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from La casa sulla ferrovia

Noodles piccanti e gioco d’azzardo

Quando le finanze me lo permettevano nella pausa pranzo o tra un capitolo e l’altro della tesi mi dirigevo verso la famiglia che mi aveva confortato a suo modo durante il mio sfratto e mi aveva mandato alla casa sulla ferrovia. Inizialmente lo facevo perché mi sentivo in debito con loro, dopo mi sembrava di mangiare in famiglia. Quando entrai mi diressi diretto al mio solito tavolo, tra fogli e penne due occhi mi fissavano. Un sorriso spuntava genuino. -Ciao. -Ciao Xiao. Si rimise a scrivere. Poco dopo arrivò la ragazza con la coda che mi prese l’ordine. Non sapevo dirle di no, una vera venditrice sorriso bonario, chiacchieravamo piacevolmente di the e vacanze che forse mai avremmo fatto. Sognare non costava nulla. Quando arrivò il mio ordine la ragazzina mi guardò incuriosita e mettendo i fogli e libri da parte si alzò e si diresse verso la cucina, poco dopo tornò con un piatto simile al mio. -Mi hai ispirato. Mangiammo il nostro piatto in silenzio. Quando improvvisamente comparve la terza figura che conoscevo da poco. Frangetta, occhiali rotondi e sguardo perforante, quando mi parlava era un confrontarsi su quello che la vita ci aveva riservato. Si sedette con noi con un piatto di noodles fumante. -Vuoi provarli? Sono noodles piccanti Coreani. Come avrei potuto dire di no? Prima ancora che potessi cambiare idea era già davanti a me, piccoli pezzi di peperoncino spuntavo dal brodo. Guardandomi fisso negli occhi mi diede un augurio di buona fortuna. Cominciai a pentirmi della mia scelta. Assaggiai il mio piatto e ci volle tutta la mia fermezza e compostezza per non affogare la lingua nel bicchiere di acqua gelata davanti a me. Con calma finì il mio secondo piatto, la ragazza soddisfatta della mia forza di spirito mi sorrise e chiacchierammo fino a che non tornò a sbrigare alcune commissioni. Tutto questo successe in meno di mezzora.

Un uomo entrò nel bar chiedendo un gratta e vinci. Vinse cinque euro che subito rigiocò con un altra schedina. Non vinse più nulla. Io e la ragazzina lo stavamo osservando. -Che cosa pensi dei gratta e vinci? -Non saprei, non ci ho mai pensato, davvero. -Penso proprio che sia come la pirite, oro per gli sciocchi. Riflettei in silenzio, quella sentenza aveva un fondo di verità. -Sai quante probabilità ci sono di beccare biglietto vincente? Davvero basse. Cioè, poi li vedi. Disse abbassando la voce. -Appena vincono ne comprano subito degli altri che poi non sono vincenti. Non capisco proprio il senso di fare una cosa del genere. -Il senso di ignoto è allettante. -Tu hai mai giocato d’azzardo? Disse con sguardo indagatore. -No, non mi ha mai interessato. -Non pensi che la vita sia un gioco d’azzardo? Ti svegli la mattina e non sai cosa potrebbe capitare. E’ un po’ come se i soldi fossero il nostro tempo, tu li usi, ma non sai se ti daranno dei frutti. Una volta dato il tuo tempo non si torna indietro. Riflettei su quelle parole e le diedi ragione. Stavo sprecando il mio tempo? Lo avevo fatto in passato e ora cercavo di rincorrerlo prima che fosse troppo tardi.
La ragazzina poco dopo tornò ai suoi libri. Io uscì e mi diressi verso la biblioteca, dovevo recuperare il tempo perduto.

 
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from La casa sulla ferrovia

La lunga salita

Amore incondizionato

Dopo alcuni giorni che abitavo dalle zie mi chiesero di accompagnare Francesca “nella parte alta del paese”. Violet Hill aveva due facce, una parte di città si estendeva tutta intorno al lago, mentre la parte più antica era situata su un piccolo promontorio. Per arrivarci, se non avevi la macchina, dovevi prendere una piccola cabina su binari che lentamente ti conduceva alla meta. Ovviamente nessuno di noi possedeva una macchina, tantomeno le zie. Mi dissero che servivano degli attrezzi da giardinaggio, feci notare con più educazione possibile che c’erano altri negozi a Violet Hill, molto più comodi. Non ci fu nulla da fare, come li avevano lì non c’erano da nessuna altra parte. Mi arresi, chiamai Francesca e ci dirigemmo verso la piccola cabina su binari. Lei allegra come sempre mi faceva cento domande, io rispondevo, ma mai le avevo chiesto nulla, che forse tutte le sue domande aspettassero altre domande piuttosto che risposte? -Cosa ci fai alla casa sulla ferrovia? Chiesi di botto mentre la piccola stazione compariva davanti a noi. Lei mi guardò con il solito sorriso di sempre. -A casa mia non stavo bene, così mi sono trovata un lavoro part time in un supermercato. Cerco di vivere senza l’aiuto di nessuno. -I tuoi genitori ti facevano pesare il fatto di mantenerti? Lei sospirò come se avessi aperto un vaso di Pandora, a volte mi odiavo per le mie domande dirette, ma ero fatto così, quando cercavo di capire una persona andavo sino in fondo. -Ogni ora, ogni giorno da quando ho memoria, non sono mai stata abbastanza, un peso, ma le ferite le ho sempre trasformate in sorriso. Quando mi sono decisa a non farmi più male ho preso un treno con pochi soldi e pochi vestiti, sono scesa a Violet Hill. -Una vera fortuna. Dissi io sarcastico. Lei rise -Lo è stato perché ho trovato la casa delle zie, mi hanno aiutata, accudita. In un anno mi hanno dato più amore che in diciannove i miei genitori. Annuì in silenzio. Sempre in silenzio arrivammo alla cabina, un signore sulla sessantina con una cappello da ferroviere ci salutò e ci fece segno di salire. – Tra poco partiremo. Disse tra i baffi ingialliti dalla sigaretta che stava fumando. Era mattina, i turisti sarebbero arrivati tra almeno un mese. Eravamo gli unici seduti sulla legnose panche. -Probabilmente deve finire la sigaretta. Disse a bassa voce Francesca. Risi. Salimmo e aspettammo che l’uomo finisse le sue boccate. Buttò nel posacenere di bronzo il mozzicone e si diresse verso la cabina di comando. Tirò la leva e il cigolio cominciò. -Sei mai salito ultimamente? Chiese la ragazza sporgendosi dal finestrino ammirando il panorama del lago che cominciava a spuntare tra le piante. -Solo quando ero piccolo. Ogni tanto i miei genitori mi portavano. -Non li vedi spesso vero? -Se gli dicessi che sono in difficoltà mi darebbero tutto quello di cui ho bisogno, ma gli ho preso già troppo nella mia vita e senza risultati che mi abbiano soddisfatto. Ho deciso di non chiedere più nulla loro. -Onesto. Disse senza guardami. -Avrei voluto avere io la tua fortuna. Continuò. -A volte non ci si accorge della fortuna che si ha. Pensai che non avrei potuto trovare una frase più scontata, ma sentivo che era la verità. -L’importante è accorgersene in tempo. Si girò verso di me facendomi l’occhiolino.
Ripetei la sua frase nella mente mentre la luce del sole rifletteva sull’acqua del lago formando tante piccole stelle diurne. Dopo venti muniti ci trovammo nella piazza principale di Violet Hill alta. L’uomo dai gialli baffi ci disse che l’ultima corsa era alle diciassette. Sperai con tutto il cuore di non rimanere lì così tanto, sarei dovuto andare in biblioteca a continuare la tesi. Lo ringraziammo dell’informazione e Francesca mi fece strada verso il negozio in cui le zie ci avevano mandato. -Che poi mi chiedo che cosa abbia questo negozio in più di quelli al piano di sotto. Dissi ad alta voce, non ebbi risposta.
Entrammo, l’aria era calda e viziata. Maceti di ferro appesi alle pareti mi ricordavano un mattatoio degli anni ’20. Rabbrividì. Francesca davanti a me si destreggiava leggera come volpe che evita tutte le morse messe dai cacciatori. Io per poco non urtai un rastrello appoggiato tra latte di vernice, scatole di chiodi e cassette degli attrezzi in sconto. Imprecai nella mente. Raggiunsi la ragazza che al balcone suonò un campanello da Hotel, le tremava la mano. Dal retro del negozio comparve un ragazzo che avrà avuto la sua età. Sorrise e ci diede il buongiorno. Mi avvicinai al bancone ma prima che potessi dire che cosa ci serviva Francesca aveva già sciorinato tutta la lista in meno di 0,5 secondi netti. Il ragazzo le sorrise e le chiese come stava mentre prendeva vicino a lui i primi oggetti della lista. -Cosa vuoi che ti dica. Disse appoggiandosi ad una latta lì vicino. -Si tira avanti, supermercato, commissioni per le zie, portare a spasso gli anziani. Disse indicandomi. Il ragazzo rise di gusto. -E’ un nuovo ospite della casa e in effetti non è così vecchio dai. Disse dandomi una gomitata sul fianco. -Sono Ben, piacere. -Io sono Mattia, molto piacere. Disse in modo educato, ma subito mi ignorò per tornare a chiedere a Francesca delle sue gaffe al supermercato. Lei arrossì e ne raccontò un paio. Mi girai osservando un vaso pacchiano da giardino per non crearle ancora più imbarazzo. Mentre il ragazzo esaudiva tutte le richieste di Francesca li guardai parlare e capì che cosa aveva quel negozio in più degli altri. Solo dopo qualche tempo mi resi conto del perché le zie mi mandarono con lei. Era arrivato il tempo di pagare, Francesca avrebbe voluto tergiversare ancora, come anche il ragazzo, ma entrarono altri due clienti e la magia si interruppe. Mentre le dava lo scontrino le chiese se sarebbe andata quella sera alla festa delle viole. Dj set, balli occitani, cibo e vino. Arrossendo gli disse che ci avrebbe pensato. Lo sguardo di lui era un misto tra il confuso e il deluso. Francesca prese tutto l’arsenale, me lo diede talmente in fretta che per poco mi cadde e uscì velocemente dal negozio. Nel mentre nella mia mente imprecai perché quella sera avevo promesso alla pro loco di fare delle foto. Me ne ero completamente dimenticato. -Neppure mezzogiorno è già è due volte che mi maledico, andiamo bene. Pensai Raggiunsi Francesca fuori dal negozio che guardava lungo la via colpendosi la testa con la mano. -Non mi sembrava così male la proposta del ragazzo. Provai a dire. Lei si girò di scatto verso di me. -Voglio una granita. Perplesso l’accompagnai al primo gelataio che trovammo. Faceva più caldo rispetto a quando eravamo partiti da case delle zie. Prese le due granite ci sedemmo su una panchina sul belvedere. Francesca bevve rumorosamente dalla cannuccia il liquido gelato al gusto di fragola, io giravo la cannuccia con fare nervoso. -Che cosa sai dell’amore Ben? Chiese con la cannuccia in bocca guardando la ghiaia sotto di lei. -Che è un casino. -Non è la prima volta che quel ragazzo mi invita ad uscire o ad una festa, ma io non gli ho mai risposto chiaramente. -Forse oggi è la volta buona. -Tu hai mai amato qualcuno? -Una volta. Tanto tempo fa. -Ho sempre pensato che l’amore fosse un dono. Donare all’altra persona una parte di te senza aspettarsi nulla in cambio. Disse sempre senza staccare gli occhi dal terreno. -Ma se tu dai tutto e l’altro non ti da niente in cambio come puoi chiamarlo amore? Dissi con fermezza egoistica. -Me lo sono chiesta anche io tante volte. Che cosa mi spingesse ad amare incondizionatamente persone che nulla mi davano. Eppure ancora adesso quando penso ai miei genitori non posso che provare un misto tra amore e odio. Aspirò del liquido con ancora più rumore. -Vedo me in quel ragazzo, continua a chiedermi di vederci senza che abbia nulla in cambio. -Tu non sei i tuoi genitori Francesca, ognuno di noi sceglie chi essere non lo diventa per genetica o per l’educazione che riceve. Lei mi guardò come se avessi capito tutti i suoi dubbi. -Ho paura di godere dell’amore di una persona senza mai dargli quello davvero merita. Restammo qualche minuto in silenzio guardando il panorama. -Forse l’amore è proprio quello che dici tu, entrambi donano una parte di sé. E’ un gioco di anime che si legano tra di loro fondendosi senza pensare a chi ha dato cosa. Vivono dell’altro. Questo è l’amore incondizionato. Dissi mentre guardavo il ghiaccio sciogliersi nel bicchiere di plastica. -Hai ragione, l’amore è un gran casino. Dovrei andare stasera? -La risposta la sai già. Dissi facendo l’occhiolino. Lei sorrise come era suoi solito fare, un sorriso sincero che non nasconde malizia. -Ho paura. -Tutti ne abbiamo, superarla significa avvicinarsi sempre di più a quello che vogliamo davvero. Stasera ci sarò anche io, se ti mette la mani addosso ci penso io. Ridemmo insieme mentre il vento faceva danzare le ombre delle foglie colpite dal sole. -Grazie per avermi ascoltata. Disse con un filo di voce. Francesca mi disse di aspettarla che sarebbe andata a dire al ragazzo che accettava il suo invito. Mentre l’aspettavo pensai a quello che le avevo detto. Mi sentivo un’ipocrita. Erano cose che pensavo ma che mai avevo trasformato in azioni. Quante volte avrei dovuto abbandonare la paura, proprio come ha fatto lei adesso. Ricacciai indietro quei pensieri, ma qualcosa in me era cominciato a cambiare e mi piaceva quello che sentivo. Dopo che Francesca mi raggiunse aveva un umore diverso, come se il peso del passato e la paura di diventare come chi l’aveva cresciuta fosse sparita come nebbia a contatto con il sole. Tornammo alla stazione allegri e spensierati, il sorriso di quella ragazza dal naso all’insù incorniciano di lentiggini era contagioso. Ridemmo ancora mentre la cabina si inclinava per il pendio imitando il nostro austero autista. Quando arrivammo a casa e consegnai la nostra spesa. Le zie felici cominciarono ad armeggiare con essi e i rovi che spuntavano tra la staccionata e i binari del treno.

