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from La Soffitta di Scott

Roberto uscì dalla casa affaticato dai pesanti bagagli che stava andando a caricare nella sua berlina di terza mano – forse anche terza mano – ma qualcosa intralciò il suo piede destro e finì a terra, rompendo uno dei vasi del giardino davanti l’entrata – non erano neanche suoi, stupida vecchia del terzo piano.
Rialzandosi a fatica e con qualche acciacco alla schiena, buttò uno sguardo verso il balcone della rompiscatole: a quanto pare, non si era accorta. Raccolse in fretta le valigie e diede un calcio ai rimasugli del vaso per nasconderli, inutilmente, pensò. Dio se odiava quella vecchia.
Si diresse alla macchina, una berlina color verde vescica, ammaccata sul lato destro – probabilmente uno dei ragazzini di quartiere non l’aveva ritenuta di suo gradimento; Roberto non avrebbe potuto dargli torto – una bella lezione – però – sarebbe stata l’ideale.
Aprì il portabagagli rischiando di far cadere di nuovo tutte le valigie, buttò queste dentro, chiuse la porta e si scagliò a tutta velocità verso la portiera del guidatore, che trovò chiusa. Riprese le chiavi, aprì, si sedette – buttando nel frattempo la giacca nel sedile del passeggero – mise in moto e finalmente partì.
Le strade erano quasi del tutto deserte e ogni semaforo era verde; era anche ora di pranzo. “Il pranzo!”, pensò Roberto. Stava già pregustando l’ottimo panino confezionato che avrebbe dovuto ingerire al check-in dell’aeroporto al posto dell’insalata di pollo, preparata da Margherita un’ora prima della sua partenza.
Arrivato al parcheggio dell’aeroporto – con largo anticipo – lesse sul cartello elettronico del parcheggio sotterraneo: “Posti rimanenti: 0”. “Mi è andata anche fin troppo bene per ora in effetti…” e nel frattempo svoltava per tornarsene al parcheggio all’aperto, dall’altra parte dell’aeroporto.
Dopo aver passato due parcheggi troppo stretti per la sua macchina, un altro occupato da una sola macchina e un’illusione creata da una Smart, si infilò in fretta e furia nel parcheggio tra il marciapiede e un grosso SUV bianco che sembrava appena uscito dall’autosalone. 
Roberto, aperto il portabagagli, notò che la valigia più piccola si era aperta e ne era uscita buona parte del contenuto; mentre stava risistemando tutto all’interno sentì il cellulare squillare.

«Dimmi Margie» disse col cellulare tra l’orecchio e la spalla sinistra.
«Ti sei scordato il pranzo Rob! Cavolo, non posso neanche uscire per due secondi?»
«Sei stata fuori un’ora. E comunque andavo di fretta… Ah se la vecchiaccia del piano di sotto chiede qualcosa a proposito di un vaso: tu non sai niente» e richiuse il portabagagli, finalmente.
«Ma io non so niente Rob, quale vaso?» disse Margherita, quasi urlando.
«Così andrà benissimo, perfetta!»

«Lasciamo perdere» con aria seccata, della quale Rob non sembrò accorgersi «sei già in aeroporto?»
«Sto entrando in questo esatto momento, devo trovare il check-in per Parigi»

Guardandosi intorno, vide veramente poche persone per essere un aeroporto: togliendo la sicurezza, gli addetti al check-in, i camerieri dei bar e altro personale dei negozi, non c’era praticamente nessuno.
“Ma certo, sono entrato dall’entrata laterale ecco perché”
Si diresse quindi verso la parte centrale dell’aeroporto, incontrando inservienti e vari addetti alla sicurezza, che neanche lo guardavano poi.

Arrivato davanti l’entrata principale si volse a guardare il grosso tabellone con gli orari degli orari e delle partenze.

“Parigi… Parigi… Oh andiamo ma non potevano ordinarli alfabeticamente?” 
Dopo aver scorso la lista due o tre volte, trovò il suo volo «Ah eccolo, volo 6429 per Parigi… Chek-in 19»
«Credo sia da quella parte signore» fece un inserviente nei paraggi, indicando verso il lato opposto dell’atrio dalla quale era venuto Rob.
«Beh, grazie mille» e seguì l’indicazione.
«Ah Rob, una cosa!»
Roberto trasalì e si volse lentamente.

«Io non salirei su quell’aereo fossi in te»
L’inserviente aveva stampato in faccia un sorriso piuttosto inquietante e una cicatrice sul lato destro della faccia, che inizialmente non aveva proprio notato.
«Ma cos… Come sai il mio» nel frattempo un vetro esplose, uno stormo di rondini entrò dalla finestra creatasi poco prima e un bidone nei paraggi del bagno cominciò ad eruttare una sostanza viscosa, somigliante al caramello, ma di colore rosa.
«Non posso rispondere a questa domanda. Non ora almeno»
Il corpo dell’inserviente cominciava a svanire nel nulla, come fosse un fantasma. Ma a Rob questo non piacque.
«Che razza di discorsi fai?!» 

Il suo sguardo era a metà tra il confuso e lo spiazzato «Cosa dovrei fare ora? Dirti “Ehi amico, col cavolo che mi faccio abbindolare da un trucchetto banale come quello, io prenderò quell’aereo!”, vero?» fece una pausa e fissò dritto negli occhi, svaniti per metà, l’inserviente, che nel frattempo aveva assunto involontariamente uno sguardo inebetito.

«No, bello. Io annullo il viaggio. Sai quanto me ne frega? Tanto neanche ci volevo andare a Parigi!» Falso, non aspettava altro «E poi, scusa eh, ma se volevi che ci andassi non bastava che mi lasciassi fare il check-in, prendere l’aereo e fine?»

Ora l’inserviente-fantasma era del tutto sconcertato, aveva anche la mascella mezza aperta e si stava grattando dietro l’orecchio destro. Per circa due minuti i due si guardarono intensamente, e se la situazione fosse stata diversa, qualcuno si sarebbe aspettato un bacio appassionato. Ma grazie a Dio non è quel tipo di racconto.


Comunque, Rob era furioso, il volo per fortuna non sarebbe partito prima di mezz’ora e il suo stomaco cominciava a ricordargli, piuttosto prepotentemente, che stava a secco da ore.

«Perlomeno non restare mezzo invisibile, un po’ di decenza!»
L’inserviente improvvisamente si fece serio in viso, con sguardo fermo su Roberto divenne nitido e aprì la bocca come per dire qualcosa. La richiuse immediatamente, un ghigno spuntò dalla sua bocca e in una frazione di secondo le luci si spensero.

Originally wrote in 2014-07-22T22:25:00.000+02:00

 
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from Does GLaDOS dream of electric ships?

Salì fino in cima al monte, sfruttando tutte le sue capacità per arrampicarsi, facendo attenzione a dove mettere i piedi. Era in cima, ce l’aveva fatta. Mentre osservava il paesaggio sotto di sé ripensò all’inizio, quando era ancora a valle, quando era solo uno dei tanti che camminava a casaccio senza uno scopo. E ora – pensò – guardatemi cavolo, sono in cima, ce l’ho fatta! Ho superato le aspettative di tutti e ho raggiunto il mio scopo! Si guardò intorno, vide solo qualche sparuto ciuffo d’erba, un paio di massi ricoperti di muschi e una panchina con una targhetta placcata d’oro su di un lato. Avvicinandosi lentamente alla panchina sentì una leggera brezza accarezzargli la faccia e le braccia; era una bella giornata di fine primavera, una di quelle che ti puoi godere a pieno solo quando te ne stai fermo a non fare niente. Osservò la panchina da vicino, era piuttosto vecchia e sembrava che se qualcuno ci si fosse seduto sarebbe sicuramente caduta a pezzi.Ma la parte interessante era la targhetta d’oro, così si avvicinò al lato destro della panchina. La targhetta aveva incise le parole “Mi spiace, ritenta”. Mentre si stava dirigendo di nuovo verso il dirupo che dava sul panorama, il vento cominciò ad alzarsi, il Sole scomparve dietro cupe e pesanti nuvole color plumbeo e la temperatura scese istantaneamente. Voltandosi di scatto notò che la panchina era scomparsa, al suo posto era comparsa una grossa freccia gialla che puntava verso di lui. Girandosi verso valle, avvertì una spinta da dietro che lo fece precipitare giù per il dirupo. Mentre precipitava verso la grigia montagna rocciosa echeggiò un suono che pressappoco assomigliava a “Sarai più fortunato”.

