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from Klaus

Uno sguardo del nostro avversario fulminò prima Leo e poi me, strinse con le sue mani possenti l'ascia e mi si scagliò contro ed io feci lo stesso, impugnando la mia spada a due mani. L'impatto fu violento tra le nostre armi, ed il suono forte e impetuoso di lame che si scontrano echeggiò nella caverna. Il mio compagno si avventò sul nostro nemico, applicando alla lettera gli insegnamenti di Gor, “fiancheggiando”, quasi fosse la mia immagine riflessa in uno specchio, il barbaro che con tanta tenacia e forza ci stava tenendo testa. Ad un tratto, con un colpo incredibilmente potente scagliò lontano Leo, facendolo cadere rovinosamente a terra, e girando in un attimo l'arma, facendola roteare, mi colpì con altrettanta forza, gridando come un folle e scoprendo un punto debole nella mi difesa, ferendomi ad una gamba e subito dopo ad una spalla. Mi accasciai a terra, devastato dalla potenza di quei colpi, reggendomi in ginocchio aiutandomi con la spada. Era pronto a sferrare un altro attacco, quando Leo, ripreso, lo colpi alle spalle con due fendenti rapidi, innescando una giravolta dell'energumeno che lo attaccò a sua volta facendo roteare l'ascia e colpendolo in pieno petto, ferendo Leo in modo grave. Il barbaro si stava avvicinando al mio amico per il colpo di grazia, con passo lento questa volta, sicuro che ormai lo scontro lo avrebbe visto come vincitore. Mi guardai attorno, affannato, cercando sostegno in qualcuno o qualcosa e strappai dalle mani di uno dei miei precedenti nemici una balestra; la impugnai rapidamente e inserii il dardo, mirai quasi alla cieca e scoccai. Non sapevo se avevo colpito quella montagna, ma subito ricaricai e di nuovo feci partire il colpo, rendendomi conto che lo avevo preso con entrambi i tiri, uno alla schiena, bersaglio enorme, e l'altro alla testa, trafitta. L'uomo cadde con tutto il suo peso in avanti causando un tonfo che fece tremare il terreno. Non c'era tempo da perdere, Leo stava morendo dissanguato, e quando avvicinandomi lo vidi da vicino, per un istante crebbi che oramai nulla avrebbe potuto salvarlo. Lo strinsi a me forte, sperando quasi di donargli parte della mia vita, quando lo sguardo, colmo di lacrime, mi cadde su una bisaccia di uno dei criminali e subito cominciai a ravanare in tutte quelle che trovavo, ed infine, per volontà degli dei o per fortuna, trovai quello che cercavo e che fortunatamente uno dei caduti non aveva fatto in tempo ad usare, una pozione curativa. La raccolsi con cautela, dopo essermi strofinato le mani bagnate di sangue sui pantaloni, e ne feci scivolare il contenuto tra le labbra di Leo. Rimasi scosso nel vedere come il liquido andava a ricostruire tessuti e membra , andando quasi alla ricerca di ogni brandello, illuminando la ferita di una luce cremisi che mi ipnotizzò. Una volta rinvenuto, non ci curammo dei cadaveri lì attorno, anzi, pensai che sarebbero serviti come monito, e raccolte le nostre cose ci immergemmo nuovamente per risalire all'ingresso della grotta nella foresta. Avevamo perso la cognizione del tempo ed era quasi notte, decidemmo quindi di riposare per recuperare le forze; Leo, visibilmente in condizioni migliori delle mie, procurò la cena, un coniglio selvatico che soddisfò a pieno il nostro appetito. Poi si mise di guardia. Quella notte, ferito, affaticato, al chiaro di funghi magici che illuminavano la foresta come fossero stelle nel cielo, ringraziai gli dei per aver trovato un amico come Leo, per avermi donato qualcuno che avrei potuto chiamare un' altra volta “fratello”.

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Di ritorno verso il forte, incontrammo qualche taglialegna, intento a brontolare per quanto fosse faticoso quel lavoro, e alle porte che avevamo varcato qualche giorno prima, fummo accolti dal comandante, che volle sincerarsi subito della situazione e delle nostre condizioni, invitandoci a far visita dai curatori per poi concederci qualche giorno di licenza. Sapevo benissimo cosa fare, sarei andato a trovare la mia famiglia, giù al fiume.

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from 513023

IL GIOCO DEL CALCIO

“After years of waiting nothing came as your life flashed before your eyes you realize I'm a reasonable man get off, get off get off my case”

Se me lo chiedi non so nemmeno perché mi trovo qui, a notte fonda in una città che non è la mia, stretto sul sedile posteriore di questa calda e asfissiante Peugeot 106 bianca, in mezzo a ‘sta gente più giovane di me di almeno dieci anni, bicchiere grande di cartone in mano e cannuccia, la testa che a ogni sobbalzo sbatte contro la lamiera del tettuccio ormai privo di tappezzeria e poi rimbalza sul vetro del lunotto laterale che, naturalmente, non si può aprire.

La storia con Lei è finita soltanto qualche mese fa, poco prima dell’estate. Così un bel giorno, ritornando in patria, ho preso il bus che dall’aeroporto mi ha riportato a casa sua – casa nostra– e lei non mi ha nemmeno aperto la porta. O meglio, la porta l’ha aperta ma non mi ha fatto entrare, dicendomi che non potevo, che non dovevo, occhi gonfi ma decisi a lasciarmi lì interdetto, sbigottito e incredulo, mentre dentro c’è qualcuno fra le sue lenzuola – le nostre – al posto mio. Sembra durare un’eternità, mi crolla il mondo addosso al rallentatore mentre cerco di capire perché, ma il perché lo so già. Diciamo che cerco di capire perché adesso, perché in questo modo, perché non prima. Durante il mio viaggio di ritorno non ho fatto altro che pensare a noi, a come le cose si sarebbero aggiustate, a quanto ti amo, a quanto sei l’unica persona di cui mi importa, a quanto vorrei potere entrare in questa casa e chiederti di vivere tutta la vita insieme. Invece sono qui e piango e piangi e sento che tutto sta finendo. Mi viene da vomitare.

