la cultura dei borghesi non ci frega più, l'abbiamo messa nella fossa.

Canta oggi Carenza503, rapper torinese con cui ho l'onore di militare:

Sogno con te solo di stare bene. Sembra banale ma è radicale: la forma più pura dell'anarchia che ci potesse mai capitare.

Mi pare che la sostanza sia sempre quella. Non abbiamo, al momento, le condizioni materiali per ribaltare il sistema, ma abbiamo le possibilità di costruire delle alternative interstiziali, e il dovere morale di tirarci dentro più persone che possiamo, senza farle intortare da una falsa alternativa erogata dal capitalismo. Perché l'utopia non verrà domani: l'utopia è oggi, giorno dopo giorno, in ogni istante di vita degna e autentica che riusciamo a mettere insieme, costruendolo assieme. E questa, per me, è la base vera del socialismo libertario.

Per il comunismo e per la frocità, riprendiamoci la città.

 
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from Super Relax


Intanto, non seguo sport di gente che diventa milionaria o milionaria ci nasce (per esempio, calcio nella prima categoria e automobili e motorette nella seconda). Come no, ma sai i milioni che ha Pogačar? Lo so, ma quelli che guadagnano quelle cifre saranno meno di dieci in tutto il mondo (e non un calciatore qualsiasi di serie A che, magari, resta in panchina per tutto il campionato). Poi ci sono quelli che guadagnano qualcosina in più, facciamo un centinaio, e tutti gli altri che si devono accontentare di qualcosa di simile a uno stipendio. A fine carriera, quindi prima dei quaranta anni, devono reinventarsi in qualche modo se vogliono continuare a mangiare. Anche i tifosi non hanno bisogno (speriamo ancora per molto) di abbonamenti per seguire le competizioni più importanti, se passano dalle tue parti puoi assistere senza pagare un biglietto, non ci sono tifoserie gestite da malavitosi e fasci in genere. Non ho mai sentito di scontri tra gli ultrà del ciclismo, con le coltellate in prossimità del traguardo e i capibastone invischiati nel traffico di droga.

È uno sport che, teoricamente, posso fare anche io per i fatti miei, a 1/50 dell'intensità dei professionisti: ho una bicicletta (una gravel nello specifico), un abbigliamento sommario e le strade a disposizione. Le pendenze a doppia cifra diventano ben presto impegnative/infattibili, la velocità in pianura è quella che è e non posso fare centinaia di chilometri al giorno, ma in scala molto ridotta posso ricrearne un simulacro.

Ci vedo la libertà che non ho mai avuto, perché non hanno mai voluto comprarmi la bicicletta e di quella libertà ho avuto un surrogato televisivo quando ho iniziato a seguire il ciclismo, ai tempi di Bugno, Chiappucci, Indurain e Pantani. Libertà che mi son concesso in questa grigia mezza età, libertà di allontanarmi fisicamente da un punto di partenza che sento come una prigione, solo con la scarsa forza dei miei muscoli.

Il ciclismo su strada mi mostra panorami e luoghi, spesso bellissimi, che non avrò modo di vedere dal vivo. Mi piacciono le strade del Giro, perché l'Italia è un posto che può essere bellissimo, nonostante gli italiani; mi piacciono anche le strade del Tour, su quelle della Vuelta non posso esprimermi nettamente perché la copertura video è scarsa e il paesaggio spagnolo è particolare, quindi penso che, per forza di cose, ci sarà un discreto chilometraggio in zone semidesertiche.

Non tifo per nessuno: se mi piace uno sport, è lo sport in sé a piacermi, non perché sia trainato da Tizio o Caio. Se c'è un bell'attacco in salita, se una fuga va a buon fine, se vedo una discesa pennellata alla precisione... mi va bene tutto, non mi interessano i protagonisti.

#Pensieri

 
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from AtAbi

Vorrei condividere con Voi alcune mie letture, spero siano di Vostro interesse. Per questo ho deciso di iniziare un blog intitolato 'Note a margine'.