Originally wrote in 2014-03-11T23:40:00.000+01:00

 
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from Pane e autocommiserazione

La pioggia ticchettava leggera sugli ombrelli neri, aperti sopra le teste degli invitati. Erano circa una trentina, tutti vestiti di scuro, chi in maniera elegante, chi no. Un chirichetto reggeva un ombrello più grosso di lui, cercando di coprire il prete: un anziano signore che stava recitando le solite parole confortanti dirette ai familiari. Un grosso uomo era seduto su una sedia a fianco la tomba, era vestito di nero e aveva un bizzarro papillon giallo oro. La sua faccia era piatta, non lasciava trapelare emozioni di nessun tipo. Fissava qualcosa per terra, poco lontano dai suoi piedi. Non aveva distolto lo sguardo neanche per un secondo, ormai da mezzora. “Ora che è stata chiamata da Dio al Suo cospetto, è in un posto migliore”. Un tuono preannunciava l'arrivo di una tempesta. Ovviamente ero uno dei pochi senza ombrello, ma per fortuna indossavo l'impermeabile. Mancava ancora mezzora alla fine di questo strazio. Mi trovavo li solo per una questione di rispetto, non andavo a messa da anni. In più non avevo per niente voglia di rivedere certe persone, ma per una volta non sarei morto. Invece mi sarei preso una polmonite, se non fosse che ad un tratto si era avvicinata una ragazza: bassa, capelli lisci, castani, sembrava un po' impaurita, non so se dalla situazione o dal temporale. “Ti serve un ombrello?” La sua voce era gentile, ma lei sembrava impaurita, come se un coniglio si fosse alzato in piedi e avesse porto una zampa all'uomo col fucile davanti a lui. “Certo, credo che il tempo tenda a peggiorare” Lei non rispose. Cercavo di essere gentile e di ricordarmi chi fosse. Passammo il resto del tempo in silenzio. Io pensai a quanto fosse incredibilmente stupido tutto questo e nel frattempo gettavo occhiate incuriosite verso la timida ragazza che mi stava a fianco: cercava di sembrare a suo agio, nonostante fosse palese l'agitazione. Per cosa agitarsi? Forse era una parente? Una nipote? La messa era finita, sarei potuto finalmente tornare a casa, per concludere la giornata nel migliore dei modi: tanto alcol e una dormita. “Tu sei Francesco vero?” Mi sembrava abbastanza sicura da poter evitare la domanda. “Ehm, sì. Sì, sono io...” “Non ti ricordi di me, vero?” Non riusciva a tenere la testa alta mentre lo diceva, si fissava le scarpe nere, lucide. E no, non mi ricordavo. “A volte ho la memoria che non funziona benissimo” “Roberta... Andavamo a scuola insieme” A scuola? Quindi alle elementari. Una vita fa, praticamente. Roberta, sì, forse? La ragazza con cui non ho mai parlato per cinque anni perché lei era troppo timida e io troppo emarginato? Forse cominciavo a ricordare. “Non abbiamo mai parlato molto, giusto?” “Non abbiamo mai parlato, direi” Aveva distolto lo sguardo, tornando a fissare le scarpe. Era calato il silenzio, cosa che a me personalmente non disturbava, ma a lei? Quasi paradossalmente sarebbe stato il caso di chiederlo. “Ti disturba il silenzio?” “No, in genere no” Interessante, ma non ci credevo molto. Una manciata di secondi più tardi, “È un peccato che sia morta, non trovi?” Ma non le piaceva il silenzio? “Sì, anche se non la vedevo da anni. Mi ero ripromesso che un giorno sarei tornato a trovarla, invece non l'ho più fatto” “Come mai?” “Sono pigro” “E basta?” Mi fermai a riflettere. “No. Ma non credo di volerlo ammettere” Il vialetto che portava al parcheggio stava finendo. “Hai la macchina qui immagino” “Sì, ti serve un passaggio?” “Oh, no... Ho un – io abito qui vicino” “Come vuoi. Grazie per l'ombrello” “Figurati. Allora, ehm, ci vediamo, ciao” Era stata rapidissima, uno scoiattolo sarebbe stato più lento. Durante il tragitto in macchina mi era venuta fame e avevo incrociato uno di quei grossi cartelloni pubblicitari, riportava: “McDonut's, le migliori ciambelle del Paese. Tra 200m” e sotto una grossa freccia che indicava la direzione. Una, ma cosa, due belle ciambelle, perché no? In fondo mangiare è una delle poche cose che mi rende felice. Mentre parcheggiavo ripensavo a Roberta: come mai si era avvicinata? Come mai tutto d'un tratto voleva parlare con me? Sono solo da troppo tempo, sto diventando paranoico? Una ragazza non può cambiare con gli anni? Ma lei non sembrava cambiata, sembrava sempre la stessa timida ragazza dalla pronuncia strana. Il cassiere mi stava guardando in maniera strana, probabilmente mi ero scordato di fare qualcosa. “Vuole ordinare, signore?” “Oh, ehm, sì, prendo due ciambelle, una al cioccolato e l'altra con la crema, ricoperta di glassa” Il posto era semi vuoto. Sfido io, chi deve esserci ad Agosto in un posto desolato e triste come questo? La pioggia, poi, rendeva tutto più cupo e malinconico. Credo di aver sempre amato la malinconia. L'essere triste in generale mi portava un senso di soddisfazione. Paradossale come la tristezza possa farti provare un sentimento quasi opposto. O forse, in questo momento, mi sentivo bene per via delle ciambelle. Avevo deciso, inoltre, che non ci sarebbe stato nulla di meglio che accompagnarle con del tè caldo. Erano passate svariate decine di minuti e la pioggia non smetteva di scrosciare sul marciapiede. Tanto valeva andare a godersi la pioggia a casa. La giornata tendeva al termine, i lampioni illuminavano la pioggia che cadeva inesorabile, mentre io mi infilavo nell'ennesima coda di macchine e guardavo la scatola di sigarette sul sedile passeggeri. Non fumavo, non ho mai fumato, non regolarmente almeno. Quel pacchetto era lì per ricordarmi che avevo un conto in sospeso con un'amica. Ma non era ancora il momento di saldare quel conto. In compenso ora dovevo cercare di arrivare a casa il prima possibile, tutto quello stare in giro mi aveva dato la nausea. Incrocio dopo incrocio, ero finalmente a casa. Un tempo avevo progettato il mio meraviglioso appartamento da uomo single, con un lavoro e tutto il resto. Avrei dovuto sapere già al tempo che le cose non vanno mai come le progetti. Non nei minimi particolari, almeno. Mi aspettavo un lavoro non grandioso, ma neanche pessimo. Non ci sono andato lontano. La casa era, ovviamente, come l'avevo lasciata: buia, fredda e silenziosa. L'unico rumore che si sentiva era il fievole sibilare degli elettrodomestici e delle ventole del computer. La sala era illuminata dalle varie luci di tutti gli aggeggi sparsi in giro: tv, computer, stereo, telefono. In genere, non amando la luce, mi accontento dei led per poter vedere dove cammino. Quel giorno non sarebbe stato da meno, avevo lasciato tutto sul divano e me ne ero andato in bagno. Trovo particolarmente rilassante lavarmi la faccia, guardarmi allo specchio, per vedere le gocce d'acqua scendere pian piano sul viso, arrivare alla barba e fermarsi e restare, poi, qualche minuto a fissare l'immagine di me incorniciata dai prodotti per la pulizia, lo spazzolino e le lampadine dello specchio. A volte pensavo a cose successe in passato, a volte a fatti recenti, quella volta pensavo di nuovo a Roberta. Cosa mi aspettavo? Una telefonata? Un messaggio? Qualcosa, sicuramente. Nessuna chiamata o messaggio, nessuna richiesta di amicizia nei vari social network, neanche un'email. Era veramente finito tutto oggi, dopo il funerale? Aveva detto “ci vediamo”, era tanto per dire? Ma perché mi stavo facendo quelle domande? Era da molto che una ragazza non mi faceva quell'effetto. Avevo deciso che era tempo di aprire il frigo e tirare fuori la prima birra della serata, andare sul divano e perdere la cognizione del tempo, finché la fame non si sarebbe fatta sentire ancora, verso mezzanotte. Allora avrei tirato fuori altro dal frigo, insieme all'ennesima birra. Poi, come sempre, mi sarei addormentato sul divano. Invece non avevo fatto in tempo a chiudere lo sportello del frigo che il telefono stava squillando.

Capitolo successivo: Come sempre è la festa, di chi è

Originally wrote in 2015-09-07T21:35:00.002+02:00

 
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from Pane e autocommiserazione

Capitolo precedente: Perché piove sempre ai funerali?