Fatto sta che finisce davvero e non mi resta altro da fare se non trovare un modo per smettere di pensarci, di odiarla, di dimenticarla. Ma si può odiare ciò che si è amato tanto follemente, così da un momento all’altro? Non lo so, faccio un esperimento: decido di provare ad amare qualcosa che ho sempre odiato. Il calcio. Sì, il gioco del calcio. Comincerò a tifare per una squadra, mi lascerò travolgere da questa passione, ma non soltanto, no: non sarò un tifoso qualsiasi, e non terrò nemmeno alla squadra di calcio della mia città, tiferò invece per la squadra rivale. E lo farò come si deve. Sarò profondamente onesto e devoto, ci crederò con tutto me stesso. Comincio così a seguire tutte le partite –le poche rimaste alla fine del campionato- a imparare i nomi dei calciatori e la storia di ciascuno di loro. Il gioco lo conosco, ne conosco le basi, non sono del tutto ignorante in materia, anzi a dire il vero il gioco in sé un tempo mi piaceva pure, poi ha cominciato a starmi sul cazzo perché mi stavano sul cazzo gli altri ragazzini che lo praticavano. Così faccio e per dirla in breve, termina il torneo nazionale e incomincia l’estate. E con essa un altro campionato: quello internazionale. E prendo a frequentare questo bar della piazza principale in città praticamente sempre da solo. Questo perché durante gli anni vissuti fuori le amicizie si sono rarefatte; certo alcuni amici restano ma in un modo o nell’altro si allontanano geograficamente, e questa è l’estate in cui siamo tutti lontani. Al bar però c’è una nuova ragazza, bellissima, occhi accesi, sulle braccia tatuaggi floreali dai colori tenui che si amalgamano benissimo con la sua pelle chiara. Ogni sera quindi occupo da solo lo stesso tavolo e ordino sempre lo stesso drink, due, tre, numero imprecisato di volte fino alla fine della partita, e guardo il calcio con gli occhi di un innamorato ma il calcio non ricambia e inizio a sospettare che questo amore probabilmente non durerà. Forse non sono fatto per amare uno sport, forse sono fatto per amare una persona, per essere amato a mia volta. E arriva lei, la ragazza del bar, che mi chiede se ne prendo ancora uno e io dico sì e lei portandomelo mi sorride, e io ricambio. Finisce la partita, sono pressapoco ubriaco, mi nutro soltanto di snack e noccioline da settimane d’altronde; mi alzo e cerco di non cadere mentre mi avvicino al banco per pagare ma lei mi sorride ancora e mi dice che stasera io non pago. Le chiedo, ricambiando ancora una volta il sorriso, se faccio davvero così pena e mi risponde di non pensarci. Allora le domando se le va di vederci quando smonta da lavoro, mi dice forse, le scrivo il mio numero sopra il blocchetto delle comande e cerco di ritornare a casa, barcollante. Nel cuore della notte squilla il telefono, un numero che non ho in rubrica, con la bocca impastata dall’alcol rispondo: è lei. Mi chiede dove abito e mi dice fatti trovare giù che andiamo a fare un giro insieme e indosso di corsa una maglietta pulita e scendo inciampando per le scale e lei è già lì che mi aspetta dentro l’auto porta aperta salgo e parte fra le luci della notte – della strada e delle stelle – con l’odore dell’asfalto che col caldo sale e pervade le narici e ci porta dritti ad un locale sulla spiaggia fra il vociare della folla e la musica la inseguo e bevo a farle compagnia e lei mi si racconta mentre il mondo la saluta mi presenta a tutti, nessuno escluso: questo è il mio ragazzo. Non so se mi sento ancora ragazzo dico; quindi, mi prende per la mano e mi porta in riva al mare a fare l’amore sotto la luna.

L’estate e il campionato volgono al termine, le ho raccontato tutti i dettagli di questa mia neonata, folle fissazione per il calcio, lei mi ha detto del suo ex, quello che l’ha tatuata, che sono rimasti in buoni rapporti e che lui è il capo degli ultras della mia nuova -a quanto pare- squadra del cuore e che se ho voglia e non mi infastidisce possiamo andare a trovarlo per la prima che giocheremo in casa. Volentieri.

Così giungemmo alla città avversaria, un sabato di fine agosto, giorno prima della fatidica partita. Prima tappa la sua casa universitaria dove mi presenta le coinquiline che mi subissano immediatamente di domande d’ogni tipo. Stasera andiamo prima a fare aperitivo e poi a ballare, mi invita poi una di queste come a sondare il terreno delle mie intenzioni con lei -con loro- e di che pasta sono fatto. Non batto ciglio, sorrido e faccio cenno di sì. Ma prima, dice Lei, passiamo dallo studio che ti presento lui. Il tempo di sistemare le mie cose nella sua camera e siamo fuori, noi tre, diretti al suo studio, le altre ci raggiungeranno dopo cena, dicono. Quando arriviamo lì lui sta lavorando, lo vediamo attraverso la parete a vetro. Sotto gli aghi una ragazza mezza nuda e che non è la sua prima volta si nota da come affronta con aria calma e rilassata le sollecitazioni dell’elettrodermografo e di tutti i nostri sguardi. Lui concentratissimo, ha fatto soltanto un cenno a Lei quando ci ha visto entrare. Cerco di immaginarli insieme, lanciando sguardi all’una e all’altro, proiettandoli mentalmente in un passato in cui dicevano di amarsi. Non ce li vedo, come d’altronde non vedo futuro per noi due; è come se le nostre vite si fossero incrociate per un brevissimo momento in cui a entrambi stiamo bene, come se stando insieme avessimo trovato una sorta di equilibrio che ci tenga vivi. Dopo lavoro lui si presenta, completamente diverso nell’atteggiamento ora spavaldo e quasi sfidante, in particolare nei miei confronti. Non fa altro che cercare di infastidirmi e infastidirla, e insiste perché lasciamo lì la nostra auto e andiamo in giro tutti insieme, con la sua. Pertanto, ci stipiamo come sardine in quella macchina minuscola, lui e la ragazza mezza nuda davanti, noi tre dietro, Lei nel mezzo. Un viaggio da un girone all’altro dell’inferno, dove raccattiamo piano piano anche tutte le altre: per ogni tappa qualcosa da bere e una nuova frecciatina, ma poi pian piano qualcosa cambia e lui mi prende quasi a cuore e l’intravedo, fra le sovrastrutture della personalità, fra una steccata al biliardo e una palpata ai culi della sua e della “mia” lei, nella calca in discoteca, che cerca di stimolare in me qualcosa, prepotente eppure fragile, come Swayze fa in Point Break. Ci ritroviamo fuori dal club per fumare una sigaretta e mi racconta tutto ciò che ci aspetterà domani, allo stadio. Come di quella volta in cui riuscirono a portare in curva il motorino rubato al capo della tifoseria avversaria e a buttarlo giù, in fiamme, dal secondo anello, senza pensare di subirne le conseguenze. Mi tranquillizza dicendomi che nessuno si farà male e dandomi una pacca sulla spalla mi fa che ha bisogno di tirarsi un poco su: che domani ci divertiamo! Si appressa l’alba ormai e decidiamo di andar via, la musica si è esaurita e così anche le nostre forze. Esausti entriamo in quella 106, bicchieri con cannucce in mano, residui della notte appena trascorsa. Lui è ancora su di giri, dopo tutta la C che si è tirato, noi cerchiamo di convincerlo a gran voce che è l’ora di tornare a casa e dopo un po’ , finalmente, ci riusciamo.

