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from Klaus

casa

Quando arrivai davanti alla porta di casa, che affiancava quella del laboratorio di mio padre, sapevo che a quell'ora non li avrei trovati lì, ma controllai comunque l'integrità del meccanismo anti intrusione che il vecchio aveva installato. Proseguii verso il fiume, poco distante, e li vidi di fronte della lapide di mio fratello Karl. I miei genitori, in piedi, si sorreggevano a vicenda, tenendosi la mano, in silenzio. Solo il vento tra me foglie si permetteva di disturbare quel momento così intimo, tale che anche io, loro figlio, attesi qualche istante prima di giungere al loro fianco. Erano passati un paio d'anni ormai dalla morte di mio fratello, ma le interiora si contorcevano ancora come fosse accaduto il giorno prima. Ci sedemmo lì davanti, sulla panchina che era stata ricavata da un tronco, ed ognuno di noi si raccolse a suo modo; io vagai per i ricordi d'infanzia, ricordando poi l'avventura appena trascorsa.

Mio padre fu il primo ad alzarsi. Poco dopo tornammo a casa, e durante il breve tragitto ci furono solo sospiri, nessuna domanda, e solo dopo aver varcato la porta di casa, mi abbracciarono, felici di non aver perso un altro figlio. Mia madre, Gaia, si mise ai fornelli, sapeva come conquistarmi il palato e, durante i preparativi, volle sapere se mi sarei fermato solo per pranzo, ben felice dopo la mia risposta di apprendere che mi sarei trattenuto per qualche giorno. “Vado a preparare la tua camera” mi disse, come se non sapessi che in realtà era sempre pronta, pulita, e con le lenzuola fresche. Ma facevo finta di niente tutte le volte. La porta nel piccolo salotto dava direttamente sul laboratorio di papà.

Lab

Cedric era un maestro nell'arte della lavorazione del legno, un inventore, e veniva spesso commissionato da persone di ogni rango e ceto sociale per semplicemente aggiustare una sedia, per costruire qualche marchingegno, o per creare meraviglie tecnologiche. “Non aver paura di osare” diceva, “Dagli sbagli nascono le cose migliori”. Attraversai la porta del laboratorio e fui pervaso dall'odore del legno, dal calore della piccola forgia in fondo alla stanza, e meravigliato dai tanti progetti appesi alle pareti. Tutto era molto ordinato, ogni cassetto aveva inciso cosa avrebbe dovuto contenere, gli scaffali ben organizzati e gli attrezzi appesi mai a caso. Al momento mio padre era di spalle nei pressi della fornace, intento a lavorare proprio uno dei rami che avevo visto pochi giorni prima nella foresta, al fine di scaldarne le venature per poterlo modellare con più facilità. Interruppe quello che stava facendo solo un istante, quando sentì la porta chiudersi, ma non si voltò, “Ciao ragazzo” disse e proseguì nelle sue faccende. Era un brav'uomo, un buon padre, un tempo ricolmo di gioia e calore per i suoi figli, ma la ferita era ancora aperta, e il tempo che tanto ci aspetti risolva ogni male, non bastava. Ricordando le parole del curatore, chiesi a mio padre se potessi usare alcuni dei suoi attrezzi e materiali per occuparmi del mio vecchio passatempo, “costruire avventure”, così lo chiamavo da bambino. Mio padre interruppe le sue faccende, si voltò, e sorrise.

 
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from Klaus

Uno sguardo del nostro avversario fulminò prima Leo e poi me, strinse con le sue mani possenti l'ascia e mi si scagliò contro ed io feci lo stesso, impugnando la mia spada a due mani. L'impatto fu violento tra le nostre armi, ed il suono forte e impetuoso di lame che si scontrano echeggiò nella caverna. Il mio compagno si avventò sul nostro nemico, applicando alla lettera gli insegnamenti di Gor, “fiancheggiando”, quasi fosse la mia immagine riflessa in uno specchio, il barbaro che con tanta tenacia e forza ci stava tenendo testa. Ad un tratto, con un colpo incredibilmente potente scagliò lontano Leo, facendolo cadere rovinosamente a terra, e girando in un attimo l'arma, facendola roteare, mi colpì con altrettanta forza, gridando come un folle e scoprendo un punto debole nella mi difesa, ferendomi ad una gamba e subito dopo ad una spalla. Mi accasciai a terra, devastato dalla potenza di quei colpi, reggendomi in ginocchio aiutandomi con la spada. Era pronto a sferrare un altro attacco, quando Leo, ripreso, lo colpi alle spalle con due fendenti rapidi, innescando una giravolta dell'energumeno che lo attaccò a sua volta facendo roteare l'ascia e colpendolo in pieno petto, ferendo Leo in modo grave. Il barbaro si stava avvicinando al mio amico per il colpo di grazia, con passo lento questa volta, sicuro che ormai lo scontro lo avrebbe visto come vincitore. Mi guardai attorno, affannato, cercando sostegno in qualcuno o qualcosa e strappai dalle mani di uno dei miei precedenti nemici una balestra; la impugnai rapidamente e inserii il dardo, mirai quasi alla cieca e scoccai. Non sapevo se avevo colpito quella montagna, ma subito ricaricai e di nuovo feci partire il colpo, rendendomi conto che lo avevo preso con entrambi i tiri, uno alla schiena, bersaglio enorme, e l'altro alla testa, trafitta. L'uomo cadde con tutto il suo peso in avanti causando un tonfo che fece tremare il terreno. Non c'era tempo da perdere, Leo stava morendo dissanguato, e quando avvicinandomi lo vidi da vicino, per un istante crebbi che oramai nulla avrebbe potuto salvarlo. Lo strinsi a me forte, sperando quasi di donargli parte della mia vita, quando lo sguardo, colmo di lacrime, mi cadde su una bisaccia di uno dei criminali e subito cominciai a ravanare in tutte quelle che trovavo, ed infine, per volontà degli dei o per fortuna, trovai quello che cercavo e che fortunatamente uno dei caduti non aveva fatto in tempo ad usare, una pozione curativa. La raccolsi con cautela, dopo essermi strofinato le mani bagnate di sangue sui pantaloni, e ne feci scivolare il contenuto tra le labbra di Leo. Rimasi scosso nel vedere come il liquido andava a ricostruire tessuti e membra , andando quasi alla ricerca di ogni brandello, illuminando la ferita di una luce cremisi che mi ipnotizzò. Una volta rinvenuto, non ci curammo dei cadaveri lì attorno, anzi, pensai che sarebbero serviti come monito, e raccolte le nostre cose ci immergemmo nuovamente per risalire all'ingresso della grotta nella foresta. Avevamo perso la cognizione del tempo ed era quasi notte, decidemmo quindi di riposare per recuperare le forze; Leo, visibilmente in condizioni migliori delle mie, procurò la cena, un coniglio selvatico che soddisfò a pieno il nostro appetito. Poi si mise di guardia. Quella notte, ferito, affaticato, al chiaro di funghi magici che illuminavano la foresta come fossero stelle nel cielo, ringraziai gli dei per aver trovato un amico come Leo, per avermi donato qualcuno che avrei potuto chiamare un' altra volta “fratello”.

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Di ritorno verso il forte, incontrammo qualche taglialegna, intento a brontolare per quanto fosse faticoso quel lavoro, e alle porte che avevamo varcato qualche giorno prima, fummo accolti dal comandante, che volle sincerarsi subito della situazione e delle nostre condizioni, invitandoci a far visita dai curatori per poi concederci qualche giorno di licenza. Sapevo benissimo cosa fare, sarei andato a trovare la mia famiglia, giù al fiume.