 
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from manuel

Questo testo è il risultato di una sfida che ho fatto con degli amici. L'obiettivo era di scrivere una storia lunga 3.600 caratteri partendo da un'immagine. Buona lettura!

Mattias fece schizzare la mano sopra la testa e volse lo sguardo dietro di sé. L'omone, che per poco non lo scaraventò per terra, proseguì indifferente la sua strada.

Perché ogni giorno doveva essere la solita storia? Digrignò i denti e strinse la mano libera alla bretella. Inveire contro di lui sarebbe stato inutile, controproducente.

Sulla spalla destra, Ossuto gli diede un calcetto sul collo e fece un cenno verso l'altra parte. Sì, i pacchi non si sarebbero consegnati da soli.

Le vie del mercato erano intasate dalla mandria di gente. La luce calda del sole faticava ad affacciarsi su di loro a causa dei grandi edifici scuri e opprimenti costruiti attorno alla piazza. Sembravano lucciole vagare nel buio.

Mattias dovette reprimere diverse volte l'impulsi di sbraitare contro quegli adulti maleducati e presuntuosi. Se fossero stati più bassi di lui…

Scattò in mezzo a due uomini alti e snelli, sfiorandoli come fosse il vento. Ossuto emise un grido terrorizzato, tenendo strette le sue piccole mani sul soprabito stropicciato.

Ripeté le movenze precise e snodate per evitare il contatto, sia visivo che tattile, con altre cinque persone. Ignorò le loro imprecazioni mentre scompariva nello spazio stretto tra due bancarelle. Brontoloni senza cervello. Ecco cosa siete.

«Ehilà!» annunciò tra un respiro e l’altro.

Mattias sbirciò lo spazio minuto dietro al tavolo di legno su cui giacevano gingilli e cianfrusaglie ammassati come cumuli di terra. Aguzzò per bene lo sguardo: gioielli di dubbia qualità, ingranaggi malandati e stoviglie arrugginita. Roba di poco valore, oggetti che solo gli sprovveduti e i creduloni comprerebbero.

«Arrivo!» disse una voce possente.

Un teschio con una corona di tasselli e dagli occhi color dell’alba sbucò da sotto il telo rosso porpora. Pareva infastidito, quasi stizzito.

Mattias fece scivolare Ossuto a terra e posò con cura la sacca, l’ultima cosa che voleva era danneggiare gli altri pacchi. Estrasse un oggetto coperto da un involucro di carta sottile e glielo porse. Le braccia gli tremavano dalla paura, non voleva incrociare quei puntini infuocati.

L'essere fece lievitare il pacco verso di sé. Lo fece girare su sé stesso in diverse direzioni: avanti, destra e sinistra. Lo guardò per un istante, poi annuì soddisfatto.

«È perfetto» sancì contento la testa. «Grazie, giovanotto. Anche a te, fratello d'ossa. In futuro saprò chi chiamare se avrò bisogno di fare una consegna.»

Mattias dilatò le labbra un sorriso tirato. Prese Ossuto, alzò i tacchi e corse dritto dove era spuntato qualche momento prima. Con sua sorpresa, la marea di persone era aumentata e camminare in mezzo alla strada pareva impossibile.

«Reggiti forte!»

Si buttò nella mischia e strinse i denti. Spintoni, gomitate e piedi molesti misero a dura prova il suo corpo. Il vociare confuso e assordante delle persone attorno martellarono i suoi timpani senza alcuna pietà. Orientarsi nella penombra e nel frastuono imperterrito pareva un'impresa.

Scorse uno spiraglio alla sua destra, un faro di speranza. Fece un respiro profondo e cominciò a sgomitare e spintonare tutti quanti, senza guardarsi indietro. Scrollava le arrabbiature e gli insulti dei presenti di dosso. Si sentiva un cavaliere privo di scudo sotto un cielo pieno di frecce. Il pacco doveva arrivare a destinazione.

Sgusciò via, stremato e vittorioso. Mattias si fermò per un momento, i polmoni stavano andando a fuoco e il cuore non la smetteva di galoppare. Inspirò ed espirò per tre volte, il battere ritmico e opprimente si acquietò man mano che lo faceva.