Ma a un semaforo, di ritorno sui viali, un’auto si affianca alla nostra e da quella, poche parole urlate fra gli affondi di un pedale vestono un guanto di sfida. Lui allora fa rombare il motore, quell’altro ancora di più, noi quattro invece ci guardiamo preoccupati ma non abbiamo neanche il tempo di aprire bocca che scatta il verde

Sotto il manto di stelle, l'asfalto è un mare nero, e motori, ruggenti, sfidano il silenzio della notte placida. Quali navi veloci guidate da remi, così le auto scattano, lanciate in una danza di fuoco e fiamme, ardenti come Etna. I due folli piloti, animo teso e sguardo fiero, si lanciano nell'agone sfidando il destino con mano sicura. Le gomme stridono, l'aria si carica di un tuono senza fine mentre le vetture sfrecciano, rapide come dardi. Un duello di sorpassi, destrezza e ardore Cloanto insegue Mnesteo, il suo bolide come un fulmine, Mnesteo non cede, la sua guida è pura arte. Cloanto con furore, tenta di riprendere il comando, ma il destino è già scritto, e il traguardo è ormai vicino.

E mentre la città dorme ignara del fragore delle passioni noi ci schiantiamo su di un’auto ferma che, come la nostra in maniera figurata, letteralmente va a puttane; e ciò che vedo, prima del buio pesto, è una colonna di fumo ergersi imponente dal cofano dell’auto nostra, fra lo stridore degli pneumatici che si squarciano sul selciato.

 
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from Klaus

Ci svegliammo alle prime luci. Una rapida colazione con bacche e miele, un sorso di infuso di erbe caldo e rimettemmo in bisaccia le nostre cose, pronti per proseguire verso la parte ignota, che mai avevamo affrontato, di quella foresta. Fu subito chiaro che il solo orientamento sarebbe stato cosa non di poco conto, l'attenzione al terreno difficile anche. La posizione del muschio sugli alberi e rocce, la posizione del sole quando visibile, aiutarono a darci una direzione; per quanto riguarda il terreno difficile, non ci fu altro modo che far leva sui nostri muscoli e atletica, ringraziando il consiglio del comandante di non indossare le nostre canoniche armature pesanti, ma di avvalerci di quelle più leggere ,“Farvi uccidere dal terreno, sarebbe da stupidi no?” ci disse con un sorriso prima di partire. Proseguendo, facendoci largo tra la vegetazione, cercavamo di stare in silenzio per non attirare su di noi attenzioni indesiderate, quando ad un tratto sentii un gemito provenire dalle mie spalle. Voltandomi vidi Leo a penzoloni, trattenuto alla gola da un serpente che gli si avvinghiava, proteso da un ramo. Impugnai ancor più salda la mia spada e mi avventai contro la creatura, colpendola sopra la testa di Leo, che cadde a terra col fiato strozzato. Nel momento in cui mi voltai per assicurarmi le sue condizioni, lo vidi imbracciare la sua arma e scagliarsi dietro di me, contro quello che sarebbe stato il vero problema della giornata. Un serpente gigante ci stava per attaccare, fauci spalancate e denti grossi come una lama di spada. Leo con la prontezza che lo aveva contraddistinto tra le reclute anni prima, intercettò il morso della bestia frapponendo il suo scudo, ma nulla poté contro il colpo di coda che lo scagliò a terra. Distratto dal mio compagno, l'immondo accusò il mio fendente, che lo colpì facendolo sanguinare copiosamente, a cui segui un secondo attacco in affondo. Da una parte Leo, dall'altra io, e nel mezzo quello che sarebbe diventata da li a poco la nostra prima tacca. Colpimmo duramente e con sincronia, tale che la creatura accusò i colpi e morì. Leo si accasciò a terra dolorante. La creatura, che ormai giaceva a suolo inerme, lo aveva ferito al fianco destro; non una ferita grave, ma in quel contesto, poteva esserlo, e seppur contro la sua volontà, decisi di utilizzare una delle fiale che mi erano state donate. Aprii la boccetta che conteneva un liquido denso e dal color rubino, l'odore era pungente, e la passai al mio compagno, che dispiaciuto per il dover appropriarsene così presto, la trangugiò d'un sorso. Il liquido divenne luminescente nel percorrere dapprima la gola, poi il petto e subito dopo dirigersi verso il costato, pulsando ad ogni respiro, ed infine giunto alla ferita, illuminarla e ricostituendola, facendo sospirare Leo. Di nuovo in marcia, percorremmo la foresta più attenti e cauti, per qualche ora, fino a quando non udimmo voci umane provenire da un'abitazione nascosta nella fitta vegetazione. Ci avvicinammo in silenzio, ringraziando ancora una volta di non indossare le nostre classiche rumorose armature, e giunti ad una finestra vidi due uomini darsi le ultime istruzioni sul raggiungere i propri compagni, già all'ingresso del tempio. “Quindi ce ne sono altri, ma quanti? E come raggiungerli?” pensai. La risposta fu subito ovvia, pedinare questi, trovare gli altri e l'ingresso del tempio, e in qualche modo, fermarli. Come due spettri, in silenzio e grazie al corso ranger del secondo anno di accademia, inseguimmo per un giorno intero le nostre “guide”, fino all'ingresso di una caverna, il cui interno era illuminato da una qualche fonte di luce.

caverna

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L'esterno della caverna non era ben visibile ma si capiva che non era sorvegliato e subito i due si intrufolarono senza esitare. Aspettammo qualche istante per avvicinarci, e arrivati anche noi all'ingresso che ora pareva da vicino maestoso e terrificante alla luce delle torce, ci rendemmo conto che il suo interno altro non era che una caverna con una pozza di d'acqua al centro. Guardai Leo e con un cenno di intesa, presi un bel respiro e ci gettammo in acqua, fredda e limpida, costellata di funghi luminescenti che ci guidavano verso l'uscita. Col fiato corto, e nella speranza che al nostro riemergere nessuno ci notasse, riaffiorammo piano, con da prima gli occhi, e una volta controllato rapidamente l'intorno, anche col capo, respirando nuovamente. Dovetti sgranare più volte gli occhi e strofinarmeli con le mani, per credere a quel che vedevo, le rovine di un tempio parzialmente emerso all'interno di una caverna gigantesca, illuminato da alcune feritoie nella roccia e dalle torce dei criminali.