Venne sera. Tornai dalla biblioteca in fretta e furia. La Pro-Loco mi aveva lasciato una vecchia panda per raggiungere la festa, speravo con tutto il cuore che non mi abbandonasse a metà della salita. Con l’ansia da una parte e la macchina fotografica dall’altra bussai alla camera di Francesca, lei si presentò con una gonna lunga bianca e un top rosso che faceva intravedere l’ombelico. Le labbra avevano lo stesso colore. Le sorrisi come un fratello che vede la sorella crescere più in fretta di quanto si aspettasse. -Farai colpo stasera. Dissi quasi imbarazzato. Lei rispose toccandosi nervosamente i capelli. Salutammo le zie e gli ospiti a tavola che riempirono di complimenti Francesca. Salimmo sul potente mezzo e percorremmo la strada verso la festa. Entrambi eravamo in ansia, lei per amore, io per i rumori che faceva la macchina. Quando arrivai al parcheggio tirai un sospiro di sollievo. Ci dirigemmo alla festa, ci salutammo e ci focalizzammo sui nostri obiettivi. Scattai le fotografie per l’ufficio del turismo. Bancarelle, persone, luoghi. Sembrava di essere fuori dal tempo e da quella cittadina così soffocante, la festa aveva preso tutto ciò che di buono c’era in Violet Hill. Le danze erano cominciate. Tornai alla piazza e scattai alcune fotografie. Poi li vidi: Francesca e quel ragazzo. Ballavano felici guardandosi negli occhi, lui prese la mano di lei, la fece girare su se stessa. La gonna si alzò leggermente ruotando, presi la Leica e scattai. Due anime che volteggiavano sulla cima del mondo.

 
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from La casa sulla ferrovia

La casa sulla ferrovia

Seguii la istruzioni ed arrivai ad una piccola villa poco sopra la ferrovia. Mi avvicinai al campanello, il nome era cancellato, suonai con forza. Una voce stridula chiese chi fossi. Risposi che volevo affittare una stanza e che mi mandava la famiglia del Bar. Il cancello si aprì. All’interno il piccolo giardino pieno di fiori ricordava quello dei cottage inglesi. Due figure mi vennero incontro. Entrambe con i capelli corti e grigi, la faccia piena di rughe da sembrare una ragnatela, ma un sorriso che scioglieva il cuore. Erano due gocce d’acqua. L’unica cosa che le distingueva è che una di loro aveva in piccolo neo sotto la guancia sinistra. Mi presentai come Ben, il mio nome intero non mi piaceva e ci ho messo un po’ ad apprezzarlo, forse perché non mi sentivo me stesso a quell’epoca.
-Buongiorno. Lei è molto fortunato si è appena liberata una stanza. Se vuole gliela mostro. Le seguì all’interno del piccolo giardino, entrando sentì un profumo di cibo misto all’odore di pulito. Una delle due signore mi fece vedere la sala da pranzo. -A volte con gli ospiti mangiamo tutti insieme, mia sorella esagera sempre con le porzioni. -Sei tu che fai troppa spesa. Rispose l’altra dietro di me. Sorrisi. Salimmo le scale e dopo qualche porta ci fermammo. -Ecco qui, la stanza numero cinque. Girò la chiave nella serratura e l’aprì. Era una piccola stanza con al fondo un grande finestra, una scrivania sul lato del muro, un letto a soppalco, un armadio e un piccolo cucinino. -Quella piccola porta porta ad un piccolo bagno con una doccia. L’affitto è di cento euro al mese. Spese comprese, ovviamente non abbiamo il Wai fai. -Non c’è problema, non lo avevo neppure prima. -Quindi la prende? Il primo mese chiediamo l’anticipo. Mi si strinse lo stomaco, stavo per dire qualcosa quando la donna si mise a ridere dicendomi che stava scherzando. Uscì dalla porta e mi disse che alla otto ci sarebbe stata una cena comune e che io ero invitato. Le ringraziai e tolsi i miei pochi oggetti che possedevo dallo zaino. Controllai che la macchina fotografica non fosse bagnata, per fortuna non lo era. L’appoggiai sulla scrivania e misi ad asciugare i vestiti che avevo addosso nel bagno, poi mi sedetti e guardai fuori dalla finestra, il sole stava facendo capolino tra le nuvole.
Un fischio. Un treno sfrecciò facendo vibrare i vetri della finestra, sembrava di essere sul binario. -Ora capisco perché costa così poco qui. Pensai sorridendo. Controllai i miei programmi sull’agenda il primo lavoro l’avrei avuto tra un settimana, speravo che mi pagassero abbastanza da permettermi qualche sfizio oltre che l’affitto della stanza e la spesa. Sospirai e aspettai l’inizio della cena tra i miei pensieri. Quando fu l’ora mi presentai nel salone da pranzo, quattro persone erano già sedute al tavolo che mi guardarono in contemporanea. Le due zie accorsero in aiuto dietro di me. -Lui è Ben, il nuovo ospite della stanza cinque. -Buonasera a tutti. Dissi con un filo di voce, non ero mai stato a mio agio con le presentazioni. Mi sedetti vicino ad una ragazza molto bella, aveva capelli color fieno e labbra rosse come ciliegie, i suoi occhi blu indagarono il mio animo, sembrava uscita da una pubblicità. -Io sono Giorgia, piacere. Disse mentre mi porgeva la mano, me la strinse con forza. -Il ragazzo davanti a me aveva i capelli corti a spazzola, una camicia di Jeans e due orecchini. La cosa che mi colpì fu la sigaretta spenta tra le labbra. -Giorgia, lui ti va bene? sembra meno pezzente di noi, magari è al tuo livello. Disse ridendo. Lei rispose alzando gli occhi al cielo. -Io sono Alex, Alex dei Manfolk, ovviamente ci avrai sentiti suonare al miglio rosso o alla taverna dei dieci barili. Disse con una luce negli occhi, sembrava cercasse conferma della fama della sua band. -Nell’ultimo periodo non ho frequentato pub, mi spiace. La sua luce si spense di interesse. -Beh dovresti venirci a sentire una volta, siamo come una droga, una volta che ci ascolti non puoi farne a meno. Le zie cominciarono a distribuire il cibo, un profumo di carne mi inebriò le narici. Stavo per prendere una forchettata di quei spaghetti quando una vocina stridula mi fermò. -Prima facciamo una foto! Nuovo ospite, nuovo selfie a tavola. Disse la ragazza che non avrà avuto più di diciannove anni seduta al fondo della tavolata. -Dai Francesca, non possiamo mangiare subito? Io ho fame! Disse Alex. Anche gli altri seduti al tavolo sbuffarono, ma alla fine acconsentirono alla richiesta. La ragazza prese il cellulare e scattò la foto. La guardò soddisfatta e si mise a mangiare. Le due zie, ancora non avevo capito il loro nome, continuavano a mettere cibo sulla tavola, sembrava natale in anticipo. Tutti mangiavamo avidamente mentre Giorgia e Alex si stuzzicavano parlando di vestiti. Erano su due mondi opposti. Francesca durante il dolce mi si avvicinò e cominciò a farmi domande sulla mia vita personale, non ero contento di rispondere, ma feci l’uomo educato e risposi a tutto. L’unica persona che non parlava era un ragazzo al fondo del tavolo vicino alle zie. Guardava fisso sul piatto parlando a monosillabi. Nessuno sembrava farci caso. Non ci pensai più per il resto della cena. Quando fu il momento di sparecchiare il misterioso ragazzo scomparve dalla mia vista. Le zie si diressero verso un altro salone e una delle due accese la Tv.
Giorgia disse che avrebbe lavato lei i piatti perché Alex ieri sera li aveva lasciati tutti unti. Lui di risposta sbuffò dicendo che sua maestà può lavarli tutte le sere se non gli piace come lavano gli altri. -Vorrà dire che li asciugherò con un panno di seta. Continuò facendo un inchino. Senza dargli una risposta lei si diresse verso la cucina. Io diedi una mano a Francesca a pulire e a sparecchiare. -Non ti preoccupare di quei due, fanno sempre così, ma non ammetteranno mai che si stanno simpatici.

 
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from Documento senza titolo

E mo come lo inizio un blog nel 2024?

Alla fine ho dato retta all'universo – che mi si è presentato in forma di utenti super gentili di LivelloSegreto – ed eccomi qua a curiosare tutorial per imparare come si formatta un testo con Markdown, chiedendomi se sono ancora capace di scrivere.

Ho fatto due conti mentre tornavo a casa, sono passati quasi 22 anni da quando ho aperto il mio primo blog: era il 2002, avevo appena scoperto internet, ignoravo che il ragazzello con cui mi scrivevo su Chattapuntoit sarebbe stato solo il primo di una serie di fidanzatini conosciuti online e delusioni amorose, e l'idea di scrivere un diario online in uno spazio tutto mio mi piaceva tantissimo! E allora prima Msn, poi Splinder, poi Wordpress e via così, diari digitali tra una cotta online e l'altra con un'ingenuità di fondo, la mia e quella dell'internet, che mi sarebbe mancata negli anni seguenti. Mentre scrivere sul web diventava una professione per un sacco di gente, il pensiero di aprire un nuovo blog (o una pagina instagram, o un qualsiasi tipo di canale) diventava per me una specie di burrone, dal cui ciglio guardavo giù e vedevo soltanto dubbi: sì vabbè ma per parlare di cosa? Mi leggerà davvero qualcuno? E poi, ho davvero qualcosa di interessante da dire?

Non l'ho mai scoperto, perché alla fine la fifa di non performare prendeva il sopravvento e non ci provavo mai. Fino a oggi.

E quindi eccomi qui a cercare di capire Log, che alla fine non sembra difficilissimo, mentre penso che questo blog lo apro solo perché scrivere mi piace, perché mi hanno colpita le parole di Xab e di TiTiNoNero – due dei tre segni dell'universo di cui parlo all'inizio del post, e il terzo è Ed che è arrivato con il link di registrazione a Log! – e perché per una volta voglio provare a uscire dalla logica performativa per cui vali in base a quanto piace a qualcun altro quello che fai. E poi, se Chattapuntoit esiste ancora (ho controllato), chi sono io per non ripartire proprio da quella disposizione d'animo lì, e fare una cosa solo perché è bello farla?

Se sei arrivatx fino a qui, grazie per la pazienza: questo è il punto in cui ti dico che mi chiamo Eli, che mi piacciono un sacco di cose e che probabilmente, prima o poi, qui sopra parlerò di tutte quante.

 
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from Terzo pensiero

Mi sono imbattuto in questo breve articolo e ho deciso di riflettere su di esso.

Sebbene la scuola italiana abbia molti problemi, siamo sicuri che il problema principale sia quello dell'inclusione? Quando parlo di inclusione, intendo sia quella relativa alla disabilità sia quella degli studenti stranieri.

Iniziamo con quella della disabilità. La cosiddetta vera integrazione sembra esistere solo alle elementari, forse perché la maestra ci chiede di stare vicino a quel compagno un po' “diverso” o perché la stessa maestra, insieme all'insegnante di sostegno, ci insegna cosa sia la disabilità e come possiamo rapportarci con il nostro compagno, non con il bambino disabile. Con l'avanzare della pubertà, l'integrazione diventa molto più complicata, ma con insegnanti e strumenti appropriati diventa possibile educare i ragazzi alla diversità, portando a una forma di integrazione futura nella società, riconoscendo che persone con difficoltà hanno diritti come gli altri. Può sembrare un'utopia, ma molte scuole stanno prendendo questa direzione attivando sempre più progetti di integrazione e di educazione al rispetto reciproco.

Per quanto riguarda i Bes (Bisogni Educativi Speciali) e i PDP (Piano Didattico Personalizzato), in questo articolo vengono erroneamente associati a una falsa integrazione. Non sorprende. Troppo spesso la scuola è solo un luogo di nozioni e nulla più. Nella maggior parte dei casi, non stimola gli studenti a pensare in modo indipendente e a scoprire l'arte, la cultura e la scienza come piacere personale, ma solo come materia di studio. Chi ha difficoltà a studiarle viene etichettato come colui che “non ha voglia di imparare”. La possibilità di avere strumenti compensativi che non creino frustrazione nella scoperta della cultura è, a mio parere, estremamente positiva.