“Pronto?” “Ehi bestiaccia, come stai?” Marco. “Al solito” “Lo immaginavo. Ascolta: domani, casa di Alice, ore 21,vestiti bene ma non troppo elegante” “Non c'è pericolo” “Vestiti bene, dai, non farmi fare brutte figure. Ti passo a prendere alle 21 e 30, fatti trovare pronto che non voglio tardare” Il bip del telefono occupava il vuoto lasciato dalla cornetta riagganciata dall'altra parte. La notte era andata come previsto, tanta birra e pochi pensieri. Un raggio di luce filtrava dalle tende e finiva sui miei occhi, come nei migliori film. Alzandomi avevo buttato a terra tre o quattro lattine vuote, probabilmente sarebbero rimaste lì fino quando non ci sarei finito sopra con un piede. Il cellulare non aveva messaggi o chiamate perse. Stupido. Avrei dovuto occupare mezza giornata. C'era da finire quel cofanetto di documentari che un giorno mi avevano prestato e mai più chiesto indietro. Non ricordo neanche di chi fossero. Tutta roba noiosa, ma sempre meglio dei programmi in televisione. Quella roba ti scioglie il cervello. Dopo aver messo su un disco a caso partiva la sigla. Era molto rilassante, anche se alla lunga cominciava a dar noia. Il documentario trattava la guerra civile avvenute in Inghilterra dopo l'uscita dall'Unione Europea. Salì al potere una figura che inizialmente sembrava operare per il bene della popolazione, ma quando si accorsero che il suo piano era un altro era ormai troppo tardi. La polizia massacrò migliaia di persone fino a che partirono centinaia di rivolte per tutto il paese. Intervenì anche l'esercito e fu una carneficina. Da questo punto in poi il buio. Troppo soporifero. Meglio così, al mio risveglio erano passate già quattro ore, avevo tutto il tempo di prepararmi con calma e mangiare. Il getto gelido della doccia mi aveva fatto sussultare. Respiro affannato, a tratti soffocato. L'acqua mi impediva di respirare. Poi ecco di nuovo che i polmoni riprendevano a funzionare. La calma. Il corpo si era abituato e l'acqua scorrendo copriva le orecchie. Il mondo produceva un suono ovattato mentre io mi cullavo in un movimento ipnotico cercando di rimanere sotto il getto protettivo dell'acqua. Un'ora e mezza dopo mi stavo finendo di preparare e stavo per scendere dopo aver ricevuto la chiamata di Marco. Casa di Alice era in centro, in un enorme e nuovo palazzo di una dozzina di piani. La porta non aveva il campanello, ma un pesante battiporta che sembrava esser placcato d'oro. Una voce nasale e poco acuta stava parlando. “Ehi! Benvenuti!” “Grazie Alice, non potevamo mancare!” “Come stai Francesco?” Conduco la solita triste e mediocre vita di sempre, e ho per la testa una ragazza che non vedevo da vent'anni. “Bene” “Loquace come sempre” “Parlare non mi si addice” “Lo sappiamo benissimo. Venite, ci sono già delle persone” La sala più grande, quella piena di gente, era molto spaziosa e pulita, mobilia in legno di colore chiaro. Gruppi di ragazzi e ragazze, tutti sulla trentina, parlavano intensamente con bicchieri e piatti in mano. C'è una cosa che non mi è mai passata ed è la voglia di mangiare. Stavo prendendo del cibo dal tavolo del buffet ed ecco una mano afferrarmi. “Q-q-quanto tempo!” Riconoscerei quel balbettio anche dopo mille anni. “Nicola? Oh Dio, quanto tempo!” Ero realmente sorpreso. Non lo vedevo da troppi anni, da quando aveva cambiato città e smesso di suonare insieme. “P-paarecchio! Ti vedo b-bene però” “Potrebbe andare peggio” “Non ti smentisci m-mai eh? Co-ooo-munque lei è la mia ra-ragazza, Chiara” Alta quanto me, mora, bei boccoli uscenti da un sobrio cappello nero. “Piacere” Sorrideva e aveva una forte stretta di mano. Il volto era familiare. “Ci siamo già visti?” “Forse a u-u-una mia festa di compleanno” Già, forse. “Tieni” Alice mi aveva porto un bicchiere pieno davanti la faccia. “Spero sia alcolico” “Così mi offendi” Non avevo fatto in tempo a scolarlo che già era di nuovo pieno. Questo svuota-riempi continuò per un po', non so quanto di preciso. Ricordo solo di aver incontrato altre persone, ma non le conversazioni. Sta volta la luce passava dal finestrino della macchina. Ero disteso sul sedile posteriore della mia auto. Quindi ero vicino casa? E in caso, per quale motivo avevo dormito in macchina? Alzandomi, oltre ad un gran mal di testa, sentii le campane suonare. La chiesa si ergeva di fronte a me, io invece me ne stavo in piedi appoggiato al cofano della macchina. La piazzetta era deserta, doveva essere molto presto. Osservavo come il vento smuovesse i rami degli alberi, quando una figura si materializzò in lontananza. Mentre si avvicinava notavo sempre più particolari: capelli castani, un maglione lungo fino alle cosce, calze, stivaletti neri. Che fosse Roberta? Mi ero staccato dalla macchina per camminare a fatica verso la figura. Era proprio lei, ma cosa ci faceva qui? “Io abito qui vicino, ricordi?” Certo che lo ricordo “Oh, giusto” “Cosa fai tu qui, piuttosto” “Io... Dormivo” “In chiesa?” “No, in... In macchina” Mi guardava come se fossi un pazzo o un barbone o entrambi. “Non ricordo perché, però...” “Fatto serata?” “Già...” “Che strano, per tantissimi anni non ci siamo visti e ora ci siamo incontrati due giorni di seguito” “È molto strano. Oh, ehi, ti andrebbe di vederci un'altra volta? Per un caffè o un gelato” “Non mi piace il gelato. Comunque non credo di potere” “Ah...” “Perché me ne vado” “Ah... Ah si?” “Vado a Parigi, per lavoro” “Ma poi torni?” “No. Non subito, comunque” Ero un po' morto dentro. Ci si presenta così, dopo anni e anni, offrendo un ombrello e poi si sparisce? “Senti io devo andare, magari ci risentiamo” Ed era sparita.

Capitolo successivo: Porte che si chiudono

Originally wrote in 2016-11-28T01:37:00.000+01:00

 
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452 chilometri. Questa è la distanza che devo percorrere per andare da Ancona a Trento. Trenitalia è il mio autista. La durata del viaggio è all'incirca di quattro ore e mezza, compresa di cambio e salvo imprevisti. I famosi disagi di Trenitalia. Questa volta, però, il disagio me lo sono creato da solo. Certo, potrei incolpare il sito di Trenitalia che è fatto da programmatori-scimmia che scrivono senza braccia e sotto l'effetto di droghe psichedeliche, ma sarebbe solo una mezza verità. La verità è che questa volta a fare la cazzata sono stato io, e quando me ne sono accorto ho capito cosa possa aver provato un turista in visita a New York in un afoso pomeriggio, l'11 Settembre del 2001. Partiamo dall'inizio.

Esco di casa con mio padre alle 16:42, pronto a farmi portare in stazione. Durante il viaggio mi viene chiesto se il treno parte da Ancona o se è già in viaggio. Questo mi ricorda che devo scaricarmi i biglietti sul cellulare. Così vado nelle email e già che ci sono guardo il numero del primo treno che devo prendere: 8886. “Strano”, penso “non lo avevo mai visto”. Su viaggiatreno scopro che il treno che cerco non è disponibile. Comincio ad insospettirmi. Googlo il numero del treno e scopro che il treno esiste, ma il tracciamento non è disponibile. Penso che avranno qualche problema, d'altronde quando mai non succede?

Alle 17:10 sono in stazione, mio padre mi ha lasciato senza parcheggiare, per comodità. Tra esattamente 16 minuti dovrebbe partire il treno. Alzo la testa per leggere il tabellone delle partenze e cerco il mio treno. Non c'è. Al suo posto c'è un treno col numero simile: 8826. Prendo il biglietto e controllo di nuovo il numero, magari mi sono sbagliato. “Otto otto otto sei, è giusto”. Mentre l'occhio vaga per lo schermo del cellulare, in cerca di punti di appoggio da cui apprendere informazioni (amici biologi/gente che conosce il funzionamento dell'occhio meglio di me, mi scuso) si posa su una serie di numeri divisa da una barra obliqua che pende verso destra: “16/06/2018”.

Il cuore si ferma, il sangue pure. Il sudore esce dai miei pori come l'acqua da una spugna imbevuta e strizzata. Cerco la data odierna per essere sicuro di tornare coi piedi sulla Terra. Oggi è il 9 Giugno. Il nove. Mi maledico mentre respiro affannosamente. Raggiungo l'app per chiamare e mi faccio consigliare da mio padre di vedere se c'è un treno che posso prendere da un'altra città. Questo mi ricorda che posso provare a vedere se alla biglietteria automatica c'è qualcosa di veloce. Scopro che posso ancora comprare il biglietto per il treno giusto. A questo punto vorrei fare una digressione su quanto sia sadico chi fa i software per Trenitalia. Ho cercato di mantenere la calma il più possibile, senza premere pulsanti a caso. Ad ogni domanda entravo in crisi.

“Attenzione, stai acquistando il biglietto di un treno che arriverà tra meno di 5 minuti, sei sicuro di voler continuare?”“Mancano esattamente tre minuti alla partenza del treno, sei sicuro di volerlo acquistare?” Sì, dannazione, dammi quel maledettissimo biglietto e lasciami in pace. Trenitalia riesce persino a farmi preferire l'interazione con le persone piuttosto che con le macchine. Comunque il biglietto viene stampato, ma con una lentezza tale che probabilmente il processo di emissione del biglietto parte dalla creazione della cartoncino stesso. Il treno è in perfetto orario. Il mio biglietto è convalidato. I miei soldi sono gettati al vento.