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Non ci fu il tempo per porsi troppe domande, o per gongolarsi nello stupore e meraviglia; i due briganti che avevamo pedinato si erano riuniti con il resto della loro banda e dalla nostra posizione potevamo vedere come si addentravano furtivi e veloci tra le rovine. Non avremmo mai avuto tempo di tornare ad avvisare i nostri superiori o di cercare rinforzi, dovevamo intervenire e fermarli prima che compissero qualche azione per la quale poi molti altri avrebbero pagato il prezzo. Uscimmo dall'acqua e di soppiatto raggiungemmo il gruppo al completo, sempre tenendoci nell'ombra. Erano otto uomini, tutti ben armati, che come voraci animali si avventavano su tutto ciò che di valore trovavano, da vasi d'oro, a scrigni colmi di pietre preziose, fino a che uno di loro non venne attaccato proprio da uno dei forzieri che stava tentando di aprire; enormi fauci fecero brandelli della carne del malcapitato, mentre gli altri tentavano di colpire l'essere mostruoso, noi ne approfittammo per sferrare il nostro attacco di sorpresa, scagliandoci come furie sul resto del gruppo che colto alla sprovvista si trovò del tutto impreparato. Due di loro caddero subito sotto i nostri colpi precisi, combattendo spalla a spalla avevamo pochi punti ciechi e la nostra tattica sembrava aver sorbito un ottimo risultato. Nel frattempo un altro di loro divenne pasto per il forziere animato, e noi subendo l'attacco di un paio di loro avevamo bisogno di allontanarci dall'essere per non rischiare di diventare i prossimi ad essere divorati; ci spostammo su una zona rialzata del tempio, e da lì vedemmo l'unico che poteva essere il capo della banda che stavamo assaltando, colpire con la propria ascia bipenne lo squartatore dei suoi uomini, squartandolo a metà. Si voltò e con sguardo ricolmo di rabbia gridò “Ora, tocca a voi!”. Era un uomo alto, senza armatura o altre protezioni, solo tatuaggi sul corpo a ricoprire la massa di muscoli che pulsavano. Non era la prima volta che affrontavamo qualcuno di quella stazza, ma eravamo stanchi dal combattimento e avevamo terminato le nostre pozioni, ma dovevamo portare a termine la missione e mai saremmo fuggiti, così incrociammo i nostri sguardi e con un cenno di intesa ci portammo al livello del nostro nemico, uno da un lato e uno dall'altro. Lo scontro finale stava per cominciare.

 
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from Racconti spontanei che attraversano l'autore

Fantine, vorrei dirti di aspettare, di sperare, un giorno l’umanità costruirà una macchina per prenderti e attraverso il non considerabile e il non percepibile, attraverso l’indecisione e gli infiniti modi per sbagliare, errare, infine salvarti e portarti nel presente ipotetico e prometterti che da quel momento in poi tutto sarà un dolce abbraccio, vapore oltre l’orizzonte, brezza fresca, ma non esisterà mai quel presente. Forse è presto per dirtelo, forse una speranza ancora rimane nel reciproco futuro, ma purtroppo ho smesso da tempo con la speranza. Vogliono sminuirci, mortificarci, siamo impermeabili, la nostra pace è idrorepellente di fronte al loro mare di odio e inadeguatezza. Gli esseri umani sono feroci e il destino, che è la somma di tutte le loro malvagità, non può che investirti, cara Fantine, non può che prenderti, ecco la malvagità sì può, oltre tutto e oltre ogni bene, essa muove e muoverà. Ho visto più dittatori malvagi, pieni di pregiudizio, superbia, altezzosità altalenante mista a ilare sfogo bagnato dal vino, come i direttori in teatri dove si professa l’arte che libera, tutto questo non è per noi, che in centri specializzati di ordigni, dove il senso di colpa è un masso sul fianco di una collina e basta un temporale, ne basta uno solo ancora, per staccarlo e distruggere il villaggio là a valle, un villaggio di buoni agricoltori, buoni a pestare i figli con rami duri di alberi duri. E tu Fantine lo sai bene, il mondo è così semplice ma loro hanno imboccato la strada sbagliata. E vorrei sussurrarti dolci parole, resuscitarti, rinascere insieme, spostare delicatamente i fili d’erba per i nuovi percorsi dimenticati, non far riconoscere il nostro passaggio, accarezzare le ali delle libellule e volare con loro e spingerci sempre più lontano e abbracciare, vogliamo solo un caldo abbraccio. Fantine, rimane così poco alla fine dell’umanità, non c’è che il sogno collettivo, noi siamo svegli, lucidi, pragmatici, l’umanità ha sbagliato tutto, e come sempre siamo solo noi ad averlo capito.

Domenico

 
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from ordinariafollia

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Io immagino di avere una chitarra e danzo solo con essa come fossi sul palco più buio investito dalla luce di un assolo.

Quindi se mi vedete in questa scimmiosa animazione sappiate che sono immerso nell'eleganza di una febbre elettrica nel posto più buio che possiate immaginare, oltre la vergogna e il dolore con una chitarra invisibile che inesorabile suono con tutta la mia anima.

 
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from Il Taccuino

Presenze

Presenze, foto digitale. Licensed under CC BY-NC-ND vedi su Pixelfed


Aspetterò un altro inverno per amarti quando meno ferma la mia mano scorrerà sulla parete e la memoria delle cose a me più care, già sbiadite, offuscherà ogni mio risveglio. Con gli occhi cercherò il tuo sguardo e il tuo respiro, come un fresco alito sul volto, il tuo nome chiamerò tra le consunte cose ma la mia voce, come di fantasma risuonerà dalla terra, un bisbiglio tra la polvere. Attenderò ogni giorno quell'inverno, dovessi pure consumare la mia vita e il tempo, quest'inganno, che ci separa.

 
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from pop e memorie


Oggi si chiamano action figure: è un oggi relativo, come lo ieri che poi, calcolatrice e calendario alla mano, son passati alcuni decenni. Poco dopo quella visione, potenzialmente pirata, del film, ci fu l’esplosione del merchandising anche dalle nostre parti. Ogni settimana, il sabato pomeriggio (andavamo a Napoli dalla nonna, ricordate?), scendevo con mio padre e andavamo a fare un giro nel mercatino del Borgo di S. Antonio abate, a poche centinaia di metri dal Ponte di Casanova. Dalla zona, non dal ponte.

Era tendenzialmente buio, come lo sono le strette strade di Napoli, fiancheggiate da palazzoni che si oppongono al sole; la pavimentazione, di basolato consunto e irregolare, è perennemente umidiccia per i numerosi fruttivendoli e la catena quasi ininterrotta di pescherie. La struttura di questi negozietti è tipica: spazio interno di 10 metri quadri, se tutto va bene, e un ettaro di bancarelle fuori. Tra un fruttivendolo, una pescheria, un negozio di casalinghi e le bancarelle dei fuochi (anche a luglio inoltrato), negozietti, ovviamente in miniatura, di giocattoli.

Ogni sabato, scendevamo, mio padre mi teneva per mano e, al ritorno, nell’altra mano, quella libera all’andata, c’era un nuovo eroe di Guerre Stellari. Tutti li ho avuti. “Oggi varrebbero una fortuna, nelle scatole ancora sigillate”. Troppo tardi, la scatola praticamente non sopravviveva all’uscita dal negozio.

Tutti mi piacevano: buoni, cattivi, Jawas. Ewoks no, mai avuti. D’altronde, come tutti sappiamo, gli unici tre film di Guerre Stellari sono due e mezzo, in realtà: la storia finisce e si completa un fotogramma prima della comparsa di quelle creature demoniache. Qualche volta, la mattina, mia mamma me ne faceva trovare una sotto il cuscino, e subito era un grande risveglio. La stessa mamma che spiaccica le pizze in faccia al primogenito.

Il mio preferito, però, era il candido Stormtrooper. Non saprei il perché, probabilmente una questione puramente estetica. Sapevo benissimo che stavano dalla parte sbagliata della storia, soldatini anonimi mandati allo sbaraglio, con la mira e le capacità che tutti conosciamo. Un pomeriggio, mi portarono da uno specialista per una qualche visita: probabilmente, al momento di entrare lo lasciai su una delle poltroncine della sala di attesa e, all’uscita, non c’era più. Fu una tragedia.