Parlare dell'integrazione degli studenti stranieri meriterebbe molte più righe e riflessioni. Molte volte è vista come un problema “avere uno straniero in classe”. Pochi comprendono che è invece una sfida che può portare a scambi di conoscenze ed esperienze e a una crescita della diversità culturale. Sono parole affascinanti, ma attuarle è certamente difficile. Tuttavia, se iniziassimo a considerare ciò che definiamo problema o seccatura come una risorsa, potremmo arricchirci anziché arrabbiarci.

In conclusione, affrontare questi temi richiederebbe un cambio di prospettiva nella mentalità della società e del sistema scolastico. L'integrazione non dovrebbe essere vista come un problema ma come un fiore all’occhiello della scuola italiana. Solo attraverso un approccio inclusivo possiamo sperare di costruire una società più equa e rispettosa delle differenze.

 
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from Ro scattered words

Nota: temi sensibili – morte

(Racconto mai pubblicato per challenge di settembre 2023 del Circolo di Scrittura Creativa ̴̴ Raynor’s Hall

Salve, scusi l'orario... Sì capisco che è tardi ma... Mi ascolti. Sono dell'Agenzia.

Sì. Mi spiace. Condoglianze. Sì, mi scusi forse è poco cordiale... Ascolti la chiamavo... Sì, capisco non si preoccupi.

/2 minuti dopo/

Ascolti, non vorrei farle fretta. No no, lo so, ma è il mio lavoro, devo solo accertarmi di alcune cose, e se vorrà le passerò il mio collega per il supporto psicologico.

Bene, ha un vestito elegante? Ok, ha bisogno di scarpe, cravatta o altro? Bene.

Qui ha segnato che non... Sì capisco, bene allora preferisce una candela semplice? Bene, ha qualche parente lì con lei? Vicini affezionati a lei? Ok, vuole che venga qualcuno per stare al suo capezzale? Bene.

Credo che sia tutto. Ah sì, verremo domani mattina verso le 9:30. Sì, è tutto compreso nel pacchetto che aveva comprato. Bene, vuole che le passi il supporto psi- capisco... Allora le auguro una buona fine vita, a domani.

/Voce meccanica/ Il nostro servizio è stato di suo gradimento? Digiti un numero da 0 a 9 dal suo tastierino per valutarci.

/Silenzio di attesa/ Grazie della sua valutazione, le auguriamo di passare al meglio queste ultime ore e grazie ancora per averci scelto.

Circolo di Scrittura Creativa Raynor’s Hall.

 
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from La casa sulla ferrovia

Violet Hill, città di provincia. Un lago e diecimila anime immerse tra le colline colorate di viole. Ero nato lì, in quella unica città italiana che manteneva il nome dato dagli alleati durante la liberazione del ’45.
Dicevano di doverlo al battaglione inglese che li aveva liberati dai fascisti, a quell’epoca non mi importava molto di quei discorsi. Ero troppo giovane o troppo egoista per capire l’importanza di mantenere viva la memoria storica del nostro paese. Ora cerco di insegnarlo. Oggi nella casa nella grande città, dove mi sono trasferito e aver trovato lavoro come insegnante, ho trovato un mio vecchio zaino con all’interno una foto di una tavolata. Sette persone sedute ad un tavolo, sorrisi misti tra imbarazzo e sincerità. Sette visi che cambiarono il mio modo di vedere alcune cose della mia vita. Parlare e vivere con loro per un periodo, che mi è sembrato una vita, mi ha forse fatto diventare l’uomo che sono ora. L’ultima estate a Violet Hill.

Capitolo 1

Occhi tra i fogli

-Piove sempre sul bagnato!” Esclamai sotto il diluvio universale. Una signora mi guardò torva e continuò a proseguire con il suo ombrello a fiorellini. Come avrei potuto darle torto? barba incolta, capelli zuppi, zaino con spille multicolore e pantaloni strappati, sembravo un tossico. Qui chiunque non abbia un certo portamento viene subito etichettato come “strano” o “tossico”. -Maledetta città di provincia e maledetta pioggia, proprio oggi che mi hanno sbattuto fuori casa. Con quella esclamazione non migliorai la mia situazione e la signora sparì dietro un angolo veloce come un gatto che sentiva l’odore del suo cibo preferito.
Scossi la testa cercando un riparo dal temporale e dal vento che cominciava a lacerarmi le ossa. In fondo alla strada un bar con un’insegna di una teiera. Mai lo avevo notato. Mi affrettai ed entrai con foga. Una signora di mezza età con occhi stretti mi fissò come se mi stesse guardando l’anima, io sorrisi a trentadue denti, già immaginando che mi avrebbe accompagnato alla porta. In cinese gridò qualcosa alla ragazza dietro al bancone. -Ecco ci siamo. Pensai. Stavo per uscire da solo quando in un italiano stentato mi disse di sedermi indicandomi un divanetto rosso a fianco a me. Poco dopo arrivò una ragazza con i capelli raccolti in una coda e gli occhiali. Mi sorrise e mi diede un asciugamano, poi mi chiese se volevo un the caldo da bere. Mi toccai la tasca, avevo ancora qualche euro da parte e annuì sorridendo. Mi elencò tutti i The che aveva, cinesi, giapponesi, ne presi uno a caso sperando che non costasse più di quanto avevo in tasca. Con un altro sorriso si diresse dietro il bancone e disse qualcosa alla terza persona che stava lavando le tazzine. Mi guardai intorno, tutti i commensali non mi guardavo più e chiacchieravo di sport e di pensioni. In quel momento alzavo l’eta media. Appoggiai le braccia sul tavolo e mi passai l’asciugamano sui capelli e sul viso, sapeva di rose. Con il panno davanti alla faccia e il profumo che mi inebriava le narici mi sistemai più comodo sul divanetto e inspirai. Quando lo tolsi davanti a me c’erano parecchi fogli, un dizionario spesso come due mattoni, un tablet e decine di penne colorate. Due piccoli occhi tra dietro lenti rotonde mi stavano fissando. Deglutì. – Stai cercando di bagnare i miei appunti? Disse una voce femminile. I suoi occhi erano come quelli della signora che mi aveva accolto, ma ancora più freddi. -Scusami, nella fretta non avevo visto che eri seduta qui. Ora mi trovo un altro posto. -No, puoi restare. Solo fai attenzione a dove metti le mani. Sospirai pensando a dove fossi finito. Mai avevo notato un Bar di cinesi vicino a dove abitavo. -Non importa, appena finisce il temporale andrò via e cercherò un nuovo posto dove dormire. Pensai. La ragazza portò il The che avevo scelto e qualche biscotto. Mi disse che quelli li offriva la casa. Mi sentii fortunato per una volta. Mi versai il caldo contenuto nella piccola tazzina e annusai, era buono, sapeva di fiori e frutta, ne bevvi un sorso e subito mi scaldai. – Non hai una bella cera. Gli occhi erano tornati a fissarmi. -Ho preso troppa pioggia, dopo che mi sarò fatto una doccia andrà meglio. Sorrisi a stento pensando che avrebbe dovuto farsi i fatti suoi. Come si avesse letto nel pensiero la ragazza spostò il tablet mostrando tutto il suo viso. Aveva circa tredici anni, capelli lunghi e lisci sino alle spalle. Arricciò il piccolo naso e mi scrutò a fondo. Bevvi nervosamente di nuovo dalla tazzina. -Non so come la gente possa bere il The. Disse alzandosi e dirigendosi verso il bancone, tornò poco dopo con una tazza gigante. Si sedette al suo posto. -Acqua calda. Il meglio che si possa desiderare. Ero confuso, forse stavo sognando. Presi un biscotto e ne morsi un pezzetto. Era buonissimo. Mangiai avidamente il resto. La ragazza continuava a fissarmi mentre trangugiava la sua acqua. -Ne vuoi uno? -No, non mi piacciono i dolci, mia sorella li fa bene, ma io non li mangio. Annuì nervosamente. -Che cosa ti piace della vita? Chiese. improvvisamente mentre posava la tazza. I suoi occhi non si staccavano da me. -Della vita? Mai avevo pensato cosa mi piacesse della vita, da alcuni anni vivevo alla giornata cercando di finire l’università. Trovavo dei lavoretti all’ufficio del turismo come fotografo ma mi bastavano appena per gli studi. Guardai alla mia destra, c’era uno specchio. Mi toccai il viso. Venticinque anni e non sentirli. La barba scura e incolta mi faceva sembrare più vecchio di almeno cinque anni, i capelli corti e scuri erano in disordine grazie all’asciugamano. Gli occhi marroni erano segnati dalle preoccupazioni. -Cosa mi piace della vita? Lei annuì, i suoi occhi non nascondevano la curiosità. Avrei voluto dirle che mi faceva cagare la mia vita, che non ero riuscito a combinare nulla di buono, che ero in crisi, che non avevo una ragazza, una famiglia, una laurea, un lavoro vero… Eppure guardandola negli occhi dissi una cosa che mai mi sarei aspettato. -Mi piacciono le persone. Conoscerle e capirle, di solito sono bravo a capire le persone. In lei si accese come una luce. -A te invece? le chiesi. Bevve un sorso dalla tazza, feci lo stesso. -A me piace parlare con le persone, persone che non ti giudicano, quelle persone che anche se stai in silenzio rimangono tali senza l’imbarazzo di dover per forza dire qualcosa. Anche se preferisco di più ascoltarle. Bevvi tutto il liquido dentro la tazza, quelle parole mi scesero nel profondo sino allo stomaco. -E’ difficile trovare quel tipo di persona. Lei annuì guardando dentro la tazza. Improvvisamente la ragazza con la coda si presentò al tavolo. -Spero ti stia piacendo il the. -Assolutamente! E’ davvero ottimo! -Spero anche che mia sorella non ti stia disturbando. -Cazzo, sto solo facendo un po’ di conversazione! Rispose adirata mentre i suoi occhi ritornarono su appunti e libri. – Nessun disturbo, mi piace la sua compagnia. Un piccolo sorriso comparve tra le sue labbra. -Sei in partenza? Mi chiese guardando lo zaino. -No, sto cercando un posto dove dormire, ho dovuto lasciare il mio appartamento. Per… ecco… delle incomprensioni. Lei mi guardò confusa. La ragazzina prese la parola. -Perché non lo mandi dalle due signore della ferrovia? Quelli che hanno pochi soldi vanno tutti lì a dormire. -Xiao, non fare la maleducata! -Ecco, in realtà in questo periodo sono a corto… se mi dite dov’è questo posto… La mia voce era talmente flebile che quasi non si sentiva. -Ma certo! Sono delle nostre clienti, affittano stanze a poco, hanno una casa davanti alla ferrovia. Disse in fretta. Poco dopo tornò con un pezzo di carta e l’indirizzo. -Ecco qui. Dì che ti mandiamo noi, la famiglia del Bar, loro capiranno. Guardai fuori e ormai il temporale era finito, la ragazza dai capelli raccolti mi guardava sorridendo mentre la ragazzina era tornata ai suoi studi. Pagai promettendomi di tornare a parlarci.

 
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from manu

Parlando di quanto faccia schifo facebook, oggi ho ricevuto questa domanda. Non è la prima volta che vedo questo atteggiamento nel fediverso, una sorta di victim blaming per chiunque abbia avuto esperienze negative sui social proprietari, è colpa tua che stavi lì. Ricorda moltissimo e tu perché esci di notte da sola?? I perché possono essere i più disparati, ma dovrebbero essere messe in discussione le storture strutturali della piattaforma, non le persone che hanno subito quelle storture o i loro perché.

Capisco la tentazione di farsi grossi e fighi perché puristi dei social federati, c'è chi ama lucidarsi l'ego e sentirsi parte di una élite illuminata che giammai compirebbe l'errore di stare sui social mainstream, ma impostare la discussione su chi piscia più lontano non porta da nessuna parte.

Perché è importante poter parlare della propria esperienza

Raccontare la propria esperienza personale e ascoltare quella di altrə è sempre importante. Rivedersi nell'esperienza dell'altrə è importante. Trovate validazione e rimettere le cose in prospettiva è importante. Serve a smettere di dare per scontato che le cose vanno così, sono sempre andate così, e andranno sempre così. Serve a capire quali cose sono da cambiare, ripensare, aggiustare, evitare, condannare. Cose che si danno per scontate e non dovrebbero esserlo. In questo caso specifico, serve anche ad evitare errori potenzialmente disastrosi come la federazione di Meta. O ad incoraggiare altrə ad abbandonare i social proprietari.

Ma quindi perché stavi su facebook?