Originally wrote in 2018-06-09T18:24:00.001+02:00

 
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Robert Lask era una persona squisita, un filantropo, un precursore dei tempi. Così dicevano tutti quando parlavano dell'uomo più ricco del mondo. Come faceva ad essere contemporaneamente filantropo e il più ricco è una buona domanda, per un altro momento. Il signor Lask, un cinquantenne dall'aria sbarazzina e dal sorriso enigmatico, era riuscito ad acquisire molte aziende in diversi settori della ricerca e sviluppo: dalle automobili alla robotica, dalla biotecnologia all'aerospaziale. In un decennio era riuscito a fare passi da gigante e a spingere la tecnologie verso nuove frontiere, là dove nessuno era mai giunto prima. Razzi che atterrano da soli, auto che si guidano da sole, robot canini che controllano il perimetro e impianti cibernetici sottocutanei per la trasmissione di impulsi cerebrali. Nel 2021 aveva raggiunto l'apice della sua carriera diventando l'uomo più ricco del mondo. Un sogno che lo accompagnava da sempre. Finalmente qualcuno aveva preso per mano l'umanità, accompagnandoci a gran velocità verso il futuro. Il prossimo passo: l'uomo su Marte. Quello dopo: l'uomo aumenta le capacità neurologiche grazie a impianti sottocutanei. E quello dopo ancora? Solo Lask lo poteva sapere. 
Un giorno, l'11 Settembre 2022 secondo le fonti ufficiali, Lask viene dato per disperso. Nessuno sapeva dove si trovasse, né se avesse lasciato scritto qualcosa. Sua moglie rimane con un figlio a cui badare e una casa troppo grande per viverci da sola. La settimana successiva viene ritrovato il corpo nel bunker personale sotto il lago Okoboji. Morto. Liquido cerebrale colato fuori dalle orecchie fino a terra. Le foto non sono mai state trapelate. C'è chi dice che si sia ucciso, chi invece che sia stato ucciso da forme di vita aliene. Forse era in contatto con esse? Forse tutta la scienza è stata portata avanti da extraterrestri per tutto questo tempo? Queste sono le teorie del complotto più in voga. Ma io, che vi porto questa storia per amore di cronaca e della verità, so come sono andate le cose. Potrete non credermi, potrete pensare che io sia solo un'altra persona con il cappellino di carta stagnola in testa o che in passato mi sia calato troppi acidi. Pensatela come vi pare e piace, ma quella che state per leggere è la verità.
Quello che non sapete del signor Lask, è che da tempo soffriva di depersonalizzazione. Spesso se ne stava in casa, steso sul letto a fissare sé stesso e a non percepire più lo scorrere del tempo. Dietro quella facciata sorridente e spavalda c'era una persona lasciata sola persino da sé stessa, non riusciva più a capire quando finiva lui e quando iniziava il resto del mondo. Così un giorno ebbe un'idea. La sua più grande idea, che tenne nascosta al mondo intero, se non per una piccola quantità di ingegneri e neuropsichiatri. Gli impianti sottocutanei regalati al mondo e spacciati come progresso erano, già all'epoca, tecnologia arretrata per i suoi scopi. Quel bunker dove è stato ritrovato era in realtà un laboratorio segreto in cui venivano fatti esperimenti per raggiungere un solo obiettivo, il trucco finale del signor Lask. Ci sono voluti anni di prototipi e di sperimentazione, nonché di algoritmi di intelligenza artificiale donati gentilmente da tutti coloro che utilizzavano la piattaforma open source che lo stesso Lask aveva messo in piedi. Utilizzando tutti quegli algoritmi e tutti i dati comprati dalle grandi industrie di social media, alla fine c'era riuscito. Il 10 Settembre 2022, il signor Lask ha premuto il tasto "invio" sul pc del laboratorio, compiendo il passo più grande che l'essere umano abbia mai fatto nell'intera storia, superiore persino all'allunaggio e alla creazione di una rete di comunicazione mondiale (comunemente conosciuta come internet). Attraverso gli impianti sottocutanei che ormai tappezzavano le sue pareti cerebrali, il signor Lask ha dato il via al trasferimento della sua materia grigia in quello che potremmo definire il primo ed unico cervello positronico. Nessun utilizzo di algoritmi, quel cervello era una copia perfetta di quello umano, adattato per comandare un corpo fatto non di carne, ma di metallo e silicio. Lo stesso corpo che si è svegliato e ha ripulito tutta la stanza, lasciandola esattamente come da istruzioni trovate sul tavolo dove era posto il pc.
Un suicidio? Un omicidio? Nessuno lo saprà mai, l'impeccabile perfezione del robot, o forse dovrei chiamarlo cyborg, ha fatto sì che nemmeno gli investigatori più esperti potessero risolvere il caso e lasciarlo irrisolto. Nessuno sa dove sia finito quel cyborg, ma se stai leggendo questo, vuol dire che sono ancora vivo da qualche parte, in qualche luogo noto solo al signor Lask.

Originally wrote in 2021-02-07T12:04:00.005+01:00

 
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from Pane e autocommiserazione

Capitolo precedente: Silenzi

A lavoro avevo una scrivania ricurva che seguiva la forma della parete Ovest dell'ufficio, con due grosse finestre che si trovavano esattamente ai bordi del tavolo. Il computer era riposto su di un lato in modo tale da poterci mettere un secondo schermo e ottimizzare gli spazi. Una tazza conteneva qualche matita, due penne rosse mai utilizzate e un lecca lecca, mentre sul tavolo c'era una papera di gomma, una Batmobile in miniatura e gli attrezzi da lavoro, ovvero tastiera e mouse. “Stanno bene?” Ero saltato sulla sedia. “Eh? Cosa?” Simone era spuntato da dietro, facendomi quasi prendere un infarto. “Le matite, stanno bene? Le fissavi intensamente” “No, io... Ero altrove. Con la testa, dico” “E...?” “E cosa?” “Devo farti altre domande o esponi il problema per conto tuo?” “È un discorso lungo, ne parliamo alla pausa” “Come vuoi, sai dove trovarmi” Intanto il sistema operativo era pronto ad eseguire ogni mio comando e, dopo che Simone se ne era andato, avevo cominciato a scrivere codice a mente libera. Non c'era una pausa per tutti, ma io e Simone avevamo degli orari precisi, così da regolare il nostro flusso di lavoro. “Alle 11:00 si smette di scrivere e ci si alza per prendere qualcosa da bere o mangiare, e così alle 16:00. Niente obiezioni”. Quindi alle 11:00 ero in piedi e mi stavo dirigendo verso l'angolo più bello dell'ufficio: quello con la macchinetta del caffè. “Ho comprato delle cialde aromatizzate al caffè, te ne lascio provare una se mi dici cosa ti turba”, mi aveva detto Simone mentre mi passava una cialda che emanava un profumo di caffè misto a cioccolato. L'acqua scorreva bollente nei tubi e si trasformava in delizioso caffè, sgorgando dalla bocca della macchinetta. “Ieri sera ho parlato con Maria” “Maria... Scusa, lo sai che non ti sto dietro con tutte le ragazze che hai” “Che non ho, vorrai dire. Comunque è quella che lavora a Milano per...” “Per la rivista di cucina, certo, mi ricordo. E cosa ha fatto 'sta volta?” La tazzina di caffè scottava come il Monte Fato. “Si è fidanzata, del tipo finché morte non li separi” Un sorso di caffè incandescente per lavare via il ricordo. “Ahi, ahi. Mi dispiace. Per lei ovviamente” “Ah, ah, ah. Comunque penso volesse dirmelo di persona, mi ha scritto lei per vederci” “Comprensibile, quanto tempo siete stati insieme?” “Non siamo mai stati insieme” “Giusto. C'è altro, Don Giovanni?” Nel frattempo c'eravamo seduti al tavolo e io avevo portato dei biscotti che probabilmente erano composti al 90% da burro e al 10% da cioccolato. “Hai presente il pacchetto di sigarette in macchina?” “Certo, sei l'unica persona che non fuma e ha un pacchetto sempre a disposizione” “È sempre lo stesso e non è neanche mio” “Lo so, è della tua amica... Com'è che si chiamava?” “Serena” “Serena! Che fine ha fatto?” “Non lo so, credo stia ancora lavorando per quel giornale locale” “E penfi che fia oa di pallacci?” Pezzi minuscoli di biscotti uscivano dalla sua bocca* e finivano sul tavolo. “Come?” “Scusa. Pensi che sia ora di parlarci?” “Cosa risolverei? Nessuno dei due dice niente all'altro da ormai qualche anno. E non mi va di riallacciare i rapporti con lei” “Allora metti da parte il passato” “Già, penso farò così” La pausa caffè era finita e io ero tornato alla mia scrivania, riprendendo a lavorare. La pausa pranzo era arrivata in fretta, le ore scorrevano veloci e il sole cominciava già a tramontare, creando sfumature arancioni e rosa in cielo. “Ciao Fra, a domani” Simone era uscito, seguito da qualche altra persona. Avevo ordinato al computer di spegnersi e nel frattempo preparavo le mie cose da riportare a casa. Fuori era umido e abbastanza caldo da togliermi il respiro. Il tragitto verso casa con l'aria condizionata, seppur breve, mi aveva rimesso in sesto. Spento il motore il pacchetto mi fissava con insistenza. La mia mano lo aveva afferrato, ero sceso dall'auto, messo lo zaino in spalla e al primo cestino della spazzatura il pacchetto se ne era andato. “A mai più rivederci” Casa era ancora lì, buia e accogliente, come sempre.

*Per ricreare al meglio la frase è stato mangiato un biscotto e recitata la battuta ad alta voce (n.d.r.)