Rosse. Le poltroncine erano rosse.

 
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from ordinariafollia

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Era più dei pelo sotto al naso era più di un maglione costoso era più di una copertina inglese e stava tra le dita e stava tra le labbra sapeva di vita puzzava di rabbia.

Ma da bambino quell'acre velo da sposa non bianca mi pizzicava gli occhi e mi faceva tossire, e mi dicevano vai fuori.

Con le dita ingiallite sul terrazzo di casa guardo la pioggia e sono ancora fuori perché agli altri pizzicano gli occhi e tossiscono.

E sono pieno di peli in viso indosso maglioni da sposo in una copertina di un disco inglese, senza più rabbia né gusto.

 
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from Kenobit

XMPP E LA LIBERTÀ DI FARCI I CAZZI NOSTRI

Nella mia avventura per liberarmi da Google e in generale da tutto il software non libero che utilizzo, sono arrivato al tema della messaggistica istantanea. Esiste un servizio di messaggistica come WhatsApp e Telegram, ma che a loro differenza è rispettoso dei miei dati, della mia riservatezza e del mio diritto di sapere cosa anima il software installato sul mio telefono? Ci sono varie risposte interessanti, ma quella che mi piace di più è XMPP.

XMPP è un protocollo rodatissimo, con una lunga storia, che come il Fediverso ha una struttura decentralizzata. In pratica, laddove WhatsApp ha dei server centrali, controllati dall'azienda proprietaria (in questo caso META), XMPP è una rete di tanti piccoli e grandi server. Tutti i server possono comunicare tra di loro e chiunque può crearne uno. Il risultato è un servizio che offre le stesse feature di WhatsApp e Telegram, ma con la trasparenza del software libero. XMPP è un servizio creato dalla collettività, per la collettività, che non raccoglie dati personali e ci lascia il pieno controllo della cifratura dei nostri messaggi. Se volete scoprirlo più nel dettaglio, questo video racconta bene la storia di XMPP e include anche una splendida spiegazione del concetto di decentralizzazione. Se sapete l'inglese e avete venti minuti, ve lo consiglio di cuore.

In Italia c'è XMPP-IT, una bellissima comunità con un suo server. Nello spirito della decentralizzazione, io e FDA ne abbiamo fondato un altro, aperto a chiunque voglia usarlo. Abbiamo scelto un nome evocativo...

logo cazzi nostri

Il nostro server racchiude la sua dichiarazione di intenti nel nome. Vogliamo parlare con le nostre persone care e farci i fatti nostri, senza che qualche azienda distopica si arricchisca alle spese della nostra riservatezza. Si chiama: cazzinostri.kenobit.it

Volete iniziare a usarlo anche voi? Vi aspettiamo a braccia aperte. Farlo è molto semplice! Come spesso succede con il free software, troverete client e programmi per usare XMPP su tutte le piattaforme, da quelle desktop (Windows, MacOS e GNU/Linux) a quelle mobile (Android e iOS). Volendo, potete persino usarlo da web.

COME CREARE UN ACCOUNT

Creare un account XMPP è facile e non richiede nemmeno un numero di telefono. Avrete un nome utente, una password e niente più. Se avete un po' di pratica, il procedimento è semplicissimo: scegliete un'app per la vostra piattaforma preferita e create un account, specificando kenobit.cazzinostri.it come server (o XMPP-IT, o qualsiasi altro server vi aggradi). Non sono necessarie email di conferma e altri fastidi. Ovviamente, la password ve la dovete segnare!

Se invece è la prima volta che vi avventurate fuori dal software proprietario, vi propongo questa guida passo passo.

Cominceremo dal client web, che trovate su: https://blabla.kenobit.it/

client web

Vi basterà cliccare su Crea account e inserire i vostri dati. Il vostro nome utente sarà qualcosa di simile:

nomeutente@nome.istanza.it

Nel caso del nostro esempio, abbiamo malatesta@cazzinostri.kenobit.it.

Immaginate il vostro nome utente come se fosse un indirizzo email, anche perché il funzionamento è lo stesso. A sinistra della chiocciola c'è il vostro nome utente, a destra il server sul quale è ospitato il vostro account. Esattamente come gandalf@hotmail.it può inviare una mail a saruman@alice.it, il vostro account XMPP potrà parlare con tutti gli account di tutti i server del mondo.

Dopo averlo fatto, potrete iniziare a chattare usando il client web, ma vi consiglio di installare un buon client dedicato sul vostro computer e sul vostro telefono. Qualunque sia il vostro client, vi basterà inserire il vostro nome utente completo (come per esempio malatesta@cazzinostri.kenobit.it) e la vostra password. Su Android, consiglio l'eccellente Conversations, che potete scaricare gratuitamente da F-Droid. Se lo scaricate da Google Play Store, invece, costa 5 euro.

Su PC consiglio Gajim, tanto su GNU/Linux quanto su Windows.

Mi trovate come kenobit@cazzinostri.kenobit.it. Venite a fare due chiacchiere! E ovviamente, se vi fa piacere, invitate le vostre persone care. Il server sarà sempre gratuito e aperto a chiunque!

 
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from highway-to-shell

Questa notizia mi ha sconvolto.

Non sono assolutamente in grado di stimare il danno enorme che le mafie provocano al nostro paese in termini di morti dirette e indirette ed in termini economici. Senza mafia, camorra e 'ndrangheta il cosiddetto belpaese sarebbe veramente un paese bello in cui vivere. Invece dobbiamo fare i conti con il traffico di droga, di rifiuti, l'inquinamento ambientale, l'usura, la corruzione e con il più subdolo di tutti i mali che è la penetrazione delle mafie nell'imprenditoria con il fine ultimo del riciclaggio del denaro sporco.

A parole lo Stato combatto le mafie ma poi ogni tanto a qualche rappresentante delle istituzioni scappa la verità...in questo articolo appare evidente che le mafie vengono si combattute, ma con lo stesso impegno con cui si combattono 4 anarchici che ogni tanto vanno a tirare sassi contro i cantieri tav o che creano qualche disordine in centro il Sabato pomeriggio.

Pg Musti, massima attenzione a mafie, anarchici e antagonisti *

Sono lontano dal simpatizzare per i centri sociali ma metterli sullo stesso piano della Mafia fa capire perché non ci liberemo mai della criminalità organizzata.

#mafia #ingiustizia #italia

 
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from Il Taccuino

arrivabene_heccehomo

(A. Arrivabene, ecce-homo, olio su tavola. 41 x 37 cm, 2019)


Nella compassione ho intuito il seme dell'infelicità -

soffrire è volervi amare al di sopra delle mie possibilità.

 
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from ordinariafollia

opinioni.

Nuvole passeggere si ammassano nel cielo fino ad oscurare il sole, satelliti artificiali di riflessa arroganza...

e par non se ne possa fare senza.

Per quanto possa farti male non è quello pensi che ti farà volare quando non avrai più ali a cui poterti attaccare.