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from 513023

IL GIOCO DEL CALCIO

“After years of waiting nothing came as your life flashed before your eyes you realize I'm a reasonable man get off, get off get off my case”

Se me lo chiedi non so nemmeno perché mi trovo qui, a notte fonda in una città che non è la mia, stretto sul sedile posteriore di questa calda e asfissiante Peugeot 106 bianca, in mezzo a ‘sta gente più giovane di me di almeno dieci anni, bicchiere grande di cartone in mano e cannuccia, la testa che a ogni sobbalzo sbatte contro la lamiera del tettuccio ormai privo di tappezzeria e poi rimbalza sul vetro del lunotto laterale che, naturalmente, non si può aprire.

La storia con Lei è finita soltanto qualche mese fa, poco prima dell’estate. Così un bel giorno, ritornando in patria, ho preso il bus che dall’aeroporto mi ha riportato a casa sua – casa nostra– e lei non mi ha nemmeno aperto la porta. O meglio, la porta l’ha aperta ma non mi ha fatto entrare, dicendomi che non potevo, che non dovevo, occhi gonfi ma decisi a lasciarmi lì interdetto, sbigottito e incredulo, mentre dentro c’è qualcuno fra le sue lenzuola – le nostre – al posto mio. Sembra durare un’eternità, mi crolla il mondo addosso al rallentatore mentre cerco di capire perché, ma il perché lo so già. Diciamo che cerco di capire perché adesso, perché in questo modo, perché non prima. Durante il mio viaggio di ritorno non ho fatto altro che pensare a noi, a come le cose si sarebbero aggiustate, a quanto ti amo, a quanto sei l’unica persona di cui mi importa, a quanto vorrei potere entrare in questa casa e chiederti di vivere tutta la vita insieme. Invece sono qui e piango e piangi e sento che tutto sta finendo. Mi viene da vomitare.

Fatto sta che finisce davvero e non mi resta altro da fare se non trovare un modo per smettere di pensarci, di odiarla, di dimenticarla. Ma si può odiare ciò che si è amato tanto follemente, così da un momento all’altro? Non lo so, faccio un esperimento: decido di provare ad amare qualcosa che ho sempre odiato. Il calcio. Sì, il gioco del calcio. Comincerò a tifare per una squadra, mi lascerò travolgere da questa passione, ma non soltanto, no: non sarò un tifoso qualsiasi, e non terrò nemmeno alla squadra di calcio della mia città, tiferò invece per la squadra rivale. E lo farò come si deve. Sarò profondamente onesto e devoto, ci crederò con tutto me stesso. Comincio così a seguire tutte le partite –le poche rimaste alla fine del campionato- a imparare i nomi dei calciatori e la storia di ciascuno di loro. Il gioco lo conosco, ne conosco le basi, non sono del tutto ignorante in materia, anzi a dire il vero il gioco in sé un tempo mi piaceva pure, poi ha cominciato a starmi sul cazzo perché mi stavano sul cazzo gli altri ragazzini che lo praticavano. Così faccio e per dirla in breve, termina il torneo nazionale e incomincia l’estate. E con essa un altro campionato: quello internazionale. E prendo a frequentare questo bar della piazza principale in città praticamente sempre da solo. Questo perché durante gli anni vissuti fuori le amicizie si sono rarefatte; certo alcuni amici restano ma in un modo o nell’altro si allontanano geograficamente, e questa è l’estate in cui siamo tutti lontani. Al bar però c’è una nuova ragazza, bellissima, occhi accesi, sulle braccia tatuaggi floreali dai colori tenui che si amalgamano benissimo con la sua pelle chiara. Ogni sera quindi occupo da solo lo stesso tavolo e ordino sempre lo stesso drink, due, tre, numero imprecisato di volte fino alla fine della partita, e guardo il calcio con gli occhi di un innamorato ma il calcio non ricambia e inizio a sospettare che questo amore probabilmente non durerà. Forse non sono fatto per amare uno sport, forse sono fatto per amare una persona, per essere amato a mia volta. E arriva lei, la ragazza del bar, che mi chiede se ne prendo ancora uno e io dico sì e lei portandomelo mi sorride, e io ricambio. Finisce la partita, sono pressapoco ubriaco, mi nutro soltanto di snack e noccioline da settimane d’altronde; mi alzo e cerco di non cadere mentre mi avvicino al banco per pagare ma lei mi sorride ancora e mi dice che stasera io non pago. Le chiedo, ricambiando ancora una volta il sorriso, se faccio davvero così pena e mi risponde di non pensarci. Allora le domando se le va di vederci quando smonta da lavoro, mi dice forse, le scrivo il mio numero sopra il blocchetto delle comande e cerco di ritornare a casa, barcollante. Nel cuore della notte squilla il telefono, un numero che non ho in rubrica, con la bocca impastata dall’alcol rispondo: è lei. Mi chiede dove abito e mi dice fatti trovare giù che andiamo a fare un giro insieme e indosso di corsa una maglietta pulita e scendo inciampando per le scale e lei è già lì che mi aspetta dentro l’auto porta aperta salgo e parte fra le luci della notte – della strada e delle stelle – con l’odore dell’asfalto che col caldo sale e pervade le narici e ci porta dritti ad un locale sulla spiaggia fra il vociare della folla e la musica la inseguo e bevo a farle compagnia e lei mi si racconta mentre il mondo la saluta mi presenta a tutti, nessuno escluso: questo è il mio ragazzo. Non so se mi sento ancora ragazzo dico; quindi, mi prende per la mano e mi porta in riva al mare a fare l’amore sotto la luna.

L’estate e il campionato volgono al termine, le ho raccontato tutti i dettagli di questa mia neonata, folle fissazione per il calcio, lei mi ha detto del suo ex, quello che l’ha tatuata, che sono rimasti in buoni rapporti e che lui è il capo degli ultras della mia nuova -a quanto pare- squadra del cuore e che se ho voglia e non mi infastidisce possiamo andare a trovarlo per la prima che giocheremo in casa. Volentieri.