La mia esperienza su fb è distante dall'esperienza di tantə con cui ho avuto modo di parlare. Non era una 'vetrina' della mia vita. Non ho mai postato informazioni personali. Ho falsificato carte d'identità per mantenere un nome fittizio, i miei familiari non erano tra i miei contatti (e anche pochi amici irl), niente colleghi, niente foto di eventi e luoghi (escluse le manif), praticamente zero contatto con la mia vita offline. Il mio primo account, aperto nel 2006, si chiamava Il Dito Medio e pubblicava esclusivamente contenuti informativi e ironici di tipo politico, oggi si chiamerebbe shitposting. Non aveva nessuna pretesa, lo gestivo in comune con un'amica. Poi un ragazzino di un liceo X mi chiese l'amicizia e cominciò ad interagire, poi un altro ancora, e in breve avevamo l'intero liceo che tramite il passaparola seguiva il Dito Medio. Radicalizzavamo ragazzinə su temi come la parità di genere, l'antiautoritarismo, l'antirazzismo, l'anticapitalismo. Si aggiunsero anche un paio di professorə, ci contattavano in privato per suggerire contenuti o discutere argomenti. Mi sembrava una cosa meravigliosa. In breve raggiungemmo il limite di contatti consentiti (all'epoca non esistevano le pagine fan, solo gli account personali). Il potenziale di fb prima della totale enshittification era meraviglioso. Tantə ci contattavano in privato per raccontarsi e chiedere consiglio. Si apriva il vaso di pandora dei primi, rudimentali #metoo. Poi arrivò il primo ban. Ho creato molti altri account. E poi arrivarono le pagine fan e i gruppi. Nel giro di poco mi ritrovai a gestirne decine, tra produzione di contenuti e moderazione, ma ciò che maggiormente mi assorbiva era il flusso costante di messaggi con richieste di supporto, aiuto, o semplicemente ascolto. Era un fiume. Per ogni storia che pubblicavamo, ne spuntavano altre centinaia che volevano ascolto. Si aprivano le cateratte. Fb era generalista per natura e chi ci contattava spesso non aveva mai sentito parlare di femminismo, all'epoca anche l'intersezionalità e queer erano parole mai sentite. Era un costante lavoro di traduzione dal linguaggio dell'attivismo puro e quello del femminismo accademico a contenuti digeribili e di natura pratica, post brevi, meme. Per spiegare che no, non è normale quello che succede ai soggetti femminilizzati, razzializzati, queer. Non è normale e non se lo sono andato a cercare e tuttə dobbiamo agire per cambiare le cose. Attraverso meme e campagne semplici e comprensibili arrivavamo dappertutto, a volte il tam tam era talmente diffuso da finire anche sui giornali. Si diffondeva a macchia d'olio. L'algoritmo all'epoca non ci contrastava eccessivamente. Trattavamo temi mai visti come la body positivity, il revenge porn, la violenza ostetrica, la mascolinità positiva... Le testimonianze che ci arrivano erano nell'ordine delle centinaia a settimana, a volte migliaia durante le campagne, e facevamo di tutto per creare dei safe space per permettere alle identità marginalizzate di discuterne senza essere aggredite. Mantenere safe i nostri spazi era un vera guerra. Ho perso il conto di quanti gruppi e pagine moderavo o contribuivo a moderare, di quanti progetti e campagne seguivo e supportavo. Sembrava che secoli di silenzio si volessero rompere in un colpo solo. È stato magnifico e terrificante, mi ha impegnata per anni, mi ha segnata profondamente.

Questo per me era facebook. Una piattaforma che permetteva la diffusione di temi estremamente di nicchia e controversi ad un pubblico generalista che altrimenti non ne avrebbe mai sentito parlare, e in particolare ad un pubblico che aveva un infinito bisogno di sentirne parlare, e di parlarne a sua volta.

Davamo un nome a cose prima innominabili, incomprensibili, che restavano a macerare nel non detto. Chi riconosceva quell'esperienza come propria, non vedeva l'ora di potergli dare un nome e poterne parlare.

Ovviamente eravamo sotto attacco costante, lo siamo statə per anni senza soluzione di continuità. Un flusso incontrastato di odio, auguri e minacce di morte e stupro, tentativi di doxxing, denunce, bombing di immagini gore, qualunque cosa. Io mi sentivo relativamente al sicuro perché la mia identità era ben protetta, e creavo documenti falsi perché lə compagnə che non volevano esporsi potessero mantenere nomi fittizi su fb. Ma le cose brutte accadevano ed erano tante. Ho avuto i miei momenti di burnout, come tuttə, e di allontanamento da fb, ma poi tornavo sempre perché sentivo che c'era ancora troppo da fare. Il flusso di testimonianze e richieste di ascolto non si arrestava e io non volevo e non potevo abbandonare. Poi cominciarono i ban, quelli che rendevano il lavoro impossibile. Fb riusciva a bloccare ogni nuovo account che creavo, spesso chiudeva gruppi e pagine, anche quelle di riserva. Per circa 5 anni è stato un saltare da un account all'altro, estenuante. Ricevevamo troppe false segnalazioni per spam, hate speech, pornografia, e la moderazione automatica dava spesso per scontato che fossero vere. Il mio primo ban lungo (un mese) me lo beccai per la foto assolutamente innocente di una suora che passeggiava in spiaggia (nell'ambito del divieto per le donne musulmane di andare in spiaggia velate). Parlavamo di temi sgraditi all'algoritmo ed eravamo ormai nel libro nero, ogni segnalazione era instaban. Finche fb non si è fatto ancora più furbo e anche saltare da un account all'altro non bastava più. Le pagine che gestivo andarono tutte in shadowban. I nostri contenuti non avevano più alcuna diffusione. Il flusso delle testimonianze e delle richieste di aiuto si allentava. Le campagne diminuivano e la stanchezza aveva la meglio. Circa 3 anni fa ho cominciato a chiamarmene fuori, fino ad arrivare a gestire solo 3 pagine, e sempre con meno costanza. Quando fb ha annunciato che bisognava pagare per non farsi profilare anche i peli del chiulo, ho sentito che non ne valeva più la pena. Ho chiuso bottega e mi sono spostata su mastodon. Non che non ci avessi provato prima. Avevo un account su mastodon già da un paio d'anni, ed ero anche su diaspora da molto prima, ma lì non c'era modo di raggiungere quel pubblico mainstream che avevamo raggiunto su fb, e che continuava a richiedere attenzione e ascolto. E quindi abbozzavo e tornavo su fb, finché non sono arrivata alla rottura finale.

Ecco, questa è per larghe linee la mia esperienza di fb e i motivi che mi hanno tenuta per 16 anni su quella piattaforma. Vedevo l'uso che altrə ne facevano, come di una sorta di vetrina personale, ma era un uso che mi era estraneo e mi avrebbe messo a disagio se avessi provato ad adottarlo. Per me il privato è politico ed è un'arma, come tale lo usavo. Postavo foto di me durante le campagne di body positivity, foto per nulla patinate che mostravano cellulite e peli nel tentativo di normalizzare il corpo reale, e ovviamente anonime, ma nei miei profili non c'era mai la foto del mio viso in chiaro. Raccontavo cose estremamente private, ho parlato di molestie e violenze subite, per incoraggiare altrə a parlarne. Non rivendicavo alcuna visibilità personale, non mi sembrava utile. Pochissimə sanno chi sono online. Mi muovevo in una bolla di compagnə che facevano altrettanto e per un lungo periodo ha funzionato, ha sortito un effetto che è stata una valanga. Forse funziona ancora, ma mi sento infinitamente vecchia e infinitamente stanca e sono più che felice di passare il testimone ad altrə, ritagliarmi il mio pacifico angolino fuori dalle piattaforme proprietarie e deporre le armi, almeno per quanto riguarda l'online.

Non penso che ci sia nulla di male nell'uso che altrə fanno o hanno fatto dei social propietari, che sia chiaro. Non voglio dire che la mia esperienza è migliore, semplicemente aveva motivazioni diverse, è stato per me un modo di elaborare la mia storia personale e dargli un senso. Altrə hanno diverse motivazioni ed esigenze, e non mi piace chi le liquida superficialmente come “vanità”. È molto più complicato di così.

Spero vivamente in un cambio di atteggiamento verso chi proviene dai social proprietari. Moltə approdano al fediverso in cerca di un'oasi tranquilla, non dell'ennesimo giudizio. Se volete applausi per essere stati sempre fuori dai social proprietari, non aver mai postato foto “vanitose”, o qualunque altro exploit di purezza, fatevelo allo specchio. Non serve proprio a nessunə. Spero che si possa parlare apertamente delle esperienze che ci hanno tenutə sui social tossici, e che ci hanno portato ad uscirne, perché può incoraggiare altrə a riconoscere le tossicità e allontanarsene. Se c'è qualcosa che ho imparato in questi anni è questo: ascoltare l'esperienza altrui, e ritrovarvi la propria, ha un potenziale rivoluzionario.

 
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from sleepingcreep

in un tentativo di “buoni propositi per il nuovo anno”, ho deciso di pubblicare a puntate una cosa che avevo scritto qualche anno fa sui dispositivi digitali: per “dispositivo” non intendo necessariamente un pezzo di hardware, ma un “concatenamento” di hardware e software che in qualche modo ci “porta a fare cose” in maniera performativa. Ci apre delle porte, ci porta da alcune parti, ce ne chiude altre, anche nella misura in cui noi il dispositivo non lo possediamo mai interamente. Questa è la seconda parte.

(2.0) Il paragone più immediato con il tipo di controllo morale esercitato dai dispositivi digitali, è quello con la società dello spettacolo descritta da Guy Debord. Benché l’autore francese abbia prodotto numerose iterazioni della definizione di spettacolo (alcune, va detto, piuttosto criptiche e contraddittorie), si può concordare su alcune questioni di fondo. A prima vista, il concetto di “società dello spettacolo” è stato in passato ridotto esclusivamente all’ambito massmediatico con un forte riferimento alla “tirannia” dei mezzi di comunicazione in generale – e in particolare della televisione. Questo però rappresenta soltanto un lato marginale del tema che Debord cerca di affrontare nel suo sforzo teorico: tale aspetto dello “spettacolo” era, almeno fino a tutti gli anni 90, “la sua manifestazione sociale più opprimente” (SdS, Par. 24), ma costituisce solo il lato apparente dello spettacolo, che va invece inteso come una specifica forma che l’alienazione prende nel mondo contemporaneo. Debord precisa che “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (SdS ¶ 4). Decisivo appare in questo discorso il ruolo dell’immagine: lo spettacolo, depurato da una visione meramente superficiale, si presenta come il tipo di relazioni interpersonali costruito a partire dalle immagini, in cui la contemplazione passiva di queste ultime soppianta il vivere e la capacità di determinare gli eventi in prima persona. Tutto il discorso debordiano è in realtà una rivisitazione del tema dell’alienazione – tema che eredita dalla tradizione hegeliana e marxista. La visione che Debord ha della società dello spettacolo muove da una critica della vita quotidiana, mostrandone i caratteri di impoverimento dell’esperienza, della sua disgregazione in ambiti sempre più separati con la perdita di ogni aspetto unitario della società. L’alienazione, in questo senso, va ad assumere una caratterizzazione nuova rispetto al primo stadio della sua evoluzione storica, descritto da Marx: se nella filosofia tedesca tra sette e ottocento essa era determinata da una degradazione dell’essere in avere da parte dei soggetti, con l’ascesa dello spettacolo abbiamo uno slittamento generalizzato, che passa dal semplice avere all’apparire. In una realtà che si mostra frammentata e alienata, lo spettacolo fornisce una forma di ricomposizione degli aspetti separati, una soluzione virtuale alla scomposizione del soggetto, tutta basata sul piano dell’immagine. Nel primo capitolo de La Società dello Spettacolo, intitolato, quasi emblematicamente, “La separazione compiuta” Debord scrive: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» (SdS ¶ 1): è proprio lo spettacolo il corso comune, l’insieme di rappresentazioni indipendenti in cui si ritrova tutto quello che manca alla vita. Un esempio lampante è dato dai personaggi famosi, attori o uomini politici , che vanno a rappresentare quell’insieme di qualità umane e di godimento della vita che è assente dalla vita effettiva di tutti, imprigionata in ruoli miseri. Lo spettacolo, quindi, riunisce gli individui separati, tra loro e da loro stessi, ma lo fa anche in quanto essi sono separati e affinché restino separati (SdS ¶ 29). Lo spettacolo, come rapporto sociale tra soggetti mediato dalle immagini, dà vita a un linguaggio comune, a una comune rappresentazione, di una parte del mondo davanti al mondo stesso, e che si rivela superiore. La comunicazione che si instaura è del tutto a senso unico, unilaterale: lo spettacolo e chi ne sfrutta efficacemente le potenzialità, si accaparra tutta l’attenzione degli spettatori, in modo da rimanere l’unico a parlare, mentre i singoli soggetti, gli “atomi sociali”, non possono che ascoltare. Il messaggio che si impone è essenzialmente uno solo: l’ininterrotta giustificazione della società esistente, il monologo elogiativo del potere che giustifica se stesso. La facilità con cui il messaggio autoassolutorio sulla “sola via possibile” trova risonanza è disarmante, ma è determinata da un argomento molto semplice: per Debord, se è soltanto lo spettacolo a poter parlare, se è lui il padrone del linguaggio, non sono concesse repliche e dunque “non c’è alternativa”. Di conseguenza, il presupposto dello spettacolo è nello stesso tempo il suo risultato principale: ossia l’isolamento, la passività della contemplazione, «il contrario del dialogo» (SdS ¶ 18), con l’individuo che è da parte sua ridotto al silenzio, e non ha come altra destinazione che ammirare, contemplare le immagini che sono state scelte per lui. Conseguenza dello spettacolo è appunto la passività, che porta a incarnare esclusivamente l’atteggiamento del pubblico, di chi sta a guardare e non interviene, ponendosi come nient’altro che consumatori di immagini: lo spettacolo è «il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna» (SdS ¶ 13). Tutto viene relegato alla sfera delle esigenze spettacolari, e la falsificazione della realtà rivela così tutta la sua forza, al punto che Debord, richiamandosi a Hegel, arriva a invertire la sua famosa affermazione, sostenendo che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (SdS ¶ 9). La menzogna si pone come il fulcro di ogni potere, il suo strumento per governare, e lo spettacolo da questo punto di vista è il potere più sviluppato, quindi il più menzognero.