Originally wrote in 2018-08-16T19:31:00.000+02:00

 
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from La Soffitta di Scott

“Probably not” è la risposta che ritengo sia la più accettabile – insieme a “Look at me still sleeping, where there's science to do”. Ma non siamo qui per chiederci questo. In effetti, non ho ben capito perché sono qui (cioè intendo qui sul blog, non qui sulla Terra – mi chiedo anche quello, per carità, ma credo sia meglio lasciare la domanda per un altro giorno). Il motivo principale è che ho voglia di scrivere, scrivere qualsiasi cosa. Va be', non qualsiasi cosa, quello di cui ho voglia...
Tipo tutto questo, che non ha esattamente uno scopo, se non quello di presentare il blog. Che poi “blog” mi suona strano, non ho mai sopportato i blog. Credo che lo chiamerò “contenitore di testo online”; è molto più carino così, in effetti.

Quindi, cercando di dire più esattamente cosa metterò dentro questo Contenitore di testo online:

  • Recensioni;
  • Schizzi istantanei del mio povero e malaticcio cervello;
  • Qualcosa di emozionante che mi è successo un particolare giorno.
Non per forza in quest'ordine e non è detto che non possa scrivere di altro. Forse domani posto una ricetta che ho creato. Forse no. Forse vaffa***lo!
Devo censurarmi? Oddio, è una cosa che non sopporto – anche perché dico parecchie parolacce di solito. Ma di solito non parlo neanche così tanto, quindi... 
Oh andiamo, che altro vi aspettate che vi dica? Non so neanche se esista un lettore di tutto questo...



Insomma, ancora qui? Il post è finito, andate in pace!

Originally wrote in 2014-02-12T01:21:00.000+01:00

 
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from La Soffitta di Scott

Io amo perdere tempo. Anche adesso, sto perdendo tempo. “Ma Claudio, scrivere è una cosa bella!” Sì, se non devi studiare per un esame. Cioè continua a essere bella, ma per Dio ho altro da fare. Però sto ancora scrivendo. E continuerò a farlo. Ehggià. Procrastinare, credo sia una delle cose che amo fare di più, dopo mangiare bene (sottolineo bene). Ultimamente ho sviluppato un pressante senso di colpa che mi permette poco di procrastinare, ma sarà dall'anno scorso, prima trovavo interessante persino fissare lo schermo spento del computer piuttosto che adempiere ai miei doveri. Poi ho deciso che forse era meglio il quinto l'avessi passato e quindi BAM, ben arrivato senso di colpa. È incredibile come io abbia una voglia matta di studiare quando non ho nulla da studiare e poi quando sono lì preferirei fare la casalinga. C'avrò il cervello stanco. ... No eh? Vabbe'. No Claudio! Non puoi continuare così, c'hai da studià, li mortacci! Hai ragione cervello, per una volta devo fare quello che mi consigli di fare.

Originally wrote in 2014-02-13T15:43:00.001+01:00

 
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from sleepingcreep

in un tentativo di “buoni propositi per il nuovo anno”, ho deciso di pubblicare a puntate una cosa che avevo scritto qualche anno fa sui dispositivi digitali: per “dispositivo” non intendo necessariamente un pezzo di hardware, ma un “concatenamento” di hardware e software che in qualche modo ci “porta a fare cose” in maniera performativa. Ci apre delle porte, ci porta da alcune parti, ce ne chiude altre, anche nella misura in cui noi il dispositivo non lo possediamo mai interamente. Questa è la prima parte.

(1.0) I dispositivi digitali sono il tentativo di produrre un soggetto politico di nuova natura: la postmodernità ci consegna una forma di relazione del potere che non è più quella del suddito né del cittadino, ma quella dell’utente. Ci sono notevoli differenze tra queste tre figure, ma è importante notare che non si tratta di momenti successivi e contrapposti, di figure che scompaiono nel tempo e si sostituiscono l’una all’altra: il cittadino non sostituisce il suddito e l’utente non soppianta il cittadino, ma si integrano reciprocamente. Più che succedersi cronologicamente, evolvono e si palesano divenendo in maniera progressiva la forma prevalente di assoggettamento, instaurando un certo rapporto con il potere e con la vita. Cercando di semplificare, possiamo dire che il suddito è il soggetto del potere sovrano, obbedisce a un potere che governa sulla sua vita, che lo lascia vivere e lo obbliga a morire (in guerra, per esempio), su di lui il potere è esercitato senza che abbia un vero e proprio ruolo attivo; il cittadino, invece, è il soggetto del potere governamentale, creato a partire dalla dichiarazione dei suoi diritti – che è un modo particolare di dire anche come deve vivere perché sia considerato un cittadino. Il cittadino è sottoposto a un potere che governa e decide della sua vita, un potere che lo obbliga a vivere, ma lo lascia morire. Il cittadino è un soggetto attivo, che partecipa alla rete del potere: la cittadinanza non identifica una generica soggezione ad un’autorità regale o a un determinato sistema di leggi; essa nomina il nuovo statuto della vita come origine e fondamento della sovranità. L’asse sul quale si muove la differenza tra suddito e cittadino è quindi quello dei diritti e sulle finalità del potere costituito, di come si esercitano sulla vita del soggetto e del grado di decisione che quest’ultimo ha sul proprio essere biologico. La differenza tra cittadino e utente sta proprio nel totale “mettere da parte” la questione biologica, i suoi diritti di cittadino e “di nascita”, per concentrarsi sulla progressiva smaterializzazione dei rapporti statuali: l’utente non ha patria, perché l’utente non ha uno spazio pubblico nel quale riconoscersi. L’utente è definito dalla sua capacità e volontà di fruire di una serie di dispositivi (che si identificano come “servizi”), che gli vengono messi a disposizione da una serie di soggetti diversi: le piattaforme informatiche, le corproration, le aziende, persino lo Stato e le istituzioni. Tutti questi attori erogano dei servizi, nella contemporaneità: l’utente non è un affiliato di questi attori, non gli giura né gli deve fedeltà e può attraversare e abitare queste istituzioni senza per questo viverle in senso pieno – eppure la sua identità viene formata e definita principalmente attraverso il loro utilizzo. Del resto l’utente-in-quanto-utente è definito primariamente dall’uso che fa di qualcosa e non ha un contenuto proprio: non è definito dal modo in cui fa uso di qualcosa, ma solo dal suo avere accesso a un determinato dispositivo/servizio.

(1.1) È interessante, a questo livello, cercare di fare un parallelo tra l’usum definito dalla regola monastica nel medioevo e l’uso che l’utente fa dei dispositivi digitali. Usum è un termine che entra nel linguaggio filosofico e giuridico solo nel tardo medioevo, nell'ambito delle regole monastiche, come quella benedettina: in sostanza, l'usum definisce la regola, il monaco appartiene a un ordine proprio perché usa comportarsi alla maniera di quella regola. Con l'usum le regole definivano il rapporto tra i monaci e il mondo circostante: l'usum è quindi uno specifico modo di rapportarsi al mondo attraverso cui la regola crea uno spazio in cui regola e la forma-di-vita coincidono, in cui cioè l’adesione alla regola crea lo spazio del monastero e definisce la vita stessa del monaco. In una strana evoluzione, il dispositivo digitale è quel particolare dispositivo – nel senso di insieme di disposizioni che mira a creare uno spazio virtuale (nel senso stretto di spazio potenziale) che agisce sulla nuda vita dell’utente, che però la rende di fatto superflua: rimaniamo utenti di un servizio anche dopo che la nostra vita è terminata, tutt’al più diventiamo utenti “inattivi”. I più grandi e influenti tra i dispositivi digitali contemporanei, i Social Network, stanno da anni dibattendo se sia il caso o meno, e a che livello, di eliminare dai propri database le informazioni relative agli utenti deceduti, senza che fino a oggi si sia arrivati a una decisione socialmente condivisa. Se dunque l'utente monastico è una parte attiva che adotta la regola monastica e ne fa parte, l'utente digitale si adatta al dispositivo, ne segue le regole e – pur senza parteciparvi con trasporto emotivo – ne viene definito, spesso senza neanche essere del tutto consapevole del fatto che ne sta venendo in qualche modo formato e trasformato.

 
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from ...Continue?

Il post di presentazione!

Ciao a tuttə, mi chiamo Dave, in arte Naokitsune e questo è “...Continue?” ❤️

”...Continue?” è quella parola che non volevamo mai a vedere mai a schermo quando eravamo in sala giochi, perchè significava dover inserire un altro gettone per proseguire la partita ma in questo caso ha un accezione positiva, in quanto non ci sarà un “Game Over” ma un proseguimento...un post alla volta ❤️

Di cosa parlerò? Di videogame passati e presenti, analizzandone vari aspetti; di approccio al competitivo videoludico con un occhio di riguardo per i picchiaduro (la mia grande passione) e dulcis in fundo, di modding su controller da console e sugli arcade stick.

Che dire, si conclude quì la presentazione, quindi...

 
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from COSE NUOVE

Mi sta piacendo questo progetto perché non mi prende troppo tempo. Ogni volta che scopro una cosa nuova la metto qui nella bozza, quindi ogni puntata la scrivo praticamente spalmandola in tutto il mese. È un bene, avessi dovuto scrivere tutto in due o tre giorni sicuro l'avrei preso come un impegno, quasi un obbligo, e dopo un po' mi sarei stancato. Invece ora quando arrivo a inizio mese ho praticamente pronta la puntata del mese precedente e ci devo solo aggiungere qualche parolina.