Così giungemmo alla città avversaria, un sabato di fine agosto, giorno prima della fatidica partita. Prima tappa la sua casa universitaria dove mi presenta le coinquiline che mi subissano immediatamente di domande d’ogni tipo. Stasera andiamo prima a fare aperitivo e poi a ballare, mi invita poi una di queste come a sondare il terreno delle mie intenzioni con lei -con loro- e di che pasta sono fatto. Non batto ciglio, sorrido e faccio cenno di sì. Ma prima, dice Lei, passiamo dallo studio che ti presento lui. Il tempo di sistemare le mie cose nella sua camera e siamo fuori, noi tre, diretti al suo studio, le altre ci raggiungeranno dopo cena, dicono. Quando arriviamo lì lui sta lavorando, lo vediamo attraverso la parete a vetro. Sotto gli aghi una ragazza mezza nuda e che non è la sua prima volta si nota da come affronta con aria calma e rilassata le sollecitazioni dell’elettrodermografo e di tutti i nostri sguardi. Lui concentratissimo, ha fatto soltanto un cenno a Lei quando ci ha visto entrare. Cerco di immaginarli insieme, lanciando sguardi all’una e all’altro, proiettandoli mentalmente in un passato in cui dicevano di amarsi. Non ce li vedo, come d’altronde non vedo futuro per noi due; è come se le nostre vite si fossero incrociate per un brevissimo momento in cui a entrambi stiamo bene, come se stando insieme avessimo trovato una sorta di equilibrio che ci tenga vivi. Dopo lavoro lui si presenta, completamente diverso nell’atteggiamento ora spavaldo e quasi sfidante, in particolare nei miei confronti. Non fa altro che cercare di infastidirmi e infastidirla, e insiste perché lasciamo lì la nostra auto e andiamo in giro tutti insieme, con la sua. Pertanto, ci stipiamo come sardine in quella macchina minuscola, lui e la ragazza mezza nuda davanti, noi tre dietro, Lei nel mezzo. Un viaggio da un girone all’altro dell’inferno, dove raccattiamo piano piano anche tutte le altre: per ogni tappa qualcosa da bere e una nuova frecciatina, ma poi pian piano qualcosa cambia e lui mi prende quasi a cuore e l’intravedo, fra le sovrastrutture della personalità, fra una steccata al biliardo e una palpata ai culi della sua e della “mia” lei, nella calca in discoteca, che cerca di stimolare in me qualcosa, prepotente eppure fragile, come Swayze fa in Point Break. Ci ritroviamo fuori dal club per fumare una sigaretta e mi racconta tutto ciò che ci aspetterà domani, allo stadio. Come di quella volta in cui riuscirono a portare in curva il motorino rubato al capo della tifoseria avversaria e a buttarlo giù, in fiamme, dal secondo anello, senza pensare di subirne le conseguenze. Mi tranquillizza dicendomi che nessuno si farà male e dandomi una pacca sulla spalla mi fa che ha bisogno di tirarsi un poco su: che domani ci divertiamo! Si appressa l’alba ormai e decidiamo di andar via, la musica si è esaurita e così anche le nostre forze. Esausti entriamo in quella 106, bicchieri con cannucce in mano, residui della notte appena trascorsa. Lui è ancora su di giri, dopo tutta la C che si è tirato, noi cerchiamo di convincerlo a gran voce che è l’ora di tornare a casa e dopo un po’ , finalmente, ci riusciamo.

Ma a un semaforo, di ritorno sui viali, un’auto si affianca alla nostra e da quella, poche parole urlate fra gli affondi di un pedale vestono un guanto di sfida. Lui allora fa rombare il motore, quell’altro ancora di più, noi quattro invece ci guardiamo preoccupati ma non abbiamo neanche il tempo di aprire bocca che scatta il verde

Sotto il manto di stelle, l'asfalto è un mare nero, e motori, ruggenti, sfidano il silenzio della notte placida. Quali navi veloci guidate da remi, così le auto scattano, lanciate in una danza di fuoco e fiamme, ardenti come Etna. I due folli piloti, animo teso e sguardo fiero, si lanciano nell'agone sfidando il destino con mano sicura. Le gomme stridono, l'aria si carica di un tuono senza fine mentre le vetture sfrecciano, rapide come dardi. Un duello di sorpassi, destrezza e ardore Cloanto insegue Mnesteo, il suo bolide come un fulmine, Mnesteo non cede, la sua guida è pura arte. Cloanto con furore, tenta di riprendere il comando, ma il destino è già scritto, e il traguardo è ormai vicino.

E mentre la città dorme ignara del fragore delle passioni noi ci schiantiamo su di un’auto ferma che, come la nostra in maniera figurata, letteralmente va a puttane; e ciò che vedo, prima del buio pesto, è una colonna di fumo ergersi imponente dal cofano dell’auto nostra, fra lo stridore degli pneumatici che si squarciano sul selciato.

 
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from Klaus

Ci svegliammo alle prime luci. Una rapida colazione con bacche e miele, un sorso di infuso di erbe caldo e rimettemmo in bisaccia le nostre cose, pronti per proseguire verso la parte ignota, che mai avevamo affrontato, di quella foresta. Fu subito chiaro che il solo orientamento sarebbe stato cosa non di poco conto, l'attenzione al terreno difficile anche. La posizione del muschio sugli alberi e rocce, la posizione del sole quando visibile, aiutarono a darci una direzione; per quanto riguarda il terreno difficile, non ci fu altro modo che far leva sui nostri muscoli e atletica, ringraziando il consiglio del comandante di non indossare le nostre canoniche armature pesanti, ma di avvalerci di quelle più leggere ,“Farvi uccidere dal terreno, sarebbe da stupidi no?” ci disse con un sorriso prima di partire. Proseguendo, facendoci largo tra la vegetazione, cercavamo di stare in silenzio per non attirare su di noi attenzioni indesiderate, quando ad un tratto sentii un gemito provenire dalle mie spalle. Voltandomi vidi Leo a penzoloni, trattenuto alla gola da un serpente che gli si avvinghiava, proteso da un ramo. Impugnai ancor più salda la mia spada e mi avventai contro la creatura, colpendola sopra la testa di Leo, che cadde a terra col fiato strozzato. Nel momento in cui mi voltai per assicurarmi le sue condizioni, lo vidi imbracciare la sua arma e scagliarsi dietro di me, contro quello che sarebbe stato il vero problema della giornata. Un serpente gigante ci stava per attaccare, fauci spalancate e denti grossi come una lama di spada. Leo con la prontezza che lo aveva contraddistinto tra le reclute anni prima, intercettò il morso della bestia frapponendo il suo scudo, ma nulla poté contro il colpo di coda che lo scagliò a terra. Distratto dal mio compagno, l'immondo accusò il mio fendente, che lo colpì facendolo sanguinare copiosamente, a cui segui un secondo attacco in affondo. Da una parte Leo, dall'altra io, e nel mezzo quello che sarebbe diventata da li a poco la nostra prima tacca. Colpimmo duramente e con sincronia, tale che la creatura accusò i colpi e morì. Leo si accasciò a terra dolorante. La creatura, che ormai giaceva a suolo inerme, lo aveva ferito al fianco destro; non una ferita grave, ma in quel contesto, poteva esserlo, e seppur contro la sua volontà, decisi di utilizzare una delle fiale che mi erano state donate. Aprii la boccetta che conteneva un liquido denso e dal color rubino, l'odore era pungente, e la passai al mio compagno, che dispiaciuto per il dover appropriarsene così presto, la trangugiò d'un sorso. Il liquido divenne luminescente nel percorrere dapprima la gola, poi il petto e subito dopo dirigersi verso il costato, pulsando ad ogni respiro, ed infine giunto alla ferita, illuminarla e ricostituendola, facendo sospirare Leo. Di nuovo in marcia, percorremmo la foresta più attenti e cauti, per qualche ora, fino a quando non udimmo voci umane provenire da un'abitazione nascosta nella fitta vegetazione. Ci avvicinammo in silenzio, ringraziando ancora una volta di non indossare le nostre classiche rumorose armature, e giunti ad una finestra vidi due uomini darsi le ultime istruzioni sul raggiungere i propri compagni, già all'ingresso del tempio. “Quindi ce ne sono altri, ma quanti? E come raggiungerli?” pensai. La risposta fu subito ovvia, pedinare questi, trovare gli altri e l'ingresso del tempio, e in qualche modo, fermarli. Come due spettri, in silenzio e grazie al corso ranger del secondo anno di accademia, inseguimmo per un giorno intero le nostre “guide”, fino all'ingresso di una caverna, il cui interno era illuminato da una qualche fonte di luce.