Un ultimo pacco. Sospirò. Ancora uno e per oggi abbiamo dato abbastanza.

 
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from Storieparole

Facciamo che sono un pirata! Oggi, tornando dal lavoro, ho visto un bambino – avrà avuto 6 o 7 anni o giù di lì – che, una mano stretta tra le dita del papà, reggeva con l’altra una confezione di Pringles sfondata e ci guardava attraverso mentre camminava per strada, tutto contento. Chissà cosa vedeva, in quell’improvvisato cannocchiale? E di colpo mi sono ritrovata a pensare a quando, il Topolino arrotolato tra le dita, anch’io giocavo a osservare il mondo da un cannocchiale che trasformava il cortile di casa in un oceano dalle onde impetuose, la ghiaietta in banchi di pesci dei più strani e colorati, mentre dicevo a mia sorella ”Facciamo che siamo pirati!”, cercando di distoglierla da quelle sue noiosissime Barbie bionde-belle-ricche. Quanto spesso lei restava sulla riva, o cercava di convincere anche me a rimanere, offrendomi – oh, quale generosità! – di essere la cameriera del suo formoso alter ego rosa shocking! Ma io ero già salpata, vento in poppa e viso teso verso nuove avventure! Ero il capitano dei pirati, avevo tesori da trovare, nuove terre da scoprire, pescecani e nemici armati fino ai denti da sconfiggere.

Chissà quand’è che ci hanno rubato la magia. Non saprei dire in quale momento la sgangherata eppure potentissima formula magica del facciamo che ha smesso di funzionare, né chi ha gettato un incantesimo sulle nostre giornate, rendendole grigie e insipide e piatte, cercando di convincerci che nella vita dei grandi non c’è spazio per la fantasia, la meraviglia, la gioia. Eppure a volte è sufficiente incrociare lungo una strada polverosa e arroventata dal sole di fine giugno un bimbetto che guarda il mondo attraverso un cannocchiale fatto di cartone per ricordarsi che la vita è meravigliosa e piena di possibilità, che anche se non ci sono più né cortile né pirati nessuno può portarci via la gioia e la fantasia, perché sono dentro di noi e non importa quanto in profondità siano finite, sommerse da bollette e responsabilità e altre noiosissime cose da grandi: sono lì. E spetta solo a noi lasciare che tornino alla luce, come il più prezioso dei forzieri dei pirati.

 
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from Warp

Hey Livello Segreto (ma anche più in generale il Fediverso), sediamoci un attimo e facciamo quattro chiacchiere insieme.

L'argomento è Livello Segreto, il suo presente e il suo futuro, ma essendo inseriti in un contesto fortemente sociale come il Fediverso la cosa può interessare anche al di là delle singole utenze qui sopra.

Per prima cosa, parliamo di CW. Se ci penso dal punto di vista della moderazione, quello del Content Warning è probabilmente il concetto più difficile da far passare. Chi lo tratta come censura, chi lo vede come una limitazione delle proprie libertà e chi come qualcosa di inutile in un contesto di protocollo Activity Pub. La verità – come a volte accade – è ben più semplice di qualunque ricamo che si possa fare su questo argomento ed è qualcosa che abbiamo ripetuto allo sfinimento.

Il Content Warning è rispetto nei confronti delle altre persone. È evitare di entrare in un bar e trovare la tele accesa sulle notizie di cronaca nera. È aprire il proprio feed di notizie e non venire bombardati da... notizie sui bombardamenti. È affrontare argomenti lasciando alle persone la scelta di affrontarli quando si sentono di farlo.

Si torna sempre lì: Livello Segreto è una festicciola fatta da amic* a cui state partecipando con un bicchiere in mano. Va bene che i Social ci hanno alienato, ma dal vivo dubito che a persone sconosciute che stan parlando di quanto son belli i prati vi accodiate parlando di quel che sta facendo Trump.