 
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from Does GLaDOS dream of electric ships?

Dieci rintocchi. Dieci rintocchi servirono per far alzare dal letto il signor Carlo. Forse “alzare” non sarebbe il termine corretto, diremmo più che servirono per fargli aprire gli occhi e provare, dopo vari tentativi, a mettersi seduto. Dopo tutto, erano molti anni che il signor Carlo calcava questa terra. Molte lune e molti soli erano sorti e tramontati. Quella mattina, il Sole splendeva sul piccolo borgo di montagna chiamato Montemerlino, e assieme al cinguettio degli uccellini, il signor Carlo fece scricchiolare le imposte, trovando davanti a sé una splendida giornata. Il brusio del mercato veniva dalla piazza centrale, poco lontano da casa sua, e il torrente che attraversava il piccolo borgo solleticava l'orecchio con un lieve rumore d'acqua gorgogliante. La stanza era piena di foto e di mobili piuttosto antichi, nonostante la casa fosse in realtà come nuova. Era stata ristrutturata da poco, un regalo della figlia per il suo ottantesimo compleanno. Senza alcuna fretta, i piedi si indirizzarono verso la porta, poiché Irene, la donna che Carlo sposò ormai troppi anni fa, lo stava chiamando per dirgli di sbrigarsi. Scese le scale con altrettanta calma e si ritrovò Irene in piedi davanti a lui. “Cosa c'è? Cos'è tutto questo chiasso?”, le chiese. Lei continuò a squadrarlo senza rispondere. Poi chiuse gli occhi e quando li riaprí disse, con tono seccato “ti sei scordato che dovevi chiamare l'elettricista? Io come lo cuocio il coniglio per pranzo, senza il forno?”. Carlo provò a balbettare di chiamarlo in quel momento, ma Irene lo zittì ricordandogli che era domenica, auguri a trovarlo. Così Carlo disse solamente “va bene, vado a comprare qualcosa in rosticceria”. Infilò dei vecchi scarponi, una giacca non troppo pesante e indossò il cappello. Prese anche il bastone, nonostante non gli servisse la maggior parte del tempo, e varcata la soglia di casa cominciò a camminare nel paese. Le vie erano per la maggior parte strette da farci passare una sola auto. Fortunatamente nei dintorni della piazza non potevano circolare. Passeggiare nel 2005 significava ancora non trovare nessuno con la faccia rivolta verso il terreno a fissare uno schermo luminoso grande quanto un blocco note. Carlo si stava godendo il calore del sole che lo faceva sentire coccolato, un po' come le coperte qualche minuto prima. Passati vari negozi, la piazza e la chiesa, era arrivato in una via imboscata e che dall'odore sembrava essere frequentata solo da senza tetto e mai dalla nettezza urbana. Ma a Carlo non interessava, lui era lì per del coniglio al forno. “Buongiorno”, fece Carlo con voce roca, spostando le tendine all'entrata. Il negoziante lo salutò di rimando e gli chiese cosa volesse quel mattino. “Coniglio. Al forno. E mettici anche delle patate e delle verdure. Ho dei nipoti che mangiano come un esercito.” “D'accordo”, rispose il negoziante, “ma dovrai tornare per mezzogiorno.” Quindi Carlo pagò, uscì e tornò sui suoi passi. Una volta a casa, toltosi giacca e scarponi, si sedette sulla poltrona e accese la radio. Poco dopo il suono della radio svanì, così come tutto davanti a lui, mentre si addormentava. Quando riaprì gli occhi era in mezzo alla nebbia. Ai lati si intravedevano delle case. Non c'era nessuno. Camminando si avvicinava al confine del piccolo paese e in lontananza si intravedeva una sagoma. Sembrava un uomo, alto, ben piazzato. Più avanzava, più la sagoma si faceva definita, ma non diventava mai una persona, quasi come se il corpo non ci fosse proprio. Intanto dei cani abbaiavano e dei passi si facevano vicini. Sempre più vicini, quando il suono del campanello svegliò Carlo. Spalancò gli occhi e sussultò sulla poltrona. La voce roca di Irene arrivava dalla cucina e chiedeva con molta poca gentilezza di aprire la porta, invece di starsene lì ad oziare. Mai un minuto di riposo, pensò mentre arrancava verso la porta ancora un po' sconvolto. Quando la aprì si trovò davanti un giovane di diciotto anni, una ragazza di tredici e una signora sui 45, riccia e alta. La famiglia salutò il nonno, entrando e lasciando le giacche sull'attaccapanni. “Giovanna, vieni in cucina a dare una mano a tua madre”, disse Irene. Nel frattempo Carlo era tornato verso la poltrona e si era seduto quasi lasciandosi cadere a peso morto. Invece i due nipoti si erano accomodati sul divano. Guardando l'orlogio appeso sopra la televisione si accorse che non era affatto ora di pranzo, come sperava, erano passati solo 20 minuti da quando era tornato a casa. Intanto la tv era stata accesa da Marco, in onda c'era un programma di cucina. Carlo sbuffò, “che noia, ormai fanno solo spazzatura”. Marco gli chiese cosa volesse guardare, ma Carlo non seppe cosa rispondere. Così Anna prese il telecomando e mise su un programma di incontri. “Lo vuole guardare solamente perché le piace uno dei concorrenti” e Anna si fece rossa in volto. “Oh signore, sei già a quell'età? Vuol dire che io sono davvero vecchio”, disse Carlo ridendo. Poi aggiunse, “non c'è nulla di male nel provare attrazione per qualcuno. Ai miei tempi avrei pagato oro per vedere vostra nonna anche solo dallo schermo di una televisione. Non che avessimo una televisione in casa, ma insomma, avete capito. In montagna ci bastava anche una foto sbiadita in bianco e nero”. I due giovani sembravano stranamente interessati, così Carlo chiese loro se volessero ascoltare qualche storia sulla guerra, così, per passare il tempo prima di pranzo. Quindi iniziò a raccontare, a partire da quella volta in cui lui e Irene ancora non si conoscevano e lui doveva partire. Aveva l'età di Marco e gli americani erano appena sbarcati in Sicilia, stravolgendo le sorti della guerra...

Originally wrote in 2020-11-01T23:36:00.003+01:00

 
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from LOG

Piccola guida per risparmiare qualche visita allo psicologo al tuo editor di fiducia.

Alcuni consigli sono validi per tutto, altri solo per la narrativa. Parlare di errori per molti è in realtà sbagliato. Una ripetizione non è un errore, di per sé. Per questo di norma io parlo di criticità piuttosto che di errore.

Manuali consigliati

• Come non scrivere di Claudio Giunta. Si basa principalmente sulla scrittura non narrativa, ma fidatevi che molte cose le correggo pure in narrativa.

• Elementi di stile nella scrittura di William Strunk jr. È la Bibbia di King. Cercate la versione italiana, che l’inglese ha delle regole diverse e i traduttori sono stati attenti a questo particolare.

In entrambi i casi, attenti. Non sono vere e proprie regole da seguire passo passo, ma consigli da tener presenti.

Punteggiatura nei dialoghi

Prendete un libro dalla vostra biblioteca, reale o digitale, e studiate la punteggiatura: • meglio le caporali, i trattini etc etc? • la punteggiatura dentro o fuori le caporali? • i verbum dicendi vogliono la maiuscola? Vi giuro che il discorso meriterebbe un articolo a parte, ma per farla breve, la parola d’ordine è: coerenza. Scegliete un metodo e usatelo. No, i verbum dicendi non necessitano di maiuscola, si usa per i verbi che non esprimono il parlato.

«Ciao» disse.

e non

«Ciao» Disse.

ma

«Ciao.» Non mi guardò neanche.

Appendice: Occhio che i simboli del maggiore e del minore (<<>>) non corrispondono a «». Se non sapete farle o non lo ricordate[^1], piuttosto usate le virgolette alte.

I punto e virgola

Non è intercambiale con i due punti. No:

Elencò le sue cose; un righello, una penna, una gomma.

ma:

Gli disse cosa pensava; che era orgoglioso, arrogante e saccente.

Trovo queste frasi più frequentemente di quel che possiate pensare. Il punto e virgola lo si mette tra due frasi indipendenti ma in qualche modo collegate. • Esempio da Elementi di stile: I romanzi di Steven sono divertenti; sono pieni di avventure emozionanti.

La virgola

Non va tra soggetto e verbo, ma potrebbero esserci eccezioni in base alla diversa scuola di pensiero; per esempio, alcuni ammettono la virgola quando il soggetto è un periodo troppo lungo o in caso di incisi. Per le elencazioni, molti usano il metodo inglese. • No: mele, pere, e banane. • Sì: mele, pere e banane. Qualcuno (non ricordo chi) mi ha spiegato che in inglese c’è una differenza tra i due. Il primo metodo significa che sono tre oggetti separati, mentre nel secondo caso “mele e banane” sono considerate come unico. In italiano questa differenza non esiste. Al massimo si usano perifrasi varie. Nella versione inglese di Elementi di stile, infatti, viene segnalato il primo metodo. Da noi lo hanno modificato seguendo le nostre regole. La virgola, tuttavia, è una vera e propria forma d’arte. A parte alcuni errori di fatto, l’uso della virgola fa parte dello stile personale dell’autore.

D eufoniche

Questo è un errore che ci si porta dietro dalle elementari. Le maestre sono ferme a un metodo usato ai tempi del fascismo e fa nulla se leggono tanto, non si accorgono che la regola è cambiata. La d eufonica solo con vocali uguali. Ficcatevelo in testa. No: vocali diversi, davanti all’h (a hamburger), vocali uguali ma la seconda lettera della parola è una d\t (ad adesso, ed edifici) Eccezione: • tu / lui / lei ed io,  • ad esempio (tuttavia è meglio la formulazione per esempio),  • ad eccezione,  • fino ad ora,  • dare ad intendere. Non mi credete? Link

Gli accenti

Per la stessa ragione per cui pò è errato e si scrive po’ (funfact: Word mi ha corretto in automatico l’errore), lo sono anche e’ ed é. Quando vedete la linea rossa sotto al testo con una parola che vi sembra corretta, controllate l’accento. Curiosità: Il font usato da Einaudi non ha l’accento grave; quindi in un libro Einaudi è à ì ù non esistono. Appendice: le vocali dell’alfabeto italiano sono in realtà sette: à è é i ò ó u.

Continui cambi di soggetti

Mauro andava a cavallo che era marrone, ma il terreno era accidentato perché la pioggia, che era stata torrenziale, del giorno prima lo aveva distrutto.

Molti pensano che una frase lunga piena di dettagli sia sinonimo di saper scrivere. Non è così. Significa, invece, che o non conosci le subordinate (e quindi usi solo paratassi), o hai studiato latino (ma noi stiamo scrivendo in italiano). Cambiare continuamente soggetto confonde, la scrittura appare poco musicale, poco armonica. Per soggetto non intendo quello vero e proprio della frase (sopra sono Mauro, terreno, pioggia e di nuovo terreno), ma il concetto principale; ne abbiamo due: Mauro che cavalca e la strada distrutta.

La strada su cui Mauro cavalcava era accidentata. L’uomo non se ne stupì, il giorno prima la pioggia torrenziale aveva lasciato solchi che l’avevano completamente distrutta.

A questo problema si collega anche quello dei concetti simili e dei verbi in eccesso. Se sto parlando del cotone nel primo capoverso, non ha senso iniziare a parlare della seta per una frase per poi tornare al cotone. Dite tutto quello che serve del cotone subito e poi passate alla seta.

Per verbi in eccesso, invece, intendo perifrasi come: iniziò a, prese a, è successo che, accade che… Se la vostra frase vi sembra pesante, quasi sicuramente è perché ha troppi verbi, causati dal continuo cambio di soggetto.

I puntini di sospensione sono tre e sono un simbolo specifico.

Se usate un editor di testo (es Word) ... deve diventare …

Gli spazi

Un errore che trovo spesso sono gli spazi messi a caso. Non scriviamo in francese, per cui non va lo spazio prima dei segni di punteggiatura. Lo spazio è uno solo. Finito di scrivere, vi consiglio di sostituire i doppi spazi con quello singolo usando il trova e sostituisci.