caverna

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L'esterno della caverna non era ben visibile ma si capiva che non era sorvegliato e subito i due si intrufolarono senza esitare. Aspettammo qualche istante per avvicinarci, e arrivati anche noi all'ingresso che ora pareva da vicino maestoso e terrificante alla luce delle torce, ci rendemmo conto che il suo interno altro non era che una caverna con una pozza di d'acqua al centro. Guardai Leo e con un cenno di intesa, presi un bel respiro e ci gettammo in acqua, fredda e limpida, costellata di funghi luminescenti che ci guidavano verso l'uscita. Col fiato corto, e nella speranza che al nostro riemergere nessuno ci notasse, riaffiorammo piano, con da prima gli occhi, e una volta controllato rapidamente l'intorno, anche col capo, respirando nuovamente. Dovetti sgranare più volte gli occhi e strofinarmeli con le mani, per credere a quel che vedevo, le rovine di un tempio parzialmente emerso all'interno di una caverna gigantesca, illuminato da alcune feritoie nella roccia e dalle torce dei criminali.

tempio

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Non ci fu il tempo per porsi troppe domande, o per gongolarsi nello stupore e meraviglia; i due briganti che avevamo pedinato si erano riuniti con il resto della loro banda e dalla nostra posizione potevamo vedere come si addentravano furtivi e veloci tra le rovine. Non avremmo mai avuto tempo di tornare ad avvisare i nostri superiori o di cercare rinforzi, dovevamo intervenire e fermarli prima che compissero qualche azione per la quale poi molti altri avrebbero pagato il prezzo. Uscimmo dall'acqua e di soppiatto raggiungemmo il gruppo al completo, sempre tenendoci nell'ombra. Erano otto uomini, tutti ben armati, che come voraci animali si avventavano su tutto ciò che di valore trovavano, da vasi d'oro, a scrigni colmi di pietre preziose, fino a che uno di loro non venne attaccato proprio da uno dei forzieri che stava tentando di aprire; enormi fauci fecero brandelli della carne del malcapitato, mentre gli altri tentavano di colpire l'essere mostruoso, noi ne approfittammo per sferrare il nostro attacco di sorpresa, scagliandoci come furie sul resto del gruppo che colto alla sprovvista si trovò del tutto impreparato. Due di loro caddero subito sotto i nostri colpi precisi, combattendo spalla a spalla avevamo pochi punti ciechi e la nostra tattica sembrava aver sorbito un ottimo risultato. Nel frattempo un altro di loro divenne pasto per il forziere animato, e noi subendo l'attacco di un paio di loro avevamo bisogno di allontanarci dall'essere per non rischiare di diventare i prossimi ad essere divorati; ci spostammo su una zona rialzata del tempio, e da lì vedemmo l'unico che poteva essere il capo della banda che stavamo assaltando, colpire con la propria ascia bipenne lo squartatore dei suoi uomini, squartandolo a metà. Si voltò e con sguardo ricolmo di rabbia gridò “Ora, tocca a voi!”. Era un uomo alto, senza armatura o altre protezioni, solo tatuaggi sul corpo a ricoprire la massa di muscoli che pulsavano. Non era la prima volta che affrontavamo qualcuno di quella stazza, ma eravamo stanchi dal combattimento e avevamo terminato le nostre pozioni, ma dovevamo portare a termine la missione e mai saremmo fuggiti, così incrociammo i nostri sguardi e con un cenno di intesa ci portammo al livello del nostro nemico, uno da un lato e uno dall'altro. Lo scontro finale stava per cominciare.

 
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from Racconti spontanei che attraversano l'autore

Fantine, vorrei dirti di aspettare, di sperare, un giorno l’umanità costruirà una macchina per prenderti e attraverso il non considerabile e il non percepibile, attraverso l’indecisione e gli infiniti modi per sbagliare, errare, infine salvarti e portarti nel presente ipotetico e prometterti che da quel momento in poi tutto sarà un dolce abbraccio, vapore oltre l’orizzonte, brezza fresca, ma non esisterà mai quel presente. Forse è presto per dirtelo, forse una speranza ancora rimane nel reciproco futuro, ma purtroppo ho smesso da tempo con la speranza. Vogliono sminuirci, mortificarci, siamo impermeabili, la nostra pace è idrorepellente di fronte al loro mare di odio e inadeguatezza. Gli esseri umani sono feroci e il destino, che è la somma di tutte le loro malvagità, non può che investirti, cara Fantine, non può che prenderti, ecco la malvagità sì può, oltre tutto e oltre ogni bene, essa muove e muoverà. Ho visto più dittatori malvagi, pieni di pregiudizio, superbia, altezzosità altalenante mista a ilare sfogo bagnato dal vino, come i direttori in teatri dove si professa l’arte che libera, tutto questo non è per noi, che in centri specializzati di ordigni, dove il senso di colpa è un masso sul fianco di una collina e basta un temporale, ne basta uno solo ancora, per staccarlo e distruggere il villaggio là a valle, un villaggio di buoni agricoltori, buoni a pestare i figli con rami duri di alberi duri. E tu Fantine lo sai bene, il mondo è così semplice ma loro hanno imboccato la strada sbagliata. E vorrei sussurrarti dolci parole, resuscitarti, rinascere insieme, spostare delicatamente i fili d’erba per i nuovi percorsi dimenticati, non far riconoscere il nostro passaggio, accarezzare le ali delle libellule e volare con loro e spingerci sempre più lontano e abbracciare, vogliamo solo un caldo abbraccio. Fantine, rimane così poco alla fine dell’umanità, non c’è che il sogno collettivo, noi siamo svegli, lucidi, pragmatici, l’umanità ha sbagliato tutto, e come sempre siamo solo noi ad averlo capito.

 
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from Kenobit

XMPP E LA LIBERTÀ DI FARCI I CAZZI NOSTRI

Nella mia avventura per liberarmi da Google e in generale da tutto il software non libero che utilizzo, sono arrivato al tema della messaggistica istantanea. Esiste un servizio di messaggistica come WhatsApp e Telegram, ma che a loro differenza è rispettoso dei miei dati, della mia riservatezza e del mio diritto di sapere cosa anima il software installato sul mio telefono? Ci sono varie risposte interessanti, ma quella che mi piace di più è XMPP.

XMPP è un protocollo rodatissimo, con una lunga storia, che come il Fediverso ha una struttura decentralizzata. In pratica, laddove WhatsApp ha dei server centrali, controllati dall'azienda proprietaria (in questo caso META), XMPP è una rete di tanti piccoli e grandi server. Tutti i server possono comunicare tra di loro e chiunque può crearne uno. Il risultato è un servizio che offre le stesse feature di WhatsApp e Telegram, ma con la trasparenza del software libero. XMPP è un servizio creato dalla collettività, per la collettività, che non raccoglie dati personali e ci lascia il pieno controllo della cifratura dei nostri messaggi. Se volete scoprirlo più nel dettaglio, questo video racconta bene la storia di XMPP e include anche una splendida spiegazione del concetto di decentralizzazione. Se sapete l'inglese e avete venti minuti, ve lo consiglio di cuore.

In Italia c'è XMPP-IT, una bellissima comunità con un suo server. Nello spirito della decentralizzazione, io e FDA ne abbiamo fondato un altro, aperto a chiunque voglia usarlo. Abbiamo scelto un nome evocativo...

logo cazzi nostri

Il nostro server racchiude la sua dichiarazione di intenti nel nome. Vogliamo parlare con le nostre persone care e farci i fatti nostri, senza che qualche azienda distopica si arricchisca alle spese della nostra riservatezza. Si chiama: cazzinostri.kenobit.it

Volete iniziare a usarlo anche voi? Vi aspettiamo a braccia aperte. Farlo è molto semplice! Come spesso succede con il free software, troverete client e programmi per usare XMPP su tutte le piattaforme, da quelle desktop (Windows, MacOS e GNU/Linux) a quelle mobile (Android e iOS). Volendo, potete persino usarlo da web.