Volete farlo? Va benissimo! Ma prima usate il CW e sondate il terreno e lasciate che siano le persone a scegliere se affrontare l'argomento. Su cosa uso il CW? Su tutto ciò che A TUO AVVISO può urtare la sensibilità altrui (è in primis un esercizio di empatia) e sicuramente per “NSFW, SPOILER, GUERRA, POLITICA” (come recitano le regole).

Ah ma quindi intendi che non devo usarlo per tutto ciò che non è videogiochi, musica, manga... ? Okay, questo è il secondo punto. La descrizione di Livello Segreto recita: “Livello Segreto è un'oasi social incentrata sul rispetto e la libertà. La comunità è nata per parlare di videogiochi, fumetti, musica, diritti, underground, controcultura, arte. LS è uno spazio senza pubblicità, annunci commerciali e gossip. Più che un'istanza generalista, è un'istanza nata intorno agli interessi e ai valori della sua comunità. Frequentatela e scopritela!” Il fatto che LS sia nato per parlare di alcune cose non ne limita l'utilizzo solo a determinati argomenti (non è mai stato così e mai lo sarà). Il punto di Livello Segreto – alla nascita così come ora – è dare alle persone un LUOGO diverso dove poter parlare e dove potersi interfacciare, ma senza per questo limitare gli argomenti di conversazione. Si torna sempre all'esempio della festa o del gruppo di amici: gioco a DnD con persone con cui parlo tranquillamente di film, politica, società, futuro... quel che ci interessa non è il contenuto – fino a un certo punto –, ma il modo di porsi.

Vogliamo dire che Livello Segreto è un'istanza generalista? Diciamolo. Ha senso farlo su internet dove anche decenni fa quando si usavano forum “settoriali” si parlava comunque della qualunque? No, non davvero. Ma se servisse a qualche persona per capire se Livello Segreto è il suo posto o meno allora... la risposta è questa e spero che la spiegazione sia soddisfacente.

Iniziative e contenuti futuri. Livello Segreto non ha alle spalle un'azienda o una struttura che produce contenuti (o che paga persone per produrre contenuti). Non esistono gli influencer, detta brutta e schietta. Significa sì che siamo in un posto un po' più libero, ma significa anche che dobbiamo essere noi (inteso in senso lato come utenza del Fediverso) a stimolarci vicendevolmente con contenuti interessanti e di qualità. Proviamo a vivere questa sfera social online invece che approcciarci con la stessa filosofia con cui “subiamo” altri social (perché di fatto portati a comportarci in tal modo). Un paio di esempi? Ecco qui: https://livellosegreto.it/@Micolcosta/114732565646758695 https://livellosegreto.it/@cretinodicrescenzago/114731559957535194 Qualche idea per stimolare un po' la nostra creatività collettiva c'è, spero che con un po' di tempo si riesca a imbastire e portare presto sui vostri schermi (allo stesso modo se avete qualche idea... scriveteci!).

Un'ultima cosa. Internet è ormai irrimediabilmente (o quasi?) contaminato da contenuti prodotti da AI. Abbiamo aggiunto tra le regole di Livello Segreto quella di NON pubblicare contenuti generati da intelligenze artificiali.

Dubbi, domande o perplessità: scriveteci. Ed & Kenobit

 
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from Signor Uscita

Vi sarà capitato di avere delle idee, dei pensieri o dei progetti. E vi sarà capitato che questi non trovino abbastanza spazio, o non abbiate e energie per approfondirli. Per completarli.

Ecco questo è quello che mi succede con lo scrivere. Ho delle idee che mi ronzano e che ritornano più volte. Sotto la doccia, mentre lavoro, mentre cucino. Vorrei produrre qualcosa, scriverci o anche solo parlare con qualcuno.

Si tratterebbe di rilasciare la pressione, è come liberarsi di un peso. Solo che, non lo faccio mai.

Intendo dunque scrivere e non completare i post. Per vedere cosa succede.

[...]