Cambi di registro linguistico

A scuola ho visto due miei compagni baruffare in cortile. Se le davano di santa ragione.

Il registro viene dato non solo dalle parole, ma anche dalle costruzioni delle frasi: se la struttura è semplice, andare a ripescare verbi non più in uso comune estrania dalla lettura e fa apparire lo scrittore come quello che finge di conoscere molte parole, ma che in realtà ne sa due o tre e le usa perché fa figo. Diverso è il caso se sapete costruire una frase in linea con il registro usato:

Recandomi lesto nella scuola dove m’aveva iscritto la mamma, vidi due compagnetti baruffare tra loro, proprio lì!, in mezzo alla corte.

Usare solo paratassi

Correggo testi, scrivo articoli e bevo del tè.

Creano noia. L’azione, il dramma, viene dato anche e soprattutto dall’uso di ipotassi.

Nella mia vita, correggere testi si alterna alla scrittura di articoli… ma bevo sempre del tè.

E l’ipotassi si crea usando i connettivi.

La macchina arrivò sul vialetto di casa, la claire si alzò e l’uomo entrò nel garage. È una frase noiosa, non è elaborata, è tutto sullo stesso piano. Si chiama coordinazione paratattica. Meglio:

Quando la macchina arrivò sul vialetto di casa, la claire si alzò per farla entrare nel garage.

Gerundi

Il vero male non sono i congiuntivi sbagliati, ma i gerundi. Allora, il gerundio è un tempo verbale magnifico ma infingardo, credo anche quello usato peggio, ancor più del congiuntivo. Quando facevo latino, c’era un tipo di frase, l’infinitiva, che non sapevi mai se tradurre come temporale o causale. Il consiglio era di tradurla con il gerundio. Questo perché ha in sé entrambe i concetti. Il problema è che rende la frase “passiva”, di conseguenza pesante e spesso crea ambiguità poiché si fatica a capire chi è il soggetto della frase. Usatelo con cognizione di causa.

Avverbi (soprattutto in mente)

Riguardano la scrittura “concreta”. Più si è specifici, meglio aiuti il lettore a capire di che parli. Non è che debbano essere eliminati tutti, ma frasi come “Si attivò concretamente”, non dicono nulla. Meglio sprecare due frasi in più a spiegare che si mise a redigere i verbali da inviare al capo, piuttosto. Inoltre quel -mente crea ripetizioni fastidiose.

Aggettivi

Anche qui, dipende. Ho letto di alcuni folli che hanno tentato di eliminare tutti gli aggettivi, ma non ce la si fa. In certe descrizioni appesantiscono e basta, anche perché inseriti in modo caotico. > La bionda creatura leggiadra si alzò in volo meravigliosamente con le sue ali cangianti. Meglio > La bionda creatura si alzò in volo leggiadra, sbattendo le sue ali dai colori cangianti.

Continui cambi di nome per lo stesso personaggio

«Ciao» disse Lucia. «Buongiorno» rispose Laura. «Come sta tuo figlio?» chiese la corvina.

Anche se hai descritto il capitolo prima che Lucia ha i capelli neri, sembra che in gioco ci siano ben tre personaggi. I nomi sono tra le poche cose che si possono ripetere.

Troppe parole per indicare un concetto unico

L’oggetto che si usa per scrivere (la penna).

Sì, a volte capitano delle perifrasi che non hanno nulla di artistico per indicare oggetti semplici. Parole come “il cerchio tendi tela” invece di telaio. Spesso è ignoranza e spesso se si usa il termine tecnico non si capisce, ma per i termini di uso comune meglio la parola specifica.

Errori di punti di vista

Questo è complesso da spiegare e bisogna separarlo dal narratore. Ma in pratica, a meno che non siate bravissimi, non rivelate informazioni che il punto di vista scelto non sa. Se usate un narratore onnisciente, e quindi in terza, ma che è focalizzato, non può sapere chi ha messo un bicchiere sul tavolo. Anche il cambio di pov va fatto con cautela, in pochi lo sanno padroneggiare.

Ripetizioni

Questo discorso si collega alle relative: le ripetizioni sono di ogni tipo, quando non volute è meglio eliminarle. Comprese era, aveva, per… nella frase sopra del primo articolo, mi sono accorta della ripetizione.

La piramide si è modificata nel corso del tempo, tenetela per buona per il momento.

L’ho modificata così:

La piramide si è modificata nel corso del tempo, tenete per buona questa al momento.

Ci sono (pochi) casi in cui questo non è possibile, ma ogni ripetizione che vedete, evidenziatela in lettura. Aiutatevi con il sintetizzatore o leggendo ad alta voce. Per evitare ripetizioni, spesso basta mantenere lo stesso soggetto per l’intero paragrafo.

Relative

Questo tipo di errore, che trovo sovente nei testi che devo correggere, viene spesso visto come sinonimo che uno scrittore sappia scrivere.

Questo errore, tipico degli scrittori amatoriali, viene visto spesso come indicazione di abilità comunicativa.

Quale delle due vi sembra più elegante e fluida? Esistono tantissime subordinate, usiamole. E ci aggiungo: il “che” non è detto che si leghi a un congiuntivo.

Errori ortografici e grammaticali comuni

• Piuttosto che usato con valore disgiuntivo • Apposto\a posto • Il sì affermativo vuole l’accento • Da è preposizione, dà è indicativo, da’ è imperativo (ricordate l’importanza degli accenti?). • Fa, non fà o fa’ • Gli: a lui • Le: a lei • Gli o le al plurale fa… loro • Centra: deriva da centrare (il bersaglio) • C’entra: Ci entra (Non c’entra nulla) • Qual è, non qual’è. • Compito sfidante è sbagliato. In italiano con il participio di “sfidare” si intende lo sfidante, una persona. “Challenging work” è un compito stimolante, non sfidante! Occhio all’uso dei participi.

Alessia


[^1]: Ci sono tanti modi, alcuni variano se usate Windows, Linux o Mac. Il metodo più veloce è impostare il correttore automatico in modo che trasformi << in «. Io l’ho impostato in modo che mi crei entrambe le caporali, tanto vanno sempre chiuse.

 
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from Does GLaDOS dream of electric ships?

Ho scritto questo pezzo ormai molto tempo fa e non era mai stato finito. Ho cercato di dargli una chiusura perché onestamente non penso volessi arrivare da qualche parte, ma semplicemente scrivere qualcosa su Darth Vader.

Quello che una volta era un uomo, mise un piede fuori dal TIE Fighter. L'aria irrespirabile veniva filtrata dal respiratore incorporato nel casco nero, che rifletteva la luce del pallido sole rosso. Il pianeta Honrora era pieno di distese di nulla che si estendevano per chilometri e chilometri. Solo terra rossiccia e qualche cratere qua e la. Vader mosse qualche passo in avanti. La mente era disturbata. La solitudine provoca pensieri irrequieti, lontani, dolorosi. Il dolore viene assorbito ed espanso. Il cuore batte più forte e la cassa toracica è come se fosse in fiamme. Il tradimento. L'amore. L'odio. Arriva il segnale dal nulla. La direzione è segnata e la marcia ha inizio. Un passo dopo l'altro, Vader seguì le indicazioni della Forza e si mosse spostando un polverone che nessuno poteva vedere. Di ricordi riaffiorarono dal passato. Anakin teneva in mano una chiave multifase e la stava usando per collegare parti del reattore. Shmi era uscita dalla porta sul retro e aveva messo in testa ad Anakin un cappello. “Ti prenderai un'insolazione se non stai attento”. “Grazie, mamma”. Notte. Dei predoni Tusken agitavano i fucili laser in aria. Stavano portando via Shmi. Anakin urlava, impotente, mentre veniva portata via. Vader spostò lo sguardo sulla lama rossa della sua spada. Era fermo in mezzo al nulla. Ritrasse la spada e la fece svolazzare agganciandola alla sicura. Riprese a camminare guidato dalla Forza. I suoi passi si interruppero sull'orlo di un grosso cratere, largo almeno quaranta metri e profondo dieci. Con un balzo atterrò sul fondo, ai piedi di quello che aveva tutta l'aria di essere un altare. Molte persone sono morte su quella pietra. C'era traccia d'odio. C'era anche traccia d'amore. Quell'altare era sporco di sentimenti profondi. Vader appoggiò una mano su di esso e chiuse gli occhi. Padme stava accarezzando Anakin e gli sorrideva. Lo aveva preso per mano e portato sul balcone. Anakin non era mai stato così in alto a Coruscant. Gli speeder e altre navi sfrecciavano in ogni direzione, il cielo era illuminato dalle luci dei mega palazzi, come da un sole, e la mano di Padme era calda e morbida. Lui gliel'aveva stretta e lei si era avvicinata di più, portando il corpo a contatto col suo. Dall'altare fuoriuscì una nuvola di fumo quando le pietre cominciarono a muoversi e a rivelare un passaggio. Vader scese le scale un gradino alla volta, immergendosi nell'oscurità. La Forza lo guidava e non aveva bisogno di luce. In fondo attraversò un passaggio stretto per poi ritrovarsi in una grossa sala, con un altare al centro. Le torce appese alla parete erano accese e illuminavano l'antro. Alle pareti, tra una torcia e l'altra, spuntavano delle librerie piene di libri impolverati. Dopo essersi guardato intorno, Vader si avvicinò all'altare, dove c'era un libro rivolto con la faccia verso il basso. Con un gesto della mano lo mise dal verso giusto e girò le prime pagine. Le parole erano scritte in un linguaggio diverso dal basic, ma c'erano anche delle illustrazioni. Continuando a sfogliare trovò delle strane creature che assomigliavano a degli exogorth, ma con un'armatura di squame e con la facoltà di sputare fiamme. “Prendi solo i libri che riguardano plasmare creature, il resto non serve”, così aveva ordinato l'Imperatore. Vader fece un altro cenno e il libro si chiuse, volando dietro le sue spalle e rimasea mezz'aria, poi fece qualche passo per avvicinarsi alle librerie. Il rumore del respiratore era l'unica cosa che andava a mischiarsi con i passi pesanti della macchia nera che si aggirava per la stanza. Alchimia, arte del combattimento, arte della guerra: gli scaffali raccoglievano grossi tomi, conservati lì da chissà quanti secoli. Risalendo le scale ecco di nuovo riaffiorare i ricordi di una vita precedente, ricordi dell'amore, dell'odio e della paura. Alcuni non sembravano neanche echi del passato, ma suoni distanti, come premonizioni. Il calore del proprio figlio, la furia cieca verso il maestro. In cima alle scale c'era ad attenderlo il nulla cosmico. Il deserto rossiccio attendeva i suoi passi a ritroso verso il caccia spaziale. Il tomo, nero pece, dalle pagine ingiallite e una copertina tutt'altro che esaustiva, lo accompagnò per tutto il viaggio, fin dentro la nave. Vader era ancora scosso dalla valanga di ricordi e di sensazioni da cui era stato travolto e non poteva presentarsi dal suo maestro in quello stato, cosa avrebbe pensato di lui? Il problema, però, era che Sidious era sempre in ascolto, sempre vigile per controllare i pensieri e le azioni del suo allievo.

Originally wrote in 2022-03-22T23:49:00.007+01:00

 
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from fic

Ho deciso di dividere questo argomento in due post perché potrei essere abbastanza prolisso e vorrei mantenere i post concisi per una migliore esperienza di lettura (e di scrittura).

Ora che sappiamo a grandi linee cosa sono i fan e i fandom e aver dato giusto un accenno di teoria sociologica dietro al fenomeno (sì, ce ne sarà ancora), cerchiamo di dare anche, a grandi linee, una prospettiva storica. Come ho già accennato nel post precedente, il concetto moderno di fan ha iniziato ad affermarsi di pari passo con la nascita e crescita del fandom della fantascienza tra gli anni '20 e '30 negli Stati Uniti, ma già prima di allora, secondo gli standard che abbiamo descritto per definire un fandom, ci sono stati diversi esempi: molti considerano i racconti di Sherlock Holmes come la prima opera letteraria ad aver formato una vera comunità di appassionati, alcuni addirittura impegnati a scrivere quelle che oggi considereremmo delle fan-fiction. Infatti, se sapete qualcosa di Sherlock Holmes, saprete che il suo autore, Sir Arthur Conan Doyle, fu inondato di reazioni negative dai lettori quando decise di “uccidere” Holmes ne Il problema finale (spoiler, sorry) tanto da convincerlo a resuscitare il personaggio nelle storie successive. E se consideriamo anche le comunità di appassionati al di fuori del mondo dei media diventa praticamente impossibile stabilire le primissime attività dei fan.