COME CREARE UN ACCOUNT

Creare un account XMPP è facile e non richiede nemmeno un numero di telefono. Avrete un nome utente, una password e niente più. Se avete un po' di pratica, il procedimento è semplicissimo: scegliete un'app per la vostra piattaforma preferita e create un account, specificando kenobit.cazzinostri.it come server (o XMPP-IT, o qualsiasi altro server vi aggradi). Non sono necessarie email di conferma e altri fastidi. Ovviamente, la password ve la dovete segnare!

Se invece è la prima volta che vi avventurate fuori dal software proprietario, vi propongo questa guida passo passo.

Cominceremo dal client web, che trovate su: https://blabla.kenobit.it/

client web

Vi basterà cliccare su Crea account e inserire i vostri dati. Il vostro nome utente sarà qualcosa di simile:

nomeutente@nome.istanza.it

Nel caso del nostro esempio, abbiamo malatesta@cazzinostri.kenobit.it.

Immaginate il vostro nome utente come se fosse un indirizzo email, anche perché il funzionamento è lo stesso. A sinistra della chiocciola c'è il vostro nome utente, a destra il server sul quale è ospitato il vostro account. Esattamente come gandalf@hotmail.it può inviare una mail a saruman@alice.it, il vostro account XMPP potrà parlare con tutti gli account di tutti i server del mondo.

Dopo averlo fatto, potrete iniziare a chattare usando il client web, ma vi consiglio di installare un buon client dedicato sul vostro computer e sul vostro telefono. Qualunque sia il vostro client, vi basterà inserire il vostro nome utente completo (come per esempio malatesta@cazzinostri.kenobit.it) e la vostra password. Su Android, consiglio l'eccellente Conversations, che potete scaricare gratuitamente da F-Droid. Se lo scaricate da Google Play Store, invece, costa 5 euro.

Su PC consiglio Gajim, tanto su GNU/Linux quanto su Windows.

Mi trovate come kenobit@cazzinostri.kenobit.it. Venite a fare due chiacchiere! E ovviamente, se vi fa piacere, invitate le vostre persone care. Il server sarà sempre gratuito e aperto a chiunque!

 
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from highway-to-shell

Questa notizia mi ha sconvolto.

Non sono assolutamente in grado di stimare il danno enorme che le mafie provocano al nostro paese in termini di morti dirette e indirette ed in termini economici. Senza mafia, camorra e 'ndrangheta il cosiddetto belpaese sarebbe veramente un paese bello in cui vivere. Invece dobbiamo fare i conti con il traffico di droga, di rifiuti, l'inquinamento ambientale, l'usura, la corruzione e con il più subdolo di tutti i mali che è la penetrazione delle mafie nell'imprenditoria con il fine ultimo del riciclaggio del denaro sporco.

A parole lo Stato combatto le mafie ma poi ogni tanto a qualche rappresentante delle istituzioni scappa la verità...in questo articolo appare evidente che le mafie vengono si combattute, ma con lo stesso impegno con cui si combattono 4 anarchici che ogni tanto vanno a tirare sassi contro i cantieri tav o che creano qualche disordine in centro il Sabato pomeriggio.

Pg Musti, massima attenzione a mafie, anarchici e antagonisti *

Sono lontano dal simpatizzare per i centri sociali ma metterli sullo stesso piano della Mafia fa capire perché non ci liberemo mai della criminalità organizzata.

#mafia #ingiustizia #italia

 
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from Kaijudol, sognare è legale

Scritto di più di 10 anni fa. Personaggio che sarebbe dovuto diventare un Hollow in un forum gdr a tema Bleach.

Time: – 01:02:25

Knok.. Knok.. Knok..

Il suono sordo di legno contro legno rimbombò nel vuoto del dojio. Il bokudo di Watanuki e del suo sensei cozzarono più e più volte prima che il maestro, con una velocità senza eguali colpì l'allievo sulla spalla destra. Aveva perso nuovamente, non c'era allenamento dove non venisse sconfitto da Ryuken, un anziano signore sulla settantina, dai i capelli canutei, dall'aria innocua e gentile. Sembrava uno di quei vecchietti che si siedono sul bordo della strada ad osservare i cantieri, mentre in realta', il suo aspetto nascondeva uno dei più grandi maestri di kendo di tutto il Giappone o forse del mondo. Come si dice: mai giudicare un libro dalla copertina. Minamino mise la spada sul fianco e fece un profondo inchino al suo avversario, poi si allontano' continuando ad allenarsi da solo. Ripeté molte volte il kata, per renderlo più fluido e armonioso. Faceva sempre questo esercizio, alla fine della sessione di allenamenti, per sciogliere i muscoli e concentrarsi sugli errori compiuti nei combattimenti. Quando terminò l'ultimo movimento, era madido di sudore. Si guardò attorno e constatò di essere solo. Era sempre l'ultimo ad abbandonare gli allenamenti, nessuno sembrava prenderli con la stessa serietà. Fece un lungo respiro, per scacciare la stanchezza, poi raccolse la sua roba e si diresse verso gli spogliatoi.

Time: – 00:11:14

Una doccia calda aveva sciacquato via, oltre che il sudore, anche la fatica degli allenamenti. Ora Watanuki si sentiva soddisfatto, ma comunque il suo corpo anelava il dovuto riposo. Apri il suo armadietto di metallo grigio, il numero diciannove, per raccogliere la borsa con i libri scolastici e le scarpe, ma una strana sensazione si impossessò di lui, un formicolio alla base della nuca. Si sentiva osservato. Una sensazione spiacevole e ricorrente che provava da quando aveva iniziato l'università di giurisprudenza, lì aveva imparato a conviverci, ma che non aveva mai provato quel disagio nel suo dojo, figurarsi nello spogliatoio. Per lui quello era un luogo sacro, che sentiva profanato. Era in gabbia. Si sentiva tra le grinfie di qualcuno che non voleva lasciarlo andare. Era colpa sua, lo sapeva bene, aveva compiuto un solo errore, stupido e banale, l'errore di considerare Valentyne più del dovuto. Tutto era successo, un mese prima.

Time: – 841:12:53

Sentiva gli sguardi invidiosi dei compagni di corso, ci era abituato, ormai era una sensazione con la quale conviveva fin da quando era bambino. Watanuki se ne stava da solo, isolato dal resto dei compagni che bisbigliando, si prendevano gioco di lui. Ma lui non aveva nulla da spartire con “quelli”, frequentava l'università per studiare, per imparare qualcosa, non per fare amicizia. Come al solito non ci fece caso e si concentrò sulla lezione. Ma quel giorno la sensazione era più fastidiosa e intensa del solito. Una volta iniziata la lezione, quella fastidiosa senzazione spariva, ma mano che il professore parlava, l'attenzione che catalizzava si spostava sul docente e Minamino sentiva la pressione svanire. Non quel giorno, qualcuno continuava a fissarlo, lo sentiva, anche se non poteva vederlo, quel formicolio alla base della nuca non pareva lasciarlo in pace. Si osservo intorno per vedere da dove provenisse quella fonte così pesante e fastidiosa. Non fece fatica a trovarla. In uno degli ultimi banchi dell'aula c'era una ragazza, molto bella: occhi grandi e color nocciola, capelli lunghi e neri che si posavano dolcemente sulle spalle, un viso pulito e due guance dal colorito sano. Incrociarono gli sguardi e lei sorrise. Lui dopo averla osservata qualche momento distolse so sguardo con fare distaccato e continuo a seguire il professore.