Ciancio alle bande, dicembre è storicamente un mese che porta poche cose nuove. Anche quest'anno non è stato ricchissimo, ma qualche perla l'ha comunque cacciata.

GIOCHI

Il 3 dicembre è uscito Link's Awakening DX HD, porting per PC non ufficiale del gioco di Zelda del 1993. Era stato pubblicato su itch.io, purtroppo però a Nintendo non è piaciuto e l'hanno fatto buttare giù. Se cercate bene però da qualche parte lo trovate, tipo su archive.org.

Il 4 dicembre è uscito Svarog's Dream, un action rpg ambientato in un open world fantasy che sembra molto interessante.

Il 5 dicembre è uscito Faeland in accesso anticipato. Un rpg dal look classico, anche questo ambientato in un fantasy medievale. Questo lo aspettavo da parecchio e purtroppo dovrò aspettare ancora se vorrò giocarlo non in early access.

Il 5 è uscito anche Born of Bread, un rpg con combattimenti a turni dai toni molto giocosi e un umorismo spiccato che si nota già dall'estetica cartoonesca.

Il 7 dicembre è uscita la versione 1.0 di Undying che era in early access da ottobre 2021. È un gioco di sopravvivenza con una forte componente narrativa ambientato in un'apocalisse zombie. Devi proteggere tuo figlio e insegnargli a sopravvivere. Forse non è il massimo dell'originalità, ma potrebbe essere comunque un bel gioco. Come ho già detto con Faeland, ho questa politica di non giocare i giochi in early access e aspettare la versione definitiva, anche se vuol dire aspettare due anni, nel frattempo ce n'è di giochi da giocare nell'attesa.

Il 9 dicembre è uscito Undertale Yellow, prequel fan-made (con il benestare di Toby Fox) di Undertale. Il gioco espande il mondo sotterraneo dei mostri con nuove zone da esplorare e vede come protagonista un nuovo personaggio, Clover. Apro una parentesi dicendo che non mi ha mai fatto impazzire l'idea di giochi spin-off scritti da persone diverse dal creatore originale, con tutto che Toby Fox ha dato l'ok e con tutto che potrebbero essere anche persone più brave e il gioco potrebbe essere anche più bello (dubito in questo caso). La stessa cosa successe con Monkey Island, chiamatemi esagerato, ma mi sono sempre rifiutato di giocare ai giochi successivi al secondo dopo che Ron Gilbert non ha potuto realizzare la conclusione che avrebbe voluto. E nonostante avessi perso le speranze per un terzo gioco alla fine è arrivato. Che poi stesso in Return to Monkey Island ci sono riferimenti agli altri giochi e per me è stato come se Ron Gilbert mi stesse dicendo “sei un coglione”, ma vabbè, forse un giorno li recupererò. Quindi proverò Undertale Yellow, basta avere la consapevolezza di quello che è, poi potrebbe anche diventare il mio gioco preferito, chi lo sa, devo smetterla di fare il “coglione” (come mi ha detto personalmente Ron Gilbert) e precludermi queste possibilità (chiusa parentesi).

Il 14 dicembre è uscito Cookie Cutter, un metroidvania super pazzo con uno stile incredibile realizzato da un team italiano. È da un po' che lo aspettavo, quindi nonostante qualche recensione negativa lo proverò.

Il 14 è uscito anche Bahnsen Knights, una (o “un”?) visual novel ambientato negli anni 80 in cui sei un agente sotto copertura infiltrato in una setta per capire se c'entra qualcosa con la scomparsa di un tuo collega e amico. Allora, non sono un grande amante delle (dei?) visual novel, ma questo ha un look, delle musiche e un incipit niente male.

Il 21 dicembre è uscito in early access Path of the Abyss un dungeon crawler in prima persona. Per ora è disponibile solo in giapponese, ma è ancora in accesso anticipato e lo terrò d'occhio perché mi piace lo stile grafico.


FILM

L'1 dicembre è uscito Godzilla Minus One, nuovo film sul re dei mostri della Toho, diretto da Takashi Yamazaki. Ambientato in Giappone subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1947. Finita una guerra, il popolo giapponese deve affrontare immediatamente una nuova minaccia ancora più terrificante. L'ho visto e mi è piaciuto parecchio, recuperatelo anche se non siete fan dei mostroni giganti che distruggono tutto (neanche io lo sono), questo film è di tutt'altra pasta rispetto alle “americanate”. Sono uscito dal cinema entusiasta.

L'8 dicembre è uscito Merry Little Batman, film d'animazione di Batman natalizio. Mi ispira molto il character design e i disegni in generale, speriamo sia anche interessante.

Il 14 dicembre è uscito nei cinema italiani 20000 specie di api, film spagnolo diretto da Estibaliz Urresola Solaguren. In realtà non so quanti e quali cinema lo distribuiranno, visto che viviamo in un paese in cui un film su una bambina trans di otto anni è visto come un problema. Spero di riuscire a vederlo in qualche modo.

Il 22 dicembre è uscito Saltburn di Emerald Fennell (Promising Young Woman). Il protagonista – interpretato da Barry Keoghan – viene invitato da un collega universitario alla tenuta estiva di famiglia e boh succedono cose. Non ho ben capito dove vuole andare a parare il film dal trailer, e non sembra il mio genere, ma lo vedrò perché amo Barry Keoghan e Rosamund Pike.

Il 22 è uscito anche Spy x Family Code: White. Il film è originale e quindi non è tratto direttamente dal manga, ma c'è la supervisione dell'autore, Tatsuya Endo, quindi non ho capito bene se considerarlo canon o meno. Di sicuro lo vedrò, non voglio perdermi nessuna espressione facciale di Anya.


SERIE TV

Il 13 dicembre è uscita 1670, una miniserie comedy polacca in cui un nobile a capo di un villaggio vuole diventare la persona più famosa della Polonia. Mi ricorda un po' Norsemen, anche se questo è un mockumentary.

Il 15 dicembre è uscita Carol e la fine del mondo una miniserie animata prodotta da Netflix. La protagonista è una donna che deve affrontare gli ultimi mesi di vita perché sta per arrivare la fine del mondo (wow come fareste senza di me che vi spiego la trama di una serie che poteva essere capita anche dal titolo). Devo dire che non amo tanto il design dei personaggi, con quegli occhi strani, ma mi piace il mood.

Il 15 è uscita anche Death's Game, una serie sudcoreana che non meritiamo ma di cui abbiamo bisogno (o era al contrario la frase? mi confondo sempre). Il protagonista muore. Non è uno spoiler, inizia così. Poi incontra la Morte che gli dice che deve morire altre dodici volte e se vuole sfuggire alla morte deve riuscire a sopravvivere, qualcosa del genere.

Il 22 dicembre è uscita la seconda stagione di What If...?, serie animata Marvel che, come si capisce dal titolo, esplora universi alternativi in cui le cose sono andate diversamente da quello che conosciamo. Dal 22 al 30 ogni giorno un nuovo episodio. Ho visto la prima puntata e nonostante ci fossero personaggi che mi interessavano e avesse un'atmosfera un po' alla Blade Runner, stavo per addormentarmi.

Il 25 dicembre è uscito l'episodio speciale di Natale di Doctor Who: The Church on Ruby Road che vede per la prima volta come protagonista Ncuti Gatwa. L'episodio mi è piaciuto e Ncuti mi sembra un ottimo Dottore, speriamo che la prossima stagione ci dia finalmente delle gioie.

Il 25 sono usciti anche gli ultimi tre episodi (10, 11 e 12) di Zom 100: Bucket List of the Dead, dopo un'attesa di tre mesi dal nono episodio. Ci sono stati diversi problemi di produzione ma per fortuna sono riusciti a rilasciarli, anche perché la serie è molto carina, merita la visione.

Il 28 dicembre è uscita Pokémon Concierge, miniserie animata in stop motion giapponese. Sono solo quattro episodi da 15-20 minuti ciascuno. Si svolge in un resort per Pokémon e la protagonista è Haru, una nuova concierge. Non sono mai stato un grandissimo fan dei Pokémon, ma questa serie mi sembra molto wholesome, sicuro la vedrò.


FUMETTI

Il 6 dicembre è uscito il primo numero di Our Bones Dust una nuova miniserie di quattro numeri realizzata per Image Comics da Ben Stenbeck, che per molto tempo è stato un collaboratore di Mike Mignola. Ambientato in un mondo post-apocalittico (credo) in cui la sopravvivenza non è semplice per lə protagonista che dovrà vedersela con tribù cannibali e altre minacce. Sembra molto interessante, aspetto che escano tutti e quattro i numeri per iniziarla.

Il 6 è uscito anche il primo numero di Bloodrik, anche questa una miniserie (di tre numeri), anche questa di Image Comics, realizzata da Andrew Krahnke. È la storia di un uomo che deve sopravvivere in un ambiente ostile e a lui sconosciuto. Mi aspetto qualcosa di molto crudo e violento.