Insomma, i fandom esistono da tempo immemore, sicuramente da prima delle prime testimonianze che abbiamo sul loro conto, ma è solo da poco meno di un secolo che sono in crescita costante, sia in numero che in popolarità. In questo ha avuto un grandissimo ruolo l'evoluzione della comunicazione: nei primi del Novecento, la modernizzazione del sistema postale ha fatto sì che i fan potessero comunicare con i loro autori preferiti e mettersi in contatto con altri fan, fino poi a organizzare le prime convention; più tardi, la diffusione dei mezzi di stampa ha popolarizzato i fan-zine e dato la possibilità a sempre più persone di scoprire e interagire con i fandom; oggi, Internet ha portato i fandom dall'essere una sottocultura che si muove e agisce nell'ombra a diventare fenomeno globale di cui abbiamo prova ogni giorno e a cui si può prendere parte senza sforzo. E proprio a proposito di Internet, c'è tanto, troppo, da dire, che vi dirò. Quindi iniziamo!

La storia dei fandom su Internet può essere ripercorsa tenendo in considerazione le principali piattaforme che i fan hanno utilizzato man mano che le nuove tecnologie di comunicazione si sono evolute; tra queste, tre sono importanti per definire gli aspetti di tre “ere” distinte del fandom: Usenet, LiveJournal e Tumblr.

Durante i primi anni di vita di Internet, prima del World Wide Web, erano in pochi ad averne pieno accesso: per interagire con altre persone sulla rete era necessario un indirizzo e-mail che più spesso veniva fornito a specialisti informatici nelle aziende o a studenti universitari. Questi furono tra i primi abitanti di Internet, e tra questi vi erano anche fan, che iniziarono a sfruttare le potenzialità della nuova tecnologia: dalle testimonianze che abbiamo oggi, sappiamo che tra i mezzi di interazione più comuni vi erano le mailing list e, successivamente, Usenet. Entrambi possono essere considerati dei precursori dei più moderni forum, in particolare Usenet ha rinforzato lo standard dei “thread” già utilizzato nei BBS

È proprio su Usenet che abbiamo alcune tra le prime interazioni tra fan che siano state archiviate su Internet, dove in diversi newsgroup (l'equivalente di un forum, con una propria utenza e argomenti di discussione prestabiliti) alcuni intrattenevano discussioni sui propri argomenti d'interesse, tra cui film e serie TV, e in certi casi si condividevano anche fan-fiction, proprie o di altri, con la possibilità di poter ricevere feedback dai lettori. Le mailing list, poi, hanno dato a molti editori di fan-zine l'opportunità di farsi pubblicità ad un pubblico più ampio e trovare nuovi autori da includere nelle loro pubblicazioni, anche se le limitazioni di banda dell'epoca costringevano a prediligere la carta stampata quando i zine includevano fan-art. Già da queste prime interazioni possiamo immaginare come la creatività dei fan fosse un importante fattore che ha portato molti a partecipare nei fandom, e la facilità di poter pubblicare i propri lavori online senza doverli far passare per un editore e di ricevere risposte immediate dai lettori ha contribuito.

Ma presto la comunità di Usenet dovrà scontrarsi contro un potente nemico... TO BE CONTINUED!

Per approfondire:

Fandom and the Internet su Fanlore, include alcuni commenti interessanti degli utenti sull'argomento, in più un link a probabilmente la prima interazione archiviata di un* fan su Usenet e collegamenti ad altro materiale di approfondimento.

 
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from fic

Mi scuso se parte (o tutto) di questo post potrebbe essere pieno di ovvietà per alcuni, ma è giusto per essere sicuri che siamo tutti sulla stessa pagina.

Inizierei quindi a definire il concetto centrale attorno a cui ruoterà tutto questo percorso: il fandom. Come per tante cose in questo ambito, cosa definisca veramente un fandom è abbastanza fumoso e aperto a diverse interpretazioni, ma per semplicità definiremo semplicemente il fandom come una comunità di appassionati (fan) che siano, quindi, in una rete più o meno fitta di conoscenze, scambi e interazioni. Un fandom potrebbe anche essere definito come una comunità di fan legata ad un prodotto o franchise mediatico (il fandom di Pokémon) oppure ad un genere specifico (il fandom della fantascienza), ma in questi casi stiamo sempre e comunque definendo delle comunità di appassionati, che abbiano o meno un oggetto di interesse comune.

Il termine “fan” è un'abbreviazione dell'inglese fanatic e pare sia stato usato inizialmente per riferirsi agli appassionati di sport nel XIX secolo, ma ha assunto la sua connotazione moderna a partire dal XX secolo con la crescita in popolarità del fandom della fantascienza negli Stati Uniti. Gli oggetti di interesse stessi dei fan e il livello di engagement necessario per poter essere considerato un fan non sempre sono definiti (potrei veramente considerarmi un fan della cioccolata se mi piace il suo sapore?), ma non è importante farlo qui e ora. Ciò che è importante, però, è che esistono dei paletti per definire un fandom, e cioè che i suoi membri sono parte di una comunità che interagisce, sia solo per mezzo di discussioni, scambiandosi o commerciando oggetti d'interesse o anche partecipando in attività da fan.

I fandom sono considerati delle vere e proprie sottoculture formate da individui che si riconoscono nei valori della comunità e che spesso integrano nella propria identità. Questo però non significa che i fan siano individui estraniati dalla società, anzi: Henry Jenkins (probabilmente la figura più conosciuta nell'ambito degli studi sui fandom) ha spesso sottolineato che i fan sono abili nel “rubare” contenuti dai loro libri, film, o serie TV preferiti per poterli reinterpretare in nuove forme, “evolvendosi” da semplici consumatori a produttori creativi di contenuto (evito di usare il termine prosumer perchè personalmente credo che non abbia senso). Questo è un concetto che io considero vitale nella mia tesi perchè nell'esperienza di molti fan creare fan-fiction e fan-art o consumare lavori di altri fan significa andare contro un sistema stabilito dai produttori di media che spesso non riesce ad adempiere all'esigenza di molte categorie di consumatori di sentirsi rappresentati:

Fan fiction is a way of the culture repairing the damage done in a system where contemporary myths are owned by corporations instead of owned by the folk. – Henry Jenkins, 1992 (in Textual Poachers: Television Fans & Participatory Culture).

Per ora credo vada bene se mi fermo qui. Per i prossimi post pensavo di seguire una cadenza settimanale e di pubblicarli nel week-end, quando mi prendo una pausa dallo studio. Alla prossima!

Per approfondire (oltre ai link già inseriti nel testo):

 
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from Pane e autocommiserazione

Capitolo precedente: Come sempre la festa di chi è

Il telefono segnava le otto e mi avvertiva di sei chiamate non risposte di Marco, tutte tra la mezzanotte e le quattro del mattino. Cosa avevo combinato? Le strade erano deserte e questo mi tranquillizzava molto, guido male col mal di testa. Due ciambelle e un caffellatte al McDonut's per colazione ed ero di nuovo a casa. Dovevo ricostruire la notte. Forse qualcuno che era alla festa poteva dirmi qualcosa. Prima di tutto dovevo chiamare Marco. Il bip del telefono penetrava nel timpano. “Dove sei? Stai bene?” “Sì bello, sto bene. Sono a casa” “Per fortuna! Ieri sera sei sparito da casa di Alice dopo che ti sei messo a parlare con quella biondina” “Io avrei fatto cosa?” “Non te lo ricordi? Bionda, bassina, occhialuta” “Non ricordo molto onestamente” “Almeno lei dovresti cercare di ricordartela” Bionda, bassa, con gli occhiali. Mi ricorda... “Sofia?” “E io che ne so, non me l'hai mica presentata. Anzi, a dire il vero non hai più parlato con nessun altro” Possibile fosse Sofia? Perché il passato doveva ricominciare a tormentarmi? “Senti grazie Marco e scusa, ma non ero in me... Ti richiamo più tardi” Probabilmente la risposta era arrivata dopo che avevo attaccato e cominciato a cercare il numero di Sofia in rubrica. Il bip del telefono martellava di nuovo nel cranio, a quanto pare non aveva più cambiato numero dopo tutti questi anni. “Pronto?” una voce dolce e calma spuntava dall'altoparlante e io ero di nuovo un ragazzino timido. “Sofia?” “Sì, chi parla?” “Sono... Sono... Dispiaciuto, credo di aver sbagliato numero” Stavo per chiudere quando “Francesco aspetta” “Oh, ehi, hai riconosciuto la voce?” “Veramente sui cellulari compare il nome della persona che sta chiamando” “Oh” Davvero? Un “oh” secco? Era tutto quello che sapevi fare? “Senti... Ehm, per caso ieri eri da Alice?” “La tua memoria non cambia mai eh? Ti sei già scordato di quel fantastico quarto d'ora passato in bagno?” Lei non poteva vederlo, ma sapeva benissimo che la mia mascella era appena arrivata a terra. “Eh...” “Sei stato molto carino ad aiutarmi a vomitare” “Ah” Sei diventato Monosillabo-Boy? “Ti sento deluso, che ti aspettavi?” “Io... Beh... No, niente” “Senti io ho ancora il tuo cappello...” “Mi fa piacere” “Sicuro che non lo rivuoi?” “No, sta meglio a te. Hai la testa più piccola della mia e a me non copre le orecchie” Una risata dolce e il mio cervello s'era liquefatto. “Va bene, va bene” “Comunque avevo chiamato per sapere di più su cosa fosse successo ieri notte” “...” “Qualcosa non va?” “Te lo dico se ci troviamo per un caffè” “Sai che non dico mai di no ad un caffè” “Per quello te l'ho proposto” “Facciamo alle 15, al Bios Cafè” Dopo quella telefonata il mondo sembrava diverso, il tempo sembrava scorrere più lentamente e le 15 sembravano non arrivare mai. Alla fine erano arrivate e il Bios Cafè era vuoto, come sempre. Spuntava da una sedia una giacchetta nera in pelle e una cuffia invernale con la fantasia simile al “nessun segnale” delle vecchie tv analogiche. Ero imbarazzato e agitato. “Ciao Sof” Sorrideva. “Allora non ti ricordi proprio nulla?” “Nulla di nulla” “Io sono arrivata da Alice che tu avevi già bevuto abbastanza” “...” “Ma tranquillo, era anche il mio intento. Infatti quando mi hai vista e mi hai offerto da bere non ho rifiutato” “Io? Io ti ho offerto da bere?” “Le magie che fa l'alcol, eh? Comunque me ne hai offerti tanti di bicchieri, così tanti che ti ho trascinato in bagno con me in fretta e furia” “Chissà cos'avranno pensato gli altri” “Nulla, dato che si sentiva da fuori che stavo rigettando anche l'intestino” “E dopo?” “Dopo siamo andati via perché insistevi a volermi riportare a casa” “Ma non avevo l'auto” “Te l'ho detto anche io, ma volevi comunque andare” “E cosa ho fatto? Ho rubato un'auto?” Sorseggiava il suo caffellatte guardandomi dritto negli occhia con un sopracciglio alzato. “Ho davvero rubato un'auto?!” “Secondo te? Di chi era l'auto in cui ti sei svegliato?” Sa che ho dormito fuori, fino a che ora siamo stati insieme? “Come sai che ho dormito in auto?” “Perché ti ci ho lasciato” “Hai guidato la mia auto?” “Solo dopo essermi ripresa, camminando fino a casa tua” Da casa mia a casa di Alice erano più di quattro chilometri, normalmente una persona con la mente funzionante ci impiegherebbe circa un'ora e mezza, noi eravamo in stato pietoso quindi ci avevamo impiegato... “Due ore e mezza, se te lo stessi chiedendo” “E non mi sono ripreso in due ore e mezza?” “Comunque hai provato a guidare, ma non riuscivi a trovare le chiavi della macchina per accendere e così hai deciso di provare a dormire sul volante. Dopodiché ti ho spostato sul sedile accanto, con molta fatica, e ho lasciato la macchina vicino casa” Vicino casa? Quindi abita vicino Roberta! “Conosci per caso una ragazza chiamata Roberta? Bassa, capelli castani, un po' timida...” “Certo, ha fatto scout con me per anni” Ma certo, stessa parrocchia. “Come mai lo chiedi?” “Era una mia compagna delle elementari, ci siamo rivisti da poco ad un funerale di una nostra insegnante” “Oh... Mi dispiace...” Il mio caffè era quasi finito e ne bevevo poco alla volta per farlo durare di più. Lei continuava a sorseggiarlo e a guardare fuori dalla finestra. “Comunque so che sta andando via, a Parigi credo” “Uh... Sì” Avanti chiediglielo, non sprecare questa occasione. “Sai se...” Ora mi guardava e aveva un po' lo sguardo perso nel vuoto. “Sì?” “Sai se, per caso, sia... Ecco... Se sia occupata” “Intendi...” “Sentimentalmente, sì” “Non lo so. Quindi ti interessa?” “Non so se voglio parlarne con te” Il silenzio che si era creato veniva interrotto ogni tanto solo dai suoni provenienti dalla cucina e da qualche sporadica macchina che passava di fuori. “Pensavo fossimo tornati amici” “Solo perché ci siamo presi una sbronza insieme?” “No, perché pensavo mi avessi perdonato dopo tutto questo tempo!” “Mi serviva per metabolizzare quello che mi hai fatto” “Sono passati otto anni Francesco, quanto tempo ti serve?” “Io ci tenevo, sei stata forse l'unica ragazza per cui non ho pensato 'forse è meglio così'. Volevo andare insieme a te nei musei d'arte e farmi spiegare tutto quello che non sapevo o andare al cinema e farti vedere dei film bellissimi e pesantissimi. Ma a quanto pare non provavi quello che pensavi dovesse essere'vero amore'” Mentre finivo di parlare aveva preso a fissare la tazza. “Ero piccola ed ingenua. Credevo ancora che l'amore fosse quello che vedi nei film, che ti innamori al primo sguardo... Mi dispiace, ma pure tu sei scomparso quando, avevi detto che saresti rimasto” “Certo che sono scomparso, io provavo davvero qualcosa per te. Dovevo dimenticarmene, come avrei potuto continuando uscire con te e gli altri?” Ora era tornata a guardarmi in faccia. “Mi sei sempre mancata in questi anni, anche se sono stato con altre” “E non potevi chiamarmi?” “Ma scherzi? Chiamarti? Per dirti che? 'Ehy ciao, sono Francesco, quello che hai mollato quel giorno al parco perché non avevi ancora capito se ti piacesse o meno il tuo migliore amico o se quello che provavi per me era il vero amore. Ti ricordi? Sì? Beh mi manchi e preferirei che questa chiamata fosse per dirti di andare a qualche mostra, ma non stiamo insieme perciò niente, buona vita, me ne torno a stare da solo'” “...” “Che c'è?” “Niente, io... Mi dispiace” “Anche a me” “Non credi che sia passato sufficientemente tempo per potermi perdonare?” “Ma io ti ho perdonata! Nn accetto il fatto che saremmo potuti essere felici insieme” Il mio caffè era diventato freddo e imbevibile, lei aveva la tazza vuota. Nessuno ci era venuto ad offrire altro perché non siamo in una tavola calda americana e se vuoi altro ti alzi e lo chiedi. Non disprezzo i silenzi, ma questo era davvero imbarazzante. E io non sono bravo a districarmi dalle situazioni imbarazzanti. “Sei sicuro che non vuoi il cappello?” “Ti ha stufato?” “No, ma magari... Non lo so...” “Tienilo, mi fa piacere che tu lo abbia” Guardando fuori continuavano a passare pochissime auto, le nuvole si raggruppavano minacciose, probabilmente a breve sarebbe piovuto. “Vuoi andare?” “Mmh?” “Fissavi fuori, pensavo volessi andartene” “No, guardavo... Niente. Forse però è ora che vada. Grazie per aver fatto luce su ciò che ho fatto mentre non ero in me” “Figurati, è stato carino riparlarti” “Sì, immagino di sì” Pagarle il caffellatte mi sembrava il minimo. Salendo in macchina pensavo che sarei dovuto andare al cinema, era da un po' che non ci andavo. La lista di orari che compariva sullo schermo del cellulare mi avvertiva che non c'era nulla di interessante, tranne un vecchio film uscito quando ero più giovane. Non c'era pericolo di incontrare troppe persone a quella proiezione, quindi per pensare sarebbe andato benissimo.