La lezione fini. La ragazza si avvicino a Watanuki e si presento'. Si chiamava Valentyne, sua madre era giapponese, mentre il padre era un francese, profumava di ciliegia. Era la solita ragazza superficiale che pensa solo al suo aspetto fisico, vuota e priva di contenuti. Ma era bella. Ogni tanto si concedeva qualche scappatella con belle ragazze per allentare la tensione prima di un esame o un prova difficile. E cosi' fece. La sedusse e una sera la porto' in un love motel. Fu una splendida notte per entrambi. Ma quel magico momento termino con l'atto sessuale. Watanuki si lavò, poi si rivestì, ringraziò la ragazza e stava per andarsene, quando la giovane lo trattenne cominciando un discorso sulle coincidenze, il destino e l'amore. Minamino la liquidò dicendo che oltre al sesso non c'era stato nulla di più. La salutò e se ne andò. Per lui era finita li, ovviamente , per lei non lo era.

Time: – 6:34:10

Chiuse il suo armadietto dopo aver preso la borsa di scuola e riposto ordinatamente il suo equipaggiamento. Andò nuovamente verso lo specchio per pettinarsi prima di uscire e la vide. Oltre alla sua immagine riflessa c'era anche quella di una ragazza. La conosceva bene, ma non si aspettava di vederla nel dojo, anzi, si aspettava di non vederla mia più. Si era espresso con parole semplici e comprensibili anche da una mente limitata come la sua, ma evidentemente non erano giunte all'obbiettivo. Valentyne continuava a perseguitarlo. Messaggi, mail, lettere, chiamata nel cuore della notte, lo stava ossessionando. Maledì il giorno in cui decise di sedurla.

<> Disse voltandosi verso la ragazza, sarebbe stato l'ultimo sguardo che gli avrebbe rivolto.

<> Lo guardò con un aria innocente e pura.

Chiuse gli occhi e scosse la testa, quei discorsi gli erano del tutto indifferenti. Amore, quella parola era una sconosciuta nella sua vita e sarebbe restata tale. Non sopportava quelle persone, in realtà non sopportava le persone in generale, l'avrebbe liquidata per sempre, non voleva più averla tra i piedi. Distolse lo sguardo dalla ragazza, considerando il discorso chiuso, si sedette sulla panca e cominciò ad allacciarsi le scarpe, ma comunque rivolse ancora qualche parola a Valentyne:

<>

Si allacciò anche la seconda scarpa. Valentyne colse l'occasione e si gettò su di lui e lo abbraccio da dietro. Watanuki reagì velocemente e con una spinta la scostò violentemente. La ragazza caddè sul pavimento ma senza conseguenze dolorose. Minamino non riuscì nel intento di non rivolgerli più lo sguardo e lo vide. Un coltello. Valentine lo teneva nella mano tremante ed era sporco di sangue.

“Deve avermi graffiato.” Pensò toccandosi le braccia, per poi salire fino al collo.

Sentì la parte sinistra del collo bagnata. Si osservò le mani e le vide grondanti di sangue. Istintivamente si portò le mani sulla ferita per tamponarla, ora cominciava a sentire il dolore, probabilemente a causa dell'adrenalina dovuta all'aggressione, non aveva sentito l'arma penetrargli nel collo.

<> Questo avrebbe voluto urlargli, ma dalla sua bocca uscì solo un gorgoglio e del sangue.

Man mano che il liquido vermiglio usciva dal suo corpo e sporcava i suoi vestiti puliti, sentiva le forze che lo abbandonava. Faticava a respirare causa del sangue nella bocca. Guardò verso la sua assalitrice. Lei si avvicinò piano piano, con il volto rigato di lacrime. Si accucciò verso di lui e gli sussurrò:

<>

Watanuki non riusciva più a muoversi ormai la sua vita stava finendo. Riusci solamente a formulare un pensiero, tra i dolori che lo assalivano:

<>

Time: – 00:00:01

Time: – 00:00:00

Time: + 00:00:01

Doveva essere morto e invece non lo era. Si trovava in un dojo, familiare ma i suoi ricordi erano così confusi, sentiva la testa pesante e i pensieri appannati. Fisicamente stava bene, si portò le mani al collo, come per controllare il suo stato. Tutto normale. Solo il petto gli doleva, appoggiò le mani su di esso e ci trovò un freddo pezzo di metallo. Una catena. Per giunta spezzata. Capiva sempre meno. Era in una situazione assurda, confuso e dolorante cominciò ad osservarsi in giro e finalmente lo vide. Il suo corpo, coricato per terra, in un lago di sangue. Era morto? Come mai si sentiva vivo? Cos'era quella catena? Troppe domande e nessuna risposta.

 
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from highway-to-shell

Il trauma da rientro dalle vacanze lo vivono tutti ma quelli che tornano a Torino dopo essere stati in Svizzera e Germania lo vivono un po' di più. Torino –> Losanna –> Berna –> Friburgo e poi Torino.

Non ci sono merde di cane sui marciapiedi. Ok, cani se ne vedono molti meno, ma evidentemente i padroni sono tutti estremamente educati. Tutto comunica una sensazione di pulizia, dai bagni pubblici alle panchine. Il centro città è popolato da pedoni, biciclette, monopattini e mezzi pubblici: LE AUTOMOBILI NON CI SONO.

Posso capire che in passato le amministrazioni che si sono succedute abbiano favorito il trasporto privato su quattro ruote trascurando tutto il resto: Torino era la città dell'auto e l'industria automobilistica dava da mangiare a decine di migliaia di famiglie. Ma adesso che Torino è la capitale del nulla qualche sforzo per pulire l'aria e rendere la città leggermente più vivibile si potrebbe pure fare.

In compenso gli italiani hanno un senso dell'umorismo molto sviluppato rispetto a svizzeri e tedeschi e si spiega facilmente il perché, basta pensare ad una delle scene più comiche della cinematografia mondiale, quella dove Fantozzi prende l'autobus al volo: all'estero non fa ridere, non la capiscono, perché gli autobus passano regolarmente e non sono mai strapieni. Gli italiani hanno sviluppato un forte senso dell'ironia per sopravvivere al proprio paese, peccato che a Torino ci siano i torinesi, i più tristi-riservati-mogi-seriosi-con-la-scopa-nel tra gli italiani.

#vacanze #automobili #torino

 
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from Taccuini in versi

Per imparare a volare servon pazienza e potenza Dai, voglio provare solo aiutami a sballare.

Ti prego, amato cuore, porta via me e il buio tutto col tuo dolce abbraccio; stelle volano sopra noi campi nei nostri capelli scrollati via il sentire spogliami dai miei strati canta una canzone ripiena, una ninna-nanna ai tronchi.

Gialla strada di case riflette il canale la notte copre gli occhi miei nella radiosità dei twink

  • QUESTO è successo perché tu non mi hai oliato -

Gialle strisce lungo il fiume paradiso nero e blu; la mia amante si masturba nella doccia mentre guardo; sentimentali caffè, vini, cuoio su cuoio, bagnato albero di ciliegie

Sfreccia attraverso porte aperte, scavalca recinzioni rompendoti il piede - l'alba arrossisce sopra noi: sarà questo un valzer o una fuga per due?