Il 13 dicembre è uscito Where The Body Was, nuovo (ancora non riesco a convincermi che il maschile sia giusto) graphic novel del team Ed Brubaker – Sean Phillips (Pulp, Reckless, Criminal). Questa volta si sono cimentati in un giallo: c'è un omicidio e ci sono una dozzina di versioni diverse raccontate dai vari abitanti del vicinato, ma ovviamente non si sa chi sta raccontando la verità. Non è il proprio il mio genere, ma gli darò sicuramente una chance.

Il 13 è uscito anche il primo numero di Masterpiece, nuova serie scritta da Brian Michael Bendis (autore di tanta roba Marvel) con i disegni di Alex Maleev, pubblicata da Dark Horse. Il titolo sembrerebbe un po' pretenzioso, ma è semplicemente il soprannome della protagonista, una geniale sedicenne al centro di una heist/crime story.

Il 19 dicembre è uscito Four Gathered on Christmas Eve una raccolta di quattro racconti horror sulla notte di Natale con ambientazione vittoriana scritti e disegnati da quattro autori diversi: Eric Powell, Mike Mignola, Becky Cloonan e James Harren.

Il 20 dicembre è uscito il primo numero di Animal Pound, nuova serie della BOOM! Studios scritta da Tom King (di cui ho letto qualcosa che ha scritto di Batman) e disegnata da Peter Gross. Si tratta di una storia che ha per protagonisti gli animali che si ritrovano al potere dopo una rivolta nei confronti dell'uomo, dopo anni di sfruttamenti e soprusi. Una sorta di Fattoria degli animali moderno.


Ok è finita anche questa puntata e io vi auguro un 2024 pieno di cose belle, alla prossima!

Cose di novembre 2023

 
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from LOG

Nell’articolo di oggi trattiamo un elenco di termini utili che sono o sconosciuti o usati in modo improprio. Sono in ordine alfabetico e sono i più comuni a essere fraintesi, ma potrebbero essercene altri.

Capoverso: per farla breve, ogni volta che si va a capo.

Correttore di bozze: non è l’editor. Il correttore corregge refusi, doppi spazi, errori di grafica, controlla le norme redazionali… ma controlla anche che un personaggio non cambi colore dei capelli o tipo di scarpe. Arriva dopo l’editor a togliere tutte quelle imperfezioni che gli sono scappate e segnala quelle di grafica, di conseguenza non basta conoscere benissimo la grammatica.

Dramma: può avere diversi significati. Fino a Diderot, per dramma si intendeva qualunque espressione scenica. Dopo Diderot, a teatro non vengono più rappresentati divinità ed eroi, ma le persone comuni; non sarà più in rima, ma in prosa. In senso lato, può intendere l’azione in corso sulla scena, il vero e proprio agire dei personaggi.

Editor: da non confondere con l’editore, con la e finale, ma neanche con il correttore di bozze. Figura a metà strada tra l’angelo salvifico e il distruttore di mondi. In italiano sarebbe “revisore”, ma i compiti di un editor spaziano un po’ di più. Si riassumono in: rendere vendibile un testo. Sistema la struttura, rende le frasi fluide, elimina le imperfezioni (ripetizioni, rime, allitterazioni…), scrive la quarta, redige schede lettura…

Fabula: gli eventi in ordine cronologico della nostra storia.

Frase o periodo: elemento formato da un sintagma che abbia senso compiuto. Per farla facile, tutto ciò che va dalla maiuscola al punto. Gli elementi di cui è formato sono collegati tra loro logicamente seguendo le regole grammaticali.

Infodump: spiegone. Quando interrompete l’azione per dare una spiegazione. Normalmente viene brutalmente tagliato in fase di editing, ma ci sono eccezioni. Victor Hugo ne era maestro (e io ammetto che li salto sempre quei passaggi).

Narratologia: è la scienza che studia la struttura delle storie. Vorrei sottolineare che non detta le leggi della narrativa, semplicemente studia i meccanismi tipici dei racconti e ne trova dei punti in comune. Vi ricordo che non esiste un OMS della scrittura, anzi a studiare tanti narratologi vi accorgerete che non tutti sono d’accordo anche solo sul numero di trame esistenti.

Paragrafo: suddivisione del capitolo. Ogni paragrafo deve avere un informazioni omogenee. Da non confondere con il capoverso, il paragrafo viene segnalato con un rientro e una riga vuota.

Perifrasi: è una figura retorica, per capirci è un giro di parole. Un esempio famoso è ed elli avea del cul fatto trombetta di Dante.

Proposizione: due o più parole che abbiano senso compiuto.

Topos: è un altro nome con cui viene indicato il tema portante della storia. Da qui deriva anche “topic”.

Quarta: non è il riassunto. È un testo di marketing che deve spingere all’acquisto. In realtà sarebbe la “quarta pagina di copertina”, ma oramai indica quel testo che viene posto per spiegare che cosa sto andando a leggere. Per chi si chiede chi la scrive, di solito è l’editor.

Retorica: è l’arte della scrittura.

Schede lettura o di valutazione: testo professionale. Viene redatto per due ragioni. La prima è capire se un testo va bene per la pubblicazione, che tipo di correzioni bisogna apportare, eventuali criticità nella vendita… la seconda è rendere noto allo scrittore gli errori e le criticità presenti, spesso serve per stendere un preventivo.

Show vs Tell: li metto assieme. Questi due argomenti sono difficili da capire e spesso sono fraintesi. Non significa che devo mostrare quanti peli ha la protagonista sul braccio, significa che, se dico che un personaggio è capriccioso, si deve comportare come tale. Il tell spesso è un riassunto, è una tecnica e come tale va usata: con consapevolezza. Un esempio più pratico è questo: per dire che una persona è appena guarita da un braccio rotto, potete dirlo così o potete fargli toccare il braccio dove fino a poco prima c’era il gesso. Il primo è tell, il secondo è show.

Sinossi: è un riassunto ragionato di tutto il libro, finale compreso. Vedetelo come il cv del vostro manoscritto. Del manoscritto, non dell’autore.

Sintagma: è un concetto che si colloca a metà strada tra la frase e la parola. È una combinazione di una o più parole che formano un senso compiuto. (Anche ieri)(leggevo)(un bel libro). Vi consiglio la Treccani per saperne di più.

Trama o intreccio: gli eventi come appaiono nel romanzo.

Tropos: letteralmente, è un altro nome per la figura retorica. In realtà qualcuno ha iniziato a usarlo come sinonimo di trope (traslato da film e serie TV), di conseguenza alcune persone chiamano il tropos come topos1; quindi spesso, soprattutto nei romance, potete trovare i tropos: enemies to lovers, friends to lovers, forbidden loves…

Alessia

 
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from Le ricette di Kenobit

Io le lenticchie le amo. Questa ricetta è il mio augurio per un anno nuovo in cui le mangeremo tutte le settimane. Fanno bene e stanno bene con tutto, come contorno o come piatto forte.

CHE LENTICCHIE SCELGO? La buona notizia è che tutte le lenticchie sono buonissime. Se avete il budget, vale la pena prendere una varietà di pregio, come le lenticchie di Castelluccio di Norcia, ma la verità è che questa ricetta viene buona con qualsiasi lenticchia possiate trovare al supermercato.

L'importante è che le lenticchie siano secche, e che vengano abbinate a una parte di lenticchie rosse decorticate, che andranno a “sparire” in cottura.

INGREDIENTI – 600 g di lenticchie – 200 g di lenticchie rosse decorticate – Una cipolla grande – Una carota – Uno spicchio d'aglio – Concentrato di pomodoro – Salvia, rosmarino, timo, alloro – Olio extra vergine d'oliva – Sale – Glutammato monosodico – Un bicchiere di vino rosso (facoltativo) – Brodo vegetale

Nota sul brodo: usare del brodo fatto al momento (come il mio brodo blasfemo) è sempre una buona idea e fa la differenza, ma in questa ricetta, se avete fretta, ve la potete cavare anche con un banalissimo brodo granulare o con un dado.

Nota sul glutammato: potete ometterlo se non lo avete a portata, ma vi consiglio davvero di tenerlo in cucina. Non fa male ed è contenuto in grandi dosi in alimenti che consumiamo senza farci problemi, come i pomodori secchi. Aggiunto verso la fine della cottura, ci permette di esaltare il gusto (il famoso umami) senza aggiungere sale.

Nota sulle dosi: queste dosi produrranno un secchio di lenticchie buonissime. Se volete farne di meno, riducete le dosi e mantenete la proporzione 3:1 di lenticchie (normali/rosse). Il soffritto rimane lo stesso, usate semplicemente una cipolla più piccola.

PROCEDIMENTO Tritate cipolla e carota e soffriggete nell'olio. Tritate tutte le erbe (a parte l'alloro) e aggiungetele al soffritto. Aggiungete una presa di sale. Fiamma vivace, ma non altissima: non vogliamo bruciare la cipolla. Quando la cipolla è tralucida, tritate l'aglio e aggiungete anche quello. Soffriggiamo ancora un paio di minuti, facendo particolare attenzione a non bruciare l'aglio.

Aggiungete tutte le lenticchie e un cucchiaio di concentrato di pomodoro. Lasciate insaporire un paio di minuti e poi sfumate con il vino rosso. Quando l'alcol sarà evaporato (annusate per accertarvene), coprite con il brodo e aggiungete la foglia di alloro.