 
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from Racconti spontanei che attraversano l'autore

Ripudio l’arte in ogni sua forma; mi distrae dalla mediocrità che mi sono costruito con tremenda fatica, lottando costantemente il naturale slancio di espormi, aprirmi, liberarmi. Ripudio i maestri che sono tanti, forse troppi, venditori di sogni borghesi per borghesi annoiati; la ricchezza in ogni sua forma è il più grande male. Che la temperatura terrestre salga fino alla temperatura con cui brucia la carta e il silicio. Tornare infine al pane caldo, la frutta scaldata dal sole e nuotare in acque termali durante rigidi inverni e niente da rappresentare, niente ontologia e ancora maestri, spettri, che possiate sparire che qua c’è una vita fatta di ozio, l’ozio rende liberi e smettere di sapere che ora è, in quale giorno della settimana siamo, il mese dell’anno, quanti anni sono passati, l’arte non salva, l’arte rende tristi e fa crogiolare nella tristezza; tenetevela voi la tristezza, figli di ricchi proprietari terrieri che qua c’è da coltivare terra cattiva, serve ottimismo per far piovere e per scavare pozzi, servono abbracci così lunghi da far sincronizzare i battiti, e cantare solo per il buon raccolto. Non c’è niente da capire, basta il fiume che si immerge nel mare e non c’è niente da ascoltare, bastano gli uccelli nelle foreste; c’è un irrazionale a cui cedere. Questo pensava B., molto più spesso di quanto avrebbe voluto, gli ritornava alla mente come torna un crampo sempre lì nella spalla destra dopo aver alzato il braccio destro ad un'angolazione insolita. Ma come per i crampi, dopo i primi dolori lancinanti, un mattino, dopo qualche giorno, inaspettatamente spariscono, e la vita di B. procedeva come sempre, con i tormenti quotidiani e la felicità, che risulta sempre banale e inefficace. L’ardore che lo aveva colto ora era sparito, il suo piano per la sua salvezza era sfumato anch’esso e si ritrovava ancora senza risposte e una linea chiara da seguire. La madre di B. non era più la stessa, cambiò e passò alla fase di vecchia madre sola, con bisogno di compagnia e una collezione di sogni non suoi mai realizzati. Fumava così tanto che la casa era completamente invasa di cenere e veniva distribuita omogeneamente nel pavimento da un ventilatore perennemente acceso. Ovviamente nessuno dei due avrebbe mai pulito quella casa che per chiunque fosse entrato sarebbe stata più simile ad un incubo che ad una casa abitata. Ma questo è il destino delle case abitate da persone né vive né morte che almeno nella morte vermi e piante iniziano il percorso della rinascita e dell’accumulo di terra su terra e infine una dolce collina.

 
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from Kaijudol, sognare è legale

Scritto di più di 10 anni fa. Personaggio che sarebbe dovuto diventare un Hollow in un forum gdr a tema Bleach.

Time: – 01:02:25

Knok.. Knok.. Knok..

Il suono sordo di legno contro legno rimbombò nel vuoto del dojio. Il bokudo di Watanuki e del suo sensei cozzarono più e più volte prima che il maestro, con una velocità senza eguali colpì l'allievo sulla spalla destra. Aveva perso nuovamente, non c'era allenamento dove non venisse sconfitto da Ryuken, un anziano signore sulla settantina, dai i capelli canutei, dall'aria innocua e gentile. Sembrava uno di quei vecchietti che si siedono sul bordo della strada ad osservare i cantieri, mentre in realta', il suo aspetto nascondeva uno dei più grandi maestri di kendo di tutto il Giappone o forse del mondo. Come si dice: mai giudicare un libro dalla copertina. Minamino mise la spada sul fianco e fece un profondo inchino al suo avversario, poi si allontano' continuando ad allenarsi da solo. Ripeté molte volte il kata, per renderlo più fluido e armonioso. Faceva sempre questo esercizio, alla fine della sessione di allenamenti, per sciogliere i muscoli e concentrarsi sugli errori compiuti nei combattimenti. Quando terminò l'ultimo movimento, era madido di sudore. Si guardò attorno e constatò di essere solo. Era sempre l'ultimo ad abbandonare gli allenamenti, nessuno sembrava prenderli con la stessa serietà. Fece un lungo respiro, per scacciare la stanchezza, poi raccolse la sua roba e si diresse verso gli spogliatoi.

Time: – 00:11:14

Una doccia calda aveva sciacquato via, oltre che il sudore, anche la fatica degli allenamenti. Ora Watanuki si sentiva soddisfatto, ma comunque il suo corpo anelava il dovuto riposo. Apri il suo armadietto di metallo grigio, il numero diciannove, per raccogliere la borsa con i libri scolastici e le scarpe, ma una strana sensazione si impossessò di lui, un formicolio alla base della nuca. Si sentiva osservato. Una sensazione spiacevole e ricorrente che provava da quando aveva iniziato l'università di giurisprudenza, lì aveva imparato a conviverci, ma che non aveva mai provato quel disagio nel suo dojo, figurarsi nello spogliatoio. Per lui quello era un luogo sacro, che sentiva profanato. Era in gabbia. Si sentiva tra le grinfie di qualcuno che non voleva lasciarlo andare. Era colpa sua, lo sapeva bene, aveva compiuto un solo errore, stupido e banale, l'errore di considerare Valentyne più del dovuto. Tutto era successo, un mese prima.

Time: – 841:12:53

Sentiva gli sguardi invidiosi dei compagni di corso, ci era abituato, ormai era una sensazione con la quale conviveva fin da quando era bambino. Watanuki se ne stava da solo, isolato dal resto dei compagni che bisbigliando, si prendevano gioco di lui. Ma lui non aveva nulla da spartire con “quelli”, frequentava l'università per studiare, per imparare qualcosa, non per fare amicizia. Come al solito non ci fece caso e si concentrò sulla lezione. Ma quel giorno la sensazione era più fastidiosa e intensa del solito. Una volta iniziata la lezione, quella fastidiosa senzazione spariva, ma mano che il professore parlava, l'attenzione che catalizzava si spostava sul docente e Minamino sentiva la pressione svanire. Non quel giorno, qualcuno continuava a fissarlo, lo sentiva, anche se non poteva vederlo, quel formicolio alla base della nuca non pareva lasciarlo in pace. Si osservo intorno per vedere da dove provenisse quella fonte così pesante e fastidiosa. Non fece fatica a trovarla. In uno degli ultimi banchi dell'aula c'era una ragazza, molto bella: occhi grandi e color nocciola, capelli lunghi e neri che si posavano dolcemente sulle spalle, un viso pulito e due guance dal colorito sano. Incrociarono gli sguardi e lei sorrise. Lui dopo averla osservata qualche momento distolse so sguardo con fare distaccato e continuo a seguire il professore.