 
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from Nonsolobotte

Non-recensione libraria: “Il Super Senso”

Le recensioni sono una cosa seria, non come quelle che si trovano un tanto al chilo sui social brutti, del tipo “Mi dai gratis il tuo libro e io scrivo che è meraviglioso, così magari tu vendi qualche copia e qualche aspirante autore dà a me altri libri gratis”. No. Qualsiasi cosa siano quelle cose lì, non sono recensioni. Le recensioni sono una cosa seria, dicevo, dunque questa è una non-recensione. Non perché l’autore o la casa editrice mi abbiano dato gratis il libro – regolarmente pagato con denaro sonante dalla qui presente – ma perché quella che segue è solo la mia impressione a termine della lettura.

“Il Super Senso” è il secondo libro della trilogia, ideata da Paolo Borzacchiello, che ha per protagonista Leonard Want (cognome non casuale, come nessuna delle parole usate da lui o da Borzacchiello, che poi è lo stesso. O forse no), profiler linguistico comportamentale, che in questa nuova avventura si trova a fronteggiare il Presidente degli Stati Uniti e una giovane, timida donna incinta e con pensieri suicidi. Ritroviamo qui Lisa-Dio-Jessica Fletcher, Evelin, sempre bella come un angelo e letale come un demone, l’affascinante Lucifer e anche personaggi meno insoliti, come il pupillo e collaboratore e l’amata figlia ormai prossima alla maggior età. Lettura interessante, ricca di spunti condivisibili e degni di approfondimento personale, eppure non mi ha avvinta quanto il precedente. Sarà che sono refrattaria per indole ai sequel, sarà che ho trovato la storia più confusionaria, o magari sarà per quel paio di refusi – davvero, ne ho trovati due o tre al massimo – che mi hanno indispettita. In un altro libro sarebbero stati tollerati, ma qui, no. Da Want – e da Borzacchiello – mi aspetto l’eccellenza lessicale, stilistica e formale. Sicché, libro bello ma non eccelso nella sua trama. Discorso a parte gli insegnamenti disseminati con maestria tra le pagine, con l’ormai consueto sistema dei tre caratteri differenti (normale, corsivo e grassetto) per i tre diversi cervelli: questi sì sempre all’altezza. Ad ogni modo, la lettura mi ha lasciato il desiderio di tuffarmi nel terzo e ultimo capitolo della trilogia, quindi direi che lo scopo dell’autore può dirsi comunque raggiunto.

Titolo: Il Super Senso Autore: Paolo Borzacchiello Editore: Mondadori Anno di edizione: 2020 ISBN: 9788804730019

 
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from kipple


In senso figurato, ovvio, e metto in chiaro un paio di cose: non sto scrivendo questo per affibbiarmi una qualche primogenitura o la tessera numero 0 di un club esclusivo, è solo per dire che non lo sono più nel senso che la parola ha acquisito, ora che è più facile esserlo alla luce del sole, senza doversi scambiare gesti da carbonari. Avrei voluto poter attingere a una platea più ampia di possibili amicizie, all'epoca. Non era nulla di cui vantarsi, meglio tenere un profilo basso perché non si poteva essere sicuri degli interlocutori. Nerd non era un complimento, no no.
Quando per videogiocare dovevi pagare nelle sale giochi, considerate luoghi di perdizione per individui irrecuperabili, oppure avere qualche amico abbastanza ricco da potersi permettere una console o un qualche modello Commodore, prima che i prezzi diventassero più popolari.

Quando non potevi sfogliare una rivista di videogiochi in presenza di qualcuno più grande di te, figuriamoci andare in giro coi manga sotto gli occhi indagatori e giudicanti di un passante qualunque.

Quando le cose te le dovevi andare a cercare col lanternino, non le trovavi con un tasto magico.

Quando sul nastro trasportatore del supermercato rovesciavi una valanga di libri “sconvenienti”: Clive Barker, Stephen King, fantascienza a caso. Una volta, però, ho trovato una cassiera che era dalla nostra parte.

Quando, qualche anno dopo, uscire dalla proiezione di un anime era più disdicevole che farsi vedere alla biglietteria di una sala vietata ai minori. Quando Guerre Stellari e X-Files, quando l'aeromodellismo...