Ti prego lascia che i miei occhi cantino una canzone di dolore mentre i miei ricordi lacrimano macchiando campi di fiori con una tinta sanguigna di infezione batterica

Ti prego cura le mie ferite di libertà con quel sorriso che fa sbiancare il blues nelle mie ossa, cura il mio guscio rotto mentre voli sugli avorii graziosa come un gatto - lecca via la mia anima mordi via la mia mente mangiucchia via i miei muscoli

Ti prego, distruggimi così trasforma e dimentica.

 
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from Taccuini in versi

Learning to fly takes patience and might Let's give it a try just help me get high.

Please, dearest heart, take me away and all of the dark in your sweet embrace; stars fly above us fields in our wild hair shake the feeling off peel me from my layers sing a song of fullness, a lullaby of trees.

Yellow road of houses mirroring the canal night covers my eyes in the brilliance of twinks

  • THIS happened because you didn't oil me -

Yellow streaks down the river black and blue paradise; my lover's masturbating in the shower while I watch; sentimental coffee, wine, leather on leather, wet cherry trees.

Blast through open doors, jump over fences breaking your toes - dawn blushes above us: a waltz shall this be or a fugue for two?

Please let my eyes sing a song of sorrow while memories weep down my face staining flower fields with a bloody tint of bacterial infection

Please tend to my freedom wounds with that smile that scares the blues out of my bones, tend to my broken shell while flying off of ivories graceful as a cat - lick my soul apart nick my brain away snack my muscles down

Please, destroy me so transform and forget.

 
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from Taccuini in versi

Prima del sorger dell'aurora partorito dal letto è il mio vespro, errando per campagne e letamaie giungo infin all'alvear d'acciaio; non v'è ora retta via nel tardivo annuncio del partire di un mafioso questo posto il nome, stallo nella fuga verso il Nord.

Matcha Latte, terzo millennio, fusion gluten free sovrapprezzata – ecco perché non avrò più fame, lillipuziane porzioni son d'uso.

Sono passati troppi/pochi minuti.

A fag smoking a fag in segregation rooms with yellowed walls pals whose fire doesn't start

Sarò tra i primi al fotofinish seppur di sogni le mie palpebre furono tinte. I speak no language.

Due occhi nocciola seguono il sorriso mio dalle rotaie storpiato, mosso, arrangiato, ma baby non teme, si fissa su labbra, boccoli, naso antico rosa antica – la dama del fiume rossa e oro e blu, nasce da un'ostrica come Venere Salmastra.

Spazi oscillanti di malinconia vengono e vengono e vengono nella caverna mia del traditore trascendono piani e divani let's give birth to a semi-god please, fill me and drain me make me faint at the sigh of your heart

Essere transiente —– sovente esplodono in bolle di sentientia che tremar godimento li fan.

 
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from Pensieri di Pollo

Tekkon Kinkreet è la storia di due gatti randagi, Kuro e Shiro.

Due orfani che vivono in un'auto e passano la loro vita tra le strade dei quartieri più malfamati della città di Takaracho, un luogo spietato in cui la violenza è l'unica lingua parlata.

Poliziotti corrotti, imprenditori spietati, yakuza falliti, e poi i due fratelli, che si rifiutano di subire Takaracho, ma che anzi nel loro modo di vedere il mondo la difendono a suon di mazzate inferte a chiunque non gli vada a genio.

Matsumoto, con il suo tratto mai così sporco e nervoso, accompagna un racconto di crescita che suona come un blues, un rapporto viscerale fatto di equilibri fragili e di fratture, una città camaleontica, caotica e in cui convivono la violenza cieca ma anche germogli di inattesa speranza.

 
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from Lelio

Questa sarà una condivisione probabilmente disordinata

Ho avuto un'esperienza che per la prima volta da anni mi ha fatto vedere da fuori come appaio io e il mio comportamento. È stata una cosa gentile, come specchiarsi nel proprio riflesso in un laghetto.

Ultimamente ho una febbre creativa, da circa un mese a dir la verità. Sto vivendo un po' come un vagabondo, facendo qualche lavoretto ogni tanto e cercando di tenermi strette le mance. È liberatorio, rilassante, nutriente per il mio vulcano creativo interiore ma anche estenuante a livello sociale ed emotivo. Beh tutti questi stimoli attivano un sacco il mio cervello. E ormai è una costante esperire queste attivazioni. Ma per un po' avevano un fare capriccioso: restavano sopite per settimane e poi esplodevano violentemente lasciandomi sconvolto. Incanalo il mio delirio in ciò che creo e di conseguenza me lo riassorbo senza paura, al massimo un po' di confusione (ma chi non sarebbe confuso a vedere la gente che ti parla e non sentire le loro parole? O dal nulla vedere la scia di cose in movimento come in un quadro futurista?). Dimentico l'ordine che rende il mio lessico comprensibile e cose semplici mi affascinano i sensi.

Mi trovo a chiedermi cosa succederebbe se sparissi e basta. Non in senso perenne, solo un viaggetto di cui non direi niente a nessuno, in un luogo solo a me conosciuto, allontanandomi dalla tecnologia. Mia madre andrebbe di sicuro nel panico. Però mi trovo sempre più spesso ad averne bisogno. Adesso sono in treno. Ho una fermata e un impegno, ma potrei semplicemente non scendere e cambiare al capolinea senza fornire spiegazioni.

I binari sono lunghi e tesi e il paesaggio ha colori così diversi che mi sembra di non aver mai percorso questa tratta. Ci sono container piegati e strappati come tende di stoffa. Le risaie verdeggiano. Case vecchie hanno appena ricevuto una nuova mano di intonaco. Mi rendo conto di avere un odore. Non mi piace, anche se sono sicuro di aver messo il deodorante e di star indossando una maglia pulita. Perché non sono a pucciarmi nel Ticino come le persone sane di mente con questo caldo? Sono vicino al luogo dove ho portato il moroso a infrattarsi come due adolescenti. Sedili reclinati, finestrini appannati. Ho abbastanza partner da far sì che queste condivisioni siano anonime. Oggi mentre andavo dallo psichiatra ho incontrato una vecchia fiamma che, come al solito, aveva tanto bisogno di compagnia e ha insistito per fare un pezzo di strada con me. Ciò mi ha impedito di vagabondare e sono arrivato venti minuti in anticipo (la seduta è poi iniziata con 15 minuti di ritardo). Mi devo ricordare che abbiamo chiuso per divergenze erotiche e non perché ho smesso di ritenere utile il nostro rapporto. Chi mi vuole guardare mi trova essere un libro aperto, o quantomeno facilmente sfogliabile. E non mi sto dicendo questo da solo per tessermi lodi, ma come promemoria per quando mi sento un egoista manipolatore perché ogni giorno devo trovarmi un modo diverso per darmi addosso e ultimamente è così.

Mi fanno ridere le pareti. Toccarle. Sono estremamente interessanti. De-realizzazione, mi ritraggo in autostop. La mia autoconsapevolezza mi fa interpretare il mondo come composto da diversi strati di realtà. Purtroppo quella che è “reale” in senso comune è quella un poco più grigia per me. Ci ho scritto un poema in tre libri su questo concetto. Dovrei rimetterci mano e pubblicarlo sul serio (e toglierlo da Wattpad che è sotto deadname). Mi sembra di non essere mai passato da queste stazioni, sono sulla linea giusta? Lo scoprirò. Oggi i paesi non sembrano i soliti. Le piante mutano, ma i paesaggi dovrebbero essere più o meno uguali a settimana scorsa. Sarà la luce? La fame? Questa risata che mi monta dentro e che mi devo concentrare un sacco a non far emergere se non ho il naso in un libro?

...