La lezione fini. La ragazza si avvicino a Watanuki e si presento'. Si chiamava Valentyne, sua madre era giapponese, mentre il padre era un francese, profumava di ciliegia. Era la solita ragazza superficiale che pensa solo al suo aspetto fisico, vuota e priva di contenuti. Ma era bella. Ogni tanto si concedeva qualche scappatella con belle ragazze per allentare la tensione prima di un esame o un prova difficile. E cosi' fece. La sedusse e una sera la porto' in un love motel. Fu una splendida notte per entrambi. Ma quel magico momento termino con l'atto sessuale. Watanuki si lavò, poi si rivestì, ringraziò la ragazza e stava per andarsene, quando la giovane lo trattenne cominciando un discorso sulle coincidenze, il destino e l'amore. Minamino la liquidò dicendo che oltre al sesso non c'era stato nulla di più. La salutò e se ne andò. Per lui era finita li, ovviamente , per lei non lo era.

Time: – 6:34:10

Chiuse il suo armadietto dopo aver preso la borsa di scuola e riposto ordinatamente il suo equipaggiamento. Andò nuovamente verso lo specchio per pettinarsi prima di uscire e la vide. Oltre alla sua immagine riflessa c'era anche quella di una ragazza. La conosceva bene, ma non si aspettava di vederla nel dojo, anzi, si aspettava di non vederla mia più. Si era espresso con parole semplici e comprensibili anche da una mente limitata come la sua, ma evidentemente non erano giunte all'obbiettivo. Valentyne continuava a perseguitarlo. Messaggi, mail, lettere, chiamata nel cuore della notte, lo stava ossessionando. Maledì il giorno in cui decise di sedurla.

<> Disse voltandosi verso la ragazza, sarebbe stato l'ultimo sguardo che gli avrebbe rivolto.

<> Lo guardò con un aria innocente e pura.

Chiuse gli occhi e scosse la testa, quei discorsi gli erano del tutto indifferenti. Amore, quella parola era una sconosciuta nella sua vita e sarebbe restata tale. Non sopportava quelle persone, in realtà non sopportava le persone in generale, l'avrebbe liquidata per sempre, non voleva più averla tra i piedi. Distolse lo sguardo dalla ragazza, considerando il discorso chiuso, si sedette sulla panca e cominciò ad allacciarsi le scarpe, ma comunque rivolse ancora qualche parola a Valentyne:

<>

Si allacciò anche la seconda scarpa. Valentyne colse l'occasione e si gettò su di lui e lo abbraccio da dietro. Watanuki reagì velocemente e con una spinta la scostò violentemente. La ragazza caddè sul pavimento ma senza conseguenze dolorose. Minamino non riuscì nel intento di non rivolgerli più lo sguardo e lo vide. Un coltello. Valentine lo teneva nella mano tremante ed era sporco di sangue.

“Deve avermi graffiato.” Pensò toccandosi le braccia, per poi salire fino al collo.

Sentì la parte sinistra del collo bagnata. Si osservò le mani e le vide grondanti di sangue. Istintivamente si portò le mani sulla ferita per tamponarla, ora cominciava a sentire il dolore, probabilemente a causa dell'adrenalina dovuta all'aggressione, non aveva sentito l'arma penetrargli nel collo.

<> Questo avrebbe voluto urlargli, ma dalla sua bocca uscì solo un gorgoglio e del sangue.

Man mano che il liquido vermiglio usciva dal suo corpo e sporcava i suoi vestiti puliti, sentiva le forze che lo abbandonava. Faticava a respirare causa del sangue nella bocca. Guardò verso la sua assalitrice. Lei si avvicinò piano piano, con il volto rigato di lacrime. Si accucciò verso di lui e gli sussurrò:

<>

Watanuki non riusciva più a muoversi ormai la sua vita stava finendo. Riusci solamente a formulare un pensiero, tra i dolori che lo assalivano:

<>

Time: – 00:00:01

Time: – 00:00:00

Time: + 00:00:01

Doveva essere morto e invece non lo era. Si trovava in un dojo, familiare ma i suoi ricordi erano così confusi, sentiva la testa pesante e i pensieri appannati. Fisicamente stava bene, si portò le mani al collo, come per controllare il suo stato. Tutto normale. Solo il petto gli doleva, appoggiò le mani su di esso e ci trovò un freddo pezzo di metallo. Una catena. Per giunta spezzata. Capiva sempre meno. Era in una situazione assurda, confuso e dolorante cominciò ad osservarsi in giro e finalmente lo vide. Il suo corpo, coricato per terra, in un lago di sangue. Era morto? Come mai si sentiva vivo? Cos'era quella catena? Troppe domande e nessuna risposta.

 
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from highway-to-shell

Il trauma da rientro dalle vacanze lo vivono tutti ma quelli che tornano a Torino dopo essere stati in Svizzera e Germania lo vivono un po' di più. Torino –> Losanna –> Berna –> Friburgo e poi Torino.

Non ci sono merde di cane sui marciapiedi. Ok, cani se ne vedono molti meno, ma evidentemente i padroni sono tutti estremamente educati. Tutto comunica una sensazione di pulizia, dai bagni pubblici alle panchine. Il centro città è popolato da pedoni, biciclette, monopattini e mezzi pubblici: LE AUTOMOBILI NON CI SONO.

Posso capire che in passato le amministrazioni che si sono succedute abbiano favorito il trasporto privato su quattro ruote trascurando tutto il resto: Torino era la città dell'auto e l'industria automobilistica dava da mangiare a decine di migliaia di famiglie. Ma adesso che Torino è la capitale del nulla qualche sforzo per pulire l'aria e rendere la città leggermente più vivibile si potrebbe pure fare.

In compenso gli italiani hanno un senso dell'umorismo molto sviluppato rispetto a svizzeri e tedeschi e si spiega facilmente il perché, basta pensare ad una delle scene più comiche della cinematografia mondiale, quella dove Fantozzi prende l'autobus al volo: all'estero non fa ridere, non la capiscono, perché gli autobus passano regolarmente e non sono mai strapieni. Gli italiani hanno sviluppato un forte senso dell'ironia per sopravvivere al proprio paese, peccato che a Torino ci siano i torinesi, i più tristi-riservati-mogi-seriosi-con-la-scopa-nel tra gli italiani.

#vacanze #automobili #torino

 
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from Racconti spontanei che attraversano l'autore