Quando si era una minoranza, insomma, quando noi eravamo piccoli e gli altri erano grandi, poi siamo cresciuti. Quelli più grandi di noi, ovviamente, ci sono ancora, ma siamo diventati abbastanza da comprenderci a vicenda, almeno all'interno delle nostre passioni. Quei figli ora sono diventati padri, insomma; io no, sono solo diventato più vecchio e anche questo va bene così.

Quando arriva la vita vera, che è come schiantarsi contro un muro, certe cose cambiano. Quando non trovi un lavoro o ne trovi uno da schiavo, quando i genitori invecchiano, si ammalano e peggio, quando il mondo che va a rotoli non sembra essere lontano come prima, quando capisci di riuscire appena a tenerti appena a galla nel presente e l'unica certezza del futuro è che non ne hai uno, ti passa la voglia di perderti in un videogioco, cadere tra le pagine di un libro. Seguire una serie diventa sempre meno attraente, anche la musica non suona più come prima e astrarsi dalle miserie quotidiane diventa impossibile, difficilissimo nel più paradisiaco degli scenari.

E così, proprio ora che potrei confondermi tra la nuova folla, con la diluizione della definizione di nerd a livelli omeopatici, so per certo di non far parte più della categoria. Non ho più la capacità di dedicarmi totalmente a certi argomenti, vivisezionarli, capirli profondamente, viverli, goderne. Non ricordo le storie, tantomeno i particolari, non ricordo i nomi; non ho la curiosità, il tempo libero (dalle preoccupazioni) da dedicare alla scoperta e alla riscoperta, sono fuori tempo massimo per i videogiochi moderni, i libri sono diventati noiosi dopo averne letti così tanti, l'estetica video contemporanea solitamente mi allontana, l'all you can eat del sistema abbonamento mi dà solo la nausea e non capisco come faccia la gente a guardare 300 serie tv 300 film giocare a 300 videogiochi da 300 ore nel solo mese di febbraio, che è ancora di 28 giorni salvo bisestili, come lo era quando ero nerd io, quando era brutto sentirsi apostrofare così.

Non saprei di cosa parlare, dove parlarne, con chi e come sostenere una discussione. Però, ora basta così: questi pensieri sono deragliati da un pezzo, non so dove andare a parare e la sintesi complessiva dei miei pensieri si riassume sempre in contenuti di scarsa rilevanza.

 
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from Nonsolobotte

LA NOTTE DEI LUNGHI ARTIGLI

La notte dei lunghi artigli

Francis e Gustav vivono insieme. A volte si amano, a volte si tollerano a fatica, ma convivono ormai da anni e non saprebbero stare lontani l'uno dall'altro. Questo fino a quando compare Francesca... Donna, quindi biologicamente affine a Gustav che è un uomo (ah, dimenticavo di dire che Francis è un gatto!), arriva a sconvolgere il tranquillo ménage à deux. Così Francis decide che qull'appartamento non è abbastanza grande per tutti e tre e scompare. Inizia così la sua seconda vita, una vita fatta di mistero, intrighi felini e delitti.

Gran bel libro, sia per chi ama gli intrighi sia per chi ama i gatti. Se li amate entrambi, non potete proprio perdervelo!

Titolo: La notte dei lunghi artigli Autore: Pirinçci Akif Traduttore: Boschetti S. Editore: TEA Data di Pubblicazione: 1996 ISBN: 8830412147

(Nonsolobotte – 4 gennaio 2008)
 