Se è la prima volta che fate la ricetta, vi consiglio di aggiungerlo piano piano, mantenendo la sua pentola a bollore. La cottura, a seconda della varietà di lenticchie che avete scelto, può variare dai 30 ai 45 minuti. Aggiungere il brodo mano a mano vi permetterà di ottenere la cottura e la consistenza che volete. Idealmente, vogliamo delle lenticchie in umido: non una zuppa, non un pastone.

A fine cottura, regolate il sale (in base a quanto era sapido il vostro brodo). Se avete il glutammato, PRIMA di aggiungere il sale, aggiungetene due prese, per esaltare il gusto umami. Solo dopo, date l'ultimo ritocco di sale, se necessario.

 
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from manu

Del Ragioniere Gustavino Bevilacqua

Iniziamo il #ComeSiCerca dalle basi, ovvero tutto quanto non vi hanno detto quando vi hanno venduto un computer dicendo che è facile da usare (ma l'importante era vendere!).

Esempio: un'Ape NON È un camion, anche se ci potete portare cose. Ma, se esagerate, diverrete celebri su Internet.

Allo stesso modo un telefono NON È un computer, anche se ha 80 core e una camera da 126 frillioni di pizzel. A meno che non vogliate un telefono con schermo da 17”, tastiera a 105 tasti e mouse.

Così darò per scontato che stiate usando un computer VERO.

Con Firefox.

E se iniziate a belare che ci sono altri browser pianto lì di scrivere e vi arrangiate: non ho tempo e voglia di mettermi a installare decine di cose che non userei per capire come vanno configurate, soprattutto su sistemi operativi di bassa qualità e alto costo.

indirizzi dei siti che volete aprire (ma va?).

Andate nella configurazione di Firefox e attivate l'opzione per avere la barra di ricerca a fianco di quella degli indirizzi.

Altrimenti, con la scusa dei “suggerimenti”, TUTTO CIO' CHE SCRIVERETE POTREBBE ANDARE A FINIRE A UN MOTORE BRUTTO E CATTIVO, quindi è meglio disattivare l'opzione “Visualizza suggerimenti di ricerca” che sta più sotto (e che non serve a una cippa: i suggerimenti li avrete durante la ricerca).

Nella barra di ricerca si possono avere più motori selezionabili (e non venite a dire che è una fatica cliccarli, mannaggia!).

Nella foto quelli che ho io: la visualizzazione potrebbe essere diversa, questa è su una versione vecchia di Firefox.

Avere tanti motori permette di fare ricerche dirette senza troppi salti: se cerco un paese italiano vado su Wikipedia it, se ne cerco uno francese vado su Wikipedia fr.

Ogni volta che si trova una pagina con una casella di ricerca ben configurata è possibile aggiungerla alla barra di ricerca.

Se vi compare un “+” su un bollino verde sopra la lente d'ingrandimento della barra di ricerca (ma potrebbe variare con altre versioni di Firefox) vuol dire che il sito può essere usato come motore, quindi metteteci ciò che preferite.

Nella pagina di configurazione è possibile spostare su e giù i motori, levare quelli che non servono e così via.

 
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from manu

Cosa fa un uomo femminista: Rende femministi gli spazi che attraversa.

Cosa non fa un uomo femminista: Invade gli spazi femministi e le discussioni sul femminismo, spiega alle femministe come essere femministe.

Gli alleati femministi di cui abbiamo bisogno sono uomini che ingaggiano altri uomini, li responsabilizzano, ci parlano, supportano lə compagnə togliendo loro parte del peso del lavoro emotivo. Per te che non la subisci è emotivamente gratis parlare di misoginia, per i soggetti femminilizzati no, perché l'ultimo attacco misogino l'hanno subito 5 minuti fa, ed era il tredicesimo solo questa settimana. Non abbiamo bisogno dell'ennesima persona che fa le pulci al movimento femminista, o a come portiamo avanti le nostre lotte, costringendoci ad aggiungere altro lavoro emotivo al carico già insostenibile.

Essere femministi non è una bandierina o una spilletta, è un impegno reale, scomodo, pesante, imbarazzante, drenante, da sfigati. Ti farà mettere alla berlina, ti farà sembrare meno cool, ti beccherai un assaggino dell'oppressione che altrə sperimentano nel quotidiano, perché la questione femminile (e in generale tutto ciò che è femminile) non è per niente cool in un mondo patriarcale. Sono cose da femmine. Forse otterrai consensi da (alcune) donne, ma di certo molto meno dai tuoi pari. Non c'è un immaginario di lotta romantico e figo a cui appellarti, nessuno ha scritto canzoni per te in stile “comandante che guevara”, ad aspettarti c'è solo la ridicolizzazione e la medaglietta da white knight sfigato che “fa la parte del femminista nella speranza di ottenere un briciolo di figa”. E molti fanno proprio questo, eh. Ma non è questo essere femministi.

Lo fai per un principio morale, per le persone che ami, perché credi che una mascolinità diversa sia necessaria per costruire un mondo migliore per tuttə, anche per te.

Sostituisci a “femminista” qualunque altra lotta per qualunque altra istanza, dalla classe alla razza alla disabilità alle queerness etc., e avrai scoperto il segreto scomodo dell'intersezionalità: quando una lotta non ti riguarda personalmente, sei privilegiato. Essere bianchi in un mondo razzista è un privilegio. Essere benestanti in un mondo capitalista è un privilegio. Essere uomini cis e etero in un mondo ciseteropatriarcale è un privilegio. Non essere disabile in un mondo abilista è un privilegio. Lottare contro un'oppressione che non ti riguarda ti fa perdere parte di quel tuo privilegio. Diventi “woke”, “politicamente corretto”, “buonista”, perché stai remando controcorrente e l'empatia non è un valore mainstream. D'altra parte, ignorare il tuo privilegio significa schierarsi dalla parte dell'oppressore. Non ci sono vie di mezzo. Chi sceglie di non schierarsi si è già schierato dalla parte sbagliata.

L'unico modo per fare qualcosa di buono da una posizione di privilegio è usarlo per cambiare le cose nel proprio circostante, ossia laddove la voce di chi quel privilegio non ce l'ha resta inascoltata. Al tuo amico bianco e razzista non frega nulla di cosa dicono le persone razzializzate, ma ascolterà TE che sei un suo pari. Il tuo amico che assume i dipendenti in nero non ne prova alcuna vergogna finché TU non lo fai vergognare. Non sempre le identità oppresse sono nella posizione di far valere le proprie istanze, ma tu col tuo privilegio sì.

Non è facile e non sempre andrà a buon fine, sarai il cacacazzi che va contro lo status quo, contro la normalità e il “così fan tutti”, ma è un modo decisamente più efficace e sensato di spendere le tue energie. La prossima volta che una persona queer, o una donna, o una persona di colore, o una persona migrante, o [inserisci identità oppressa a caso], parla delle proprie istanze, resisti a quel pruritino di intervenire a dire la tua dall'alto del tuo privilegio. Piuttosto ascolta e esercita l'empatia. Quel prurito fattelo venire quando un tuo pari fa o dice qualcosa di oppressivo. Questa reazione di prurito si allena e si coltiva, mettere in discussione l'oppressore e non l'oppressə è un automatismo che si acquisisce con l'esercizio. Impari a vedere in trasparenza da che parte pende il potere, e non ti schieri per istinto, ma per scelta consapevole. E più lo fai, più ti accorgi che non ci sono fanfare né medaglie per te: la lotta non è un orpello alla tua persona, tutt'altro. Problematizzare lo status quo sarà visto come un demerito dai tuoi pari, dagli amici, dai familiari, dai colleghi. Questo è il prezzo di essere un alleato. Se non lo paghi, non lo stai facendo bene. Se non ti senti scomodo, a disagio, se non metti continuamente in discussione il tuo privilegio e quello dei tuoi pari, non lo stai facendo bene. Stai lì a lavorare su te stesso e a spostare finestre di overton e non ti aspetti la gloria in cambio, perché non è la gloria il tuo obiettivo.

E se pensi “perché devo essere solo io lo sfigato?”, ti dico subito che non lo sei. Da persona cis, sono stata esclusa da spazi di discussione trans. Da migrante europea, “di serie A”, ho tenuto la bocca chiusa e le orecchie aperte quando a parlare erano i migranti sudamericani, africani, “di serie B”. Da persona bianca, sono stata allontanata e messa in secondo piano in contesti di lotta contro il razzismo. Non sempre gentilmente, e non mi aspettavo la gentilezza da persone giustamente incazzate. Non sono importanti i miei sentimenti in quel contesto, c'è un mondo intero che li accoglie al di fuori di quel contesto. Occupare con i miei sentimenti quel poco spazio in cui si riesce a parlare da un punto di vista minoritario significa sabotare quegli spazi.

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Non sono solo gli uomini a dover fare i conti con la gestione del proprio privilegio, ognuno ha la sua quota, ognuno deve farci i conti e imparare a gestirlo. Esercizio di empatia. Tenere sempre presente da che parte pende la bilancia. Proteggere gli spazi safe anche quando non sono i miei e non sono per me. Capire che il privilegio è potere di essere ascoltati, e usare questo potere laddove davvero può servire a qualcosa.

 
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