Cammina veloce, cammina, non c’è tempo da perdere, stai perdendo il volo, ti stanno chiamando dall’altoparlante rumoroso proprio te essere vivente, cadi adesso e cresci e crea una montagna umana di macerie umane. Essere vivente sei eccitante, dovrebbe essere sentito e non lo è, è un gioco portato al limite, è un gioco con troppe regole, ne servirebbe solo una, è solo biologia riproduttiva, è solo chiedersi perché sia così difficile stare da soli perché sia così bello odiare e non volere scendere a compromessi e smettere di mangiare piatti sofisticati e mangiare solo pesce appena pescato e mangiarlo mentre ancora si contorce e smettere di ascoltare musica che l’udito serve solo per avvertici dei pericoli, altri esseri umani che blaterano e non riescono che compiere l’azione del contraddirsi. I vetri sono decisamente troppo puliti per essere veri vetri ma è sicuramente la miopia che rende tutto più bello e non c’è sguardo esterno che trafigga, non c’è sguardo essere vivente, non c’è che il sogno. No, non sono io quello che si è perso il volo, non sono io che ha bisogno degli sconosciuti per sopravvivere vai rapido, vai rapido figlio di tempi dove la violenza era molto più tollerata e anzi era un valore tra i più importati. Sì è colpa di questa velocità se soffri, è colpa di una necessità morbosa di essere sempre più ricchi e potenti, quello che stupisce è quello che manca, non è stato ancora capito, però si continua a trovare nonostante questa estrema consolazione nella strada battuta, nel ruscello di acqua calda termale e nell’odio profondo e nella gioia dopo l’odio come un dolce unguento e odore di camomilla. Hai scelto di investire nella tua bellezza e ancora ora dico, cattivo investimento essere vivente, è facile quando hai poche lune alle spalle quando il movimento non è deciso ma come fai dopo come potrai salvare Venezia ma è questo credere nell’irrazionale che disarma e però lo lascio a voi, credo, almeno ora ma adorerò contraddirmi. E’ questo bisogno di voler dare, questo racconto cristiano che sembra non volersi mai fermare e muta e prende varie forme forse sì, sei tu pianeta terra, sei tu tempio, togliere serve per dare di più dopo perché per quanto mi piaccia l’idea con un valore prettamente legato alle storie a destini ridotti in frantumi, non ci sarà mai la fine del volere dare e non ricevere nulla e sarà nella sua rarità il potere ispiratrice ma anche farmi desistere dal pensare che è solo esclusivamente bisogno di non essere soli, non sarà facile e qua adorerò ancora di più contraddirmi. Cosa può essere un essere vivente che vale la pena essere raccontato, deve poter trasmettere qualcosa, deve poter ispirare suscitare emozioni, sono qui guardami, sono qui ti prego ascoltami, vite su vite ma è davvero possibile siano tutti così banali e pieni di errori che siano così tolleranti della noia e perché alla fine chi forse si è distinto e ha capito qualcosa si è ammazzato. Perché le vite straordinarie non hanno resistito un giorno di più, che sia solo lo smettere di voler tollerare che distingue gli straordinari dagli altri che l’unica cosa straordinaria è non farcela più, in fondo non ne vale più la pena, si sta combattendo per qualcosa senza valore, una volta compresa la vita finisce tutto il divertimento, è bello giocare quando le regole ancora sono poco chiare, quando si ride tutti insieme sui reciproci sbagli ma cosa accade quando le regole sono chiare e quando non si commettono più errori, c’è davvero qualcuno così ottuso stupido da continuare a giocare a questo solitario dove si vince tutte le volte, dove perdere è impossibile che dopo aezakmi sì magari si va avanti per un po’ ma poi basta. Sono gli errori che tengono vivi quindi, interessante, ma che accade quando gli errori sono troppo grandi come riuscirai a convivere con il senso di colpa come farai invece, molto bene, è lo spirito di sopravvivenza, è volere sopravvivere alla glaciazione e quindi nell’abbondanza e nella stagnazione non si può che pregare nella catastrofe più atroce così da sperare nuovamente nel benessere e volerlo rincorrere sarà la gioia più grande. “Sbaglia, sbaglia, sbaglia!” questo si ripeteva B. dopo aver riflettuto a lungo e per la prima volta si convinse. Era depresso B., lo capì da solo come quando si capisce che si ha la febbre alta, la testa è un enorme palla riempita di un materiale soffice al tatto come il cotone ma pensate come il piombo. Non sarebbe mai andato a farselo certificare che quella pratica psicanalitica, era solo una ridicola imitazione di un prete che vuole confessarti e assegnarti preghiere da recitare. “Avanti B. dimmi i tuoi peccati, confessati” disse il prete-psicologo-santone-attivista per l’ambiente “Beh ho peccato, sì padre molto” e così via e è colpa di troppe cose che non ti sono chiare maledetto che vuoi leggermi ma non puoi capirmi. Era depresso perché già in tenera età, raggiunti i sei anni, capì che i suoi genitori erano praticamente dei bambini suoi coetanei che era la paura a muoverli e il voler essere accettati. E da questa consapevolezza all’età di sei anni e non verso i quaranta come di solito accade accettò gli errori dei propri genitori, le loro fragilità e il peso che questo comportava. Fu la morte della madre di suo padre a farglielo capire, che lui si rinchiuse in un totale e assoluto isolamento che la sua forza era scomparsa, che poco dopo si uccise pure lui e non prima di essersi svelato. Doveva sbagliare, commettere un atto che andasse contro il suo intelletto, contro la razionalità che era convinto lo stava portando al suicidio; sì perché aveva capito troppo. Pensò a lungo su cosa fare e l’elenco diventava sempre più lungo. Si fermò per diverso tempo sull’omicidio, certamente questo fatto avrebbe portato B. in svariate situazioni a lui sconosciute tra cui il dover capire come farlo, magari informandosi sull’ampia documentazione fornitagli dalla cronaca nera, film, serie televisive, romanzi; era pieno di spunti a riguardo e questo gli fece capire quanto è così dentro di noi questo pensiero e che alcuni ne scrivono solo e ne partecipano all’atto immaginario, tanti invece non ne sono sufficientemente soddisfatti e devono praticare ciò che a lungo hanno studiato. E poi c’è il fatto in se, non è per nulla scontata come azione, deve necessariamente crearsi un rapporto con il soggetto, come quando si sceglie l’amante da corteggiare, l’amante da rapire dalla sua vita che procede, sì ma c’è quell’alone di dubbio, farò bene a fidarmi questa volta, sarà disposta a seguirmi nei miei pensieri folli ad accettare consensualmente di essere uccisa, sì questo è folle pensò B. davvero folle, pensarlo fu strano per lui si sentì perdere appigli come sbilanciato però in verità per B. il terreno era morbido soffice, un prato sopra della sabbia finissima, un miraggio e un ombra freschissima dopo una giornata torrida e un sole violento che brucia. B. andò a comprare le sigarette, l’uomo al bancone fu gentile e pretese di dargli indietro il resto “Ecco il resto” B. sentì una voce decisa raggiungere il timpano, va bene grazie uomo, vedo sei incisivo, vedo non ti sfugge nulla, vedo sei così attento ai bisogni dei tuoi affezionati clienti, sì affezionato a vederli morire uno dopo l’altro, eh poverino è caduto in depressione dopo la morte della madre, ma cosa dici era malato da tempo a causa di questo veleno che continui a vendere, eh ma me l’hanno dato in eredità, sì certo continua a ripetertelo, continua a ripeterlo mentre gli incubi delle scelte sbagliate della vita ti assalgono. “Grazie, arrivederci” rispose B., uscì fuori, tolse la plastica protettiva dalle sigarette tirando una piccola sporgenza di plastica sul lato corto del parallelepipedo, prese un sigaretta, chiese a un passante un accendino, si accese la sigaretta, fumò giusto un paio di tiri finché non lo colse il disgusto, buttò la sigaretta in uno di quei cestini per mozziconi di sigarette sempre così banalmente sporchi e in un cestino buttò tutto il pacchetto, tranne la plastica protettiva che aveva così profumatamente pagato.

 
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