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from bianot

oddio

scrivo questo testo in differita (ho scritto questo testo in differita?) perché ho fatto scadere l’invito a Log, e, insomma, non so se questo già basti a raccontare o introdurre o a presentare – la testa di rapa che un po’ sono. ma non è tanto importante il come (in ritardo, cioè) ma il perché, si dice, e quindi intanto racconto questo, che ho avuto un grande desiderio di scrivere e raccontare quel che succede a scuola, e l’ho avuto proprio da quando sono a scuola. negli ultimi mesi faccio mentoring, parola che vuole dire proprio poco, mi fa pensare a quei termini vaghi come Animale, come diceva Derrida, che sono dei singolari-generali che raccolgono al loro interno tante cose e quindi forse troppe, cioè forse nessuna cosa, e però pure con l’aggravante del tecnicismo inglese che non son nemmeno sicura sia tanto tecnico, ma comunque, ecco, il mentoring è una via di mezzo fra l’aiuto compiti e l’orientamento e il sostegno a volte un po’ emotivo. io non so consolare le persone, mi ha detto a proposito (ragazza) proprio oggi, mentre leggevamo l’epopea di gilgameš. allora ci ho pensato un attimo (neanche io so consolare le persone, penso sempre, mi sento rigida senza garbo improvvisamente estranea e a volte quando arriva il loro dolore a me sembra di sentire quello, che è il loro dolore, e poi però un mio privilegio, o una distanza che si chiama fortuna, anche se anche io lo sento quel dolore, o lo so sentire, immaginare, e mi fa sentire un po’ in colpa, e mi lascia lì a orbitare). allora le ho chiesto, e tu (ragazza), che cosa ti fa sentire consolata – trovi che le altre persone ti sappiano consolare? e lei è rimasta in silenzio e ha detto: questo non lo so, non me lo sono mai chiesta, è una domanda con una risposta difficile. ma, quanto a me, diceva, io le persone però le abbraccio solo, e mi sembra poco, e questo lo so. io ho pensato che invece era tantissimo e gliel'ho detto, e anche detto, guarda, spesso basta quello spazio lì, che va da un braccio all’altro, lo spazio di due braccia?, in cui dirsi: ecco qui, ma certo, per questo dolore c’è spazio, vedi?, di questo dolore siamo capaci (capace è capax dal latino, quella parola che parla anche della bottiglia, e che ci dice che ha questa o quella capacità di contenere, capacità che spesso varia, direi proprio)). dicevo però, e ancora arrivo in ritardo, vi chiedo un po’ scusa, che questa cosa di scrivere mi è venuta soltanto a scuola – forse perché a scuola amavo scrivere e scrivevo tanti racconti, ed era facile e poi ho smesso, e scrivere è diventato solo un compito e un far vedere che so fare, o che dovrei saper fare, che so produrre una cosa sensata, forza, guarda, oh no, mi stanno guardando, mi stanno leggendo, e forse per questo il fatto che scrivo finisce ormai per significare che produrrò anche qualcosa di un po’ oscuro (metà colpa del fatto che sono involuta di mio, metà grazie al fatto che mi piace che le frasi prima che leggerle si possano suonare o insomma si muovano da sé e che somiglino quasi al verso, forse come quello che fanno gli animali – alcuni animali, specifichiamo quali, che sennò non vale: a me piacciono gli insetti, per esempio, e loro cantano parecchio, sarà questo?). e succede questo pianto e stridore di denti, dico un po' scherzando e un po' sul serio, perché nello scrivere per me c'è dentro anche tanto della vergogna, dell'esporsi quando non sempre si vuole, e così via. però l’altro giorno, uscita da scuola, volevo – avevo in testa che volevo scrivere qualcosa di più lungo, magari non proprio questo, sicuramente non proprio questo, e anche ieri dopo le nuove due ore in classe avevo in testa ancora una cosa del genere, o questa cosa che è un po' degenere, lo ammetto. e quindi, intanto, le ho messe per iscritto, e ora le metto qui. come si dice. piacere? dopo, comunque, vi racconto meglio.

 
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from Storieparole

La storia di oggi parla di un uomo dimenticato, un uomo sconosciuto ai più, che non venne creduto in vita e il cui nome è stato seppellito dalla polvere degli anni.