Anche il telefono è forma di intrattenimento e potrei star ridendo per dei meme. La mia risata libera sembra un pianto e mi sento giudicato.

Pensa avere una dermatite psicosomatica per sei anni per colpa del tuo cantante. Spero di non causare disturbi simili ai miei musicisti. A parte che sono io quello psicosomatico. Il bassista potrebbe semplicemente tirarmi un pugno. I chitarristi chissà, sopporterebbero. Il batterista mi sfugge, adoro come suona ma chissà se dura.

Stasera gioverei di un po' di yoga. Non ho altro da dire.

 
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from Il Mago Rosso

Una cosa che desideravo da tanto tempo era provare l'ebbrezza di allevare un Digimon e finalmente da poco più di un mese sono un felice possessore di Digimon X.

A conti fatti si tratta di un Tamagotchi, prodotto sempre da Bandai, con tante funzioni interessanti in più, come la possibilità di allevare fino a tre bestie digitali, farle crescere ed evolvere, nonché farle combattere in modalità storia e contro degli amici reali.

Questo ha gettato le basi per la fortunata serie a cartoni animati Digimon Adventure, che quest'anno compie venticinque anni ed è stato celebrato con un video sul canale ufficiale YouTube, e una valanga di altri prodotti, su tutti le carte collezionabili e numerosi videogiochi.

Il mio Digimon X

Il mio Digimon

All'accensione del dispositivo compare un digiuovo che dopo un minuto si schiude. Ne è uscito un grazioso Keemon. Stando alla descrizione su Wikimon è un dispettoso solitario, un'anima affine a quello che piace a me nei giochi di allevamento mostriciattoli. Infatti anche con i Pokémon ho un debole per i problematici e i bistrattati come Slowpoke, Wobbuffet, Psyduck, il sacco da pugile che io ho chiamato Boto, la sua evoluzione sumo/samurai che ho chiamato Super Boto e quel drago appiccicoso che è della quarta generazione e quindi dalla terza in poi non mi ricordo i nomi veri, ma al massimo i soprannomi che gli ho dato.

Ecco Keemon:

Odia stare in mezzo alla folla e tende a nascondersi. Da un luogo appartato gli piace infastidire gli altri, sparando con una pistola d'acqua piena di vernice.

Keemon

Adorabile, vero?

La crescita

Prendendomene cura con mooolta calma, sono riuscito a non farlo mai morire di fame, sebbene qualche batosta dalle battaglie in modalità storia l'abbia presa. Questo perché, a differenza del Tamagotchi, è possibile fermare il tempo, letteralmente chiudendo il digimon in un congelatore. Così se ci si ricorda di farlo quando si esce per qualche ora e non si può tenere costantemente d'occhio, non si rischia negligenza nel caso implorasse cibo o sporcasse il micro schermo del dispositivo con quintali di cacca.

Sì, fa la cacca.

Una costante del Tamagotchi e visto spesso anche nei cartoni e nei videogiochi.

Ecco qui il mio Keemon in tutta la sua insolenza:

Ecco qui il mio Keemon in tutta la sua insolenza

Poi ho smesso di fargli foto, non sono uno che crea interi album fotografici delle proprie bestie.

In seguito si è evoluto più volte, diventando:

Yarmon Sempre secondo Wikimon, sembrerebbe un altro simpatico disadattato, infatti:

La sua personalità è contorta e quando trova un Digimon che si diverte lo imbratta con l'inchiostro sparando dalla bocca il suo “Paint splash”. Yarmon si diverte a vedere il Digimon stupito.

Yarmon

Gomamon X

Mi piaceva molto Gomamon nel cartone, anche se all'epoca il mio preferito dei prescelti era Gabumon e la sua linea evolutiva, che diventava un dannatissimo lupo mannaro corazzato. Con la serie Adventure Tri mi sono ricreduto e sono tornato a preferire la linea di Gomamon perché dopo lo stadio evolutivo di un tartatricheco armato di martello da guerra finalmente si scopre la sua forma definitiva ed è un barboncino vichingo sotto steroidi con elmo e mazze ferrate. Dai. Perciò immaginate la mia gioia nell'aver visto che il mio digimon diventava proprio Gomamon.

Gomamon X

Poi è arrivato quel fighissimo Mantaraymon X che non avevo mai visto prima, ma mi piace moltissimo il suo design.

Mantaraymon X

Poi devo aver combinato qualche disastro, magari alcune disattenzioni, forse ha perso troppe volte in battaglia, ma ha preso una direzione oscura e malvagia, diventando uno scarafaggio gigante Okuwamon X. Ma siccome «Ogni scarrafone è bello a mamma sua», gli ho voluto bene lo stesso.

Okuwamon X

Ormai la direzione della malvagità è presa e lo scarrafone è diventato praticamente un'illustrazione di copertina per la rivista di fumetti Heavy Metal: Beel Starmon X.

Beel Starmon X

Oggi è il 1° agosto e Beel Starmon X ha raggiunto il livello 10. Significa che la sua ultima evoluzione è alle porte. Cosa diventerà?

Potrei scoprirlo seguendo Digitama Hatchery, che diventa il manuale d'uso (assente nella confezione) e un'utilissima guida alla crescita dei digimon, che però ho volutamente ignorato perché volevo godermi i risultati del mio impegno. Magari per il secondo digimon gli darò un'occhiata più approfondita.

Piccolo spoiler. La mia recente ricaduta nel mondo dei digimon non è fine a se stessa, ma di questo se ne parlerà prossimamente.

 
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from Pensieri di Pollo

Il perdere la propria umanità è colpa del singolo o la conseguenza di un contesto inumano?

È a questa domanda che Kate Beaton cerca di rispondere con “Ducks”, racconto autobiografico a fumetti edito in Italia da Bao Publishing.

L'autrice infatti, una volta terminati gli studi, decide di ripagare immediatamente il debito studentesco emigrando per lavorare nei giacimenti di petrolio dell'Alberta, la terra promessa canadese degli anni '00 per i guadagni facili e sicuri.

Il contesto in cui sprofonda lentamente ma inesorabilmente è quello di un ambiente alienante, isolato da quello che lei stessa più volte considera essere il “mondo reale”, grigio proprio come le tavole del fumetto.

È altresì un ambiente a forte prevalenza maschile, e questo è un elemento chiave nel comprendere la potenza del racconto. Kate è una delle pochissime donne presenti nello stabilimento e diventa costante preda di oggettificazione, molestie e violenze così ripetute e normalizzate da entrarle nell'anima.

Al sessismo estenuante si affiancano problematiche di cui i grandi capi dello stabilimento non parlano, più preoccupati a festeggiare un tot numero di ore senza incidenti-cause di perdite di tempo: la malattia mentale, la depressione, l'abuso di droghe, la salute fisica di chi è costretto a respirare un'aria inevitabilmente contaminata.

L'autrice però non scrive un'opera di denuncia sulla violenza di genere fine a se stessa, ma cerca appunto di riflettere su chi detiene veramente la colpa: il singolo operaio alienato dal contesto o chi questo contesto lo costruisce e concede, ponendo il profitto al primissimo posto?

Ducks è in questo senso un grande lavoro sulle zone grigie e su come sia fondamentale il discorso attorno alla cultura patriarcale non tanto per attaccare il singolo uomo o i maschi tutti (anzi, nell'opera stessa si ribadisce che gran parte degli operai non ha mai mostrato comportamenti tossici nei confronti delle operaie), quanto per demolire un sistema deleterio, logorante e più connesso al capitalismo sfrenato di quanto si creda.

 
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