Capitolo successivo: Necessità

Originally wrote in 2017-02-15T00:34:00.000+01:00

 
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from Pane e autocommiserazione

Capitolo precedente: Porte che si chiudono

Il cinema era deserto, come previsto. La ragazza alla cassa masticava la gomma tenendo la bocca aperta, producendo il rumore tipico di chi deve esternare il fatto che stia ingerendo una buona dose di zuccheri e coloranti. “Hai la carta?” “No” “Sono otto euro e cinquanta” La sala era altrettanto vuota, di conseguenza il posto segnato sul biglietto non aveva più una particolare importanza. La pubblicità scorreva prima dell'inizio del film e una ragazza era entrata e si era fermata ad osservare le poltrone vuote. Salita al livello della mia fila, si era avvicinata a me. “Sei al mio posto” “Prendine un altro, sono tutti vuoti” “A me piace questo, l'ho scelto appositamente” Giovane, né bassa, né alta, riccia, viso rotondo e piccolo che faceva sembrare gli occhi più grandi e marroni del normale, labbra carnose, apparecchio. Mi fissava intensamente. Alla fine mi ero alzato, in silenzio, ed ero andato allo stesso esatto posto, ma una fila più avanti. Una canzone totalmente inappropriata accompagnava la pubblicità di una catena di ottici e la ragazza era spuntata dalla fila dietro sporgendosi sul sedile alla mia destra. “Come mai proprio questo film?” L'effetto sorpresa e la leggera incredulità non mi avevano fatto rispondere immediatamente. “Perché non lo vedo da molto tempo” ed ero tornato a guardare la pubblicità delle piccole imprese locali. “Pensavo che sarei stata da sola in sala” “Anche io. Evidentemente...” “Ti do fastidio?” Evidentemente i miei piani di starmene tranquillo erano sfumati. “Solo se parli durante il film” “Sai che è il mio regista preferito?” “No, non lo so, perché non so neanche come ti chiami” “Indovina” “Cosa? Il tuo nome?” “Sì” “Non ha senso, perché non me lo dici e basta?” “Non sarebbe divertente” “Non deve esserlo. A dire il vero non te l'ho neanche chiesto” “Sì che lo hai fatto” “Ti ho detto che non so come ti chiami per farti capire che no, non posso sapere chi sia il tuo regista preferito se non so neanche una cosa basilare come il nome” “Dai, dicono sia un nome da borghese” “Non mi interessa” “E dai!” I soldi del biglietto erano l'unica cosa a trattenermi al cinema. “Carmela” “No, ma che nome è?” “Un nome” “Un nome da borghese” “Elisabetta” “No” “Senti mi sono stufato, se vuoi dirmelo fallo e basta” “Sei noioso. Mi chiamo Ludovica” Capirai. “Francesco, ciao” Nel frattempo le luci si erano spente e i trailer erano cominciati. Poi era cominciato anche il film e poi era arrivato l'intervallo. “Francesco” Sigh. “Cosa?” “Vuoi andare a bere dopo il film?” “Non ci conosciamo” “Appunto, per conoscerci” Perché mi hai abbandonato, solitudine? D'altra parte, però, che avevo da perdere? “Va bene, ma domani lavoro e non mi va di fare tardi” “Shh che ricomincia” Odiosa e insopportabile. Proprio il tipo che mi scelgo di solito. Più si avvicinava la fine del film, più l'ansia cresceva. L'ansia per qualcosa di sconosciuto. Che voleva da me? I titoli di coda scorrevano e io mi stavo già alzando. “Che fai, non li guardi?” “Li conosco” “Aspettami al parcheggio” Pure. Aveva piovuto, le scale antincendio luccicavano alla luce dei lampioni e sentivo entrare l'umidità ad ogni respiro. “Mi hai aspettata!” “Non dico cazzate” “Quindi andiamo a bere qualcosa?” “E andiamo un po'...” “Guidi tu?” “Scherzi?” “Certo, mica vado in macchina con gli sconosciuti. Stammi dietro, ti porto in un posto carino” Era effettivamente un posto carino, con musica live e tanti tavolini sparsi qua e la. “Allora, Francesco, cos'è che ti ha spinto ad andare al cinema stasera?” “Sei diventata una psicologa adesso?” “Chi ti dice che non lo sia?” “Lo sei?” “Lo sono?” Cosa ci faccio qui? “Non lo so. Lo sei?” Mi ero ritrovato a fissarla negli occhi, un po' adirato. “Che scorbutico, non si può neanche scherzare un po'. No, non lo sono” “E cosa fai, allora? Oltre ad invitare gli sconosciuti a bere” “Studio cinema” Ma non mi dire “Ma non mi dire” “E tu? Cosa fai?” “Sono un programmatore” “Ah che bello! Devi essere molto intelligente per fare questo lavoro!” “Non hai idea di quanto questo sia falso” “Davvero?” “Oh, sì” “Mi sembri comunque una persona intelligente” “Beh, grazie” Ed ecco che se ne andava il primo boccale di birra. “E io come ti sembro?” In cerca di attenzioni e molto sola “Mi sembri carina” Sorridendo, mi aveva preso la mano. Non stavo spostando la mia. Perché? Perché non succedeva da tempo e anche se sapevo che non portava nulla di buono, perché era solo una ragazzina in cerca di attenzioni, mi piaceva quel momento. Dopo qualche secondo avevamo ritirato entrambi la mano dopo che la cameriera era venuta a ritirare il mio bicchiere vuoto e a chiedere se volessi altro. La birra era arriva mentre Ludovica mi stava raccontando di quanto le sarebbe piaciuto andare a vivere a Parigi e andare ogni giorno nei cafè a scrivere. Che sogno originale. Ma non me ne importava, sapevo che le avrei dato le attenzioni che voleva finché mi avrebbe fatto comodo, dopodiché fine, nulla. “Dimmi, Francesco, sei impegnato?” “Con il lavoro dici?” Io avevo capito benissimo e lei pure, ma rideva. “Ma no, intendo se hai una ragazza” “Secondo te se avessi una ragazza accetterei l'invito di un'altra?” “Beh io un ragazzo ce l'ho, eppure eccomi qui” Chiunque avesse incontrato questo tipo di ragazze per la prima volta ci sarebbe cascato, ma non è il mio primo rodeo. “Ah sì? Non è geloso?” “Perché dovrebbe? Sa che non lo tradirei mai” “Io sarei geloso lo stesso” “Perché sei un bravo ragazzo” Fino a quando sarebbe andata avanti? “Francesco, ti piace Twin Peaks?” “Lo adoro” “Ti andrebbe di guardarlo assieme, stasera?” “Intendi ora?” “Esatto” Perché no? Cos'avevo da perdere? “Certo, mi farebbe piacere” E così, l'avevo seguita fino a casa sua. Aveva un appartamento piccolo, da studente, ma in ordine. La sala era anche la cucina, dopo di quella c'era da una parte la stanza da letto e dall'altra il bagno. Pochi mobili, sulle pareti i poster di film erano incorniciati e la tv stava appoggiata sopra una cassa di legno chiusa con un lucchetto. “Fammi indovinare, adori Pulp Fiction” “Tu no?” “Diciamo che non è tra i miei preferiti” “Quindi non ti andrebbe di guardarlo?” “Pensavo fossimo qui per Twin Peaks” “Era un test, per vedere se stavi attento” Che originalità. Mi aveva di nuovo preso la mano, mi aveva fatto sedere sul divano di fronte alla televisione e poi si era girata per andare ad inserire il dvd nel lettore. Indossava delle calze scure e delle mutandine bianche di pizzo. Lo so perché si era chinata esattamente davanti a me, mostrandomi ciò che si nascondeva sotto una minigonna di jeans scura. Si era girata, ma io non avevo distolto lo sguardo. Era rimasta a fissarmi per un attimo, poi aveva spento tutte le lampade tranne una che lasciava una calda luce fievole e si era avvicinata al divano. “Dai fammi spazio” Stavo guardando Twin Peaks a casa di una sconosciuta. C'era un che di ironico in tutto questo. Mentre Badalamenti stava suonando le ultime note della sigla, lei si era tolta le scarpe e aveva poggiato i piedi sul divano, appoggiando le spalle sul bracciolo. Piano piano aveva fatto scivolare i piedi fino alla mia gamba, infilandoli sotto, mentre io facevo finta di non accorgermi. Nessuno dei due stava realmente seguendo cosa stesse accadendo nella tranquilla cittadina di Twin Peaks, il divano era molto più interessante. Senza offesa, Lynch. Mi era per sbaglio scivolata la mano destra su una delle sue caviglie che spuntavano da sotto la mia gamba e lei non aveva fatto una mossa. Ora la mano era scivolata più su, sempre per sbaglio, fino al polpaccio. Poi aveva superato il ginocchio, fino ad arrivare all'interno coscia. Stava ancora fissando lo schermo. Molto lentamente stavo spostano la mano verso l'interno, arrivando fino alle mutande. Il dito medio stava facendo su e giù e Ludovica aveva divaricato un po' le gambe. Sentivo il cuore battere forte e la testa farsi pesante, non ragionavo più. Il ricordo confuso di calze strappate, indumenti volavano in ogni direzione mentre ci scambiavamo baci, a volte lunghi e appassionati, a volte brevi e sfuggenti. Ora se ne stava nuda alla finestra, a fumare una sigaretta. “Sicuro che non ne vuoi una?” “Sì, sono sicuro, grazie” “Va bene... Sono le nove, se vuoi ordiniamo una pizza per cena” “Penso che andrò a casa a cenare” Si era bloccata, guardandomi mentre la sigaretta si fumava da sola fuori dalla finestra, un piede sopra l'altro. “Ma come? Neanche se te la offro?” Non è una cosa che può funzionare questa, né per me, tantomeno per te. “No, mi spiace, ho... Delle cose da fare” Continuava a fissarmi con sguardo perso. Alla fine si era girata verso la finestra, fumando l'ultimo centimetro di sigaretta. Mi ero rivestito e uscito da casa sua, avviandomi verso la macchina. Il cellulare aveva vibrato, era un messaggio, diceva: “Fra', sono Maria... Sono in città per qualche giorno e mi chiedevo se ti andasse di prendere un caffè insieme”.

Capitolo successivo: Silenzi

Originally wrote in 2017-05-31T01:02:00.001+02:00

 
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