Max Gerlach venne al mondo in Germania nel 1885 – sono dunque trascorsi 140 anni dalla sua nascita – ma si trasferì ancora bambino negli Stati Uniti d'America, dove studiò, lavorò come meccanico e si arruolò nell'esercito, nel 1918. Se la sua storia vi pare fin qui comune a quella di milioni di altri individui, non siete troppo lontani dalla verità, ma Max era deciso a incarnare quel sogno americano di cui traboccano racconti e film: lui non voleva una vita ordinaria, lui voleva splendere.

Il lavoro di meccanico lo portò a incontrare le più diverse persone, appartenenti ai più disparati ambiti sociali e professionali, ed è proprio lavorando nella sua officina, dando nuova vita ad automobili acciaccate, che probabilmente gli venne l'idea di dare nuova vita anche a se stesso: iniziò facendosi chiamare Max von Gerlach, ammantando il proprio nome con un velo di europea nobiltà, e prese a parlare in modo raffinato e snob, usando spesso l'intercalare “old sport”.

Se a questo punto un'eco lontana ha iniziato a sussurrarvi nella mente non dovete stupirvi troppo: Max Gerlach fu tutt'altro che una persona comune e la sua storia, o perlomeno quella che da essa trasse con ogni probabilità ispirazione, è stata diffusa in tutto il mondo, venendo trasposta anche in due film di successo con attori di fama planetaria.

Max Gerlach

Ma forse qualche altro indizio vi guiderà verso la soluzione del mistero. Come dicevo poc'anzi, il lavoro di Max lo portò a entrare in contatto con le persone più diverse; tra queste, il boss mafioso Arnold “The Brain” Rothstein (anch'egli di chiara ascendenza germanofona), passato alla storia per lo scandalo delle scommesse esploso in seguito alle finali truccate del campionato di baseball del 1919. Tra le variegate conoscenze maturate da Gerlach spicca il nome di un celebre autore statunitense: Francis Scott Fitzgerald.

Lo scrittore non fece mai mistero di trarre ispirazione dalla sua vita per scrivere poi i propri romanzi: chiaramente riferito ai suoi anni da studente a Princeton è ad esempio “Di qua dal Paradiso” e certo non mancano spunti autobiografici in “Belli e dannati”; ha dunque senso supporre che anche “Il grande Gatsby”, la sua opera più celebre e di cui quest'anno ricorre il centenario della prima pubblicazione, immergesse le proprie radici nel terreno della realtà quotidiana.

A supporto di questa teoria, che vedrebbe lo sconosciuto e dimenticato Max Gerlach come ispiratore del personaggio di Jay Gatsby non ci sarebbero soltanto i numerosi “old sport” usati come intercalare dai due (Gatsby pronuncia questo “vecchio mio” ben 42 volte all'interno del romanzo, e la frase è stata ripresa anche nei film che hanno visto protagonisti Robert Redford prima e Leonardo Di Caprio poi): la reale “collaborazione” di Gerlach col mafioso ebreo Rothstein richiama da vicino quella romanzesca di Gatsby con Meyer Wolfsheim, anch'egli votato al crimine e dotato di cognome tedesco, e c'è poi la telefonata che lo stesso Max Gerlach fece a una trasmissione radiofonica, nel 1951, nel corso della quale si stava presentando una biografia di Fitzgerald, asserendo di essere lui il vero Jay Gatsby. Ma non venne creduto. Da tempo si identificava “Il grande Gatsby” con Robert Kerr, molto amico dell'autore, uomo di umili origini e capace di dare la scalata al successo proprio come il protagonista del romanzo: la “sparata” radiofonica di un meccanico immigrato, ormai vecchio e malconcio, non venne minimamente presa in considerazione.

Questo fino a quando, parecchi anni dopo, un altro biografo di Fitzgerald, Matthew Bruccoli, non trovò tra alcuni appunti dell'autore una scritta di Max Gerlach che diceva “How are you and the family, old sport?” (“Come state tu e la famiglia, vecchio mio?”). Troppo tardi per dare all'anziano meccanico in pensione il giusto riconoscimento: era morto al Bellevue Hospital di New York nel 1958. Ma non troppo tardi per raccontare la sua storia.

Max Gerlach il grande Gatsby

 
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